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STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI


Ecco il testo completo in un unico file HTML (2,1 MB). In formato PDF (circa 11 MB) o stampato, il documento รจ di circa 700 pagine (a seconda del browser/sistema operativo).


Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (I)
Premessa
1 – Riferimento a trattazioni precedenti
2 – Piano del presente rapporto
3 – Ulteriore trattazione sulla «tattica»
4 – Risultati acquisiti
5 – La formula di Lenin
6 – Confronto con l’evento
7 – Storia di mezzo secolo
8 – Distruzione della guerra
9 – Liquidazione degli alleati
10 – Demolizione dello Stato

Parte prima
Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (II)
Lotta per il potere nelle due rivoluzioni
1 – La guerra 1914
2 – Crollo da incubo
3 – Sette tesi sulla guerra
4 – Niente «teoria nuova»
5 – Le rivoluzioni simultanee?
6 – Abbasso il disarmo!
7 – Giovanili esuberanze
8 – Operaio e fucile
9 – Patria e difesa
10 – Vittoria nel solo paese
11 – La carta cambiata

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (III)
12 – La inventata teoria
13 – Paesi e rivoluzioni
14 – Alla radice. Manifesto!
15 – Armoniche strutture
16 – Dal 1848 alla Comune
17 – Revisionismo socialdemocratico
18 – Nuovo solo l’opportunismo
19 – La trasformazione socialista
20 – Potere ed economia
21 – Produzione e politica
22 – Infamia e filistei

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (IV)
23 – Ritorno al 1914
24 – Sovversione delle «tendenze»?
25 – Prime vicende della guerra
26 – La guerra si addice alla democrazia
27 – L’impero scricchiola
28 – Rivoluzione guerrafondaia
29 – La rotta smarrita
30 – Trovata una patria?
31 – Vladimiro alza lo staffile
32 – Il pazzo di aprile
33 – Brividi della risciacquata
34 – Prova monosillaba: da

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (V)
35 – Capisaldi di aprile
36 – Ributtare il difesismo!
37 – Il disfattismo prosegue
38 – Transizione: tra quali due tappe?
39 – Il governo provvisorio alla gogna!
40 – Partito e soviet
41 – Tattica impeccabile
42 – Abbasso il parlamentarismo
43 – Polizia, esercito, burocrazia
44 – La frale natura umana?
45 – Le misure sociali nettamente borghesi
46 – Altri falsi dispersi

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (VI)
47 – Verso la conferenza di aprile
48 – Dissenso alla conferenza
49 – Ancora la questione del potere
50 – La nuova forma del potere
51 – La chiara alternativa
52 – Un piede e l’altro piede
53 – I passi ulteriori dei due piedi
54 – Cattive mosse dei primo piede
55 – La difficile manovra dopo aprile

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (VII)
56 – La questione nazionale russa
57 – Contrasto tra due posizioni
58 – Confutazione di Lenin ai sinistri
59 – La questione centrale: lo Stato
60 – La solita cucina storica
61 – Lenin e la questione delle nazionalità
62 – La risoluzione della conferenza
63 – Dispotismo ed imperialismo
64 – Separazione di Stati
65 – Contro l’autonomia «culturale»
66 – Nazioni ed organismi proletari
67 – Nazionalità ed occidente
68 – Rivoluzione con l’Europa

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (VIII)
69 – Dopo aprile verso la gran lotta
70 – Preparazione legale o battaglia?
71 – La fase dopo aprile
72 – La lotta nelle campagne
73 – Le richieste degli operai urbani

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (IX)
74 – Il primo Congresso Panrusso dei soviet
75 – Schieramento al Congresso
76 – Gli interventi di Lenin
77 – La posizione bolscevica
78 – Le rivoluzioni «popolari»
79 – La «democrazia rivoluzionaria»
80 – Le misure di politica economica
81 – Il congresso rincula
82 – Le lotte del giugno
83 – La situazione muta
84 – Le battaglie di luglio

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (X)
85 – Sconfitta nelle strade e repressione
86 – Congresso clandestino
87 – Ancora un bilancio della rivoluzione
88 – L’orientamento da Lenin
89 – Storia dell’oscillante potere
90 – Risposta ad obiezioni tattiche
91 – La conclusione di Lenin
92 – Ancora il sesto congresso
93 – Dove la linfa fu infranta

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XI)
94 – Dogma o guida per l’azione?
95 – La pretesa «filosofia della prassi»
96 – Ancora Lenin filotempista
97 – Famoso «fronte antidestro». Kornilov
98 – Fronte svanito, bolscevismo avanzante
99 – Preparlamento e boicottaggio
100 – L’insurrezione e un’arte!
101 – Ancora contrasto nel partito
102 – Gli organi della lotta
103 – La suprema ora

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XII)
104 – Il conquistato potere
105 – La luce di ottobre
106 – Distruzione dello Stato
107 – L’Assemblea Costituente
108 – Trotsky e Lenin
109 – Decreto di scioglimento
110 – Guerra e pace
111 – Cronologia tragica
112 – La grave crisi nel partito
113 – La valutazione di Lenin

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XIII)
114 – La tremenda guerra civile
115 – I tre compiti socialisti di ottobre
116 – Le somme tornarono
117 – Isolato sforzo supremo
118 – In Russia e in Europa
119 – «Ionizzazione» della storia
120 – Dialogo di colossi
121 – Chiosa al «dialogato»
122 – Il pensiero di Lenin
123 – Fronte nemico senza fratture
124 – L’appello contro i nemici

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XIV)
125 – Una guerra, venti nemici
126 – Fronte tedesco-ucraino
127 – Fronte cosacco e caucasico
128 – Interventi dell’intesa
129 – Est. Cecoslovacchi e Kolčak
130 – Fronte meridionale: Denikin
131 – Fronte occidentale: Judenič
132 – Fronte del sud: Wrangel
133 – La guerra russo-polacca
134 – La pace rossa
135 – Sempre il dettato di Lenin

Parte seconda
Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XV)
Sviluppo dei rapporti di produzione dopo la rivoluzione bolscevica
1 – Politica ed economia
2 – Lezioni senza posa obliate
3 – Altra confusione a «sinistra»
4 – Le due pretese anime di Lenin
5 – Programmi e decreti
6 – Piani della vigilia
7 – Misure economiche immediate
8 – Compiti della rivoluzione

Intermezzo
Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XVI)
Ricerca critica di parte e dialoghi col nemico
Saldatura autogena
L’essenziale sono i congressi?
Silenzi spezzati
Le cose e gli uomini
La via della Russia
Russia e marxismo classico
Via russa e marxismo russo
Via europea, italiana o di vattelapesca
La chiave di volta
Salpando l’ancora

Riprende la parte seconda
Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XVII)
Sviluppo dei rapporti di produzione dopo la rivoluzione bolscevica
9 – Ripresa a distanza
10 – Heri dicebamus
11 – Una tregua di classe?
12 – Teoria della guerra civile
13 – Marxismo internazionale
14 – La bussola al socialismo
15 – Controllo e socializzazione
16 – Il progetto di Lenin
17 – Le misure rurali
18 – Lenin sapeva bene
19 – Linguaggio aperto e sicuro
20 – Coerenza totale al marxismo
21 – Il compromesso quanto duró?

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XVIII)
22 – Mentitori silenzi nel «Breve Corso»
23 – Dichiarazione dei diritti
24 – Rivoluzioni e costituzioni borghesi
25 – La «Dichiarazione» del 1918
26 – Conquiste, scopi e mezzi
27 – Le misure decretate
28 – Politica internazionale
29 – Aspri itinerari della rivoluzione
30 – Principi della Costituzione
31 – Indirizzi politici della dittatura sovietica
32 – Altri compiti dello svolto rivoluzionario

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XIX)
33 – Lo scandalo del voto plurimo
34 – Ingranaggio dei soviet
35 – Il «diritto al voto»
36 – Rapporto tra i due alleati
37 – La «dittatura democratica»
38 – Quale termine doveva cadere?
39 – Dittatura e democrazia proletaria
40 – Decisione nella dittatura
41 – È marxista l’autorità individuale
42 – Conclusioni al 1918
43 – Democrazia, eredità contadina
44 – Lezione ai rinnegati

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XX)
45 – Lenin e il «suffragio universale»
46 – La guerra civile al marzo 1919
47 – Un Lenin «suffragetto»?!
48 – Il Congresso russo del 1919
49 – La privazione del diritto elettorale
50 – Finale sulla democrazia elettiva
51 – I rapporti di produzione
52 – Non fretta demagogica
53 – Un’abusata parola
54 – Vecchio e nuovo capitalismo

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXI)
55 – Nel 1919 il capitalismo rinacque
56 – Vie della rinascita
57 – Il capitalismo è uno
58 – Alla luce dei grandi principi
59 – Essenza costante del capitalismo
60 – Caratteri dello sviluppo russo
61 – Lo sviluppo internazionale
62 – Innesti di nuova gioventù
63 – Sequenze del film sovietico

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXII)
64 – L’agricoltura associata
65 – La collettivizzazione al 1919
66 – Il lungo cammino al socialismo
67 – Contro la sconfitta e la miseria
68 – Ancora contro la gestione «collegiale»
69 – Rigurgiti sindacalisti
70 – Ancora l’anarco-sindacalismo
71 – Produzione e rivoluzione
72 – La questione sindacale internazionale
73 – Il quadro della società russa

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXIII)
74 – Lenin e Trotsky sulla NEP
75 – «Il comunismo di guerra»
76 – Industrialismo di guerra
77 – Trotsky e la NEP
78 – Capitalismo di Stato
79 – La costruzione di Lenin
80 – Senso della russa epopea
81 – Le fasi della «reazione» storica

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXIV)
82 – La società di «fast»
83 – Tre questioni di Lenin
84 – «Il nodo della questione»
85 – Fase «rurale patriarcale»
86 – Piccola produzione mercantile
87 – A quale stadio si svolge la lotta?
88 – La prospettiva futura
89 – Lo svolto nella questione del grano
90 – Conclusioni di Lenin sulla NEP

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXV)
91 – Marxismo e sconfitta
92 – Aspirazioni al capitalismo
93 – La «utile» borghesia
94 – Russia e Cina
95 – Classe ed economia di classe
96 – Con il capitalismo, contro il «piccolborghesismo»
97 – Pace vale guerra
98 – Completa opera borghese
99 – Capitalismi di Stato
100 – Salutem ex inimicis
101 – Commiato da Lenin

Parte terza
Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXVI)
La grave vicenda storica fra la morte di Lenin e noi
1 [102] – I tempi del corso economico
2 [103] – Limiti della gestione economica
3 [104] – Attendere significa vivere
4 [105] – Direzione a zig-zag?
5 [106] – La salvezza dottrinale
6 [107] – Formule di Trotsky
7 [108] – Dal livello del minimo vitale
8 [109] – Discussioni economiche nel partito
9 [110] – Tre vie per la struttura russa
10 [111] – La soluzione di Bucharin
11 [112] – Ricorso marxista alla dialettica
12 [113] – «Arricchitevi»

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXVII)
13 [114] – Alla terza tappa
14 [115] – Industria e agricoltura
15 [116] – Lo sdoppiamento russo
16 [117] – Il conflitto coi kulak
17 [118] – Il riferimento di Trotsky
18 [119] – La tappa di «collettivizzazione»
19 [120] – Travolgente afflusso ai colcos
20 [121] – Struttura del colcos
21 [122] – Le categorie economiche
22 [123] – Prospettiva agraria russa

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXVIII)
23 [124] – Il colcos per Trotsky
24 [125] – La falsa collettivizzazione
25 [126] – Rivincita dell’egoismo rurale
26 [127] – Il peggior compromesso
27 [128] – Origine della forma colcos
28 [129] – Diritti del colcosiano
29 [130] – Spettanze del colcosiano
30 [131] – Rapporto tra colcos e Stato
31 [132] – Magro bilancio agrario russo
32 [133] – La composizione sociale
33 [134] – Dotazione di terra agraria
34 [135] – Produzione di cereali
35 [136] – Peso del sistema colcosiano
36 [137] – Le due facce del colcos
37 [138] – La tragedia del bestiame

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXIX)
38 [139] – Rassegna delle cifre
39 [140] – Curva demografica russa
40 [141] – Natalità e popolazione
41 [142] – La morte ripiega
42 [143] – L’incremento di popolazione
43 [144] – Densità di popolazione
44 [145] – L’inurbamento
45 [146] – La popolazione attiva
46 [147] – Settori economici
47 [148] – La solita biscia morde

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXX)
Collegamento
48 [149] – Il corso dell’industrializzazione
49 [150] – Investimento e finanziamento
50 [151] – Accumulazione e denaro

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXI)
51 [152] – I piani della ricostruzione
52 [153] – Parametri disponibili
53 [154] – Piani antebellici
54 [155] – Piani postbellici
55 [156] – Non vi furono miracoli
56 [157] – Il mezzo monetario
57 [158] – Storia del rublo
58 [159] – Volume monetario dei piani
59 [160] – Investimento postbellico
60 [161] – Nascita e morte dell’«investimento»
61 [162] – Parabola commestibile

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXII)
62 [163] – Stato, capitale, denaro
63 [164] – L’occidente batte la stessa via
64 [165] – Investimenti statali e fondamentali
65 [166] – Divisione dell’investimento
66 [167] – L’insuccesso agricolo
67 [168] – Costruzione e «appalti»
68 [169] – Percentuale degli appalti
69 [170] – Servizi delle moderne «organizzazioni»
70 [171] – Stato minchione

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXIII)
71 [172] – Abitazioni e costruzioni
72 [173] – Dalla casa all’edificio
73 [174] – Edilizia privata e pubblica
74 [175] – Costruzione ed economia
75 [176] – Confronto in Europa
76 [177] – America e «boom»
77 [178] – Italia e case, ancora
78 [179] – Piano Vanoni e case
79 [180] – Le abitazioni in Russia
80 [181] – Misura delle abitazioni

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXIV)
81 [182] – Pauroso inurbamento
82 [183] – Reddito e investimento
83 [184] – Ancora una sosta italiana
84 [185] – Reddito nazionale russo
85 [186] – Partizione dell’investito
86 [187] – Economia russa dell’abitazione
87 [188] – Costruzioni ultracostose
88 [189] – Più lusso che in America?
89 [190] – Il dramma dei «costi»
90 [191] – Politici ed «architetti»

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXV)
91 [192] – Abitazioni e diritto
92 [193] – Codice civile sovietico
93 [194] – Abitazioni e locazioni
94 [195] – Costruzione ed assegnazione di case
95 [196] – L’antimarxismo emulato
96 [197] – La proprietà personale
97 [198] – La questione posta storicamente

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXVI)
98 [199] – Crisi della casa nel 1956 e 1957!
99 [200] – Dati russi recenti
100 [201] – L’abitazione rurale
101 [202] – Confronto città-campagna
102 [203] – Altri indici dell’ultimo anno
103 [204] – Orgia di mercantile miseria
104 [205] – Mistero del tenor di vita
105 [206] – Nel tempio-stato, l’idolo d’oro
106 [207] – Reddito e bilancio
107 [208] – Il gobbo fisco sovietico
108 [209] – Dal mazzo delle democratiche ubbie

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXVII)
109 [210] – Il sistema di imposte
110 [211] – Le forme dell’imposta
111 [212] – Lo Stato ammucchia denaro
112 [213] – L’atroce contraddizione
113 [214] – La vecchia infamia: un «nuovo corso»
114 [215] – Comunismo e «centralismo»
115 [216] – Impotenza alla dialettica
116 [217] – I falsari del leninismo
117 [218] – Liquidazione gigante
118 [219] – Il toro nella cristalleria
119 [220] – Gaudio degli antiburocratici
120 [221] – Lo scontrino di Marx
121 [222] – Riforma e rivoluzione

Appendice alla «Struttura economica e sociale della Russia d’oggi»
Passo accelerato delle riforme economiche a ritroso fra il XX e il XXI Congresso del PCUS
I
Le «riforme» postrivoluzionarie
Le antiriforme di oggi
Dalla proprietà statale alla proprietà aziendale
L’antiriforma agraria
Degna conclusione
II
Politica economica russa
Il nuovo volto del piano
Notes
Source


Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (I)

Premessa

1 – Riferimento a trattazioni precedenti

Il tema attuale si può considerare diretta continuazione di quello che venne trattato nella riunione generale del partito tenuta a Bologna nei giorni 31 ottobre e 1 novembre 1954, e che è stato ampiamente sviluppato nella serie apparsa in ben undici numeri del quindicinale «Il Programma Comunista»: essi vanno dal n. 21 del 1954 al n. 8 del 1955.

Il titolo «Russia e rivoluzione nella teoria marxista» corrispondeva all’obiettivo di dare una sistematica esposizione di quanto il movimento comunista marxista ha sostenuto in ordine allo sviluppo storico della società russa e dei suoi rapporti internazionali.

Fedeli al metodo di presentare il lavoro dei marxisti rivoluzionari non come una generica più o meno scettica attesa di avvenimenti che vengano con impreviste novità e svolte a segnare al movimento la nuova strada, ma come un continuo confronto degli accadimenti storici con la precedente «attesa» e «previsione» che il partito, nella sua viva organizzazione e partecipazione alla azione storica, è in grado di trarre, sia pure tra continue lotte, dalla teoria che ne costituisce la caratteristica e la piattaforma, ci siamo proposti di presentare quanto i marxisti avevano sviluppato in ordine al procedere della storia sociale in Russia, e al suo confronto coi dati storici degli sviluppi europei e mondiali precedenti e contemporanei.

La esposizione è stata divisa in tre tempi. Una Introduzione ha naturalmente ricollegato il tema ai molteplici sviluppi precedenti che un così importante argomento aveva già ricevuti nelle nostre convocazioni ed esposizioni scritte fin dai primi anni di questo dopoguerra, e ha impostato il problema: battere in breccia tutte le asserzioni di nemici aperti e larvati sulla inadeguatezza del marxismo ad inquadrare lo svolgimento russo, e la pretesa necessità di apportare revisioni alla nostra teoria generale, al fine di farvi rientrare le «particolarità» russe.

La prima parte ha avuto il titolo: «Rivoluzione europea ed area ‹grande slava›». In essa è stato tratteggiato un campo-tempo di sviluppo delle forme di produzione proprio della zona russa di oggi, nella sua distinzione da quello mediterraneo-classico e quello germanico-feudale; cercando di dare i grandi tratti di questi tre processi, e ponendo quello russo in rapporto ai dati storici sul modo di fissarsi ed organizzarsi sul suolo delle prime comunità, sul loro ordinarsi in classi sociali e in forme di produzione, e sulla maggiore o minore centralizzazione delle forme politiche e dello Stato. Pervenendo così ai tempi moderni, si è esposto quanto il marxismo originario ha sostenuto sulla funzione della Russia nel moto rivoluzionario europeo fin dalla rivoluzione francese, e in seguito sulle questioni sociali interne russe. Ciò nei contributi di Marx e di Engels nello scorso secolo.

Fermato così il doppio interessamento marxista alle rivoluzioni della Russia che mostravano, interferendo fatalmente, di incombere: la borghese e la proletaria, la seconda parte ha esposto le vedute particolarmente ricche e complesse su tale quesito di futuro storico dei movimenti interni della Russia, tanto premarxisti che soprattutto marxisti; fermandosi ai dibattiti e alle soluzioni avanzate nei vari congressi del partito bolscevico prima della guerra 1914. Anche qui si è andati verso la demolizione della ostinatissima idea, che in Russia si dovesse usare un metro storico speciale.

2 – Piano del presente rapporto

Sulla base del materiale in tal modo predisposto ed elaborato si viene direttamente al tema odierno: studio del modo storico con cui quella grandissima rivoluzione sotto i nostri occhi si è svolta, e valutazione degli eventi e della situazione che la hanno seguita.

Siamo quindi al tema essenziale, che non solo è quello che ha dato origine alla peculiare differenziazione del nostro gruppo da tanti altri, ma che in fondo sta al centro di tutta la lotta, di tutta la contesa politica del mondo contemporaneo: che cosa è oggi la Russia? E difatti dal lontano 1917 che il giudizio sulla situazione russa, la condanna o l’esaltazione di quanto ha il proprio teatro in Russia, e dei colpi di scena che questo mostra ad un mondo attonito, formano la pietra di paragone per i movimenti e i partiti che, anche in seno ai paesi più lontani da tale scenario, si contrappongono e combattono.

Tutto l’orizzonte odierno è occupato e soffocato da una interpretazione la quale in fondo è la medesima per i due settori tra loro nemici fierissimi, fra i quali l’agitato mondo contemporaneo è diviso da una barriera quasi fisicamente eretta, formidabile davanti agli occhi e ai passi di tutti. La Russia, col suo potente Stato guida e una fascia di satelliti e caudatari, starebbe dalla parte del proletariato mondiale e di una forma socialista della organizzazione sociale – mentre gli altri paesi alla cui testa si pongono pochi altri mostri di potenza statale a quella paragonabile, rappresentano la difesa, la conservazione e gli interessi legati all’attuale forma capitalistica della società economica, e alla classe borghese che ne sta alla direzione, con la bandiera della libertà democratica.

Fin dalle prime manifestazioni abbiamo combattuto, soli o pochissimi, contro questa interpretazione della vivente storia, e soli abbiamo dimostrato come rettamente la si avversa, in rigorosa coerenza al metodo marxista di lettura di tutta la lotta sociale del secolo che ci precede. Abbiamo denegato il parallelo Russia-socialismo fin dalle prime riunioni, e dalle prime pubblicazioni del nostro quindicinale e della rivista «Prometeo» (negli anni fino al 1951); abbiamo svolto le nostre formule fin dalle prime nostre adunanze a Roma, Napoli, Firenze, Milano[1], Trieste e così via. Abbiamo mostrato come esse si distinguono nettamente, oltre tutto, da quelle dei trotzkisti, che sono per la difesa di una Russia proletaria e socialista odierna, come da quelle di un sinistrismo banale cui manchi ogni dialettica forza per andare oltre la identificazione verbale di tutti i processi storici e di tutti gli imperialismi; abbiamo particolarmente smantellata una costruzione bislacca che vede nella struttura sociale formatasi in Russia una terza via al sanguinoso dialogo iniziato da un secolo tra capitalismo e comunismo, una pretesa dominazione di classi burocratiche. E tutto ciò abbiamo sviluppato mostrando come deriva dal cordone ombelicale del marxismo ortodosso unitario, anzitutto, e poi dalla dura difesa che ne fecero subito dopo la rivoluzione di Russia, e dinanzi ai primi sintomi della gigantesca ondata degenerativa che ha poi tutto travolto e che si designa col nome di stalinismo, l’ala sinistra dei comunisti marxisti italiani e rari altri gruppi internazionali.

Si tratta ora di una migliore esposizione di tutto questo che, dopo aver ripercorso (s’intende con metodo critico e non con ripetuta narrazione di una successione di fatti generalmente noti) le vicende della finalmente scoppiata doppia rivoluzione del 1917, pervenga al risultato di chiarificare i rapporti di produzione oggi in atto in Russia, con le leggi economiche alle quali rispondono, e alla dimostrazione che una tale società sta chiusa nei limiti del capitalismo; e alla fine di tutta la vicenda stabilisca il risultato acquisito, tutt’altro che da deridere, di una colossale rivoluzione borghese, che procede con epici sviluppi dalla vecchia Europa su tutto il Pianeta.

3 – Ulteriore trattazione sulla «tattica»

Anche dall’attuale rapporto, sebbene non se ne possa ogni tanto dimenticare la connessione, resterà fuori il tema a cui da tempo il nostro movimento lavora, e di cui si sono potuti raccogliere alcuni documenti notevoli: il dibattito di tattica e di metodo che preluse storicamente al nostro distacco dal comunismo ufficiale, che mano mano, da posizioni sempre meno accettabili ed eterodosse, è disceso fino al rinnegamento sistematico delle posizioni di partenza che si legano a quanto traemmo in comune, per dirla colle solite espressioni brevi, da Marx, da Lenin e dalla Terza Internazionale. Tale dibattito ebbe il suo sviluppo negli anni dal 1920 al 1926 e le sue posizioni, si dovrà mostrare, erano genuinamente marxiste, nella loro retta e tutt’altro che facile presentazione, ed hanno ricevuto dall’avvenire la meno gradita ma la più clamorosa delle conferme.

Tuttavia è importante precisare bene le nostre posizioni su questa rimessa in linea del delicato punto della tattica, indispensabile per ogni ritorno, auspicabile anche se non previsto troppo vicino, ai periodi in cui è di primo piano il settore dell’azione e della lotta rispetto a quello non offuscabile e sempre decisivo della dottrina di partito.

Indubbiamente la nostra lotta è per l’affermazione, nella attività del partito, di norme di azione «obbligatorie» del movimento, le quali devono non solo vincolare il singolo e i gruppi periferici, ma lo stesso centro del partito, al quale in tanto si deve la totale disciplina esecutiva, in quanto è strettamente legato (senza diritto a improvvisare, per scoperta di nuove situazioni, di ciarlataneschi apertisi «corsi nuovi») all’insieme di precise norme che il partito si è dato per guida dell’azione.

Tuttavia non si deve fraintendere sulla universalità di tali norme, che non sono norme originarie immutabili, ma norme derivate. I principi stabili, da cui il movimento non si può svincolare, perché sorti – secondo la nostra tesi della formazione di getto del programma rivoluzionario – a dati e rari svolti della storia, non sono le regole tattiche, ma leggi di interpretazione della storia che formano il bagaglio della nostra dottrina. Questi principi conducono nel loro sviluppo a riconoscere, in vasti campi e in periodi storici calcolabili a decenni e decenni, il grande corso su cui il partito cammina e da cui non può discostarsi, perché ciò non accompagnerebbe che il crollo e la liquidazione storica di esso. Le norme tattiche, che nessuno ha il diritto di lasciare in bianco né di revisionare secondo congiunture immediate, sono norme derivate da quella teorizzazione dei grandi cammini, dei grandi sviluppi, e sono norme praticamente ferme ma teoricamente mobili, perché sono norme derivate dalle leggi dei grandi corsi, e con esse, alla scala storica e non a quella della manovra e dell’intrigo, dichiaratamente transitorie.

Richiamiamo il lettore ai tanto martellati esempi, come quello famoso del trapasso nel campo europeo occidentale dalla lotta per le guerre di difesa e di indipendenza nazionale, al metodo del disfattismo di ogni guerra che lo Stato borghese conduce. Bisognerà che i compagni intendano che nessun problema trova risposta in un codice tattico del partito.

Questo deve esistere, ma per sé non scopre nulla e non risolve nessun quesito; le soluzioni si chiedono al bagaglio della dottrina generale e alla sana visione dei campi-cicli storici che se ne deducono.

Una successiva esposizione quindi, usando come materiale storico il dialogo polemico tra la sinistra italiana e Mosca, dovrà illuminare il problema tattico e rimediare ai gravi errori che tuttora circolano, ad esempio in merito al problema dei rapporti tra il movimento proletario internazionale e quelli dei popoli coloniali contro i regimi antichi interni e l’imperialismo bianco, massimo esempio di problema storico e non tattico – non problema di appoggio, perché bisogna prima spiegare in tutto perché ha totalmente ripiegato il movimento puramente classista del proletariato delle metropoli, e solo dopo si saprà come questa forza rivoluzionaria del livello post-capitalista si pone in rapporto alle, oggi potenti e vive in Oriente, forze rivoluzionarie del livello precapitalista.

Rispondere citando e peggio coniando a freddo una rigida formula di tattica, è in simili casi banale. Sostenere il diritto di riconiare ad ogni momento regole tattiche elastiche di comodo, questo sì è opportunismo e tradimento, contro cui sempre saremo spietati, ma contro cui opporremo assai più ferrate e meno innocue condanne d’infamia.

4 – Risultati acquisiti

Come risultati stabiliti nella precedente trattazione, su cui ora ci appoggiamo per andare più oltre, ci basterà ricordare i principalissimi.

La dottrina del materialismo storico ci dà ben ragione di quella che ai superficiali sembrerà originalità esclusiva della storia russa. La diversità del processo in cui la libera tribù errante si trasforma in popolo stabile organizzato si pone in relazione alla natura fisica del territorio, al clima, alla poca fertilità, alla immensa estensione di terre distanti dalle coste, al diverso ritmo dell’evoluzione rispetto a quella dei popoli delle calde rive mediterranee, al connesso diverso apparire dello schiavismo, al formarsi di uno Stato unitario. Diversa sorte hanno le popolazioni venute dall’oriente e giunte sui confini del crollante impero romano, di cui sfruttano ricchezze accumulate e dotazione di produzione avanzata – alle quali basta, per formare sulla terra una civiltà di produzione terriera, un ordinamento decentrato come quello dei signori feudali – e quelle rimaste più prossime all’Asia e nel cuore di territori immensi, esposte alle ulteriori ondate di orde in cerca di preda e di sede, la cui stabilità resta precaria finché affidata a capi locali, e che si fissano solo quando si forma una grande organizzazione statale a centro unico, di alta potenza ai fini non solo della guerra ma anche della produzione in tempo di pace.

Lo Stato è dunque fin dai primi tempi elemento essenziale della società russa; che grazie ad esso e alle organizzazioni militari e amministrative che lo hanno per centro supera gli attacchi continui da parte asiatica ed europea e diviene sempre più potente. Ma la sua funzione non è solo politica, bensì direttamente economica: alla corona e allo Stato appartiene circa metà delle terre e delle comunità rurali serve, e quindi la classe dei nobili non controlla che metà del territorio e della popolazione ed è in subordine rispetto al potere centrale dinastico: il re non è, come nel sistema decentrato germanico, l’eletto dei nobili, effettivi detentori del reale controllo economico e giuridico della società.

Questo tipico «feudalismo di Stato» arriva al tempo moderno e Marx vede in esso il pernio delle «Sante Alleanze» e la principale forza che, da Napoleone in poi, si impegna a soggiogare tutte le rivoluzioni borghesi in Europa, e più oltre resta pronto ad aiutare monarchie e borghesie contro i primi moti proletari.

Ponemmo agli atti l’interesse accanito di Marx per ogni sconfitta militare degli zar, da cui potesse uscire il crollo del baluardo reazionari slavo, quale che fosse il nemico.

Quindi allineammo i dati delle prime analisi delle forze sociali interne, e le risposte, di cui ebbe Engels a gettare le basi, circa il problema famoso del possibile «salto del capitalismo» cui lo stesso Marx aveva fatto dialettici accenni, pervenendo a scartare questa possibilità. Engels segue le prime formulazioni dei rivoluzionari russi che sottovalutano la sorgente industria e fanno leva sul movimento dei contadini, e discute, concludendo anche lui al tempo ultimo della sua vita per la nessuna probabilità che la comunità agricola slava possa svolgersi nel socialismo generale, prima che una completa forma capitalistica e mercantile si sia potuta delineare.

Nella seconda parte, come abbiamo ricordato, abbiamo seguito il lavoro di estrema importanza del nascente movimento marxista russo, poggiato sul proletariato industriale, e ricordate le sue successive storiche tesi, che così si possono riassumere:

1. Progressivo sviluppo del capitalismo in Russia e formazione di un grande proletariato urbano.

2. Conclusione negativa sulla efficienza rivoluzionaria della borghesia russa nel dirigere l’abbattimento dello zarismo.

3. Analoga conclusione sulla capacità dei movimenti fondati sui contadini, come i populisti, i trudoviki, i socialisti rivoluzionari.

4. Condanna della posizione dei marxisti di un’ala destra, poi definiti menscevichi, che con la falsa affermazione che la rivoluzione borghese non era affare interessante i proletari e i socialisti proponevano di lasciarne la direzione ai partiti democratici e popolari, praticamente abbandonando la lotta politica contro il potere zarista.

5. Ulteriore smascheramento di questa tesi controrivoluzionaria, contestando che si potesse appoggiare uno sviluppo della rivoluzione democratica basato su costituzioni elargite dallo zar e perfino sulla conservazione della dinastia, ossia formula insurrezionale e repubblicana della rivoluzione borghese.

6. Partecipazione del proletariato cittadino in prima linea a tutta la lotta, come storicamente avvenne nel 1905; potere rivoluzionario uscito dalla lotta armata che escludesse tutti i partiti borghesi costituzionali e si basasse sulla condotta della rivoluzione democratica ad opera dei lavoratori e dei contadini (dittatura democratica del proletariato e dei contadini).

7. Passaggio alla ulteriore lotta rivoluzionaria col programma socialista, solo a seguito dello scatenarsi, sempre previsto dal marxismo, della rivoluzione socialista proletaria in Europa dopo il crollo dello zarismo.

5 – La formula di Lenin

Lenin dunque prima della rivoluzione, come del resto in seguito, non ha mai preveduto un diverso processo della rivoluzione proletaria internazionale da scoprire attraverso lo sviluppo della crisi rivoluzionaria russa. Come marxista della sinistra radicale non ha mai dubitato che nei paesi capitalisti il socialismo sarebbe uscito da una insurrezione rivoluzionaria dei proletari e dalla attuazione della marxista dittatura del solo proletariato. Poiché doveva però lavorare al problema di un paese in cui la rivoluzione borghese era ancora da compiersi, ha previsto non solo che il proletariato e il suo partito rivoluzionario vi si dovessero con tutte le forze impegnare a fondo, ma, dato il particolare stato di ritardo nella caduta del reazionario regime zarista e feudale, ha enunciato la previsione ed il programma esplicito che la classe operaia dovesse togliere dalle mani della borghesia questo suo compito storico, e condurlo in sua vece, togliendole anche quello suo non meno caratteristico di capitanare nella lotta le masse contadine.

Se la formula, ad esempio della rivoluzione borghese, fu: direzione della classe borghese (ma anche allora più da parte dei suoi ideologi e politici che dalle persone di industriali, mercanti e banchieri) e trascinamento dei proletari delle città e dei contadini servi delle campagne nella scia della rivoluzione democratica; la formula russa della rivoluzione (sempre borghese, ossia democratica) fu diversa: direzione da parte del proletariato, lotta contro la stessa borghesia propendente ad una intesa di compromessi parlamentari con lo zarismo, trascinamento delle masse popolari e rurali nella scia del proletariato, che elevava, in questa fase storica, i contadini poveri al rango di suoi alleati nella insurrezione e nel governo dittatoriale.

Compiti di una simile rivoluzione, non già il socialismo, ma questi, ben definiti: guerra civile fino a battere polizia ed esercito zarista, abbattimento della dinastia e proclamazione della repubblica, assemblea costituente eletta lottando contro ogni partito borghese ed opportunista, poggiandosi sui Consigli – sorti nel 1905 – degli operai e dei contadini.

L’obiezione che questa non fosse una rivoluzione socialista non fermava Lenin nemmeno per un istante, essendo la cosa chiara in teoria. Si trattava della rivoluzione borghese, nella sola forma che assicurasse la sconfitta della controrivoluzione zarista e medievale: a questo solo (ma allora e anche dopo chiaramente grande e decisivo) risultato si consacrava la forza della dittatura proletaria: dittatura perché si usavano mezzi violenti e non legali, come le grandi borghesie avevano fatto in Europa alla testa delle masse, ma democratica perché il compito era la distruzione del feudalesimo e non del capitalismo, con i contadini alleati per questa stessa ragione e perché, mentre sono ulteriormente destinati a divenire un giorno alleati della borghesia contro il proletariato, lo sono anche ad essere nemici giurati del feudalesimo.

Lenin (ci pare indispensabile seguitare a sintetizzare il già detto a Bologna, rinviando i dubbiosi alla congerie di documenti e prove dati nel resoconto esteso) non si poneva dunque in tal fase il traguardo della rivoluzione socialista, e tale da condurre non ad una democrazia borghese al massimo radicale e conseguente, ma alla dittatura espropriatrice del capitale, perché lasciava tale ulteriore compito ad una lotta non più del quadro nazionale, come sarebbe stata quella della sopravveniente rivoluzione russa, ma ad una lotta internazionale.

Riteneva che, all’indomani di una guerra europea, sempre prevista da Marx e Engels come un urto tra slavi e tedeschi, la caduta dello zarismo avrebbe senz'altro messo in moto le masse lavoratrici di occidente, e che solo dopo che le stesse avessero preso il potere politico e i grandi mezzi di produzione concentrati da un pieno capitalismo avrebbe potuto la rivoluzione anche in Russia assumere contenuto socialistico. L’avvio dalla guerra era stato confermato da quella rovinosa col Giappone, ma la controrivoluzione aveva ben potuto schiacciare le forze del 1905, e per conseguenza l’abbattimento decisivo dello zarismo, finché la lotta non fosse risolta schiacciando sotto il terrore (anche a contenuto «borghese» come quello di Robespierre) le forze reazionarie, era sempre un risultato pregiudiziale rispetto all’avvento del socialismo. Mostrammo con Trotsky che la forza proletaria internazionale era da Lenin invocata, prima che per uno sviluppo sociale collettivistico, per sostenere il potere rivoluzionario sorto in Russia contro un ritorno zarista. Lo stesso infatti avrebbe significato il giogo per i proletari e contadini russi pervenuti al potere democratico, e per i lavoratori occidentali levati contro la borghesia capitalista.

Infatti fin nel 1917 e dopo altra serie di eventi, validi furono i tentativi di ritorno dello zarismo, fiancheggiati da forze di occidente, e molti anni richiese la lotta per liquidarli. Giusta quindi la graduazione delle fasi storiche nella potente veduta di Lenin, e sciocca esercitazione estremista sarebbe quella di presentarlo sicuro pronosticatore del socialismo in Russia.

Questa apparente spiegazione di sinistra dell’opera di Lenin servirebbe solo al gioco insidioso di mostrare che si va al socialismo traverso forme impastate con ingredienti democratici, storicamente; e socialmente con elementi contadini-popolari, il che è la forma centrale della degenerazione e della vergogna presente.

6 – Confronto con l’evento

Il tema attuale è stabilire se la Russia è andata più avanti o meno avanti di quanto in quella prospettiva era contenuto. Se gettassimo un ponte tra quelle che dal 1903 al 1917 sembravano disquisizioni piuttosto lontane da pratici effetti, e quella che è la situazione di oggi 1955, in cui noi radicatamente e fondatamente troviamo la piena forma capitalistica in via di poderosa diffusione in Russia, e troviamo poggiata ed intrecciata con essa una vera orgia di «valori» democratici, popolari, alleanzisti, vedremmo che è di buon diritto concludere che Lenin aveva ben previsto e la storia è giunta dove lui diceva, grazie ad uno sforzo gigante che il proletariato russo si è addossato, e il cui bilancio odierno è: «costruzione di capitalismo».

Con ciò resterebbero provati tutti i nostri punti: che con la chiave marxista l’antica e nuova storia di Russia si è potuta egregiamente leggere; che Marx ed Engels a ragione le pronosticarono gli orrori tremendi dell’inferno capitalista; che Lenin dette un’impeccabile costruzione marxista della via per uscire dal giogo di un formidabile potere e regime precapitalista, e una teoria felicissima della impotenza della borghesia a farlo, e della sua surrogazione storica da parte del proletariato. Ciò con pienissimo diritto di dire che in questo non aveva Lenin giustapposta alla teoria marxista classica alcuna parte nuova: la nascita del comunismo proletario è dialetticamente un fatto nazionale ed internazionale: non poteva nascere e formarsi che dove la forma di produzione moderna aveva trionfato e ciò non era avvenuto che in quadri nazionali (Inghilterra Francia ecc.) ma, apparendo da tali nazionali sbocchi, come teoria e come organizzazione e partito operante, doveva porsi subito e fin dal primo momento davanti non solo il binomio capitalismo-proletariato, ma il vero vivo quadro mondiale di tutte le classi e di tutti i moti delle società umane in tutti i gradi di sviluppo.

Il «Manifesto» contenne l’applicazione di tale principio ad un orizzonte universale, e da allora i comunisti, quando ogni altra vestale si sia lasciata sedurre, tengono accesa la fiamma di qualunque vera incandescente rivoluzione.

Questa la vera visione ed unica impostazione marxista per i complessi problemi di tutte le società non svolte ancora fino al gran duello di padroni ed operai, per tutte le classi marginali e impure di quelle società che pure hanno ormai per scheletro vivo il «modello» capitalistico dell’economia.

7 – Storia di mezzo secolo

Se tutto questo agli estremi è verissimo non si può tuttavia considerare i soli estremi di questo arco di cinquant’anni, tra la teoria tracciata dal 1905 e la struttura, consolidatasi nei fatti, del 1955. Questo ponte storico non è di una sola campata, e ciò non perché non possa esserlo, ma perché si è trattato forse dei 50 anni più densi di tutta la storia conosciuta a cavallo di due grandi guerre universali, e, per la Russia che ci riguarda, di almeno tre grandi rivoluzioni, e di un corso a metà rivoluzionario e a metà controrivoluzionario che (se non è caso unico nella storia dei modi di produzione) va indiscutibilmente più a fondo caratterizzato.

Non fornendo la teoria nel senso marxista delle arcate intermedie, che insieme definiscono tutto il difficile ciclo, si può al solito farsi prendere la mano dal semplicismo.

Sì, il partito russo degli operai rivoluzionari e dei socialisti comunisti pose a se stesso lo scopo storico di pervenire all’avvento del capitalismo mercantile e democratico, a condizione che accettando tale consegna (e dedicando ad essa le proprie forze di classe protagoniste di altro grande compito storico) si garantisse la cancellazione dall’Europa, col ferro e col fuoco, della mostruosa costruzione dello Stato degli zar, respingendone per sempre il ricordo nel buio del passato.

Sì, la gigantesca lotta, che si è dopo in alterne vicende svolta, non ha avuto altro risultato che questo, e si deve negare che vi siano nella Russia di oggi forze dominanti all’opera per la realizzazione di forme ultra-capitaliste, con lo stesso criterio che non ve ne sono nei paesi del capitalismo di occidente, consistendo la differenza nella distinzione tra un capitalismo in crescita fiorente ed uno in fase di inflazione che preannunzia il declino.

Ma è errato concludere seccamente da questo che, data questa collimazione fra quanto il partito tracciò, e quanto la storia ci presenta, non vi è stata in Russia che una rivoluzione borghese nel senso completo che borghese fu quella che diciamo di Kerenski e borghese quella di Lenin, stando esse nel rapporto (per così dire) di quella di Mirabeau con quella di Robespierre.

In questo sviluppo sosterremo che se la forma di produzione in Russia non è che borghese, borghese non fu l’Ottobre, ma proletario e socialista, dopo aver messo in loro luogo i fattori economici e sociali, le classi, i partiti, e i rapporti politici del potere.

Un simile svolgimento non è definibile che nel quadro internazionale della storia dei recenti decenni, e nella chiusura di questa premessa ricorderemo i tre caratteri storici che l’Ottobre in sé contiene e che lo portano enormemente più in alto del semplice contenuto di avere per sempre distrutto lo zarismo, che con i risultati soli del febbraio sarebbe probabilmente tornato alla rivincita, come tentò disperatamente di farlo e come una larga parte della borghesia mondiale avrebbe incoraggiato – come anzi di fatto incoraggiò, spezzandosi le corna contro la dittatura integrale dei bolscevichi.

8 – Distruzione della guerra

La stretta relazione stabilita tra la disfatta dell’esercito zarista e la rivoluzione politica, perseguita nelle anelanti impazienze di Marx e di Lenin in tutte le guerre che registra la storia europea – ben possiamo dire in rapporto all’uso puramente indicativo che facciamo dei nomi personali dalle coalizioni del primo '800 fino alla prima grande guerra 1900 – si confermò nella politica condotta, senza indietreggiare davanti alle più tragiche conseguenze, dal potere di Ottobre: favorire lo sfasciamento dei reparti, smontare il fronte, dominare ogni ubriacatura interna al partito, purtroppo anche dei migliori, e anche dei definiti sinistri, per una versione nazionale e patriottica della guerra che invece fu con successi veramente grandiosi spezzata senza pietà.

Questa politica illimitatamente rivoluzionaria, laceratrice di qualunque ipocrisia, spinta alle più estreme conseguenze, ispirata alla rivendicazione del disfattismo senza riserve, dello svolgere la guerra di difesa della patria in guerra civile, fu passata alla prova grandiosa della rovina del potere militare tedesco, dei fronti sfondati non da una offensiva da ovest ma da una capitolazione e dalle fraternizzazioni da est.

Non poteva avere un simile contenuto reale una rivoluzione borghese, inseparabile per motivi intrinseci, da noi a lungo esposti (per esempio nella trattazione alla riunione di Trieste del 29–30 agosto 1953 il cui resoconto scritto, col titolo «Fattori di razza e nazione nella teoria marxista», è apparso nei nr. 16–20/1953 de «Il programma comunista») dal favorire i valori e gli istituti a carattere nazionale e patriottico. Mostrammo una volta che Robespierre dalla tribuna parlamentare rinfacciò agli inglesi suoi nemici giurati la loro azione contro le influenze francesi oltre Atlantico, condotte contro Luigi XIV e XVI. La rivoluzione borghese non spezza la linea della storia nazionale, può solo una rivoluzione proletaria osare tanto. Oggi sì, che la linea del potere russo è patriottica ed esalta i vinti di Port Arthur e Tsushima cui Lenin aveva lavorato a tagliare i garretti, e non meno i difensori che stavano sullo stomaco di Marx da Sebastopoli, e fino le imprese di conquista di Pietro il Grande.

9 – Liquidazione degli alleati

Altra caratteristica della politica rivoluzionaria bolscevica è la progressiva lotta contro i transitori alleati della fase precedente, che uno dopo l’altro vengono messi fuori combattimento pervenendo ad un puro governo di partito. Non è sufficiente qui cercare una analogia con le rivoluzioni borghesi nelle lotte tra i vari partiti dal 1789 al 1793 in Francia, perché l’analogia si limita al metodo di azione. Non diremmo ad esempio che un carattere originalmente proletario della rivoluzione russa sia stato il terrorismo politico. Hanno avuto il terrore le rivoluzioni della borghesia, in Inghilterra, in Francia, in molti altri paesi, e un tale metodo in Russia era decisamente invocato anche da non marxisti, come i populisti della sinistra e i socialisti rivoluzionari, in quanto si trattava di distruggere i partiti che sostenevano lo zar.

Ma la dialettica posizione assunta in tutto lo sviluppo dai bolscevichi, partita da una surrogazione ai compiti della borghesia per giungere alla dispersione dei suoi partiti, e svolta attraverso la transitoria marcia con alleati semi-borghesi e contadini, per finire a cacciarli dal governo e da ogni diritto di partecipare allo Stato, risponde alla originale posizione dei marxisti, che fin da prima del 1848 si prospettano chiaramente una prima lotta al fianco di alleati borghesi, liberali, democratici, ed un successivo passaggio al deciso attacco contro tutti costoro e contro le fazioni piccolo-borghesi. Tale previsione è saldamente fondata su una anticipata inesorabile critica alle ideologie proprie di questi strati, che li fanno nemici immancabili del proletariato.

Questi sviluppi caratteristici di tutte le lotte tra classi hanno innumeri volte condotto alla sconfitta del proletariato e alla spietata distruzione delle sue forze ed organizzazioni, come nei classici eventi di Francia. Per la prima volta il partito proletario in Russia è giunto vittorioso all’ultimo episodio delle fasi della guerra civile, liberando il campo di tutti i successivi ex-alleati, che mano mano passavano alla controrivoluzione aperta, e la vittoria nelle ultime battaglie è rimasta nelle mani del partito. Qualunque sia stato il seguito, che non ha visto un rovescio nella guerra civile, ma ben altro processo, questa esperienza storica è veramente originale e resta un effettivo patrimonio del potenziale rivoluzionario, disperso poi per altre vie, e per la smaccata applicazione di alleanze e combutte destituite di ogni dialettica originale autonomia del partito di classe e delle esclusive sue posizioni.

Abbiamo molte volte svolto il concetto marxista che le esperienze delle controrivoluzioni sono alimento prezioso al duro cammino, come nel caso della Comune di Parigi da Lenin così fondamentalmente invocato.

Quindi questi risultati, se anche poi dispersi o svaniti, valgono per noi a provare che dopo Ottobre, e prima che avesse il tempo di porsi il compito, che nel seguito studieremo, di natura economica produttiva e sociale, il potere politico pervenne effettivamente nelle mani del proletariato, che per la situazione internazionale fu portato chiaramente se pure non definitivamente oltre i limiti della dittatura democratica ed oltre quelli dell’alleanza con partiti di base popolare-contadina, quindi nella sfera storica della rivoluzione politica socialista, cui mancarono poi gli apporti che solo la rivoluzione degli operai di occidente avrebbe potuto arrecare.

10 – Demolizione dello Stato

Il trapasso dalla rivoluzione puramente democratica, sia pure coi vari partiti socialisti in prima fila, all’Ottobre bolscevico, non fu possibile senza che tutta la questione dell’ascesa al potere del partito operaio nei paesi avanzati fosse rimessa in luce, e con essa la integrale teoria marxista della violenza nella storia, e della natura dello Stato politico.

Questa grande battaglia non fu solo teoretica, come nelle pagine di «Stato e rivoluzione» e nelle polemiche che impegnarono tutto il mondo del primo dopoguerra, e non fu solo organizzativa in quanto si attuò radicalmente la scissione tra i rivoluzionari della Terza Internazionale e i revisionisti e traditori della Seconda. Fu vera battaglia politica e si svolse armi alla mano negli episodi tremendi, quando vedemmo socialdemocratici divenuti boia del capitalismo pugnalare la rivoluzione e la dittatura rossa in Germania e in Ungheria, e lo stesso scontro prepararsi e svolgersi nell’intera Europa.

Ammettiamo che si fosse solo giunti all’attuata, insurrezionale, terrorista anche, dittatura democratica di operai e contadini, sola possibile erede storica del potere in Russia, ma non oltre. Sarebbe rimasta una sola esperienza, una sola eredità alla storia rivoluzionaria, e questa: sono necessari insurrezione, guerra civile, dittatura, terrore, ma solo per uscire dalla forma medioevale; non altrettanto per uscire, successivamente, dalla forma borghese e capitalistica.

Ma nella ulteriore avanzata del potere proletario bolscevico in Russia poté la lotta divenire tutt'uno con quella delle forze avanzate dei proletari comunisti che nei paesi d’Europa avevano davanti non più un obliato medioevo, ma la moderna democrazia del capitale, e che impararono (in linea con i compagni che in Russia avevano dovuto jugulare anche i socialisti sedicenti, che stavano all’ombra di idee borghesi e piccolo-borghesi, e di democratici pacifismi di classe, che sostenevano, dalla caduta in poi dei regimi feudali, doversi la lotta condurre negli ambiti legalitari, e si erano rivelati puri controrivoluzionari, alcuni fino al malcelato legame con lo stesso zarismo ancora tramante congiure) la necessità, in fase storica ben ulteriore rispetto alla conquistata libertà borghese, la necessità della violenza e della dittatura della classe oppressa dal capitale.

Benché la rivoluzione borghese classica avesse contenuto in sé la necessità dello smantellamento del precedente organo di Stato, in quanto fondato sui vecchi ordini, sui privilegi degli ordini stessi, e sulla diversa potestà giuridica dei componenti la società, solo la lotta della rivoluzione russa nella fase di Ottobre poté dare base storica e positiva alla esigenza che anche lo Stato giuridico delle moderne costituzioni proclamanti l’eguaglianza e libertà di tutti e basate su rappresentanze universali senza distinzioni di ordini, anche un tale Stato, come stabilito dalla prima ora da Marx e dal «Manifesto», non era che organo di dominio di classe, e un giorno la storia lo avrebbe a sua volta stritolato in frantumi.

Non è dunque permesso dire che la rivoluzione di Ottobre restò nei limiti di una rivoluzione borghese. Lo sviluppo sociale della Russia ha dovuto restare nei limiti delle forme e modi capitalisti di produzione, ed è un dato storico che il proletariato ha lottato per l’avvento di una forma borghese – e che doveva farlo. Ma non a questo si è limitata la sua lotta politica.

Come inseparabile parte della lotta politica del proletariato internazionale, che per organizzarsi in classe dominante deve prima organizzarsi in partito della propria caratteristica ed esclusiva rivoluzione, le forze e le armi che hanno indiscutibilmente vinta la battaglia di Ottobre vinsero per il proletariato e il socialismo mondiale, e la loro vittoria servirà nel materiale senso storico a quella mondiale del comunismo, sulle rovine del capitalismo di tutti i gradi e di tutti i paesi, Russia attuale ivi compresa.

Parte prima

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (II)

Lotta per il potere nelle due rivoluzioni

1 – La guerra 1914

Non può lasciarsi da parte la relazione che corre tra la Rivoluzione in Russia del 1917 e la prima guerra mondiale scoppiata nel 1914, punto molto noto e da noi infinite volte ricordato. Tutto lo sviluppo storico che lega tra loro le vicende dei partiti marxisti in Europa e in Russia, e il legame tra le prospettive dell’avvenire che si formarono e le particolarità della loro vita politica interna e delle loro lotte di tendenza, hanno come cruciale passaggio la crisi storica vulcanica, il terremoto politico dell’agosto 1914 da cui 41 anni ci separano.

Benché non si voglia qui fare storia e le cose essenziali siano scritte nella testa di tutti, occorrerà pure richiamare i capisaldi.

A Sarajevo, capitale della Bosnia, provincia in prevalenza slava passata dall’impero ottomano a quello austriaco dopo le guerre balcaniche, il 28 giugno l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono del vecchissimo Francesco Giuseppe, passa con la moglie in carrozza scoperta. Sono abbattuti dai colpi di rivoltella di due giovani nazionalisti bosniaci.

Nelle poche tragiche settimane trascorse il governo di Vienna affermò che gli attentatori avessero confessato negli interrogatori di essere agenti del movimento indipendentista e del governo serbo. Il 23 luglio, si disse per segreto incitamento del kaiser Guglielmo, il ministro degli esteri austriaco Berchtold trasmise alla Serbia lo storico ultimatum che imponeva una serie di misure di politica e di polizia interna. Il termine era di sole 48 ore: la Serbia rispose in tono debole ma non accettò tutte le condizioni. Il 26 il primo ministro inglese Grey cercò di intervenire per una conferenza, cui la Germania si oppose. Il 28, un mese dopo l’attentato, l’Austria dichiarò guerra alla Serbia.

Il 29 mobilitò la Russia, il 30 la Germania, sulle due frontiere. Il 31 la Germania intimò alla Russia di revocare in 24 ore l’ordine di mobilitazione, e non avendo avuto risposta le dichiarò guerra l’1 agosto. Il 3 dichiarò guerra alla Francia, il 4 invase il Belgio senza dichiarazione di guerra. Solo il 6 agosto l’Austria dichiarò guerra alla Russia.

Come si sa, il governo belga decise di resistere con le armi all’invasione e la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania per il motivo che gli impegni internazionali per la neutralità del Belgio erano stati violati, al che il conte Bethmann-Hollweg ministro degli esteri oppose la frase famosa che i trattati non sono altro che pezzi di carta.

La storia ha poi acquisito che gli inglesi pochi giorni prima avevano assicurato a Berlino il non intervento in caso di guerra coi franco-russi, incoraggiando così il governo del kaiser a precipitarsi nel cratere.

Prima di vedere gli immediati riflessi dell’andamento della guerra sulla situazione in Russia, che qui interessa, è tuttavia necessario sgranare un altro rosario, quello della rovina del socialismo internazionale, che costituì l’altro aspetto di quei giorni di tragedia.

Situazione su cui occorre riflettere come ben diversa da quella di esplosione della guerra 1939. Allora in ogni paese si scontrarono due alternative nette: la posizione internazionalista di classe da una parte, dall’altra una posizione nazionale e patriottica di unanimità – e ciò con analogia assoluta in tutti i paesi. Nel 1939 tutto era mutato, e in dati paesi era presente un disfattismo borghese che fondò i movimenti contro la guerra di aperti «partigiani del nemico nazionale». Nel primo ciclo storico il nazionalismo trionfò, nel secondo si divise in due nazionalismi. Il ciclo in cui l’internazionalismo si leverà in piedi si attende ancora.

2 – Crollo da incubo

Due giorni dopo l’ultimatum dell’Austria alla Serbia il partito socialista germanico lanciò un forte manifesto contro la guerra in cui l’atto era condannato come «deliberatamente calcolato per provocare la guerra» e si dichiarava che per i governanti di Vienna non sarebbe stato «versato neppure un goccio di sangue di soldato tedesco».

Ma quando nei giorni 29 e 30 a Bruxelles, convocato d’urgenza, si riunì l’Ufficio Socialista Internazionale, già la situazione precipitava. Parlò il capo dei socialisti austriaci, il vecchio Vittorio Adler:
«Siamo già in guerra. Non attendetevi altre azioni da noi. Siamo sotto la legge marziale. I nostri giornali sono soppressi. Non sono qui per fare un discorso in un comizio ma per dirvi la verità che ora, mentre centinaia di migliaia di uomini marciano verso le frontiere, ogni azione è impossibile».
Non vi era più un Bebel, morto alla fine del 1913; per i tedeschi erano presenti Haase e Kautsky che discutevano direttamente con Jaurès e Guesde sulla estrema speranza di localizzare la guerra tra Austria e Serbia (magnifica l’attitudine dei pochi socialisti di Serbia).

Lo sciopero generale contro la mobilitazione viene proposto solo dall’inglese Keir Hardie (non indegno fu l’atteggiamento del piccolo British Socialist Party) e dalla Balabanoff che con Morgari rappresenta l’Italia. Ma chi risponde gelidamente? Il marxista ortodosso Jules Guesde:
«Uno sciopero generale sarebbe efficace solo nei paesi in cui il socialismo è forte, e faciliterebbe così la vittoria delle nazioni arretrate su quelle progredite. Quale socialista può desiderare l’invasione del suo paese, la sua sconfitta ad opera di un paese più retrogrado?».

Lenin non era lì, ma in un villaggio dei Carpazi con la moglie malata; malata con disturbi di cuore era Rosa Luxemburg. Grande fu il destro e non ortodosso Jaurès, che tuonò nel grandioso comizio davanti ad una immensa folla echeggiante le grida: abbasso la guerra! guerra alla guerra! viva l’Internazionale! Due giorni dopo il nazionalista Vilain abbatteva il grande tribuno con due revolverate, a Parigi.

La riunione non seppe fare altro che anticipare al 9 agosto il congresso mondiale socialista già fissato a Vienna pel 23. Ma come bene osserva Wolfe quei 10 giorni sconvolsero il mondo tanto quanto non hanno fatto i successivi decenni[2].

Intanto dal 31 al 4 agosto a Berlino si susseguono sedute della direzione socialista e del gruppo parlamentare, forte di ben 110 deputati al Reichstag.

Fu mandato Müller a Parigi ove si svolgeva la stessa questione, ma i più dei compagni francesi dissero: la Francia è aggredita, noi dobbiamo votare ai crediti di guerra, e voi tedeschi no. A Berlino 78 voti contro 14 decisero il ai crediti con una dichiarazione che declinasse la responsabilità della guerra. Il 4 tutti i 110 furono dati votanti per i crediti (compresi i 14, tra cui il presidente del partito socialdemocratico tedesco Haase e perfino Carlo Liebknecht, per disciplina) sebbene uno, ma uno solo, Kunert di Halle, si fosse allontanato dall’aula.

Lo stesso giorno i dispacci di stampa portavano da Parigi la stessa maledetta notizia: i crediti per la difesa nazionale passati alla unanimità.

Nelle due capitali le folle per le strade dimostravano al grido di viva la guerra! Trotsky era anche lui quei giorni in Austria, nella capitale. Sbalordito ascoltò le grida di esaltata gioia dei giovani dimostranti. Che specie di idea li accende? egli si chiese. L’idea nazionale? Ma non è l’Austria la negazione stessa di ogni idea nazionale? Ma Trotsky viveva della fede nelle masse, e nella sua autobiografia trovò una spiegazione del tutto ottimista a questo sommuoversi scatenato dalla mobilitazione, salto nel buio delle classi dominanti[3].

3 – Sette tesi sulla guerra

Lenin non aveva, passato che fu fortunosamente dall’Austria, ove era un cittadino nemico, nella neutrale Svizzera, notizie sicure sul contegno dei socialisti russi. Si era detto che tutta la frazione alla Duma dei socialdemocratici, anche menscevichi, aveva rifiutato il voto ai crediti di guerra. Ma alcune cose gli erano rimaste nella gola:

Kautsky, che egli ancora considerava un suo maestro, aveva nella discussione per il voto opinato per l’astensione, ma aveva poi con mille sofismi giustificato e difeso il voto favorevole stabilito dalla maggioranza. Aveva poi appreso che a Parigi Plechanov si era dato a fare il propagandista per gli arruolamenti nell’esercito francese. Lenin traversò giorni di rabbia e di furore fino a che non si orientò per la necessità di tutto ricominciare e defenestrare i nuovi traditori. Appena poté riunire sei o sette compagni bolscevichi, presentò loro sette scarne tesi sulla guerra. Erano lui e Zinoviev con le compagne, tre deputati alla Duma e forse la russo-francese Inessa Armand.

Primo. La guerra europea ha il tagliente definito carattere di guerra borghese dinastica e imperialista.

Secondo. La condotta dei capi della socialdemocrazia tedesca, partito della seconda Internazionale (1889–1914), che hanno votato i bilanci di guerra e che ripetono le frasi borghesi e scioviniste degli junker prussiani e della borghesia, è diretto tradimento del socialismo.

Terzo. La condotta dei capi socialisti francesi e belgi, che hanno tradito il socialismo con l’entrare nei governi borghesi, comporta eguale condanna.

Quarto. Il tradimento del socialismo da parte della maggioranza dei capi della Seconda Internazionale significa il crollo politico e ideologico di questa. La causa fondamentale di questo crollo è il predominio attuale dell’opportunismo piccolo-borghese.

Quinto. Sono false ed inaccettabili tutte le giustificazioni date dai vari paesi per la loro partecipazione alla guerra: la difesa nazionale, la difesa della civiltà, la democrazia e così di seguito.

Sesto. Il compito della socialdemocrazia in Russia consiste in primo luogo in una lotta senza sosta e senza mercé contro lo sciovinismo grande-russo e monarchico-zarista, e contro la sofistica difesa di un tale sciovinismo da parte dei liberali o costituzionali democratici russi, e parte dei populisti. Dal punto di vista delle classi laboriose ed oppresse di tutti i popoli di Russia, il minor male sarebbe la piena disfatta della monarchia zarista e del suo esercito, che opprime Polonia, Ucraina e molti altri popoli dell’impero.

Settimo. La consegna dei socialisti nel momento attuale deve essere una penetrante propaganda, estesa anche agli eserciti e alle aree di attività militare, per una rivoluzione socialista e per l’esigenza di volgere le armi non contro i propri fratelli, ma contro la reazione dei partiti e governi borghesi in tutti i paesi… l’azione illegale nel paese e nell’esercito… l’appello alla coscienza rivoluzionaria delle masse contro i capi traditori… l’agitazione in favore delle Repubbliche tedesca, russa, polacca.

Il testo fu adottato con pochi emendamenti o meglio aggiunte:
1. Un attacco al cosiddetto «centro» che aveva capitolato di fronte agli opportunisti, e doveva essere tenuto fuori dalla nuova Internazionale. Forse questo diretto colpo a Kautsky non uscì dalla penna di Lenin.
2. Un riconoscimento che non tutti i lavoratori erano stati preda della febbre di guerra, ma in molti casi si erano dimostrati ostili allo sciovinismo e all’opportunismo. Tale aggiunta fu forse dovuta alle notizie di quei paesi ove parte del movimento era sulla buona via (Serbia, Italia, Inghilterra, alcuni gruppi greci, bulgari, ecc.).
3. Un’aggiunta sulla Russia che Wolfe trova di indubbia fonte Leniniana in quanto costituisce «una caratteristica formulazione delle esigenze e delle parole d’ordine di una rivoluzione democratica in Russia». E l’abbiamo voluta porre qui perché ci riporta sul filone conduttore del nostro tema:
«Lotta contro la monarchia zarista e lo sciovinismo grande-russo, panslavista; propaganda per l’emancipazione e l’autodecisione dei popoli oppressi dalla Russia, con le parole d’ordine immediate: repubblica democratica, confisca delle terre dei grandi proprietari fondiari, giornata lavorativa di otto ore»[4]

Poche settimane dopo lo scoppio della guerra del 1914 la prospettiva dei marxisti rivoluzionari è dunque chiara.

In Europa: liquidazione della Seconda Internazionale e fondazione della Terza.

In Europa: lotta per liquidare la guerra non con la pace ma con l’abbattimento del dominio capitalistico di classe (rivoluzione socialista), previo rovesciamento di tutte le dinastie.

In Russia: perdita della guerra, fine dello zarismo, rivoluzione democratica con misure radicali. Passaggio a una rivoluzione socialista solo insieme a una simile rivoluzione europea[5].

4 – Niente «teoria nuova»

Questo ciclo viene raccontato nella ufficiale, stalinista «Storia del partito bolscevico» in modo da concludere al formarsi da parte di Lenin, e dinanzi al crollo del movimento europeo nell’opportunismo, di una «teoria nuova», che sarebbe quella della rivoluzione in un solo paese. Viene quindi in questo senso e a questo fine rivendicata l’adesione a tutta la inesausta crociata di Lenin contro i social-patrioti di ogni riva:
«Tale la concezione teorica e tattica dei bolscevichi nelle questioni della guerra, della pace e della rivoluzione»[6].
È invece evidente che, sotto pretesti più speciosi di quelli dei Guesde e dei Kautsky, le consegne clamorosamente date ai partiti comunisti nella seconda guerra mondiale, buttandoli tutti su un fronte in combutta con le borghesie, non hanno lasciato pietra su pietra della teoria di Lenin per la guerra, per la pace, e per la rivoluzione, in quanto essa non era che la «vecchia teoria» di Marx che i traditori del 1914 avevano analogamente dilaniata, e che Lenin a loro vergogna aveva gloriosamente riedificata. Che altro è la vittoria del paese retrogrado di Guesde a Bruxelles, se non l’eterna menzogna della deprecata vittoria dei fascisti sulla Francia o l’Inghilterra?

La falsificazione d’ufficio fa leva su due articoli di Lenin del 1915 e 1916. Quello del 1915 ha il titolo «Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti di Europa». Lenin fa molte riserve su questa consegna, giustissime. Essa stava nelle sette tesi nella forma: Stati Uniti repubblicani di Europa, coordinata alla rivendicazione delle repubbliche di Russia, Germania e Polonia. (Oggi tutte fatte, ma quando ci aggiungeremo quella inglese?). Poi giustamente il partito decise di soprassedere a questa parola politica, che poteva dar luogo a malintesi. Secondo Lenin gli Stati Uniti d’Europa fra Stati capitalistici (non solo dinastici) sono una formula inammissibile: ma ciò non perché formula ancora pre-socialista e solo democratica, in quanto tali rivendicazioni possono essere utili, ma perché nella specie un tale organismo sarebbe reazionario. Ottima e profetica opinione sulle varie federazioni e leghe europee oggi propugnate da tutte le parti, anche staliniste.
«In regime capitalistico gli Stati Uniti di Europa equivalgono ad un accordo per la spartizione delle colonie»[7].

Si scusi l’insistere nella digressione. Oggi sarebbero stati secondi di quelli di America, che hanno in quella spartizione ormai il posto del leone. Ma ciò non rende che più «aut impossibile aut reazionaria» la formula federeuropea.

O contro l’America, come li vedeva Lenin nel 1915, o sotto l’America come oggi li avanzano (e magari sotto la Russia, o sotto una loro intesa) gli Stati Uniti d’Europa non si formerebbero che contro le colonie e contro il socialismo.

Per noi, dice Lenin chiaramente, è più rivoluzionaria la situazione della guerra che quella del federalismo europeo (altro che aver adottata tutta la teoria, ecc., ecc., da parte delle citate sacrestie!).

La nostra parola sarebbe Stati Uniti del mondo, Lenin dice. Ma non ci conviene neppure questa, prima perché coincide col socialismo,
«in secondo luogo perché potrebbe generare l’opinione errata dell’impossibilità della vittoria del socialismo in un solo paese e una concezione errata dei rapporti di tale paese con gli altri».

E qui che li vogliamo, quei signori. E il periodo successivo a questo che la storia ufficiale invoca:
«L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo dapprima in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico preso separatamente. Il proletariato vittorioso di questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata la produzione socialista, si ergerebbe contro il resto del mondo capitalistico attirando a sé le classi oppresse degli altri paesi [qui finisce la citazione degli alleatoni di Roosevelt, e prima di Hitler, dei castratori della rivoluzione e del pensiero di Lenin; ma noi seguitiamo] infiammandole ad insorgere contro i capitalisti, intervenendo, in caso di necessità, anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici e i loro Stati»[8].

5 – Le rivoluzioni simultanee?

L’altra citazione di cui il testo indicato vuol fare stato è di un articolo dell’autunno 1916: «Il programma militare della rivoluzione proletaria» in cui è trattata apertamente l’ipotesi di un paese capitalistico in cui ha vinto il proletariato, che conduca una guerra contro paesi rimasti borghesi, e vi porti la rivoluzione. Un tema che più volte abbiamo fatto nostro, e che soprattutto sta a mille miglia dalle formidabili buffonate della «coesistenza pacifica», della «emulazione» e della «difesa contro l’aggressione», in quanto quella guerra sarebbe guerra di classe, di squisita aggressione, e soprattutto di non dissimulata dichiarazione al proletariato del mondo di altro non attendere che il momento in cui sia possibile attaccare la fortezza dello sfruttamento capitalistico.

Il volgare trucco sta nel passare dall’una all’altra di queste tesi: conquista del potere politico in un solo paese – costruzione del socialismo in un solo paese capitalistico dove si sia conquistato il potere – costruzione del socialismo nella sola Russia. Ed è quest’ultima cosa che sosteniamo appartenere al regno dei sogni, come i fatti economici palpabili – nella seconda parte di questo rapporto – ci ripeteranno.

Ecco la gran balla, che vuole giustificare la nuova teoria (per poi cacciarsela, nuova o vecchia che sia, sotto le piote). «Questa teoria differiva radicalmente dalla concezione diffusa tra i marxisti nel periodo del capitalismo pre-imperialistico, allorché i marxisti ritenevano che il socialismo non avrebbe potuto vincere in un solo paese ma avrebbe trionfato contemporaneamente in tutti i paesi civili». E poi: Lenin distruggeva, ecc.[9].

Questa non è che una favola fabbricata parola per parola e di cui Lenin non si è mai occupato. Chi mai ha creduto a questa storia del socialismo simultaneo in tutti i paesi? Né i sinistri, né a maggior ragione i destri del marxismo. E i paesi civili, quali sarebbero poi stati? La Russia certo no, ma la Francia, l’Inghilterra, l’America. E la Germania? A sentire i collitorti del 1914, quelli del 1941, e quelli di oggi che per colpire la comunità europea di difesa rialzano questo abusato spauracchio del tedescone in armi, la Germania è più incivile… dell’Ottentozia!

Prima tuttavia di continuare a disperdere l’equivoco centrale che anima tutto il racconto della storia proletaria ad usum Kremlini, occorre fare un’osservazione. Questo preteso dualismo tra due teorie, la vecchia e la nuova, l’una sorta dalla situazione del capitalismo pre-imperialista e seguita, con relativa tattica, dalla Seconda Internazionale, e l’altra che sarebbe stata scoperta e instaurata da Lenin, sulle esperienze della fase (tappa) imperialista più recente, non è solo la stimmata propria dell’opportunismo stalinista.

Lo stesso opportunismo della II Internazionale viveva di una pomposa (e schifosa) nuova teoria: quella che si vantava di aver fatto giustizia di un Marx quarantottesco e catastrofico, autoritario e terrorista, e che aveva infatti modellato, in luogo dell’ispido corrusco «red terror doctor», il molto onorevole parlamentare socialdemocratico in tuba e sciammeria (vedemmo di tali insetti perfino a Mosca), schifante il partito di classe e corteggiante i sindacati economici panciafichisti e gradualisti, pompiere di ogni azione delle masse, e finalmente, tra i furori bianchi di Vladimiro Ulianov, nonché di noi ultimi fessi, votatore dei crediti per il massacro imperialista. Era la teoria revisionista di Bernstein e soci, e cantava l’eterno motivo puttanesco: quei tem-pi so-no pas-sa-ti…

Orbene, la stessa vecchia storia della vecchia teoria ottocento di barbon Carlo, e della nuova teoria novecento che si osa affibbiare a Lenin, ma è patrimonio di uno scimmiesco esercito di mandrilli retrospelati che osano farfugliarne il nome, è propria di tanti gruppetti che stalinisti non si dicono, perché non si accorgono di esserlo, e che – come tante volte staffilammo – si danno a ricarenare la barca della rivoluzione, che avrebbe dato in secco perché non c’erano loro, poveri cercopitechi, a disegnare la nuova teoria, forti di quello che Marx non seppe, e Lenin cominciò appena a compitare; di tanti gruppetti che ad ogni tanto in una paurosa «bouillabaisse» di dottrine o di masturbate letture annunziano di darsi a «ricostruire il partito di classe». Lasciamo questi messeri alle loro esercitazioni (che falliscono soprattutto a quello scopo in cui è l’uzzolo misero che li muove, fare del rumore) e torniamo alla manipolazione cremlinesca.

6 – Abbasso il disarmo!

L’altro apporto alla teoria della «rivoluzione in un solo paese» è tratto da quelli del concilio di Mosca da altro articolo, dell’autunno del 1916, che tratta altro tema: cioè batte in breccia, come aveva fatto l’altro del '15 per gli Stati Uniti d’Europa, un’altra «parola» che gli elementi di sinistra del movimento socialista durante la guerra, e in ispecie quelli dell’Internazionale Giovanile Socialista, andavano lanciando in opposizione al social-sciovinismo: quella per il disarmo. È un possente attacco al pacifismo, coerente in Lenin, coerente attraverso i decenni nella «vecchia teoria» di Marx, inseparabile dalla disperata difesa dei marxisti radicali in tutti i tempi contro il pietismo filantropico-umanitario di radicali piccolo-borghesi e di libertari anche, contro le visioni gradualiste del riformismo fine ottocento, che in una general vespasiana di corporativismo bonzesco ed elettoralismo democratico voleva affogare forza, violenza, dittatura, guerra degli Stati e guerra delle classi, sozza veduta che sta agli antipodi del marxismo integrale ed originario, vendicato dalle mirabili mani dei cucitori di toppe. Da riproporsi oggi contro i raccoglitori di firme, in faccia ai banditori della crociata della pennina contro il cannone e il missile atomico[10].

Dall’articolo «Il programma militare della rivoluzione proletaria», che nelle nostre esposizioni (che nulla inventano o scoprono, ma solo ripropongono il materiale storico, dotazione del movimento anonimo ed eterno, nei quadri e nei cicli precisi del suo sviluppo) trova il suo giusto impiego, ecco il brano che fa comodo agli ufficiali:
«Lo sviluppo del capitalismo avviene nei diversi paesi in modo estremamente ineguale. E non potrebbe essere diversamente in regime di produzione mercantile [applica et fac saponem!…]. Di qui, l’inevitabile conclusione: il socialismo non può vincere simultaneamente in tutti [corsivo di Lenin] i paesi. Vincerà dapprima in uno o in alcuni paesi, mentre gli altri rimarranno, per un certo periodo, paesi borghesi e preborghesi.
Questo fatto provocherà non solo attriti, ma anche l’aperta tendenza della borghesia degli altri paesi a schiacciare il proletariato vittorioso dello Stato socialista. In tali casi la guerra da parte nostra sarebbe legittima e giusta. Sarebbe una guerra per il socialismo, per l’emancipazione degli altri popoli dall’oppressione della borghesia«
.

Passo che è tutto oro colato. Ma lo sono anche le frasi che precedono:
«La vittoria del socialismo in un solo paese non esclude affatto, e di colpo, tutte le guerre. Al contrario le presuppone».

Altro che pretendere, come fanno gli stalinisti, di essere in un paese socialista, e quindi preparare la pace universale! Sono in un paese borghese, il loro pacifismo è farisaico quanto quello borghese anti-1914, poi anti-1939, ed oggi anti-terza guerra (1970?). Farà la stessa fine.

E poi vi sono le frasi immediatamente successive.
«Engels aveva perfettamente ragione quando, nella sua lettera a Kautsky del 12 settembre 1882, riconosceva categoricamente la possibilità di «guerre difensive» del socialismo già vittorioso. Egli alludeva appunto alla difesa del proletariato vittorioso contro la borghesia degli altri paesi»[11].
Poveri miei chierichetti! Proprio negli scritti cui fanno ricorso per mostrarci Lenin che partorisce la nuova teoria, questi, con l’abituale limpida condotta del ragionamento, mostra che quanto egli va dicendo era ben noto ai marxisti «del secondo periodo pre-imperialistico»; ossia ben 38 anni prima; e certo non era noto ad Engels perché se lo fosse sognato quella notte autunnale, ma in quanto si rifaceva all’abc del marxismo partorito dalla storia in sul 1840.

A noi interessa l’inquadratura storica e tutta la costruzione dell’articolo. Non potendolo tutto riprodurre ne diamo il possente scheletro.

7 – Giovanili esuberanze

Lenin era stato colpito dalle tesi di Grimm nella Jugend-Internationale. Nei programmi minimi dei vecchi partiti era inserita la voce: milizia di popolo, armamento del popolo. La guerra aveva reso di attualità questo problema: è noto che i sindacati anarcoidi sostenevano la tesi «rifiuto al servizio»: loro esponente al congresso internazionale di Stoccarda nel 1907 era stato Hervé che aveva sostenuta la giusta tesi dello sciopero generale con un discorso sconnesso teoricamente (giudizio dello stesso Lenin). Orbene i giovani marxisti di sinistra proponevano di sostituire alla parola: armamento del popolo, quella: disarmo. Lenin si oppose.

Vogliamo ricordare che anche nella gioventù socialista italiana in quegli anni fu discusso a fondo e non solo teoricamente ma anche in famosi processi il problema antimilitarista. Si condannò come prettamente borghese la posizione individualista idealista: Io sono contro lo spargimento di sangue e non prendo il fucile. Quando la questione verteva sull’entrata dell’Italia in guerra, affermammo che nel dirci neutralisti si presentava male la nostra posizione rivoluzionaria: noi non ci ponevamo come traguardo la «neutralità» dello Stato borghese, e nemmeno il suo compito di mediatore, e di propugnatore della assurda idea: disarmo universale, tanto borghese quanto quella del disarmo individuale. In pace o in guerra dicemmo (a nostra vergogna, Lenin non lo conoscevamo nemmeno): Siamo nemici dello Stato borghese: dopo la mobilitazione, quali che le forze nostre possano essere, non gli offriremo neutralità, non disarmeremo la lotta di classe, tenteremo di sgarottarlo.

Miei bravi giovani, Lenin dice, voi volete rivendicare il disarmo totale perché questa è la più chiara, decisa, conseguente espressione della lotta contro qualsiasi militarismo e qualsiasi guerra. Ma è qui che sbagliate. Questa premessa è idealistica, metafisica, non ha a che fare con noi: essere contro la guerra per noi è un punto di arrivo fondamentale, ma non un punto di partenza. La stessa abolizione della guerra è parola non nostra. La guerra è uno dei fatti storici che segnano le tappe del ciclo capitalista nella sua salita e discesa: abolire la guerra per fortuna non vuoi dire nulla, se no vorrebbe dire fermare quel ciclo prima che giunga la soluzione rivoluzionaria. Ma queste sono frasi nostre. Lenin va – talvolta un poco troppo – per il concreto. Egli spiega in quali casi non siamo contro le guerre.

In primo luogo espone le guerre rivoluzionarie borghesi sostenute dai marxisti. Ci rimettiamo alle nostre lunghe trattazioni del tema[12]. La tesi che nel campo Europa tali guerre sono finite col 1871, quando Marx lo sentenziò con la formula «ormai tutti gli eserciti nazionali sono confederati contro il proletariato», è dal Grimm sostituita con l’altra «evidentemente falsa»: in quest'epoca di sfrenato imperialismo nessuna guerra nazionale è più possibile. Lenin avrebbe siglata la tesi se vi fossero state aggiunte le parole: nel campo europeo, tra le potenze europee, schiaffeggiando profeticamente la «liberazione nazionale» francese o italiana apologizzata nel 1945. Ma qui contrappone la piena possibilità – ancora attuale – di guerre nazionali extraeuropee, in Asia, in Oriente.

In secondo luogo le guerre civili sono guerre e non finiranno che con la divisione della società in classi: altro strappo alle famose «qualsiasi» guerre.

Infine Lenin cita la guerra rivoluzionaria non più borghese ma socialista di domani. Tre tipi dunque di guerre giuste, ossia che noi possiamo dover appoggiare. Secondo Lenin, ecco la giusta formulazione:
«La parola d’ordine e l’accettazione della difesa della patria nella guerra imperialista del 1914–16 sono soltanto una forma di corruzione del movimento operaio mediante la menzogna borghese».
Questa risposta, egli dice, colpisce gli opportunisti più che ogni platonica parola per il disarmo o contro ogni difesa della patria. Egli propone di aggiungere che ormai qualsiasi guerra di queste potenze: Inghilterra, Francia, Germania, Austria, Russia, Italia, Giappone, Stati Uniti, non può che essere reazionaria, e in essa il proletariato deve lavorare alla sconfitta del «suo» governo, approfittandone per scatenare l’insurrezione rivoluzionaria[13].

Questa teoria è incardinata sul radicato anti-pacifismo di Marx ed Engels. Quale sarebbe, staliniani, la teoria nuova? Forse l’epoca del pieno imperialismo era nel 1939 chiusa? E si doveva invece difendere la patria prima in Germania ed Austria, sfottendola altrove – poi in Francia, Inghilterra, Italia, per salvarle dalla Germania? Evidentemente qui è di bisogno la terza teoria, poi la quarta e via senza fine; ma gira sempre quel disco che vi piace tanto: i tem-pi so-no mu-ta-ti…

Ma è l’opportunismo che pute sempre al modo stesso.

8 – Operaio e fucile

Poiché si tratta del movimento dei giovani, Lenin dopo aver detto che non si deve includere la consegna del disarmo, ma sostituire quella della milizia di popolo con quella di milizia proletaria, rileva la necessità della preparazione tecnica militare ai fini insurrezionali, altro punto su cui da vari decenni si batte, se pure ne abbiamo purtroppo viste le applicazioni solo al puro purissimo servigio di ideologie borghesi, in movimenti illegali sì ma promananti da Stati ed eserciti borghesi. Lenin ricorda perfino l’armamento delle donne del proletariato. «Come reagiranno le donne proletarie? Si limiteranno a maledire ogni guerra e tutto ciò che è inerente alla guerra, rivendicando il disarmo? Mai le donne di una classe oppressa veramente rivoluzionaria accetteranno una funzione così vergognosa. Esse diranno ai loro figli: ‹Presto sarai cresciuto. Ti daranno un fucile. Prendilo e impara a maneggiar bene le armi. E una scienza necessaria ai proletari: no, non per sparare sui tuoi fratelli, sugli operai degli altri paesi – come accade in questa guerra attuale e come ti consigliano a fare i traditori del socialismo – bensì per combattere contro la borghesia del tuo paese, per mettere fine allo sfruttamento, alla miseria e alle guerre, non con le pie intenzioni, ma piegando la borghesia e disarmandola›»[14].

Questo discorso gli stalinisti non lo possono citare. Le donne le invitano appunto a formulare pii desideri; tanto pii, che invocano ad esempio massimo di disarmatore proprio Pio (lui, a petto di tal gentaccia, rispettabile) Dodicesimo.

Al fine di far capire ai giovani quella dialettica, che tanti dalle bianche chiome non ce la fanno ancora a smaltire, Lenin persegue la sua tesi fino a lasciare in piedi – teoricamente – l’espressione difesa della patria e guerra di difesa. Bisogna saper leggere, in questi casi. Nella letteratura marxista, essendo assodato che la frase «contro tutte le guerre» non si rinviene, essendo propria o di liberali o di libertari, e che deve intervenire una distinzione storica non sempre semplice tra le varie guerre e i diversi tipi di guerra, si era finito tuttavia con l’ereditare, ai fini di tale distinzione, la formula del linguaggio comune: quando si è attaccati ci si difende. Benché si sia lontani le mille miglia dal trasferire sul piano storico, come fanno i filistei, le regolette della morale individuale, si finì col chiamare guerre di difesa le guerre che andavano sostenute ed appoggiate, o almeno non sabotate. E notissimo che il primo Indirizzo della I Internazionale sulla guerra franco-prussiana contiene la frase: Da parte tedesca la guerra è guerra di difesa. Ed infatti era Napoleone III che baldanzosamente aveva sferrato l’attacco. Ma il fatto è che sulla fine di quel ciclo storico interessa a Marx più la rovina di Bonaparte che quella degli odiati prussiani, e Bonaparte (vedi la ricca messe di citazioni) è considerato alleato degli zar: nulla sarebbe cambiato se si fosse mosso Moltke per primo, e il grido non fosse stato: à Berlin! à Berlin!, ma nach Paris, nach Paris![15]

9 – Patria e difesa

Che scrive infatti Lenin, almeno nella sempre ufficiale traduzione in italiano?
«Ammettere ‹la difesa della patria› nella guerra in corso [1916] significa considerarla una guerra ‹giusta›, conforme agli interessi del proletariato – e nulla più, assolutamente nulla, poiché nessuna guerra esclude l’invasione. Sarebbe semplicemente sciocco negare ‹la difesa della patria› da parte dei popoli oppressi nella loro guerra contro le grandi potenze imperialiste, o da parte del proletariato vittorioso nella sua guerra contro un qualsiasi Galliffet di uno Stato borghese» (Galliffet fu il massacratore dei comunardi di Parigi)[16].

Noi, che non cambiamo mai le «proposizioni» o i «teoremi» della teoria, ma talvolta osiamo riordinare l’uso dei simboli, abbiamo messo in corsivo le parole nessuna guerra esclude l’invasione, per rendere evidente la chiosa.

Come non è dialettica la formula: Avversiamo tutte le guerre, così non meno metafisica e borghese è quella: Siamo contro le guerre, a meno che non siano guerre di difesa, e sia minacciato e invaso da un nemico il territorio nazionale, dato che la difesa della patria è sacra a tutti i cittadini di qualunque paese. Questa è appunto la formula dell’opportunismo che spiega come lo stesso giorno i francesi e i tedeschi votino nelle rispettive unanimità per la guerra nazionale. Le parole nessuna guerra esclude l’invasione richiamano un articolo dell’«Avanti!» del 1915 su «Socialismo e difesa nazionale»[17]. Con la formula del dovere della difesa nazionale non si accettano talune guerre, ma proprio qualunque guerra. Sferrato dagli Stati borghesi l’ordine di aprire il fuoco, di qua o di là entrambi i territori sono in pericolo, alle volte uno degli eserciti abbandona per ragioni strategiche il proprio, anche essendo «aggressore», e gli esempi storici sono a iosa. Quindi noi distinguiamo tra guerra e guerra, ed anche se usiamo talvolta i termini popolari (noi invero vorremmo dar loro l’ostracismo) di guerra giusta o difensiva, per designare sbrigativamente una guerra che appoggiamo e di cui crediamo utile il successo al corso rivoluzionario, in realtà ci poniamo solo il problema dialettico storico: questa data guerra interessa il proletariato? È, come Lenin ha ora detto, conforme agli interessi del proletariato? Per la guerra 1914 si risponde: no, da nessuna parte. Ed hanno torto anche i socialisti belgi sebbene sia pacifico trattarsi di un paese neutro aggredito; hanno ragione i bravi compagni della non meno aggredita Serbia.

Ma ad esempio nel 1849 Marx ed Engels appoggiano l’Austria contro la piccola Danimarca, aggredita palesemente, e fanno, come ampiamente mostrato nel rapporto di Trieste sui fattori di razza e nazione, il medesimo per tutte le guerre fino al 1870. Avrebbero appoggiato le invasioni napoleoniche e negato alle guerre tedesche del principio del secolo la natura di guerre giuste, difensive, e perfino di indipendenza, come nella generale idea borghese e piccolo-borghese. Interessava la rivoluzione, allora, che vincesse il primo Napoleone e non la Santa Alleanza.

Comunque è fondamentale sempre in Lenin la preoccupazione che il partito tragga le sue decisioni non dal quadro integrale della nostra completa, complessa, mai seccamente dualistica, veduta della storia che si svolge, ma da una frase formale, che varie volte è una frase borghese. Noi troveremmo più esatto dire non che in dati casi ammettiamo la giustezza della guerra e la patria difesa, ma che davanti alla guerra in dati tempi e luoghi sabotiamo la guerra, in altri difendiamo la guerra. La parola patria è troppo aclassista, e Lenin nelle stesse più diffuse tesi 1916 ben fa propria la frase del «Manifesto» che patria, noi proletari, non ne abbiamo.

Comunque il pericolo di adottare alla leggera parole come quella del disarmo è davvero enorme e significa ripiegamento totale nella ideologia borghese.

10 – Vittoria nel solo paese

Non è stata una digressione inutile – anche se è stata ripetizione di già esposti concetti, tuttavia da martellare soprattutto ai fini di inchiodare che la teoria della guerra e della pace è fissa e immutata dai soliti oltre cent’anni – quella sulla considerazione della guerra generale scoppiata nel 1914, in quanto essa si lega strettamente al tema storico della rivoluzione di Russia, come si premise.

Chiariti i due testi di Lenin incaricati della condanna di due stolide ubbie: gli Stati Uniti in Europa e il disarmo europeo mondiale, torniamo al punto che si è voluto distorcere dagli staliniani: la rivoluzione in un paese solo.

I nostri testi si devono leggere pensando che non nacquero per andare a riempire un certo vuoto in uno scaffale della biblioteca aggiungendo un capitolo in astratto ad una astratta materia e disciplina, ma nel vivo di una polemica che era la sottostruttura storica di una reale battaglia di opposte forze ed interessi. Qui siamo nel vivo dello scontro tra Lenin e i fautori delle guerre. Bisogna seguire il nutrito dialogo che presto diverrà lotta armi alla mano sui più diversi fronti.

I marxisti rivoluzionari dicono: In nessun paese questa guerra può essere appoggiata, niente difesa della guerra, ma in tutti i paesi sabotaggio della guerra e anche della difesa della patria.

Gli opportunisti ed anche i più pericolosi centristi rispondono ipocritamente: Siamo pronti a farlo. Ma alla condizione che con matematica certezza, mentre noi fermiamo alle spalle l’esercito del nostro Stato, sia fermato anche l’altro. Se questa garanzia manca, non faremmo che difendere la guerra del nemico.

E chiaro che una tale obiezione apparentemente logica, afferrabile quanto lo sono tutte le odierne tesi popolari degli sciagurati attivisti che parlano al proletariato, contiene la bancarotta della rivoluzione. Così ad esempio nella guerra con l’Austria si riuscì a impedire, con sovrumani sforzi, che i parlamentari socialisti italiani votassero per i crediti, ma quando avvenne la frana di Caporetto, solo in quanto i borghesi ci fecero l’onore di attribuirla alla nostra propaganda (come tratterebbe un tal problema storico un Togliatti? Direbbe che è infamia far franare il Veneto, gloria la Sicilia? Tanto ad opera sua nulla franò), i nostri onorevoli volevano precipitarsi a votare i fondi per la difesa sul Grappa, e imboccare la via di tedeschi e francesi del 1914. Se fu bene o male averlo impedito non si può dire: certo è che si rivelò a luce meridiana la peste opportunista, che successivamente si dovè trattare a ferro rovente.

Non era Lenin tipo da arrestarsi a tale argomento. Solo un imbecille non è in grado di intendere che occorre che ogni partito rivoluzionario saboti la guerra del proprio Stato, egli disse ripetutamente. In verità la nostra consegna era proprio la più difficile e meno banale, e l’avvenire su questo punto ha molto insegnato sulla impossibilità di procedere sempre con frasi cristalline, e sull’autentica gloria della «oscurità rivoluzionaria» in cui teniamo il gran Carlo a maestro.

Comunque Lenin è qui irriducibile ed egli stesso scrive sulle sue dure dimostrazioni il titolo inequivocabile: controcorrente.

La storia non volle che egli, nella sua grandezza, vedesse venire il pericolo osceno di ripiombare impotenti nel limaccioso fondo della corrente, che sembrava a tutti noi capovolta ma purtroppo non lo era.

Bisogna sabotare la guerra da uno e dall’altro lato del fronte senza la condizione che il sabotaggio sia di pari forza, senza badare se dall’altra parte sia per avventura inesistente. Bisogna egualmente, in una tale situazione, con un esercito nemico che varca lo sguarnito fronte, cercare di liquidare la propria borghesia, il proprio Stato, di prendere il potere, di instaurare la dittatura del proletariato.

Parallelamente con la «fraternizzazione», con l’agitazione internazionale, con tutti i mezzi a disposizione del potere vittorioso, si provocherà il moto ribelle nel paese nemico.

La risposta è facile, da parte del centrismo: Ma se tale moto malgrado tutto fallisce, lo Stato e l’esercito nemico restano efficienti, e vengono ad occupare il paese rivoluzionario per rovesciare lo Stato del proletariato; che farete?

Lenin ebbe per questo due risposte: una sta nella storia della Comune, che non avrebbe esitato, potendo debellare la sbirraglia borghese di Francia, ad accogliere a cannonate anche i prussiani, ma in nessun caso avrebbe abbassata la rossa bandiera della rivoluzione. L’altra risposta ai contorti apologizzatori della guerra borghese, imperialista, controrivoluzionaria, fu appunto: la guerra. La nostra guerra, la guerra rivoluzionaria, la guerra socialista.

Contro lo stesso nemico allora? Allora la stessa guerra da noi difesa?, sogghigna il filisteo contraddittore. No, perché la nuova guerra è guerra di classe, perché non è condotta al fianco dello Stato borghese e del suo stato maggiore, già travolti; perché la sua non sarà vittoria di una coalizione imperialista ma della rivoluzione mondiale.

11 – La carta cambiata

Questo punto storico riguarda la possibilità di una manovra rivoluzionaria dell’Internazionale opposta a quella dei traditori del 1914, come del tutto opposta a quella che fu fatta nel 1939 e 1941.

L’opportunismo è il bill di non-rivoluzione, la tregua di classe interna concessa a tutti i belligeranti, fino a guerra finita.

Mostreremo che è trucco volgare assimilare questo vergognoso, sfacciato espediente di traditori alla pretesa adesione preventiva del movimento ad una teoria che imponesse la «rivoluzione simultanea» in tutti i paesi.

La formula di Lenin è il negato bill, la negata tregua in tutti i paesi in guerra non meno che in pace, la pressione verso l’evento rivoluzionario nella vittoria e nella sconfitta dello Stato, e soprattutto l’utilizzazione rivoluzionaria di questa.

Ovunque il rovescio di guerra ne desse la possibilità il partito proletario doveva prendere il potere: questa avrebbe dovuto essere la politica in Germania, questa in Francia e questa, diciamo subito, in Russia.

La Francia senza la Germania avrebbe dovuto avere un governo socialista; o la Germania senza la Francia. Entrambi tali governi avevano la possibilità di risolute misure anti-capitalistiche e soprattutto di afferrare alla gola gli industriali di guerra, e dovevano subito, dalla parte in cui si era vinto, non disarmare, ma organizzare un esercito rivoluzionario, per fermare quello nemico, per impedire lo jugulamento della propria rivoluzione.

La costruzione del comunismo in Russia, e in generale in un «solo» paese prevalentemente feudale e patriarcale, non ha a che vedere con questa tesi, e non si può poggiare su di essa: è altro paio di maniche.

Che dovevano fare i rivoluzionari in Russia? Perdio, è mille volte detto in tutte lettere: non il socialismo, ma una repubblica democratica. L’ipotesi del socialismo in un solo paese è ovvia, ma si scrive: paese capitalista.

Eccolo: dalla vostra manica, signor baro, l’asso è uscito.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (III)

12 – La inventata teoria

Ci siamo diffusi sulla artificiale antitesi tra due teorie, la «vecchia» e la «nuova», sulle «questioni della guerra, della pace e della rivoluzione» accampata nella Storia (ufficiale) del partito bolscevico edita in Russia.

Autore della nuova teoria sulla «rivoluzione in un solo paese» sarebbe Lenin, mentre la vecchia, propria dei vecchi marxisti, sarebbe quella della «simultanea rivoluzione proletaria in tutti i paesi civili».

Abbiamo detto che tale teoria non è vera né falsa: soltanto, essa è inventata di sana pianta perché nessuno l’ha mai sostenuta. La vecchia teoria coincide con la nuova. Marx ha stabilito questi punti come Lenin li ha rivendicati. I marxisti (escludendo quelli che si dicono tali ma alla rivoluzione non credono) sono stati sempre per l’attacco rivoluzionario anche in un solo paese, quanto a strategia politica, a lotta per la presa del potere.

Quanto alla trasformazione della struttura sociale in socialismo, che con espressione teoricamente non meno falsa delle altre si chiama costruzione del socialismo, e si dovrebbe chiamare distruzione del capitalismo, essa è sempre stata considerata proponibile e possibile anche in un solo paese. Ma sotto due condizioni, di cristallina evidenza da Marx a Lenin. Primo: che il capitalismo in quel paese esista pienamente; secondo: che il proletariato vincitore di quel paese sappia applicare la consegna: non sono venuto a portare la pace, ma la guerra!

Non esiste altra teoria della guerra, della pace e della rivoluzione. Esistono, e ne nasce una ad ogni generazione, nuove teorie, e sono, come quella della Storia moscovita, le teorie della controrivoluzione.

Per dare questa dimostrazione riportiamo ancora il passo che inventa la teoria antica, e inventa l’invenzione di Lenin, sistematicamente degradato da integrale combattente marxista a fantoccio da altare e da monumento.

«Questa teoria [di Lenin, che, come riportammo, ne avrebbe gettato le basi nel 1905 nella sua opera «Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica», a dire del testo che infila altra perla nella collana di gaffes teoriche e storiche: come fondare una nuova teoria per un problema «arretrato» da riferire per la Germania al tempo di Marx giovane, per la Francia a quello di Babeuf? Secondo questi falsari Lenin avrebbe dissertato sul come costruire il socialismo con la rivoluzione democratica, e sarebbe il più straccione degli ultradestri] questa teoria differiva radicalmente dalla concezione diffusa tra i marxisti del periodo pre-imperialista allorché i marxisti ritenevano che il socialismo non avrebbe potuto vincere in un solo paese, ma avrebbe trionfato contemporaneamente in tutti i paesi civili».

Non ripetiamo la critica della definizione civili. Se al posto dell’aggettivo civili vi fosse quello capitalisti (riferito alla struttura economica) o democratici (riferito a quella politica) la formula sarebbe meno priva di senso intrinseco, pur restando parimenti falsa. Quei «marxisti» non sono mai esistiti. Marx era indubbiamente un marxista del periodo pre-imperialista. E con questo? O Marx è fesso e il marxismo fesseria, oppure nel marxismo, teoria nata nel 1840, le leggi della tappa (non periodo) imperialista del capitalismo sono già date. Lenin infatti non le produsse come secreto della sua testa, ma come applicazione delle dottrine del Capitale. Basta leggerlo. Ridimostrò traverso gli eventi della tappa imperialista la nostra teoria del capitale, ridimostrò che paci di Stati e di classi ne vanno escluse e che, come nei primi albori, dominano al chiudersi del ciclo le fiamme della catastrofe sociale e della generale esplosione di violenza.

Fuori i nomi! Marxisti di quel tipo non ne sono esistiti. Andremo oltre: socialisti generici, nemmeno.

13 – Paesi e rivoluzioni

Fin dalla sua forma idealistico-utopistica il socialismo non è pensato come internazionale: nemmeno nazionale! Esso è pensato come socialismo in una sola città, nella Repubblica di Platone, nella Città del Sole di Campanella, nella Utopia (ossia città che non ha luogo) di Moro, nella Icaria di Cabet, nel paese del sovrano assoluto, illuminato tra tutti, dei grandi utopisti francesi, nella fabbrica cooperativa di Owen, nel falansterio di Fourier, e se vogliamo nel monastero medioevale di Benedetto. Questa roba avrebbe Lenin, o babbioni, riportato fuori come «teoria nuova»?

Questo primo ingenuo e nobile socialismo è pensato dai suoi (loro sì) costruttori come atto prima di opinione, poi di volontà, trasmesso al popolo dal sapiente guidatore, o anche dal grande re. E chiaro che nessuno lo subordinerà a coincidenza di queste ondate di illuminazione delle menti in vari paesi al tempo stesso; fin da quando è utopista il socialismo è previsto tra precise frontiere, e nei più suggestivi di questi «progetti» sociali è considerato permanente (questa concezione non è dinamica, ma statica in sé, e salvo i voli di non pochi intelletti geniali, come il poderoso Saint-Simon) il ceto militare, l’esercito stanziale e la difesa del paese eletto contro invidiosi nemici.

Passiamo dall’utopismo al marxismo non per una più fine «ripensatura» del tema, ma per l’effetto del comparire della produzione capitalista. Il marxismo costruisce la sua dottrina e il suo programma soprattutto lavorando sull’Inghilterra. Questo solo, solissimo paese gli dà la trama per provare che l’economia socialista, ad un certo stadio dello sviluppo mercantile-industriale, è non solo possibile e costruttibile, ma è determinatamente necessaria, ad una condizione non più tecnica produttiva ed economica, ma solo storica, cioè che vincoli antichi, rapporti di produzione e proprietà, siano infranti e travolti dalle forze produttive debordanti, non da luminose avanzate dell’opinione.

Quando nascono quindi le tesi sull’economia capitalistica e quelle più generali del materialismo storico, nascono grazie alla dinamica della società inglese del XVII e XVIII secolo.

Il programma socialista nasce non come una profezia del millennio ma come una possibilità in base a condizioni già acquisite, ma in un solo paese: l’Inghilterra in senso stretto, senza Irlanda, ove si attende la borghese rivoluzione agraria, senza la gran parte della Scozia.

All’albore dell’ottocento la Francia è pienamente borghese, ma meno assai capitalistica: la Francia non è un’isola, ma la locomotiva di Europa, il suo compito storico è di estendere ad occidente la fiamma della grande Rivoluzione. Solo tra il 1831 e il 1848 il proletariato inizia le sue epiche lotte, che non sono ancora per costruire socialismo, ma per diffondere la rivoluzione verso oriente: poniamo per audace che sia l’ipotesi che gli operai di Parigi avessero vinto nel 1848; sarebbe stato preminente rispetto al compito di distruggere il capitalismo interno quello di una guerra rivoluzionaria contro la reazione in Europa: ancora in largo senso il problema storico delle «Due Tattiche», non ancora la domanda se è possibile una Francia socialista. Ma ciò per ragioni storiche, che nulla di comune hanno con la stessa necessità di attendere che vi sia trama economica socialista oltre Reno e oltre Danubio o oltre le Alpi.

14 – Alla radice. Manifesto!

Giunti però al maturo 1848 noi abbiamo quello che deridono come «Bibbia dei comunisti»: il «Manifesto» di Marx e di Engels. Il problema della rivoluzione proletaria è già posto in pieno, insuperabilmente: non solo non vi è traccia della rivoluzione simultanea in tutti i paesi, attribuita ai marxisti dei vecchi tempi, ma è evidentemente proposta la rivoluzione socialista anche in un paese solo. Non è solo proposta o ammessa, è contenuta in tutta la poderosa unitaria costruzione, né potrebbe altrimenti essere.

Nei suoi ultimi anni, nel 1893, Federico Engels dettò la prefazione alla edizione italiana del «Manifesto». Ebbene, in questa breve prefazione sono alcuni passi storici, come quello che dice: Il «Manifesto» rende piena giustizia all’azione rivoluzionaria che il capitalismo ebbe nel passato. La prima nazione capitalistica è stata l’Italia. Ed Engels pone il trapasso dal medioevo feudale all’era moderna, al 1300, al tempo di Dante.

Tuttavia, tornando alla situazione del 1848, e nel ricordare come da Milano a Berlino e a Parigi furono gli operai primi sulle barricate in tutta Europa, e nel ribadire questo tratto di «simultaneità» europea della rivoluzione come guerra di tutte le classi, egli aggiunge le significative parole:
«Solo gli operai di Parigi, rovesciando il governo, avevano l’intenzione ben determinata di rovesciare il regime della borghesia. Ma, per quanto essi avessero coscienza dell’antagonismo fatale che esisteva tra la propria classe e la borghesia, né il progresso economico del paese, né lo sviluppo intellettuale delle masse francesi erano giunti al grado che avrebbe resa possibile una ricostruzione sociale. I frutti della rivoluzione furono dunque in ultima analisi raccolti dalla classe capitalista».

Si possono trarre diversi corollari, a parte il solito che abbiamo prima sfiorato della piramidale buaggine della lotta anti-medioevale nell’Italia 1945, o nelle… elezioni siciliane 1955. Errorucci di sei secoli e mezzo. In Sicilia più che ovunque – Palermo di Federico II – fu la prima metropoli borghese.

Nel 1848 Engels pensa che la trasformazione economica socialista non sia possibile nella borghesissima Francia! Egli, che ne aveva tratta la prospettiva sicura da giovanili studi sull’economia inglese!

Dunque la maledetta costruzione del socialismo è stata dai più antichi marxisti vista come cosa di un paese solo, né Lenin doveva scoprirlo nel 1905 o 1914.

Inoltre: fu forse inutile la lotta Parigina socialista del 1848? Mai! Engels dice che lo sfruttamento capitalista della rivoluzione condusse alle formazioni nazionali d’Italia e Germania, ricorda che secondo Marx quelli che avevano abbattuto la rivoluzione del 1848 ne furono esecutori testamentari.

Quindi la nozione del proletariato che lotta per la rivoluzione capitalistica, che deve per essa lottare, che lo dovrebbe se fosse sul punto di scegliere la sua via, anch’essa non è invenzione di Lenin 1905.

Quello che la storia riservò agli operai francesi del 1848, lo riservò agli operai russi del 1917: Lenin lo vide e teorizzò decisamente in anticipo; i fatti storici lo mostrano oggi in luce abbagliante: battersi con sviluppata organizzazione di classe e coscienza socialista di partito in una rivoluzione proletaria, mentre i frutti di tale rivoluzione consistono nell’instaurazione del capitalismo.

Ma richiamiamo il contenuto del «Manifesto» a questo riguardo, per notissimo che esso sia.

15 – Armoniche strutture

Occorre ricordare la «sistematica» del nostro codice storico? Il primo personaggio che viene sulla scena è la borghesia, di cui il peggiore nemico ineguagliabilmente scrive la «chanson de geste». Combatte e scorre il mondo, scuote dalle fondamenta secolari istituzioni, scatena forze immani dell’attività degli uomini, suscita diabolicamente i suoi becchini, i proletari.

Le classiche enunciazioni sulla «organizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito politico», si riferiscono al quadro nazionale del «solo paese». Vi è infatti la nota osservazione: La lotta del proletariato contro la borghesia è anzitutto nazionale, ma piuttosto nella forma che nella sostanza. Il proletariato di un paese deve naturalmente sbarazzarsi prima della propria borghesia.

Questa tesi celebre è più oltre ribadita dalle non meno note frasi, e seguono il passo sugli operai che non hanno patria:
«Poiché il proletariato deve prima conquistarsi il potere politico [i social-traditori leggevano: il suffragio universale!], elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, anch’esso è nazionale, benché non nel senso borghese».

Il senso di tali parole, tanto discusse e falsate allo scoppio della prima conflagrazione, contiene in sé la teoria del potere e dello Stato. La borghesia aveva il traguardo di costruire lo Stato nazionale – il proletariato non ha come fine né la costruzione permanente dello Stato – né quella della nazione, ma, dovendo impugnare l’arma del potere, dello Stato, appunto quando abbia solo ottenuto il crollo della propria borghesia («anzitutto») e del proprio Stato borghese, edifica il suo Stato, la sua dittatura, si costituisce in nazione, ossia difende il suo territorio contro borghesie di fuori, in attesa che a loro volta le rovesci il proletariato.

Quanto perciò fin dalle tavole primarie abbiamo sul tracciato dell’avvento rivoluzionario, sviluppa non come eccezione ma come norma l’ipotesi della vittoria in un solo paese, e la teoria ne esiste dagli albori del marxismo.

Come altrimenti leggere quanto per un secolo i filistei hanno cercato di leggere a rovescio, ossia la parte ulteriore programmatica:
«Il proletariato si servirà del potere politico per strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione in mano allo Stato, ossia al proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per accrescere il più rapidamente possibile la massa delle forze produttive»?

Ciò non è che l’inizio della «trasformazione dell’intero sistema di produzione» e si tratta di «interventi dispotici» e di «misure economicamente insufficienti e insostenibili». Vecchie cose, certo. Ma dobbiamo appunto provare che è vecchia e non nuova teoria quella della presa politica del potere e dell’avvio della trasformazione sociale. Come altrimenti continuerebbe il testo:
«Naturalmente queste misure saranno diverse a seconda dei diversi paesi»?

E ne aggiungerebbe un elenco per i più progrediti all’epoca 1848? E come il capitolo finale tratterebbe nazione per nazione la prospettiva della conquista rivoluzionaria del potere.. se non fondando sul concetto, che tutto guida, che la rivoluzione potrà cominciare in ogni paese ove si sia formato con lo sviluppo produttivo un moderno proletariato, e perfino prima in Germania che in Inghilterra e in Francia, perché ivi incombe la rivoluzione borghese
«con un proletariato molto più sviluppato che non avessero la Francia nel XVIII secolo e l’Inghilterra nel XVII»[18]?

16 – Dal 1848 alla Comune

Dopo la grave sconfitta del 1848 le prospettive della conquista proletaria del potere nei paesi europei si sono allontanate. Nel lungo successivo periodo, Stati e nazioni borghesi si sistemano in una serie di guerre, i partiti proletari non hanno posizioni di primo piano, la politica marxista si orienta verso quelle guerre che conducono alla sconfitta delle riserve reazionarie, a turno Austria, Germania, Francia, e soprattutto e in ogni fase Russia, come tante volte sviluppato.

La nuova sistemazione nasce dal grandioso episodio della Comune di Parigi. Questa volta il proletariato non solo si impegna per rovesciare la borghesia nazionale, ma vi perviene, pur sotto il peso di due forze nemiche, il vincitore esercito prussiano e le forze armate dello Stato borghese divenuto repubblica.

Qui si leva la memorabile analisi di Marx nelle classiche opere: Volevate capire che cosa era la rivoluzione proletaria, la dittatura del proletariato, lo Stato socialista? Eccovi il primo esempio storico: la Comune!

Forse Marx, o uno solo dei marxisti del tempo, nel mettersi a fianco della Comune si è sognato di condannarla per il motivo che, a differenza del 1848, nelle altre capitali di Europa il proletariato non si muove, e tanto meno a Berlino, sicché è palese che l’esercito tedesco in piena forza interverrà contro lo Stato socialista di Parigi, se non basteranno le forze borghesi di Francia?

Non era dunque totalmente in piedi (in piena fase pre-imperialista del capitalismo) ed in piedi essa sola, una teoria della rivoluzione in un solo paese, e dei primi passi, classicamente levati ad esempio da Marx e sulle sue esattissime orme da Lenin, della trasformazione sociale con decreti ed editti famosi?

Quale marxista, anche delle tendenze meno accese, ha sconfessato la Comune o le ha consigliato di cedere le armi, perché o si fa rivoluzione in tutta Europa, o non si fa in Francia?

Vi erano in quel momento due posizioni nella Prima Internazionale, la marxista e la bakuninista; vi sono due «versioni» della Comune, entrambe nel senso di esaltare senza riserve il suo insorgere, il suo breve ciclo di vita, e la gloriosissima caduta, onta e vergogna dei regimi «civili».

Nessuna di queste correnti può riaccostarsi all’inventata teoria della rivoluzione contemporanea in tutta Europa.

Nella visione libertaria la Parigi della Comune non è uno Stato politico, ma risponde al mito del comune locale che nel suo stretto ciclo si libera insorgendo della tirannia statale e dell’oppressione sociale, fondando un’autonoma collettività di liberi ed eguali. È noto perché secondo noi marxisti questo è per non dir peggio un sogno, ma lo ricordiamo per escludere che quest’ala dei socialisti (socialisti anarchici, si diceva) abbia mai creduto nella rivoluzione simultanea: lungi da ciò, essi avrebbero ammessa la rivoluzione nemmeno nazionale, ma cittadina, comunalistica.

Qualche anno dopo combattevano per fondare l’anarchia in Spagna e in qualche sua provincia, sostenendo tortuosamente di non avere eserciti e governi, cadendo sotto l’inesorabile demolizione critica di Engels e Marx.

Quali che ne siano gli errori, nemmeno in questa direzione peschiamo i fautori del: niente rivoluzione, se non in dieci paesi.

Abbiamo poi la versione ortodossa, marxista, della Comune, la versione, a spregio dei manipolatori di frottole, in degno senso Leninista.

La Comune non è solo la municipalità di Parigi assediata due volte; è la Francia, il proletariato francese costituito finalmente in classe, che ha piantato sulle rive della Senna la bandiera della sua costituzione in classe dominante, eretto lo Stato rivoluzionario della nazione francese. Non nazione nel senso borghese e contro la nazione tedesca, ma nel senso che con i suoi cannoni tenta di jugulare il traditore Thiers dal suo seggio di controllo di tutto il territorio francese, e versa per questo obiettivo il generoso sangue della rossa Parigi, anche se sa che, mentre il boia indigeno avanza, l’operaio di Berlino, di Vienna, di Milano non ha imbracciato la carabina. È la teoria che nel fulgore fiammeggiante diventa ardente storia. E diventa patrimonio e contenuto della rivoluzione mondiale, sua vittoriosa conquista, anche dopo il tacere delle ultime scariche contro il muro del Père Lachaise, nella generale coscienza dei marxisti che ben nascerà un giorno da una vittoriosa prima Comune nazionale l’incendio progressivo inarrestabile del mondo del capitale.

17 – Revisionismo socialdemocratico

Furono i nemici odiati di Lenin che dal 1900 fondarono una «nuova teoria» che pretendevano marxista, versione moderna del marxismo; e con ciò prepararono la catastrofe del 1914, che a dire degli intrappolatori di Mosca avrebbe indotto Lenin a rifare tutta la parola marxista su Guerra, Pace e Rivoluzione.

Mentre nel campo operaio Bernstein e tutti gli altri elaborano il riformismo gradualista – a sua volta per nulla nuovo, ma intruglio delle eresie, contro cui Marx bruciò tutta la sua vita, dei socialisti prussiani di Stato, del lassallismo, del social-radicalismo francese, del tradunionismo inglese, e così via – la borghesia elabora la sua teoria della guerra e della pace, rimettendo su il mito del disarmo, dell’arbitrato e della pace universale. Anche questa antica storia e già stritolata dai colpi di maglio di Marx, fin da quando dopo il 1848 ebbe a che fare con la sinistra radicale borghese, Mazzini, Blanc, Garibaldi, Kossuth e simili, di cui ben sappiamo con quale indignazione furente si occupasse.

Il revisionismo legalitario smonta la visione marxista pezzo per pezzo. Ne vengono anzitutto espulsi l’insurrezione, la violenza, le armi, la dittatura: si ammette per breve tempo una denicotinizzata «lotta di classe» che si obbliga a svolgersi nei limiti della legalità statale, con la conquista elettorale dei posti nelle assemblee politiche. Il modello è la socialdemocrazia germanica, mostruosa macchina per elezioni, e si fa basso sfruttamento di una delle ultime frasi di Federico Engels: La sua distanza dal potere si può ormai calcolare dalle statistiche degli ultimi progressivi scrutini. Ma Engels aveva ben detto che, passato un tale traguardo, il capitalismo avrebbe scatenato lui il terrore!

Non dobbiamo ripetere la critica di questa tendenza e della sua prospettiva. Maggioranza alla Camera, governo legale socialista, serie di leggi progressive che attenuano lo sfruttamento proletario e i profitti borghesi, fino ad avviare un graduale mutamento del capitalismo in socialismo: non ci occorre qui ricordare come pian piano in Francia, Belgio e altrove la stessa lotta di classe in forma cartacea fu barattata ammettendo che si potesse dai partiti operai entrare come minoranze in governi borghesi, fondando quello che fu detto ministerialismo, possibilismo, millerandismo. Lo condannò – in pace – la Seconda Internazionale, ma poi gli aprì vergognosamente le porte in guerra, scatenando l’anatema di Lenin. Non sapeva questi che la Terza lo avrebbe ammesso e vantato non solo in guerra ma anche in pace, col motivo solo che facesse comodo a un qualche Nenni.

Sia quel che sia di questa accolta di gentiluomini, si possono nelle loro file scovare quei misteriosi marxisti pre-imperialisti che volevano la conquista del potere il dì stesso in tutti i paesi civili?

Evidentemente se l’ascesa al potere non deriva più da un’azione con le armi e per le strade, da uno sprofondare nel vuoto delle basi del capitalismo, ma solo dal salire della massa dei voti «socialisti», non importa proprio nulla che il dì radioso della chiamata al potere di un premier socialista sia dappertutto lo stesso, anzi è certo e sicuro che avverrà in tempi sfasatissimi e nulla impedirà che convivano dieci regimi, capitalista cento per cento, socialista dieci per cento, venti per cento e così via, sorridendosi, arbitrandosi, disarmandosi, nobelandosi, picassandosi, attraverso le frontiere.

Nemmeno dunque in questo campo troviamo chi sia contro la costruzione del socialismo in un solo paese. Se questo si costruisce pian piano per leggi dello Stato borghese, solo cambiando il partito che ne è alla testa, l’esigenza della simultaneità europea non se la sogna, come non se la sognò, nessuno.

18 – Nuovo solo l’opportunismo

Non Lenin ma proprio i rinnegati che egli flagellò fecero allo svolto dal 1914 la nuova teoria della guerra, della pace e della rivoluzione.

Non lasciarono parola su parola della vecchia teoria, dell’unica teoria di Marx.

Marx diceva che la rivoluzione proletaria avviene con la guerra civile delle classi e il rovesciamento dello Stato – lo negarono.

Marx diceva che la guerra tra gli Stati cesserà solo col cadere del capitalismo e mai con un accordo generale tra gli Stati borghesi. Essi lo negarono.

Marx diceva che la guerra tra Stati capitalisti e precapitalisti può avere un contenuto che interessa il proletariato che deve parteciparvi, ma che nel campo del capitalismo di occidente, dal 1871, tutti gli eserciti sono contro il proletariato e questi è contro tutte le guerre europee e inter-capitaliste. Essi lo negarono nella prima e nella seconda concezione e dissero che in ogni guerra tra due Stati il proletariato deve aiutare il proprio, per poco che sia minacciato di soccombere. Furono pacifisti finché la guerra non v’è, guerristi appena essa scoppia.

Lenin rimise i processi di pace e guerra e rivoluzione al posto in cui sempre il marxismo li aveva tenuti. E, come sempre il marxismo aveva detto, chiese disfattismo e rivolta proletaria ovunque, e anche unilateralmente ed in un solo paese, nel campo e nel corso storico che la guerra civile del 1871 aveva aperto.

Non generò nessuna nuova teoria, ma volle strozzare quella nuova del social-patriottismo.

Quando da questo suo storico e imponente lavoro di restauratore della dottrina non vecchia, ma unica, si volle far sorgere come cosa originale l’ovvia strategia dell’attacco alla borghesia nei campo nazionale anche unilateralmente, enunciata nel «Manifesto» e in tutti i testi marxisti, tra cui quelli sulla Comune, per Lenin basilari e sacrosanti come da cento sue pagine; e quando si tradusse questa non nuova tesi in quella che senza rivoluzione europea poteva aversi in Russia una trasformazione sociale in senso comunista, le occhiute mammane del Cremlino tentarono una vera sostituzione di infante, attribuirono a quello che considerano il Piccolo Padre della rivoluzione in Russia un pestifero bastardo; non ne fecero il distruttore di un’antica teoria di inesistenti vecchi marxisti, ma il distruttore di quella che lui stesso, sulle dorsali del sistema generale, aveva elevata con genialità vera: In una rivoluzione che non si estenda fuori di Russia, il proletariato dovrà prendere il potere, ma per attuarvi la rivoluzione democratica e per favorire con ciò l’avvento e lo sviluppo del sistema capitalistico di produzione, superabile solo con la rivoluzione proletaria vincente in altri paesi d’Europa.

Teoria che Lenin costruì con completezza veramente meravigliosa, di cui vide realizzarsi la verifica, e che mai rinnegò o ritirò.

È inutile insultarlo insinuando, con ardite falsificazioni, che lo abbia fatto, dato che la storia dopo di lui ne ha dimostrato all’evidenza le fasi ulteriori, nell’ordine da lui costruito.

19 – La trasformazione socialista

La questione del passaggio della Russia dalla repubblica controllata non dalla borghesia, ma dal proletariato vincitore, con programma sociale di nazionalizzazione agraria e statizzazione industriale, ad un’economia socialista, non è al suo luogo se posta al momento del problema, del tutto pregiudiziale, di liquidare la guerra. Al momento del crollo della Seconda Internazionale la prospettiva russa – anche fin quando a Lenin non risulta che molti socialisti di varie rive anche lì hanno tradito – non si pone in modo più favorevole di quanto si ponesse nell’anteguerra. Fino al 1914 Lenin fa molto conto sul movimento operaio marxista dei paesi più sviluppati per abbreviare il corso del capitalismo in Russia, che ormai saltare non si può, non si crede più possibile. Ma nel momento in cui la potente socialdemocrazia tedesca con gli altri grossi partiti dei paesi industriali paurosamente rovina nell’opportunismo, diviene più difficile la previsione del succedere alla rivoluzione democratica antizarista russa di una rivoluzione proletaria in paesi europei, su cui possa far leva una meno lontana trasformazione socialista della Russia.

A questo svolto del 1914 abbiamo dunque visto come Lenin nelle sette tesi ricapitola il programma.

In Russia, lavorare in profondità alla disfatta, al crollo dell’esercito e della dinastia. Il programma successivo resta lo stesso: non governare con partiti borghesi e piccolo-borghesi, ma dirigere la repubblica con la dittatura democratica del proletariato e dei contadini. Socialmente una tale repubblica attuerà la nazionalizzazione agraria, le otto ore, la banca di Stato ed altre misure non uscenti ancora dai limiti del capitalismo.

In Europa: lotta per eliminare gli opportunisti, organizzazione di una nuova Internazionale proletaria, nuovi gruppi e partiti che conducano la lotta disfattista contro la guerra. Ovunque sia possibile, tentare la presa del potere politico con la parola della dittatura proletaria affidata al partito comunista.

Solo dopo che la guerra abbia fatto rovinare in parte almeno di Europa il potere borghese, si porrà il problema della trasformazione socialista europea e del suo appoggio all’evoluzione economica e tecnica in Russia.

Quindi il problema di far socialista la sola Russia non si pose nel momento in cui la storia ufficiale assume che sia stato da Lenin e posto per la prima volta e per la prima volta risolto in modo positivo: costruire socialismo in una Russia uscita dal feudalesimo e chiusa tra paesi capitalistici.

Un simile svolto nel pensiero di Lenin bisogna indagarlo dopo, e lo faremo: al momento della caduta dello zarismo, all’arrivo in Russia, alla lotta per il potere al solo partito bolscevico, al periodo successivo alla conquista del potere, a quello delle prime misure economiche e al fondamentale svolto della NEP, anch’essa tanto poco nuova che un simile titolo non fu mai dato da Lenin.

Il solo fatto di avere inventato questa conversione di Lenin fuori del tempo storico e del quadro teorico proprio, anticipandola artatamente, dimostra la falsa posizione che sta alla base di tutta la politica dello Stato russo, quale dopo la morte di Lenin e i noti eventi si enucleò dalla situazione.

20 – Potere ed economia

Come questa questione della trasformazione socialista in rapporto ad una conquista del potere in paese ancora non capitalistico vada posta in linea generale, va meglio chiarito se si vogliono evitare equivoci gravi, e al solito bisogna stare attenti alla distinzione tra l’aspetto economico e quello politico del trapasso tra i vari modi di produzione.

La nostra risoluta difesa della tesi che mai ci aspettammo di vedere in Russia, data la sua struttura sociale e la sua misera economia all’uscita dalla guerra, funzionare l’economia, la produzione e la distribuzione socialiste, può scuotere qualche lettore che vi veda l’eco della posizione opportunista che per anni ed anni fu scagliata a diffamare i bolscevichi.

Secondo il marxismo la trasformazione dell’economia in socialista non si può propriamente avviare se nella struttura di un paese il grande industrialismo, il capitalismo delle grandi aziende, la formazione del generale mercato di scambio, la commercializzazione di tutta la terra e dei suoi prodotti, non sono fatti e caratteri dominanti. Quando queste condizioni sono presenti, la trasformazione non è graduale e spontanea, ma, giusta Marx e Lenin e la sinistra rivoluzionaria, non si apre se non avviene la rivoluzione politica: ossia violento abbattimento dello Stato capitalista, fondazione del nuovo Stato del proletariato, con il partito marxista chiaramente alla testa.

Non basta quindi scatenare questa lotta politica e realizzare questa conquista, per garantire la trasformazione socialista.

Ma, come sarebbe errore il dire che con la semplice azione del colpo sul potere, alla Blanqui, alla putschista, possiamo introdurre il socialismo integrale nella Nuova Guinea, sarebbe errore l’escludere situazioni in cui si debba prendere il potere politico anche ben sapendo che su tale sola base la trasformazione socialista non vi sarà.

Quindi chi avesse detto: Bolscevichi, senza la rivoluzione in Europa non costruirete socialismo, non avrebbe errato. Ma non questo dissero i filistei. Dissero che non potendo assicurare la trasformazione socialista i comunisti avevano il dovere di non prendere il potere, anche avendone, come il fatto provò, le forze; dovevano delegarlo ad altre classi e partiti, o eventualmente sostenere e partecipare remissivi ad un governo provvisorio di Lvov, di Kerenski.

Ma i comunisti russi non risposero che essi avevano voluto – e dovuto – prendere il potere perché era il mezzo per fare la Russia, anche da sola, socialista. Allora non se lo sognarono neppure. Avevano, e proclamarono al mondo, una diversa serie di ragioni storiche, più vaste dei problemi dell’economia russa futura. Non era una gara per amministrare la Russia come se fosse una grande farm o un trust di produzione. Era una gara per cacciare dal potere ed abbattere forze di classe e politiche che indubbiamente avrebbero allontanato maggiormente la futura trasformazione socialista russa e mondiale, che avrebbero resa ancora più dissestata la contingente economia del paese, che avrebbero esposto la Russia al grave pericolo della controrivoluzione, non nel senso di tenervi un Kerenski o un Miljukov, ma in quello di abbandonare il potere a governi reazionari emananti dai paesi imperialisti del gruppo tedesco o di quello anglo-francese, o addirittura dalle risorte forze dello zarismo, che avrebbero rialzato la testa nel compito classico di carabiniere della rivoluzione democratica in Russia, e proletaria nel resto d’Europa.

Il solo partito che avesse di questi sviluppi chiara visione, che potesse fronteggiare quella serie di pericoli, che rendesse evidenti l’impotenza e il tradimento progressivo degli altri tutti, era quello di Lenin: i comunisti di tutti i paesi plaudirono quando prese per sé tutto il potere, lo invitarono a tenerlo saldamente e fecero il loro possibile per opporsi ai colpi dei suoi mille nemici: non gli chiesero di fabbricare socialismo, ma pretesero, meno quelli che erano dei piccoli borghesi sbandati, di far vedere come da socialisti si vivesse.

Questa domanda avrebbe dai russi dovuto venire agli europei. Venne, preceduta da altra chiara richiesta: Buttate giù il capitale, ove è pienamente maturo, prendete il potere, proclamate la dittatura, a compito integrale storico, del proletariato, di lui solo, del partito comunista.

21 – Produzione e politica

Ma se la produzione socialista non è nemmeno alle viste, e bisogna quindi ob torto collo vedere dilagare come nuova la forma capitalista, non è contraddetto il determinismo economico dal fatto che un potere politico socialista poggi su di un’economia non ancora socialista? L’argomento è soltanto capzioso. Anzitutto una vera economia socialista non ha bisogno, una volta uscita dalle forme capitaliste e mercantili, di generare poteri socialisti o meno: anzi li esclude.

Chi si perdesse a questa difficoltà, nulla avrebbe capito della storica grandiosa polemica sulla dittatura. Non diremmo agli anarchici che lo Stato e la violenza dittatoriale ci occorrono dopo il rovesciamento dello Stato borghese, se non potessimo provare che in una situazione tutt’altro che breve negli stessi paesi ultra-industriali il proletariato sarà classe politica dominante, governante, mentre sarà ancora economicamente in larga parte classe sfruttata.

La soprastruttura del modo capitalista di produzione è l’inerzia dell’ideologia e del comportamento sia dei capitalisti sia degli oppressi, che molto lentamente scomparirà, e che il governo rivoluzionario ha il compito di reprimere.

La formula esatta non è che il potere statale sia la soprastruttura che compete al dato modo di produzione (monarchia assoluta per il feudalesimo, repubblica liberale per il capitalismo e via) ma è quella stabilita fin dalle pagine del «Manifesto»: lo Stato è l’organo per il dominio di una classe su di un’altra.

Sono quindi plausibili le due situazioni: Stato capitalista che garantisce il dominio della borghesia sui lavoratori – Stato socialista che pur non avendo che cominciato ad eliminare il modo capitalista di produzione ne assicura la distruzione perché è organo del dominio di forza del proletariato sugli sfruttatori superstiti. A queste situazioni segue la terza: non più classe sfruttatrice né sfruttata, modo socialista di produzione, non più Stato.

Se un modo di produzione, come il russo, è per la parte maggiore feudale con poche punte di capitalismo, la storia ha realizzato il caso in cui il controllo e dominio di uno Stato tenuto dai soli proletari è dedito ad estirpare in pieno il modo feudale e non attacca ancora quello capitalista; e non è possibile segnare limiti a tale periodo di congiuntura, determinato dalle influenze di tutte le diverse strutture produttive nei vari paesi di un complesso campo.

Pare evidente che un tale periodo non possa essere indefinito, e del resto il limite fu posto e da Marx e da Lenin: era il tempo di estensione dalla rivoluzione impura russa ad una pura europea, che entrambi pensarono più breve.

I partiti componenti di una stessa Internazionale possono storicamente avere in mano da una parte una rivoluzione impura, da altre una rivoluzione pura (socialista sviluppata) o soltanto l’azione rivoluzionaria contro i poteri borghesi ancora non caduti. Questo rapporto di forze deve giungere ad una rottura di equilibri: vi giunse, a pro della controrivoluzione.

22 – Infamia e filistei

Ma è veramente troppo essere scossi dalle obiezioni al comunismo russo con infinita ipocrisia travestite da accuse di violazione del marxismo. Gridarono ingiusta e feroce la dittatura terrorista dei bolscevichi col pretesto teorico che la stessa non aveva la possibilità di sradicare ogni rapporto borghese. Ma quanto, se l’avesse avuta, avrebbero strillato più forte!

In realtà gli scandalizzati della dittatura comunista in Russia erano quelli che si scandalizzavano, alla testa di essi il rinnegato Kautsky, che la volessimo applicare in Europa, pronta alla rapida trasformazione socialista.

In realtà gli argomenti non vertevano sui lati negativi e sulla arretratezza dell’economia di Russia, ma sulla sporca soggezione ad ideologie borghesi, a limiti di origine borghese che il proletariato avrebbe dovuto autoimporsi. Si diceva doversi attendere una vera fioritura di capitalismo, perché allora il numero degli operai sarebbe stato tale che la via della persuasione e dell’idillio di classe avrebbe condotto alla vittoria senza violenza. Era quindi in nome non della fretta di giungere alla società socialista, ma del «valore assoluto» del principio democratico e dell’idealismo borghese, che si pretendeva che i bolscevichi si fossero fermati nello spezzare le reni ai partiti che avevano, ad esempio, più voti di loro nell’assemblea costituente «liberamente eletta».

Ora i bolscevichi sarebbero per un tempo molto più lungo – ma non certo i decenni e decenni – restati con le carte marxiste in regola a tenere il potere in Russia, pur non potendo fondarvi socialismo, a condizione che avessero seguitato a dichiararlo come sempre Lenin lo aveva senza infingimenti proclamato.

Ma cento volte le ebbero in regola quando con successive ondate di genuina azione rivoluzionaria stroncarono le forze della controrivoluzione aperta e imbavagliarono i miagolii ignobili dei disfattisti.

Perché non solo impedirono che esista oggi una situazione ancora più sfavorevole e controrivoluzionaria, ma ribadirono l’insegnamento che le prediche e gli scongiuri ingannevoli dei pregiudizi borghesi non devono avere la forza di fermare la mano del proletariato levatosi in piedi; che la forza materiale non deve subire, prima dell’inesorabile impiego, la censura di un avversario fellone, che avendoci nelle mani non si porrebbe per un momento il problema della rinunzia al potere e della pietà per una persona umana, che la propria non sia.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (IV)

23 – Ritorno al 1914

Ripetiamo che non è stata una disgressione, ma un anticipo del tema, la trattazione [che ha compreso i paragrafi da 4 a 22 di questa parte I] sulla falsificazione centrale di quella Storia del Partito Bolscevico che, apparsa anonima, come Trotsky ricorda, e poi stampata con una collettività di autori, è stata infine inserita nella raccolta dell’Opera omnia di Giuseppe Stalin.

Per dimostrare, come ci proponiamo, che in Russia non vi è che struttura capitalistica, e non socialistica, era importante far vedere da quando si è tentato lo scambio tra la tesi (non certo nuova teoria) di Lenin sulla trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, e quella, di paternità del solo Stalin, e falsa, della costruzione del socialismo nella sola Russia.

In tale esposizione ricordammo che Lenin aveva saputo che alla Duma russa i bolscevichi e i menscevichi, e gli stessi socialisti rivoluzionari, avevano protestato contro la guerra e votato contro i crediti.

Lo credeva Lenin nel settembre 1914, o nell’agosto, quando scrisse le sette tesi; ma non era così.

I menscevichi, e tra essi Čcheidze e l’ex maestro dei bolscevichi Plechanov, sono i capi, alla Duma e nell’emigrazione, dei «difesisti», le cui file comprendono però anche dei non «liquidatori». Il gruppo dei deputati operai bolscevichi è contro la guerra: e presto viene arrestato e deportato; ma sono anche contro la guerra vari menscevichi, tra cui Martov. Nelle stesse organizzazioni dei bolscevichi e nei gruppi esteri vi furono oscillazioni gravi, e così tra i deportati in Siberia: molto si discute sul contegno di Stalin, per lo meno assai riservato, finché non giunsero molto dopo notizie del parere di Lenin. Capo vigoroso dei disfattisti fu Spandarian, prima di ogni collegamento con l’estero.

A loro volta i socialisti rivoluzionari si divisero: contro la guerra Černov alla testa di un piccolo gruppo, a favore Avksentiev, Bunakov e molti altri che formarono un gruppo «Oltre confine». Tutti costoro, come Plechanov, come Pietro Kropotkin, come Čcheidze, ecc., dichiararono che la guerra ai tedeschi era giusta, difensiva e santa, e invitarono a sospendere ogni azione contro il governo e la dinastia dello zar. Nemmeno tuttavia Čcheidze e Kerenski ebbero la sfrontatezza di votare a favore dei crediti di guerra.

24 – Sovversione delle «tendenze»?

Anche all’obiettivo Wolfe, non troppo ortodosso in linea teorica, piace insistere sul fatto per noi non molto significativo, che la divisione tra difesisti e disfattisti nel 1914 non venne a coincidere con quella tra revisionisti-riformisti e marxisti ortodossi radicali. Al noto caso di Kautsky egli contrappone Carlo Liebknecht, che era un «bernsteiniano di sinistra», mentre poi Bernstein stesso fu tra i primi a deplorare l’abbandono della «vecchia tattica marxista» (qui ben detto) del voto contro i crediti di guerra. Ma sciovinisti furono una nota serie di ortodossi tedeschi: Parvus, Lensch, Cunow, Haenisch. In Inghilterra i destrissimi leaders laburisti Snowden e MacDonald votarono contro i crediti; a favore Hyndman, leader (nel testo di Wolfe) della ortodossa «Social Democratic Federation». Il «British Socialist Party», che non aveva suoi parlamentari, fu decisamente contro la guerra imperialista.

Chiuderemo l’inesauribile argomento dei socialisti davanti alla guerra con la frecciata di Wolfe:
«Imolli[traducendo così modernamente il termine «softminded»] umanitari inclinarono al pacifismo, mentre moltiduri[toughminded]materialisti storici› [li virgoletta Wolfe, chiaro idealista storico] si gettarono nella guerra corpo ed anima»[19].

Affatto toccati! Wolfe non ci ha messo in lista Mussolini. Gli avremmo detto che era un idealista illuso, o auto-suggestionato, di seguire il materialismo rivoluzionario. Un idealista non è né un marxista radicale né un marxista riformista. È solo uno fuori della nostra via. Storicamente Gramsci ci aiutò a cacciare, con mille ragioni, Turati. Teoricamente però, ed è sempre un male quando lo si tace, ortodossia ne aveva meno Gramsci che Turati.

Gli indirizzi interessano: le persone e i loro nomi aiutano solo ad una mnemonica didattica; forse sarà anche un poco colpa nostra se se ne fa indigestione. Abbiamo voluto fare la storia della lotta tra difesismo e disfattismo. Essa era indispensabile per passare all’altra antitesi tra «unicostruzionismo» e… comunismo. Social-sciovinismo e cominformismo non sono una lettura della teoria comunista; ne sono alcune delle tante vie di abbandono. Pessimo viaggio, messeri.

Comunque, quello che non è destro né sinistro è il metodo storico del Cremlino, storicismo reclamistico. Tutto il partito bolscevico fu in blocco contro la guerra. Mentre di fatto il processo dei deputati alla Duma, arrestati con Kamenev andò male, e si fecero dichiarazioni equivoche, suscitando l’ira dei valorosi compagni Spandarian e Sverdlov (morti entrambi senza essere tocchi da diffamazione, e senza disonorarsi) la Storia bolla a fuoco il solo Kamenev. Kamenev infatti dirigeva il gruppo della Duma, e non evitò che questo il 25 luglio presentasse con i menscevichi una dichiarazione incerta, che parlava di difendere il popolo contro ogni oppressione interna ed esterna. Lenin non lo seppe: ma era ben chiara la gravità, immensamente maggiore, di ogni atto di solidarietà anche vaga con la difesa bellica nella Russia autocratica, rispetto ai paesi occidentali.

Il fatto storico, tuttavia, che tutti i partiti borghesi e piccolo-borghesi danno tregua allo zar appena egli scende in guerra, non è che altra prova della costruzione storica di Lenin: è il solo proletariato che potrà in Russia rovesciare lo zarismo e il feudalismo, fare lui quella non sua rivoluzione. Nel febbraio 1915 la Duma accoglieva l’ukase di scioglimento a lunga data con urrà alla vittoria delle armi imperiali!

25 – Prime vicende della guerra

I capi capitalisti delle nazioni democratiche si tenevano sicuri che il rullo compressore moscovita, tante volte giunto sotto le mura delle città di occidente a stroncare le rivoluzioni, si sarebbe mosso inesorabile allentando la morsa delle armate tedesche che scendevano verso Parigi. Ma quella macchina militare non si provava da molti decenni sui campi di occidente, la tecnica moderna aveva trasformato la guerra e i suoi mezzi, le grandi riserve di uomini, le masse di cavalieri non contavano più, e i prestiti dei banchieri francesi e di altre nazioni erano stati consumati allegramente ma senza grandi risultati nel senso del moderno armamento.

I germanici staccarono pochi corpi dal fronte ovest per riportarli, col loro solito vantaggio delle linee interne, verso la Prussia orientale, ma prima che giungessero sul fronte russo già l’armata di Samsonov era stata schiacciata con perdite colossali dalla manovra geniale di Hindenburg ai laghi Masuri, e dalla superiore organizzazione bellica tedesca. Borghesi di Francia e di Russia si scambiarono tuttavia complimenti per questo alleggerimento della pressione su Parigi, analogo del resto a quello ottenuto dai russi di Stalingrado coi grandi massacri della seconda guerra mondiale.

I vecchi ricordano una vignetta di Scalarini sull’«Avanti!»: le grinfie di Nicola tese su Berlino, quelle di Guglielmone su Parigi. I Masuri e la Marna capovolsero tutto.

Mentre in Russia si spegneva l’onda di entusiasmo, che nelle città aveva visto gli studenti, e alcuni popolani degli strati rivoluzionari del 1905, inneggiare alla guerra e inginocchiarsi cantando inni zaristi, i generali tentarono una riscossa nel Caucaso, ributtando i turchi, e nella Galizia, sfondando il fronte austro-ungarico in agosto fino a Leopoli, nella primavera fino alla fortezza di Przemysl, chiave dei Carpazi. Ma una travolgente controffensiva su tutto il fronte austro-tedesco raggiunse nell’estate del 1915 Riga e Varsavia.

La disorganizzazione militare, civile, amministrativa, economica guadagnava tutta la Russia in modo pauroso: caro viveri nelle campagne, crisi dell’industria, minacciosa paralisi dei trasporti, dissesto estremo delle finanze statali. La preoccupazione cominciò a guadagnare gli alleati di occidente.

Nel corso dell’anno 1916 quello che resta di potenziale russo, sulle richieste degli alleati che aiutano con denaro e rifornimenti, è impegnato ad offensive inutili o di breve successo dirette ad alleggerire la pressione degli austro-tedeschi sul fronte occidentale. Mosca non detta più la sua volontà gettando sulla bilancia la massiccia spada di un tempo, ma serve di cuscinetto quando ciò piace al moderno dispotismo del grande capitale.

26 – La guerra si addice alla democrazia

Le lezioni della prima grande guerra universale cominciano ad essere imponenti, e tuttavia tutto un ciclo dovrà passare e una nuova grande guerra sopraggiungere e travolgere i continenti, senza che gli inganni delle superstizioni opportuniste possano essere evitati. Il binomio caro alla banale retorica borghese, che associa dispotismo e potenza guerriera, autocrazia ed invincibilità, dipinge i moderni stati liberali del capitalismo come pacifici e disarmati, come inadatti alla guerra ad oltranza, trova una smentita clamorosa nell’andamento del primo conflitto. Francia, Inghilterra, la stessa Italia, e poi l’intervenuta America, paesi di vantata libertà e di governo parlamentare, traversano la guerra praticamente intatti, e con vantaggi e conquiste. Prima a cedere sarà la Russia, e la seguiranno le «feudali» Germania, Austria, Turchia, sebbene assai più della prima abbiano adottata la tecnica moderna industriale ai fini bellici. Napoleone non fu invincibile perché despota, ma perché muoveva sullo slancio della rivoluzione democratica che prima creò il cittadino soldato; perché manovrava l’esercito della Convenzione del 1793 che prima istituì la coscrizione militare per la difesa, allora coerente, della rivoluzione e della patria.

Restava quindi stritolata una menzogna, che purtroppo ha dopo riguadagnato immenso terreno, ossia che per arrestare il militarismo conviene esaltare la democrazia. Le due cose vanno insieme, come Atene e Roma avevano già dimostrato (erano società schiaviste, ma allo schiavo era negato portare le armi).

Sebbene tratto da una pubblicazione di propaganda, è interessante lo specchio degli effetti della guerra 1914–1918 sulla «ricchezza nazionale» dei paesi coinvolti. La Russia scesa al 40 % rispetto al 1913, l’Austria al 59 %, la Germania al 67 %, la Francia al 69 %, l’Inghilterra all’85 %: Giappone ed America videro la ricchezza nazionale aumentare! Le perdite nel cambio rispetto al dollaro in percentuali erano nel 1918: Giappone guadagno di 1, Inghilterra perdita di 2, Francia di 12, Italia di 20, Germania di 23, Austria di 33, Russia di 40!

Conviene dunque non già dire: la democrazia non è militarista, ma all’opposto: più democrazia, più militarismo, più potenziale bellico[20].

Doveva allora presentarsi da sé la conclusione: la Russia non è più il fattore militare decisivo in Europa. Che fare per farla divenire più guerresca? Democraticizzarla!

Abbiamo forse diminuito Lenin quando abbiamo constatato che lavorò tutto un periodo storico a far sorgere in Russia la «democrazia»? I giudicatori affrettati si pongano questo confronto: capitalisti di occidente e di Russia lottano per la democrazia per renderla più potente in guerra, e per la vittoria – Lenin e i comunisti lottano perché questo trapasso storico si compia, ma il loro traguardo è la disfatta. A chi la storia dette ragione?

27 – L’impero scricchiola

Col succedersi dei rovesci delle armate russe si sviluppa tutto un movimento di intrighi nelle sfere dirigenti interne e nella diplomazia: il malcontento per i gravi errori e il disordine amministrativo guadagnano sempre nuovi strati: soprattutto questi ambienti prevedono che l’estrema corruzione del regime zarista e la spinta depressione economica solleveranno inevitabilmente le masse che hanno cominciato a manifestare la loro intolleranza, non solo per il modo con cui la guerra viene condotta, ma contro la guerra stessa e per la sua cessazione.

La borghesia industriale cui la guerra ha dato maggiore importanza chiede un nuovo governo non dominato dalle cricche di corte e dalla nobiltà terriera. I partiti parlamentari dei liberali e dei cadetti che avevano ostentato solidarietà col governo vanno agitandosi. Il loro capo Miljukov pronunzia un roboante discorso dal tema: Stupidità o tradimento?

Mentre la corruzione della Corte Imperiale era dimostrata dai famosi episodi di fanatismo per il monaco Rasputin con le ben note influenze della zarina sull’imbelle zar, capitalisti russi e diplomatici stranieri ebbero sentore di una tendenza delle forze reazionarie a stipulare coi tedeschi una pace separata. Da ogni lato si decise di rompere gli indugi, mentre le masse dal canto loro e gli stessi soldati al fronte sempre più frequentemente si sollevavano.

Dalle sponde più opposte si concorda nel parere che, riuscita senza effetto una serie di passi e di incontri internazionali, le ambasciate di Francia e di Inghilterra brigarono segretamente per l’avvento di un nuovo governo borghese democratico e per la deposizione, se non della dinastia, dello zar Nicola.

La sostituzione di Sazonov, ministro degli esteri legato agli occidentali, con elementi di estrema destra, rese la situazione ancora più tesa.

Il 15 dicembre 1916 Rasputin venne assassinato da una congiura di palazzo di aristocratici che volevano scongiurare la rovina del regime.

Prendeva sempre più forma al principio del 1917 la preparazione di un colpo di Stato della nobiltà e dell’alta borghesia per deporre Nicola, nominare zar il figlio ammalato Alessio, ed assumere il potere cui si pensava designare il principe Lvov. Sembra che l’ambasciatore inglese Buchanan seguisse tale movimento. Ma l’azione popolare ruppe gli indugi ed i vari partiti della sinistra parlamentare furono forzati ad accelerare i tempi: lo fecero in verità con assoluto successo costituendo un potere tutto controllato dalla borghesia, mentre i partiti piccolo-borghesi e i social-difesisti tenevano a bada magnificamente le forze del proletariato.

28 – Rivoluzione guerrafondaia

Se è vero che solo i bolscevichi lavorarono in profondità nelle masse per provocare la caduta del governo, sollevarono operai, soldati, marinai, perfino le donne delle «code» per i viveri, condussero gli scioperi generali e furono alla testa della folla in non poche cruente battaglie con la polizia, altrettanto vero è che si fecero giocare e non seppero essere coerenti allo «schema» rivoluzionario di Lenin.

La consegna doveva essere, come ricordiamo dalle lunghe analisi degli scritti di Lenin dal 1905 (riunione di Bologna): azione di piazza e non accordi di partiti parlamentari – rovesciamento della dinastia e non governo costituzionale; repubblica – dittatura democratica del proletariato e dei contadini, ossia nessun accordo con partiti di sinistra che a loro volta facciano accordi con la borghesia.

Questa fase storica nel concetto di Lenin era sempre una rivoluzione borghese nelle mani del proletariato e dei contadini.

Il febbraio 1917 non fu questo; fu invece una fase precedente, estremamente labile, resa possibile solo dalla situazione di guerra e dalle forze estere. Basta riflettere che i proletari (bolscevichi) e i contadini poveri (S.r. di sinistra) restarono all’opposizione; e a un dato momento fuori legge.

L’ottobre 1917, che esaminiamo in seguito, fu la fase Leniniana, in senso immediato (e fu anche di più, come ripeteremo), ossia la rivoluzione democratica in mano al proletariato.

Il febbraio si definisce subito: rivoluzione democratica e borghese in mano ai borghesi.

Lo schema dei fatti è noto (in date del calendario nostro, coi 13 giorni in più, sicché oltre febbraio).

10 marzo. Sciopero generale di Pietrogrado; lotta nelle vie.

11. Lo zar discioglie la Duma. I deputati restano nella capitale per respingere l’ordine e formare il governo provvisorio.

12 marzo. Sorgono sia il Comitato provvisorio della Duma che il Soviet dei delegati dei lavoratori di Pietrogrado (che classicamente dovrebbe prendere, nella visione marxista, il potere totale nazionale).

13 marzo. Arresto dei ministri dello zar.

14 marzo. Soviet a Mosca. Delegati dei soldati in quello pietrogradese.

L’esercito mandato contro i lavoratori spara sulla polizia.

15 marzo. La borghesia segna un bel punto. Il Comitato provvisorio della Duma forma il governo provvisorio. Lvov, costituzionale, primo ministro – Miljukov, capo dei cadetti, Esteri – Kerenski, socialrivoluzionario-populista, Giustizia, eccetera.

Nicola II abdica in favore del fratello Michele.

16 marzo. Michele abdica e si rimette alla Costituente futura.

18 marzo. Il Soviet di Pietrogrado, come quello di Mosca, è in grande maggioranza nelle mani dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari. Esso praticamente consegna il potere al governo provvisorio formato dai partiti borghesi, nel quale il verboso e traditore Kerenski recita la parte di rappresentante della sinistra e degli operai socialisti. I bolscevichi reagiscono con un manifesto che, e questa volta non si può dare ragione né agli stalinisti, né allo stesso Trotsky, non sconfessa il governo provvisorio borghese, ma pone delle rivendicazioni che lo stesso debba attuare: sia pure opponendo la conclusione della pace al rinfocolamento della guerra.

Più tardi menscevichi e socialisti rivoluzionari entravano a far parte del governo: i bolscevichi prendevano una posizione non chiara, la «Pravda» pubblicava articoli di Kamenev che provocheranno poi l’indignazione di Lenin: in sostanza non solo essi non definivano controrivoluzionario il governo Lvov ma gli offrivano un appoggio, sia pure condizionato.

La borghesia, dopo aver fatto rovesciare la forza zarista dal proletariato insorto, aveva guadagnato la partita del potere, al cento per cento.

Ciò si doveva unicamente all’opera e alla funzione storica dei partiti piccolo-borghesi ed opportunisti, come lo «schema di Lenin» tracciato in un lungo corso aveva perfettamente considerato.

29 – La rotta smarrita

Era ben chiaro che tutta l’ala destra e a meglio dire la quasi totalità del governo provvisorio era formata da fautori della guerra ed amici degli alleati occidentali: erano stati indotti a rovesciare il governo dello zar, cui nel 1914 avevano offerto piena solidarietà nazionale, per il solo motivo che si era reso sospetto di disfattismo filo-tedesco sabotando tutto il potenziale del paese, ed ora era logico che orientassero ogni sforzo verso la ripresa delle ostilità al fronte.

Non meno logico era che quella parte dei partiti proletari, che si era manifestata nel 1915 bassamente «difesista», appoggiasse la stessa politica e plaudisse alla guerra, che aveva ormai acquistato una verginità democratica.

Quegli elementi di tali partiti che erano stati, se non disfattisti, almeno oppositori della guerra, passando alla politica della continuazione della guerra e della difesa della Russia liberata mostrarono come nulla avessero di comune con la condanna della guerra imperialista «da qualunque parte», e come solo ragioni borghesi e non marxiste li avessero trattenuti dal marciare con la guerra, fino a che la dirigeva lo zar.

Ma fu forse perfettamente chiara la posizione di tutti i bolscevichi in questa storica alternativa? Che cosa è mutato? Deve continuare il disfattismo, o bisogna passare ad altra fase perché si possiede ora una «patria democratica»? Purtroppo si fu molto lontani dalla scelta sicura.

Ma, prima ancora della questione della guerra, il periodo di euforia, nel quale ad esempio si incontrarono i reduci dalla deportazione in Siberia, come il taciturno Stalin, l’eloquentissimo Sverdlov, e tanti altri, e di fraternizzazione retorica tra populisti, trudovichi, socialrivoluzionari, menscevichi, bolscevichi, mostra come l’evoluzione teoretica del movimento non era all’altezza dei poderosi tracciati dell’opera Leniniana e delle battaglie dei congressi.

Al tempo delle «due tattiche» e di tante altre polemiche acute, Lenin aveva bene inchiodato non solo tutte le specie di populisti, ma i menscevichi ancora, alla fatalità del loro avvenire controrivoluzionario.

I menscevichi si erano atteggiati ad intransigenti, col dire: Il proletariato non può pretendere il potere nella rivoluzione russa; è la borghesia che deve assumerlo: noi allora non governeremo, al più «controlleremo» (a tale parola Lenin diveniva una belva) il potere democratico.

Ostentavano di considerare opportunista Lenin che crudamente diceva: Dovremo noi prendere il potere di un governo provvisorio nella rivoluzione borghese democratica a condizione che non si dia alcuna briciola ai partiti borghesi. E che non si parli più di monarchia, inoltre.

La disputa, a malgrado delle potenti menzogne diffuse stalinisticamente, non fu mai questa: Dobbiamo prenderlo noi per costruire la Russia socialista. Era chiaro che avversari della forza di un Plechanov avrebbero subito risposto: Ma se si tratta di questo obiettivo storico, siamo per il potere anche noi.

Lenin – è bene sempre ribadire – disse che si doveva prendere il potere perché non esistevano altre vie storiche per evitar che vincesse la controrivoluzione. Evidentemente in senso potenziale questo discende dalla necessità di avanzare storicamente verso il socialismo, la rivoluzione socialista mondiale e russa, ma è sempre detto in senso potenziale e non come contenuto immediato ed attuale della lotta storica.

Trotsky stesso non si era fino ad allora orientato. Quando Lenin dimostrava il destrismo dei menscevichi, lui concordava. Ma, quando i menscevichi con poderosa ipocrisia attaccavano un Lenin che faceva lottare il proletariato per troppo poco, Trotsky che come ardente militante non sognava che la lotta, restava perplesso: in ritardo capì la potenza dialettica della costruzione di Lenin. Ma la capì sul serio. Comunque lo adopereremo come ineccepibile testimonio che Lenin questo voleva: la rivoluzione democratica borghese, purché non fosse l’aborto e la parodia di una rivoluzione demo-borghese. Da determinista fuso nell’acciaio, lo faceva ridere un’accusa di aver voluto troppo poco. In realtà egli aveva dato un esempio, direbbero gli anglosassoni, terribile di come si riesce a scrivere la storia che deve venire.

Orbene, nel momento che i menscevichi si smascherano da sé, e pur dichiarando che si tratta solo di libertà, di democrazia e di guerra democratica, non mai di socialismo immediato, entrano nel governo borghese, ogni animale di sangue bolscevico avrebbe dovuto saltare loro alla strozza e dichiarare guerra senza quartiere. Non fecero questo né KamenevSverdlovStalin né altri. Indipendentemente dal quesito sulla guerra – che da due anni e più sapevano già risolto da Lenin e dal marxismo incorrotto – essi mancarono al loro dovere verso un partito che così scultoreamente aveva disegnato i suoi compiti per le ore che sul quadrante storico erano gloriosamente suonate.

Deficienza dunque di quel gruppo, che pure aveva benemerenze incredibili di lotta insurrezionale, di fronte al problema del rapporto tra le classi sociali e i partiti politici della Russia. Grave che un partito manchi all’azione, quando ha così brillantemente enucleata la dottrina storica.

30 – Trovata una patria?

Ciò fu dovuto anche alla situazione di guerra. Indiscutibile. Ma all’errore rispetto alla dinamica interna corrispose simile errore rispetto alla dinamica delle forze internazionali, del conflitto imperialista mondiale.

I più brutti momenti per la… buonanima di Carlo Marx, se segue le cose dall’altro mondo (per noi materialisti le segue, sì, ma dal luogo-tempo di quando era vivo, e c’è Vladimiro – oh, ridete pure – ad urlare quello che lui avrebbe urlato) sono quelli in cui vede che, dopo aver tanto spiegato come la dialettica sbroglia la storia, i «marxisti» mostrano che stanno a zero, mentre i loro avversari mostrano di sapere a menadito la lezione.

Il gruppo di partiti borghesi che nell’anteguerra, come attraverso Lenin si è così bene seguito, erano ben decisi a non scatenare mai l’attacco al governo feudale e ad evitare il passo scabroso del governo transitorio «illegale», sono usciti da tanto saggia determinazione per il solo motivo che la guerra perduta sarebbe stata una rovina per alti interessi capitalistici russi e internazionali, e avrebbe certamente provocato violenti movimenti a carico delle classi possidenti in una acuta guerra civile. Seguirono quindi la via che poteva evitare complicazioni di questo genere, la via della disfatta tedesca nella guerra mondiale. Oltre tutto, questo era coerente all’esigenza prettamente borghese della esaltazione dei valori nazionali interni, come in ogni altra rivoluzione ottocentesca borghese. Se quindi si procedeva nella direzione della disfatta tedesca, ossia della vittoria degli imperialisti occidentali soci in importanti affari, è chiaro che dalla rivoluzione antizarista non doveva uscire la fine della guerra, ma la ripresa di essa con virulenza massima ed «entusiasmo nazionale», il superamento del disfattismo tramato dalle zarine isteriche e dai Rasputin nodosi.

Il governo provvisorio si ingaggiò su tale via senza esitare. Chi avrebbe potuto attraversarla? Il Soviet, col suo potere dualista. Ma che dualismo di poteri! Il potere non si spartisce, come le borghesie di occidente non lo avevano spartito coi deputati dei partiti operai votanti i crediti o entrati nei ministeri: si era a questi sporcaccioni passata una livrea, non altro. E così fu praticato coi Čcheidze e i Tsereteli, coi Martov e i Černov.

Ci voleva dunque tanto, si doveva proprio aprire il testo di Lenin, o sentire riecheggiare nella testa l’eco dei suoi duri, scabrosi discorsi in dieci congressi e conferenze, per trovare la strada, anche senza aver letto le tesi, gli articoli, gli opuscoli dettati dopo il vergognoso 1914 della II Internazionale?

E se i socialisti belgi e francesi erano stati inchiodati alla gogna, qual dubbio che allo stesso titolo avrebbero dovuto esserlo i russi che avessero data solidarietà nazionale ad una repubblica postzarista, anche di valore superiore a quei tre soldi?

Esitare su questo voleva dire essere soggetti a ideologia puramente borghese e nazionalista, fare paragoni con la difesa della patria da parte della Convenzione e coll’epopea delle Termopili di Francia, non avere capito un cristo di tutto Marx, dell’imperialismo di Lenin, della distinzione marx-leniniana tra guerre di difesa rivoluzionaria e la contemporanea, esecrata e svergognata guerra dei poteri imperialisti, che per aver perduto i Románov non puteva certo di meno, né per avere acquistato la faccia cachettica di Woodrow Wilson.

Sono proprio questi infatti gli argomenti con i quali volevano scantonare i riformisti d’Italia in quel 1917, oltre la frana a Caporetto; e più volte ricordammo le mal sudate camicie per tenerli fermi.

Questi dunque i ferratissimi bolscevichi, fedelissimi al partito, insanguinati nelle vene del suo rosso sangue rivoluzionario? Evvia!

31 – Vladimiro alza lo staffile

Raccontare ancora una volta il viaggio di Lenin dalla Svizzera in Russia, il suo arrivo trionfale? Non ne sarebbe il caso, eppure bisognerebbe rifarlo, perché gli eventi sono tanto luminosi, ed è tanto grande il pericolo che il facile sentimentalismo, o il suo degno alleato, il misero scetticismo furbo, concluda: Nulla da dire; sta tutto in un uomo solo, in una sola testa, e i grandi movimenti della storia erompono soltanto quando questa ha tirato a sorte, fra tanti imbecilli che gli uteri scaricano, quel tipo «che ha sempre ragione».

Lenin parte con notizie monche, ma nel viaggio, e soprattutto dopo aver varcato la frontiera, anzi il fronte, gli vengono incontro: ha tra mani numeri della «Pravda» redatta da Stalin e Kamenev, che mostra inferocito ai compagni di viaggio, forse atterriti che li faccia a pezzi.

Racconta Trotsky che Kamenev, uno dei devotissimi di Lenin al punto di mimetizzarne anche gli atti e la grafia – uomo da non minimizzare certo – gli va incontro, ma si vede malmenato. Si era alla stazione alla frontiera finlandese. Racconta Raskolnikov, altro teste sicuro. Lenin entra e siede sul divano:
«Che cosa avete scritto sulla Pravda?! [avrà usato il termine che equivale a che e.…]. Ci siamo molto arrabbiati con voi!».
Da quel momento chi viene a tiro subisce analoga accoglienza, fino al famosissimo discorso alla folla, dal carro armato.

Metteremo nella dovuta luce l’abisso che si poneva tra la mentalità dei compagni che erano stati in Russia e la costruzione di Lenin. Mettiamo in luce, per smontare un aspetto della teoria della ipnotizzazione della massa, anzitutto che un immenso vantaggio è quello di guardare queste grandissime cose da distanza di spazio (e di tempo, anche). Lenin scende alla stazione di Pietrogrado. Non si guarda nemmeno attorno, nessun imbecille osa dirgli: rendetevi prima edotto. Si vede venire incontro ossequiosi e falsi i rappresentanti del «governo» nel salone imperiale della grande stazione, ode Čcheidze che gli rivolge un discorso di benvenuto, offrendogli l’unità coi menscevichi nella «democrazia rivoluzionaria». Nella riunione di partito, pochi giorni prima, Stalin aveva mostrato – come diremo – di essere propenso ad accogliere una simile iniziativa di Tsereteli.

Lenin non rispose neppure no, ma volse risoluto alla delegazione ufficiale il deretano (le spalle sarebbe stato onor troppo grande), varcò la soglia della stazione, entrò tra le acclamazioni nella piazza, lo issarono sull’autoblinda. Non esiste forse il testo del discorso. Ognuno lo riferisce a brani:…Saluto in voi l’avanguardia dell’esercito proletario mondiale… questa guerra di brigantaggio imperialista è l’inizio della guerra civile in tutta Europa… l’alba della rivoluzione socialista mondiale è già sorta… ogni giorno, domani forse, può l’imperialismo capitalista crollare definitivamente… La Rivoluzione fatta da voi ha segnato il principio, una nuova epoca si è aperta: Viva la Rivoluzione Socialista Mondiale!

Quel discorso, e le successive manifestazioni di Lenin alla sede del partito e nella conferenza del dì seguente, su cui siamo bene documentati dalle celebri «Tesi di aprile», non lasciarono solo di stucco i pretesi «capi della Rivoluzione» ma, giusta tutte le testimonianze, fecero «girare la testa» ai migliori operai e capi intellettuali bolscevichi. Nulla restò, dopo la travolgente critica, della tattica fino a quel momento seguita: le nuove proposte caddero con fragore di fulmine sulla attonita udienza che si senti mancare il terreno sotto i piedi. Chi ha udito parlare Lenin, senza enfasi oratoria alcuna, e tanto più chi non ha esitato a contraddirlo, può dire come quanto egli esponeva apparisse evidente e conseguenziale per tutti, e anche per chi mai lo avesse sentito. I poco provati in dialettica marxista erano sempre i più attoniti. Quello che dice è impossibile! Ma è così chiaro e provato che non vi è sillaba da ribattere…

32 – Il pazzo di aprile

Ai resoconti di stampa del discorso del 3 aprile fece seguito il generale sbalordimento: ma non fu solo degli avversari, bensì dei quadri del partito bolscevico; e questo seguitò quando alla riunione indetta per il 4 successivo Lenin fece una più ampia esposizione, disinteressandosi del tutto dei temi e delle soluzioni che erano state predisposte, e seduta stante buttò giù le notissime Tesi, sulle quali lo stalinismo ha tentato una falsificazione gigante, mentre gli stessi trotzkisti sbagliano l’impostazione sostenendo che con esse Lenin rivoluzionava la «vecchia» tattica bolscevica del 1905. E giusto invece che Lenin riporta a Mosca il tema delle «Due tattiche» senza nulla mutarvi, solo che Trotsky finalmente ne afferra la potenza rivoluzionaria (al suo di poco tardato arrivo): il falso è questo, che non si tratta affatto di passare dalla rivoluzione borghese alla «trasformazione socialista» bensì esattamente di passare dalla «tattica menscevica nella rivoluzione democratica» alla «tattica rivoluzionaria» e comunista sempre nella rivoluzione democratica.

Questa dimostrazione viene data in modo cristallino dal testo delle tesi del 4 e dai rapporti di Lenin alla conferenza del 24 e seguenti, in cui come vedremo Lenin dice ad ogni passo:
«non si tratta ancora di instaurare il socialismo»,
bensì di non comportarsi da opportunisti nella rivoluzione borghese.

Per ora tuttavia fermiamoci sulle testimonianze dello sbalordimento, che, se vi fosse stato davvero un partito marxista funzionante come dovrebbe, sarebbe stato sostituito dalla semplice constatazione: Dice quello che ha detto per vent’anni, e noi eravamo sciocchi ad avere imboccato una via diversa, con la solita ubbia che l’esigeva una situazione nuova, inattesa.

Gli avversari nemmeno avrebbero dovuto stupire: le loro frasi esprimevano solo il fiero disappunto che il laccio sottile teso nel seno dei Soviet alla frazione bolscevica fosse stato di un solo colpo tagliato.

Plechanov, che come teorico avrebbe dovuto ritrovare il Lenin di quando egli stesso era con lui, da buon rinnegato finge di sentire quelle cose la prima volta. Fa come i togliattiani italici che a qualche vecchio compagno indignato rispondono: Possibile che veniate ancora con le vecchie storie del 1921? Le sue frasi sono del genere: Questo discorso è una farsa-sogno, è il delirio di un pazzo. I menscevichi, fatto il segno della croce, scoprono che Lenin «incita alla guerra civile»! Čcheidze è poi formidabile: Lenin resterà fuori della rivoluzione, mentre noi proseguiremo nel nostro cammino. Profeti di forza! Tsereteli afferma che se avessero preso il potere avrebbero rovinato tutto e sfasciata, guarda un poco, l’Internazionale proletaria!

Questa gente aveva già sprizzata la sua bava per il passaggio dato dai tedeschi, poi era corsa per vedere se dopo tanti anni Lenin tendeva loro una mano su cui si sarebbero gettati lacrimando di commozione; schifati, ripresero a gettare veleno: tutto questo è classico, si sa bene, né occorre oltre trattarne. Ma quello che è importante è lo smarrimento dei compagni anche di prima linea, totalmente ignorato nella Storia ufficiale, che al solito lancia solo fango su Kamenev, Rykov, Bucharin ed altri, dalla piattaforma dei patiboli di venti anni dopo. Sentiamo le testimonianze raccolte da Trotsky.
«Tutti – egli dice – erano troppo storditi per fare discussioni. Nessuno osava esporsi ai colpi di questo leader disperato»
(qui un po’ di bella letteratura: un leader non disperato, ma arrabbiato, per non usare participio più forte, tuttavia in sicura marcia dottrinale tra il passato e il futuro evidenti, in quello svolto particolarmente fecondo, uno dei pochissimi in cui avviene l’azione catalitica di quel corpuscolo che è il «capo» su una intera collettività). Segue Trotsky:
«taluno sussurrava che Ilijc era rimasto troppo a lungo all’estero, che aveva perduto contatto con la Russia, che non capiva la situazione, e, peggio di tutto, che era risalito al ‹trotzkismo›»[21].
Qui pecca il gran Leone non di vanità, che non era da par suo, ma di ingenuità generosa: era Trotsky che finalmente trovava Lenin, non il contrario. Trotsky col suo sguardo d’aquila non vide quella scena, ma sapeva che gli azzurri e ultrapenetranti occhi di Lenin in quel momento, anche fiammeggiando, sembravano dire tranquillamente: Non solo è così e così, ma dovete riconoscere che lo sa ogni fedele minchione. Nessuno si sente girare la testa solo perché si raccontano cose mai udite, ma solo quando ha la sensazione:
«è impossibile che non si dicesse così fin dal primo momento: come abbiamo potuto pensarla altrimenti? Lo sapevamo persino a memoria!».

33 – Brividi della risciacquata

Alcuni altri riferimenti su questa operazione sensazionale di lavaggio di cervelli, operazione che non è dato fare a sbirri feroci o a maghi freudiani, ma che è effetto di materiali forze in certi culminanti crisi storiche che il mito, non costruttore di sogni né di farse, ma interprete faticoso di fatti palpabili, soleva esprimere con le parole sacre: Egli è il Verbo: ha parlato, e la luce è entrata in noi! (ah, materialista Plechanov, dove eri mai caduto!), son questi.

Quando Lenin disse: propongo di mutare il nome del partito in comunista, non aderì nemmeno Zinoviev, che aveva viaggiato con lui! Il bolscevico Angarski scrisse:
«Bisogna confessare che molti fra i vecchi bolscevichi rimasero attaccati alle opinioni vecchio-bolsceviche sulla questione del carattere della rivoluzione del 1917 e che la rinunzia a queste vedute non fu priva di difficoltà».
E Trotsky scrive:
«in realtà non si trattava di molti vecchi bolscevichi ma di tutti, senza eccezione».
Ebbene no, Angarski, no, Trotsky: può darsi che si trattasse di tutti (sebbene sia da credere, pur mancando di altre fonti ricostruttive, che, mettiamo, una Krupskaja, o chi so altro, non abbia battuto ciglio) ma il fatto è che si trattava di rivendicare le «vecchie tesi del 1905» tali e quali, formula a formula. Sono queste coincidenze, e non la potenza di un cervello umano, per quanta luce ne sgorghi, che si legano alle forze del sottosuolo storico capaci di sommuovere un’epoca intera.

Ma un lavoratore degli Urali, Markov, «che la rivoluzione aveva trovato davanti al proprio tornio», disse le parole teoricamente tutte giuste, spontanee:
«I nostri capi tentennarono fino all’arrivo di Vladimiro Ilijc. La posizione del partito cominciò a divenire chiara solo con l’apparire delle sue famose Tesi».

Bucharin, troppo facile ad impennate, ricordò dopo la morte di Lenin che una parte del partito considerò le tesi come un tradimento dell’ideologia marxista! Ludmilla Stahl lasciò scritto:
«I nostri compagni si accontentavano di una semplice preparazione dell’Assemblea costituente attraverso i metodi parlamentari, e non consideravano nemmeno la possibilità di andare oltre. Accettando la parola di Lenin noi faremo quello che la vita stessa ci spinge a fare».
Benissimo. Ma mostreremo che quella parola, che condannava l’assemblea costituente a suffragio universale nella borghese rivoluzione russa, era dal 1905 già stampata.

34 – Prova monosillaba: da

Poiché nel gran lavoro fatto da un organamento mondiale elefantiaco si è tanto operato ad inventare che solo Stalin si pose subito sulla linea di Aprile (mentre la «Pravda» fatta da lui e Kamenev stampò che quelle di Lenin erano, ahimè misero, solo personali opinioni) citiamo un ultimo teste non trotzkista.

Non è la prima volta che lo si riferisce, ma è utile e calzante al tema. All’esecutivo allargato del Comintern del febbraio-marzo 1926, in una riunione sulla questione russa (stava nascendo l’opposizione Trotsky-Zinoviev-Kamenev), il cui dibattito si impedì di portare all’adunanza plenaria sotto motivo che tanto aveva chiesto la stessa opposizione pur di non essere più gravemente chàtiée, un delegato della sinistra del partito italiano chiese a Stalin se fosse vero che nella riunione del 1917, a proposito della politica da tenere nella guerra, Lenin aveva compreso anche lui, Stalin, tra quelli cui indirizzò epiteti del tipo «sciovinista russo», «nazionalista cosacco» e simili. Mentre la giovane interprete imbarazzata taceva, Stalin dette l’ordine di tradurgli il quesito, alzò la testa e disse nettamente: da – sì, è vero[22].

Una volta (anzi in quello stesso esecutivo) Stalin nell’attaccare i sinistri fece una triplice distinzione: quando è la compagna X che parla, si tratta sempre di una menzogna, quando è il compagno Y, talvolta è verità, talvolta bugia – quando è il compagno Z (quel delegato italiano) si tratta sempre della verità, anche se nelle conclusioni ha torto.

Il teste che abbiamo citato è lui stesso, tramite quegli che a suo dire (vedi resoconto stampato a Mosca)[23] non disse falsa testimonianza mai. Gli sia ricambiato l’onore: monosillabicamente sia pure, egli nemmeno volle mentire.

Questo non basterebbe a condannare nessuno, se anche Cristo dovette dire a Pietro, primo luogotenente: Non avrà cantato il gallo, che già tre volte tu mi avrai rinnegato.

A noi materialisti non può venir detto: Tu sarai meco in Paradiso! La storia, e la sua teoria, sovrastano tutti noi, piccoli e grandi, famosi ed oscuri. E solo la sua via noi seguiamo.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (V)

35 – Capisaldi di aprile

Indubbiamente l’arrivo di Lenin in Russia e le «Tesi di Aprile», che seguirono nelle ventiquattro ore, costituiscono storicamente uno svolto, una tappa fondamentale. Ma questo non si deve capire nel senso che esse lanciano al mondo una nuova parola, una nuova versione della dinamica rivoluzionaria, e che da quel momento, come scrivemmo tanto tempo fa in questi testi, sia stata mutata la visione del processo rivoluzionario socialista. La versione banale è che, come da una cattedra, per tutto il proletariato mondiale sia stato cambiato il programma di insegnamento. Non più lotta, vittoria e potere del proletariato salariato, quale piattaforma della distruzione del capitalismo e della liberazione delle forze produttive tese verso il loro ordinamento comunistico; ma lotta, vittoria e stato di popolo, di proletari e semi-proletari, di operai e di contadini proprietari: questa è l’interpretazione banale e pedestre, e questa lezione dovrebbe poi essere afferrata dai proletari di occidente, dei paesi del capitalismo maturo e prossimo a putrefazione prima di essere posto a morte violenta!

Lo svolto non riguarda la via con la quale un paese capitalista soggiace al processo della rivoluzione socialista, ma quella di un paese di feudalismo putrefatto, nella rivoluzione borghese e popolare.

Quello di aprile è un potente colpo di barra alla nave bolscevica che stava cedendo alle ondate dell’opportunismo piccolo-borghese ed era uscita dalla rotta da seguire nella rivoluzione borghese, colpo di barra che esige nel timoniere forza di ercole ed occhi di aquila, ma non gli chiede di calcolare la nuova rotta incognita, bensì solo di obbedire e fare obbedire a quella segnata indelebilmente sulla carta di navigazione della storia.

Tutto quello che Lenin grida ed incide sulla carta di quelle storiche tesi è terribilmente contro quello che in Russia facevano, oltre ai partiti borghesi e piccolo-borghesi, anche quelli operai e lo stesso suo partito. Ma nello stesso tempo è ferocemente conforme a tutto quello che stava scritto, alla rotta data da Marx ed Engels nel 1848 e in cento svolti ribadita, e alla rotta tracciata da Lenin stesso dal 1900 in poi circa la Russia. I frettolosi che basiscono ogni volta che sentono parlare di una nuova, moderna direttiva, devono capire solo questo: noi difendiamo l’immutabilità della rotta, ma non la sua rettilineità. Essa è piena di difficili svolti. Ma non nascono nella testa e nel capriccio del capo, del leader, come dice Trotsky. Leader significa infatti guidatore. Il capo del partito non ha nelle mani un volante e davanti a sé l’arbitrio dell’angolazione dello sterzo, è il conducente di un treno o di un tranvai. La sua forza è che egli sa che il binario è determinato, ma non certo rettilineo ovunque, sa le stazioni dove passa e la meta dove conduce, le curve e le pendenze.

Non è certo solo a saperlo. Il tracciato storico appartiene non ad una testa pensante, ma ad una organizzazione che va oltre gli individui soprattutto nel tempo, fatta di storia vissuta e di dottrina (a voi la parola dura) codificata.

Se questo è smentito, siamo tutti fuori combattimento e nessun nuovo Lenin ci salverà mai. Andremo al macero stringendo i manifesti, i libri, le tesi in una non spartibile bancarotta.

Aprile dunque tratta una data e grandiosa situazione storica, che involge un anno cruciale e il fremere di centocinquanta milioni di uomini. Non la tratta come imprevista e nuova, e che imponga accostate di fortuna, ma la inchioda sulle linee deterministiche che la dottrina unitaria, e gittata di blocco, della storia e della rivoluzione, anzi delle rivoluzioni, ha scoperto. Le scoperte non evolvono o migliorano. Sono o non sono.

Perciò appare che Lenin giunga come quegli che dissolve e fracassa tutto. Distruggere è il mezzo solo marxista di condurre e di costruire. Per la melma borghese e piccolo borghese, come per tutte le classi che defungono, la sapienza è follia, la verità rivoluzionaria si tratta con la cicuta. Una volta almeno, agli scandalizzati benpensanti fu fatto ingozzare il contenuto del bicchiere. Sceso dalla macchina ferma, il meccanico rimosse l’ostacolo opportunista con pochi e tremendi colpi di scure. Il convoglio della storia proseguì inesorabile. Quella era la sola strada su cui poteva e doveva passare.

36 – Ributtare il difesismo!

1. (primo comma). Nel nostro atteggiamento verso la guerra, che da parte russa, sotto il nuovo governo Lvov e soci, rimane incontestabilmente una guerra imperialistica di brigantaggio, in forza del carattere capitalistico di questo governo, non è ammissibile la benché minima concessione al «difesismo rivoluzionario»[24].

Dopo quanto abbiamo ricordato reiteratamente non occorre glossa teorica. E chiaro che se la guerra era considerata imperialista dai marxisti anche per Inghilterra, Francia, Belgio, ecc., non si poteva nemmeno pensare che, imperialista sotto lo zar, cessasse di esserlo sotto un governo borghese democratico russo. Lo era anzi divenuta più squisitamente, perché quella forma di rivoluzione, che Lenin viene a disperdere, era un maggior legarsi agli interessi del grande capitale di occidente.

Interessa questo rilievo: i bolscevichi avevano fallito in dialettica rivoluzionaria. Non avevano capito che in Russia la democrazia si accettava, predicava e invocava come ponte inevitabile di passaggio, ma non come una situazione in cui l’opposizione tra Stato e proletariato dovesse allentarsi sol perché lo Stato passato alla borghesia avesse assunto forme parlamentari: essi esitavano a dare la parola disfattista nell’esercito combattente, solo perché a Mosca vi era Lvov e non Nicola. Colpo di ramazza.

1. (secondo comma). A una guerra rivoluzionaria che giusti fichi realmente il difesismo rivoluzionario, il proletariato cosciente può dare il suo consenso solo a queste condizioni:
a) passaggio del potere al proletariato e agli elementi poveri della campagna vicini al proletariato;
b) rinuncia effettiva e non verbale a qualsiasi annessione;
c) rottura completa ed effettiva con lutti gli interessi del capitale.

Qui deve notarsi anzitutto una formula non nuova affatto ma ben chiara, che sviluppa il classico concetto della dittatura di operai e contadini, circa gli «elementi poveri della campagna vicini al proletariato», da illustrarsi in seguito. Ma il rilievo importante è che, per rigore dottrinale non meno che per non bloccarsi in visibili situazioni ulteriori (che vedremo) Lenin, pur nell’urgenza enorme di reagire alla «simpatia per la guerra», che dopo febbraio minaccia di tutto rovinare, non usa la formula bruta che «siamo contro ogni guerra». E un fatto che qui l’estremismo semplicista è pronto a fare tutti e due gli errori: quello pacifista come quello militarista.

Altro evidente rilievo: la guerra russa nel 1939–45 non fu difesismo rivoluzionario, perché mancavano tutte le condizioni di Lenin: il potere non era più nelle mani dei proletari e dei contadini poveri – non vi era alcuna rinuncia all’annessione dopo la guerra, perché nella prima fase si sottomise la Polonia, nella seconda mezza Europa – non solo non vi era rottura con gli interessi del capitale, ma sfacciata alleanza, con quello tedesco per avere la Polonia, con quello anglo-americano per il resto.

37 – Il disfattismo prosegue

1. (comma terzo). Data l’innegabile buona fede di larghi strati di rappresentanti delle masse favorevoli al difesismo rivoluzionario, che accettano la guerra solo come una necessità e non in vista di conquiste, e dato che essi sono ingannati dalla borghesia, è necessario spiegare loro con particolare cura, con perseveranza e pazienza, il loro errore, spiegare loro il legame indissolubile tra il capitale e la guerra imperialista, dimostrare loro che senza rovesciare il capitale è impossibile terminare la guerra con una pace veramente democratica e non imposta con la violenza.

Lenin, che ha visto il difesismo infiltrato nello stesso suo partito, valuta questo pericolo di nazional-patriottismo «cosacco» in tutta la sua portata, e lo affianca genialmente al «pacifismo» della massa. Questa crede davvero che la guerra prosegua per Nicola, Guglielmo e Franzjoseph, e crede che i governi «democratici» faranno presto a chiuderla. Bisogna spiegare che è il contrario, che come dicemmo con parole nostre «la guerra si addice alla democrazia» più ancora che al dispotismo. L’ultimo passo è quello da saper leggere. Lenin sottolinea la parola impossibile, e se avessimo il testo vedremmo che la costruzione esatta è: non bisogna invocare una pace senza violenza, e democratica, perché in ciò è solo errore e illusione, ma invocare l’abbattimento del capitale. Una rosa di Stati capitalisti e democratici non è la garanzia della pace generale, ma la condizione dell’imperialismo. Tesi che è il contrario della tesi, in fondo comune a tutti i convenuti oggi a Ginevra, che si scongiuri la guerra con misure di «onestà politica»; che sia possibile la coesistenza pacifica, e cose simili… mentre son tutti lupi da brigantaggio.

1. (comma quarto). Organizzazione della più vasta propaganda di queste teorie in seno all’esercito. Fraternizzazione.

L’urgenza del momento fa sì che questo punto internazionale è segnato con pochi colpi di scalpello. Non si organizzava illegalmente il disfattismo militare, lo storno dell’arma per abbracciare il soldato nemico, per il motivo che il comando dell’esercito lo avevano Nicola e i suoi (il governo provvisorio voleva comunque digerire il granduca Michele!) ma lo si deve fare non meno vigorosamente sotto il comitato e il governo della Duma! I cosacchi ad honorem allibiscono, e tentano invano di nascondersi sotto i tavoli.

38 – Transizione: tra quali due tappe?

2. (primo comma). Il fenomeno che contraddistingue l’attuale storia russa è la transizione dalla prima tappa della rivoluzione, che ha dato il potere alla borghesia a causa dell’insufficiente grado di preparazione ed organizzazione del proletariato, alla seconda tappa, che dovrà consegnare il potere al proletariato e agli strati poveri del ceto contadino.

Qui il sostantivo rivoluzione è scritto senza gli aggettivi che poniamo noi senza esitare. Si tratta, nella prima e nella seconda tappa, di rivoluzione borghese e democratica, di rivoluzione antifeudale e non socialista.

Un testo si interpreta, di norma, in quel modo che rende i vari passi e articoli suscettibili di essere logicamente ordinati. Ed i passi successivi, oltre che le cento formulazioni per quasi un ventennio della stessa tesi, lo mostrano chiaramente. Vi è di più: questa prima tappa che ha dato il potere ad una borghesia che da sola non potevavoleva fare la rivoluzione antifeudale, è stata possibile, come semplice prologo della rivoluzione russa antizarista da tutti attesa, solo per il fatto internazionale della guerra imperialista, che ha prestato forze e imposto compiti alla borghesia locale, e che ha – per il fallimento dei partiti europei sul punto della guerra – indotto smarrimento nel nascente proletariato russo, poggiando i semi-proletari sulla borghesia e non sugli operai.

Si tratta ora di recuperare. Non per fare di più di quello che ci prefiggevamo dal 1905, ma per rimediare all’insuccesso di aver fatto molto meno del programma teorico: rivoluzione capitalista con dittatura democratica del proletariato e dei contadini.

2. (secondo comma). Questa transizione è caratterizzata, da un lato, dalla piena legalità (la Russia è in questo momento, di tutti i paesi belligeranti, quello più libero), dall’altro dall’assenza di violenza contro le masse, e infine dall’atteggiamento di fiducia incosciente delle masse nel governo dei capitalisti, che sono i peggiori nemici della pace e del socialismo. Questa particolare condizione esige che ci sappiamo adattare alle condizioni speciali dell’immenso lavoro del partito in seno alle masse proletarie, appena svegliate alla vita politica.

I nostri maiuscoli sono i corsivi dell’originale. In questo passo sono i due corsivi: in questo momento, e: speciali, i più eloquenti. La dialettica insegna come molte volte importi più la risposta all’ipotesi che nega quella attuale, che la risposta a questa stessa.

Lenin è stato bersagliato dalle obiezioni che siamo in minoranza, che gli operai non capiscono (o, per tutti i cristi, i professori di marxismo?), che la forza è nelle mani del governo provvisorio e il Soviet è in maggioranza per lui e non per noi, che abbiamo il vantaggio di poterci riunire, parlare, fare i giornali, ecc… Ebbene, dice Lenin, che volete di meglio? È questa una ragione per scrivere e raccontare fesserie? Dobbiamo forse, per ringraziare di tali elargizioni il governo liberale, lustrargli gli stivali o quanto meno (quel gran broccolo di Nenni aveva già fatto scuola) fargli una opposizione leale e cavalleresca?

Dobbiamo certo profittare di queste larghezze: come Marx ha sempre detto, il proletariato viene, e malgrado essa, dalla borghesia vittoriosa educato, non con la scuola, ma chiamandolo alla lotta, alla vita politica. In questo lapsus di libertà dobbiamo risalire la corrente, aprire gli occhi alla massa, pigliare noi il sopravvento.

Badate: tanto è possibile in questo momento speciale. Qui il capo politico tiene ferme le mani ai suoi seguaci, ma il più grande capo teorico vede già chiaro lo sviluppo che si apre. Libertà, non violenza sulle masse: per ora. Ma direste ad esse che questa situazione è definitiva, è una vittoria assicurata della rivoluzione? Ben presto dovremo lottare sul terreno non legale! La rivoluzione deve ancora farsi (e non perché sia da farsi quella socialista) e tra mesi, se non saremo noi ad attaccare il governo borghese-opportunista, sarà lui a cacciarci fuori della legge! Nel luglio successivo Lenin doveva già nascondersi. Ma la massa aveva capito, ormai. Forse per una edizione delle «tesi»? Mai più. Erano le tesi che avevano capito la storia. E i ciechi fino allora, o dal fulgor democratico abbagliati, aprivano esitando gli occhi annebbiati.

39 – Il governo provvisorio alla gogna!

Tesi 3. Nessun appoggio al Governo Provvisorio che ha dimostrato il carattere menzognero di tutte le sue promesse, soprattutto di quelle riguardanti la rinuncia alle annessioni. Smascherare il governo, e non esigere da lui l’impossibile, che è come illudersi che questo governo, governo di capitalisti, cessi di essere imperialista.

È una risposta diretta al manifesto del partito in marzo e agli articoli della «Pravda», che consideravano il governo succeduto allo zarismo, pur non facendone parte, una conquista rivoluzionaria, e si limitavano ad invitarlo ad una serie di misure politiche «impossibili» come l’iniziativa della pace «democratica», senza dichiarare che era un governo mandato dal capitale internazionale a tener su la guerra, e che la guerra si doveva fermare a suo dispetto, ed abbatterlo, sola via verso la pace. Il governo Lvov non meno che i successivi esprimeva le esigenze della borghesia nazionale che si formava l’illusione di assidersi al banchetto della vittoria sulla Germania e alla spartizione del bottino imperialista, dando ad una Russia borghese e militarista un impulso fino ad allora non sognato. Esso ricambiava gli aiuti della Intesa con l’impegno di porsi attraverso la rivoluzione russa e il suo svolgimento fino all’estremo, possibile solo per la forza della classe lavoratrice. Esso contava di captare i capi operai come avevano fatto i governi di Francia, Belgio, Germania, e realizzava su tale via i primi successi con la complicità di menscevichi e populisti nei Soviet: questo nessuno lo aveva saputo dire prima delle «Tesi di Aprile». Nessuno aveva ancora voltato le terga alla gioia per la caduta dello zar: oggi in Italia il proletariato è immerso nella incoscienza perché nessuno (all’infuori di noi) ha ancora voltate le terga ad una molto più imbecille vittoria: quella su Mussolini, che non è nemmeno uno svolto della lotta storica tra le classi, ma solo una vicenda militare di guerra.

40 – Partito e soviet

Tesi 4. (comma primo). Rendersi conto che il nostro partito è formato da una minoranza, e per il momento debole minoranza, nella maggior parte dei Soviet dei deputati (delegati) operai, in confronto al blocco di tutti gli elementi piccolo-borghesi opportunisti, soggetti all’influenza della borghesia, e che estendono questa influenza al proletariato: dai socialisti-populisti fino ai socialisti-rivoluzionari e al Comitato di organizzazione (Čcheidze, Tsereteli, ecc.), a Steklov, ecc.

La situazione ben nota – maggioranza dei Soviet in mano ai socialisti di destra, delega da parte di questi del potere al Governo Provvisorio eletto in seno al Comitato delle opposizioni della vecchia Duma zarista – è scolpita da Lenin nella formula generale dell’opportunismo: la borghesia influenza e controlla i socialisti di destra, questi a favore della prima influenzano e controllano le masse operaie.

I rivoluzionari disapprovano la sottomissione del Soviet al Governo provvisorio, e devono combattere questo. Come devono comportarsi verso gli attuali dirigenti del Soviet, in blocco tra loro, al servizio di una politica capitalista e militarista? Denunziare forse il Soviet come tale? O invece dire che, dato che la «maggioranza democratica» nel seno del Soviet vota per appoggiare il governo borghese, questo va ratificato in omaggio alla solita «unità di fronte del proletariato»?

A una tale alternativa Lenin alza le spalle. Nessuna delle due.

Tesi 4. (comma secondo). Spiegare alle masse che i Soviet dei deputati operai sono la sola forma possibile di governo rivoluzionano e che, per conseguenza, il nostro compito, sinché questo governo resta sottoposto alla borghesia, può essere solo quello di spiegare alle masse pazientemente, sistematicamente, con perseveranza, l’errore della tattica dei Soviet, spiegazione che si adatti soprattutto ai loro bisogni pratici.
Finché siamo in minoranza facciamo un lavoro di critica e di chiarimento degli errori, affermando nello stesso tempo la necessità del passaggio di tutto il potere di stato ai Soviet dei deputati operai, affinché le masse si liberino con l’esperienza dei loro errori.

Al solito poggiare sul sottolineato: sola forma possibile. Le tesi sono queste: Ogni governo e potere fondato fuori dei Soviet non è rivoluzionario. Solo un governo fondato sulla maggioranza del Soviet può essere rivoluzionario. Ma non si dice: I Soviet esprimono democraticamente la volontà, la libera opinione dei lavoratori: dunque qualunque governo su essi fondato è rivoluzionario, è conforme agli interessi proletari, e va appoggiato. Questo sarebbe falso in tutte lettere. Oggi i Soviet esprimono l’opinione di un proletariato ingannato, traviato: essi non decidono in senso rivoluzionario, e nemmeno in quello dei «pratici bisogni» delle masse.

In tal caso non si butta via come rifiuto il Soviet, questa forma storica espressa dalla rivoluzione borghese russa, diretto avviamento ai compiti del proletariato, né lo si attacca con la forza: si denunzia sistematicamente l’errore.

Quale la consegna di questa dura campagna? La notissima parola: tutto il potere di stato ai Soviet.

Tutto significa che il Soviet non riconosce altri organi del potere politico da lui non emanati; che non accetta spartizioni di poteri, in quanto tali spartizioni sono pure rinunzie ad ogni potere.

Quindi (dialettica!) noi riconosciamo il Soviet perché sola forma possibile di governo rivoluzionario. Lo riconosciamo in principio anche quando la sua maggioranza è contro di noi, e non lo dichiariamo nemico. Non gli diciamo: o passi nelle nostre mani, o ti attacchiamo. Gli diciamo: purché si governi solo col Soviet noi riconosceremo questo governo anche come minoranza, e anche se in maggioranza saranno i menscevichi e populisti. Ma esso deve reclamare tutto il potere, e quindi sconfessare il comitato della Duma e il gabinetto Lvov, rompere i ponti con esso e non negoziare il potere con partiti a base non esclusivamente di lavoratori. I menscevichi e gli esserre hanno una scelta: o coi borghesi nel governo provvisorio, o con noi nel Soviet che abbia tutto il potere, e stia alla testa dello Stato. Questo lo capiranno bene le masse dirette dai socialisti destri.

41 – Tattica impeccabile

Quando Lenin spiega questo ai suoi compagni di partito, egli non tace che si sa bene che cosa gli opportunisti sceglieranno: il governo provvisorio e non un governo del Soviet coi bolscevichi; un compromesso per cui non il Soviet sia il solo organo di potere, ma restino i ministeri borghesi, e non la denegazione di ogni mandato di potere a uomini politici designati fuori del Soviet. Quando questa scelta sarà chiara, la maggioranza dei Soviet abbandonerà come traditori gli opportunisti, e questi, insieme ai borghesi, saranno sbaragliati, in quanto non essi saranno di mezzo al momento dell’inevitabile scontro in forza tra organi del potere borghese e Soviet.

Lo svolgimento della rivoluzione in Russia confermò la giustezza di tale visione in maniera tanto potente e luminosa, che disgraziatamente si perse di vista che non si trattava di un nuovo modo di fare la rivoluzione socialista. Questo modo non sarebbe stato nuovo per nulla, perché corrispondeva alla politica ormai rancida di legalitari, riformisti, revisionisti, fautori della collaborazione tra piccoli borghesi e lavoratori, che avevano rinnegato su tutta la linea la concezione di Marx della rivoluzione con cui si passa dal modo di produzione capitalista a quello socialista.

Quella tattica Leniniana, in quel quadro storico, la ripetiamo impeccabile. Il quadro è quello della Russia degli zar che esce dalle forme feudali di produzione, il suo tempo è la grande lotta che va dal 1880 al 1917.

Quella tattica è la giusta, ed è ineccepibile proprio perché è quella da seguire in una rivoluzione antifeudale, in una rivoluzione borghese.

E qui noi ci uniamo ad un argomento futuro; la lotta che la sinistra italiana svolse dal 1918 al 1926 ed oltre, ed anche con Lenin, quando si volle usare quella tattica per la rivoluzione proletaria nell’Europa capitalista.

42 – Abbasso il parlamentarismo

Tesi 5. (comma primo). Non repubblica parlamentare – il ritorno a questa forma di governo, dopo il Soviet dei deputati operai, sarebbe un passo indietro – ma Repubblica dei Soviet dei deputati operai, salariati agricoli e contadini, nell’intero paese, dal basso in alto.

Crediamo che fu qui che scoppiò la bomba atomica. Eppure, nessuno meglio di Lenin lo ha provato, sono le parole classiche marxiste dal 1848, anche se queste con l’anticipo di settant’anni descrivono tassativamente solo le forme da distruggere e non ancora quelle che le verranno a surrogare. Chi dalle prime battute non ha capito che il marxismo culmina nella distruzione del parlamentarismo democratico, non è tipo di marxista, ma modello di pezza da piedi.

Veniamo tuttavia nella contingenza storica. Abbiamo mostrato come ragionavano i più dei bolscevichi. Il governo provvisorio non è il nostro governo, ma che gli possiamo imputare, se è provvisorio? Ha il mandato di indire – bella schifezza – libere elezioni, la cui sete tormenta da un secolo i russi: dopo l’assemblea costituente se ne andrà e farà le consegne a chi avrà la maggioranza parlamentare: dunque fino allora prepariamoci alle elezioni, e basta.

Qui Lenin come dissero poi i fessi dovette davvero fare il pazzo. Per ora governa la borghesia, il Soviet sta a guardare e delega il potere sostanziale al governo provvisorio. Poi se nelle elezioni della Costituente, come è cosa ben sicura, borghesi e loro servitori, tutti fautori della guerra, sono maggioranza, il potere definitivo passa al Governo parlamentare, e il Soviet che fa? Si accorge che il provvisorio era lui e si scioglie, perché sulle garanzie parlamentari si può davvero dormire! Raccomanda ai proletari di combattere eroicamente al fronte contro i tedeschi, si guarda bene dallo scandalosamente organizzare coi deputati degli operai e dei contadini quelli dei soldati…

Il Soviet per tal modo sarebbe stato un organo della lotta e del tempo rivoluzionario, e la sua vita limitata al tempo della lotta. Il suo compito storico sarebbe stato di condurre le masse lavoratrici nella insurrezione: versato il loro sangue generoso, queste sarebbero rientrate nei ranghi, e il potere legale avrebbe senza disturbi governato.

Qui si scorge la grandezza di Lenin. I Soviet sono non l’organo di lotta della rivoluzione, ma molto di più: la forma del potere statale rivoluzionario. Essi sono quello che era contenuto nelle parole: dittatura democratica. Il proletariato assume il potere nel corso della rivoluzione antifeudale, attua la trasformazione sociale che in sostanza è creazione di capitalismo, ma in questo tempo non toglie solo il potere alla borghesia e ai grandi terrieri, ma lo organizza in una forma che li esclude del tutto anche dal diritto di rappresentanza.

Sola delegazione politica sarà quella nel seno della rete dei Soviet dalla periferia al centro; su questa trama poggerà lo Stato; la borghesia non solo non avrà il potere ma non figurerà nemmeno come un partito di opposizione.

Eccola la tremenda bestemmia. La forma propria della rivoluzione antifeudale russa non sarà un’assemblea parlamentare come nella rivoluzione francese, ma un organo diverso, fondato solo sulla classe dei lavoratori della città e della campagna.

Non solo cade il pretesto di aspettare le elezioni della Costituente, ma cade la necessità di questa: il ciclo si chiuderà a suo tempo con la dissoluzione coatta. Si tratta di una tutta diversa strada: conquistare nel Soviet una maggioranza bolscevica, lavorando legalmente (1848: organizzare il proletariato in partito politico), poi conquistare tutto il potere al Soviet (organizzare il proletariato in classe dominante) evidentemente abbattendo con la forza il potere del governo provvisorio.

Nella rivoluzione socialista il proletariato abbatterà il potere del governo stabile parlamentare e comunque borghese e organizzerà la dittatura dei soli salariati condotta dal partito comunista.

Qui – non dimenticarlo mai – la storia cerca ancora le forme del potere proletario nella tardiva rivoluzione democratica.

43 – Polizia, esercito, burocrazia

Tesi 5. (comma secondo). Soppressione della polizia, dell’esercito e del corpo dei funzionari (cioè: sostituzione del popolo armato all’esercito permanente).

Praticamente il governo di febbraio aveva cambiato i ministri, ma non la rete, l’ingranaggio dell’amministrazione nazionale. I Cento Neri erano scomparsi, ma erano, più che una polizia ufficiale, un partito-setta di reazione. I generali, gli alti funzionari centrali e locali erano ben poco cambiati da quelli del tempo dello zar. La rivoluzione anche in quanto borghese era in questo incompleta. Se si doveva assumere il potere politico anche per compiti sociali corrispondenti alla liquidazione del feudalesimo e non ancora del capitalismo (che sarebbe stata possibile solo con la rivoluzione di Europa) bisognava, tuttavia, ridurre in frantumi il tradizionale apparato dello Stato.

Il potere proletario dei Soviet non poteva fondarsi che sulla classe operaia in armi. Non il cittadino avrebbe fatto parte dell’esercito, ma i borghesi e possidenti ne sarebbero stati fuori, come dagli organi rappresentativi, e ciò al fine di reprimere ogni tentativo controrivoluzionario di guerra civile.

È solo in una rivoluzione che resta socialmente solo capitalista, ma in cui il proletariato perde il controllo, che il classico esercito permanente nazionale di tipo napoleonico ridiventa il perno della forza statale.

Tesi 5. (comma terzo). Eleggibilità e revocabilità, in ogni momento, di tutti i funzionari; i loro stipendi non devono essere superiori al salario medio di un buon operaio.

Questo principio sostenuto da Lenin instancabilmente è quello ben noto della Comune di Parigi. Esso è un principio per economia di transizione in cui vige in pieno il sistema salariato. Ma in esso è un grande passo verso l’eliminazione della divisione sociale del lavoro, della suddivisione della società tra quelli che vivono nell’incertezza e quelli che hanno «una carriera». Abolire le carriere è consegna di una economia in cui il consumo base è garantito a tutti, sia pure con limiti determinati da piani. Oggi invece la borghesia tende a fare il contrario: non abolire quelli che hanno la carriera assicurata, ma rendere tutti carrieristi, specie gli operai industriali.

Infatti l’indirizzo di Lenin per cui l’amministratore (coincidente col rappresentante politico) era un semplice produttore momentaneamente spostato da una decisione del suo Soviet a quel compito sempre revocabile, è stato abbandonato quando la Repubblica, che si chiama tuttora dei Soviet, è diventata uno Stato capitalista retto dalle forze sociali del capitale e non dai lavoratori, andando fatalmente, per le vicende mondiali, in senso opposto a quello per cui si passa da una dittatura di lavoratori che amministra la trasformazione capitalista ad una che amministri la trasformazione socialista.

Anche col compito del 1917 di liquidare il feudalismo dalle sue radici profonde, anzi ancor di più, occorreva quella garanzia. Il lavoratore delegato a governare e amministrare una società in cui ancora borghesi e interessi borghesi sfruttano il lavoro dei suoi pari, non deve essere esposto a divenire un privilegiato e un possibile strumento della forza capitalistica: ciò che, per avere ineluttabilmente dilagato nella massiccia assoldatura di burocrati, è su scala generale in seguito avvenuto.

44 – La frale natura umana?

Come sarebbe stato in questo Lenin un illuso, se antevide con tanta sicurezza eventi immensi e incompresi ancora? Avrebbero ragione i soliti scettici che risolvono quesiti del genere con la formula del potere che non resiste alla fame di ricchezza, più che di vanità, e che non può diventare altro che sfruttamento economico e dispotismo nel senso volgare? Con l’inerenza di questo processo, in qualunque clima storico, a dati insuperabili della vessatissima «umana natura»?

Non è certo la prima volta che mostriamo la vile inconsistenza di queste boiate, e ci battiamo contro questa critica deteriore delle cause che hanno ucciso una grande rivoluzione. Questa non è del resto morta, ma si è incanalata in una via meno rapida storicamente di quella vista da Lenin, in quanto sono mancate proprio le condizioni da Lenin poste come necessarie.

La rivoluzione russa ha percorso un ampio arco di storia: dalla rovina di un sistema feudale ben più fradicio di quello di Luigi XVI, alla instaurazione di un capitalismo mercantile messo nelle sue forme economiche al passo con il capitalismo elefantiaco dell’occidente, incarnato nella macchina statale in quanto meglio vi succhia profitto, e col corteggio di una burocrazia più corrotta ancora dell’ambiente delle corti feudali; che ha una scala di privilegi ed appannaggi ben più scandalosa di quelle.

Eppure l’epoca della prestazione eroica per il potere rivoluzionario – ed è forse più stupefacente l’accettazione della miseria austera che quella, tanto comune, della rinunzia alla vita – non sarà propria soltanto della rivoluzione proletaria, è stata propria di tutte le rivoluzioni, anzi di tutte le forme sociali di produzione, ed è facile leggerlo nella storia, anche nel mito, cui appunto i fessi sorridono credendo che le leggende che circolano le abbia un giorno sfornate di sana pianta un incredulo del loro calibro.

Non risaliremo a Licurgo che sorbiva tra i suoi soldati e contadini il brodetto spartano, al re Agide che divise loro tutti i suoi beni, non ricorderemo i digiuni e le rinunzie di giudei, cristiani e maomettani delle epoche rivoluzionarie, né gli episodi della storia romana su Cincinnato, generale invincibile ma insensibile alle seduzioni di potere e fasto, legato alla vanga del suo campo.

La stessa rivoluzione borghese ha avuto i suoi austeri campioni che hanno lasciato titoli e appannaggi per abbracciare la causa nuova. Il più illustre, Robespierre, fu distinto più che da tutto dal nome di Incorruptible. Ogni nazione ebbe i suoi Savonarola della politica, dalle autoregole inflessibili, quando il moderno capitalismo sorgeva. Ad esempio la borghesia liberale italiana della vecchia intransigente destra storica vanta da Sella in poi una rosa di veri digiunatori al potere, inflessibili con se stessi prima che con altri.

La grande generazione bolscevica aveva questi uomini pronti a sobbarcarsi, per poco più del formaggio e pane della lunga emigrazione, ad amministrare una rivoluzione, e per di più una rivoluzione fatta dai poveri, per fondare una forma sociale che avrebbe portato in alto i ricchi. Chi ride di quel chiodo dello stipendio operaio di Lenin è un poveruomo che lo ha solo sognato nel fasto di un satrapo e non ha mai visto il suo abito frusto: che non ha mai visto lo stesso Zinoviev, Bucharin, e tanti altri compagni; che non ha conosciuto Nadežda Krupskaja, la moglie di Lenin, che non si poteva dire vestita peggio della sua cameriera perché non ha mai avuto cameriera, e che non si è mai posta in evidenza in nessuna forma, pur potendo, come teorico marxista, dare sulla voce ai più alti esponenti[25].

La formula di Lenin anche qui era la giusta. La storia ha preso altra via, confermando la sua dottrina in pieno, ma portando in primo piano i moderni satrapi della politica dei super-stipendiati e dei rammolliti da lusso e da comfort crassamente borghese. Fatto che è efflorescenza di muffe, non forza e causa di storia, episodio proprio delle epoche fetenti, e delle forme di produzione che devono morire.

45 – Le misure sociali nettamente borghesi

Fermeremo la nostra analisi, a coronamento di quanto ci siamo proposti di dimostrare, alle tre tesine sulle misure economico-sociali.

Non abbiamo bisogno di commentare la 9 sui compiti, il programma e il nome del partito, né la 10 su «Rinnovare l’Internazionale» poiché il loro costrutto è al centro di tutte le nostre non brevi trattazioni,

Tesi 6. Nel programma agrario, spostare il centro di gravità sui Soviet dei deputati dei salariati agricoli. Confisca di tutti i beni dei proprietari fondiari. Nazionalizzazione di tutte le terre del paese: le terre sono messe a disposizione dei Soviet locali dei deputati dei salariati agricoli e dei contadini poveri, da formare ovunque. Creazione in ogni grande possedimento di aziende modello poste sotto il controllo dei Soviet dei deputati dei salariati agricoli e coltivate per conto della comunità.

La cosa è chiara soprattutto per chi ha seguito le nostre esposizioni delle dibattute questioni agrarie[26]. Lenin vede in primo luogo il salariato agricolo, puro proletario e non contadino. Poi il contadino povero. Povero vuol dire che ha la sua forza familiare di lavoro, poca terra, e niente capitale di esercizio: non può vivere del prodotto del suo lembo e deve saltuariamente vendere al borghese di campagna il suo lavoro. Formula non della spartizione o della municipalizzazione ma della nazionalizzazione, ossia confisca della rendita fondiaria da parte dello Stato: misura tanto borghese che fu proposta da Ricardo. Disposizione del possesso non al singolo esercente, ma al Soviet. Lotta contro la piccola coltura con grandi aziende modello: non sono ancora dette statali ma solo controllate dal Soviet: quindi è ammesso il capitalismo agrario.

Tesi 7. Fusione immediata di tutte le banche del paese in una sola banca nazionale posta sotto il controllo dei Soviet dei deputati operai.

Anche questa misura è classica del periodo borghese e non pochi Stati l’hanno in effetti e in varie forme realizzata. Vi sono banche dove vi è capitale aziendale e mercantile. Anche qui il capitale non è confiscato ma controllato. Lo Stato è banchiere e privati sono i suoi clienti.

Tesi 8. Non la «instaurazione» del socialismo, come nostro compito immediato, ma per ora soltanto l’immediato controllo della produzione e della ripartizione dei prodotti da parte dei Soviet dei deputati operai.

Questa tesi riguarda palesemente l’economia urbana, industriale. Essa non è, in coerenza a tutto quanto precede, una rivendicazione da attendere dal governo provvisorio che debba includerla nel suo programma, ma un compito dato al potere proletario, e evidentemente susseguente a quelli:
a) di conquistare il Soviet alla formula: tutto il potere, id est al partito comunista;
b) di rovesciare il governo provvisorio e togliere di mezzo la costituente;
c) di condurre avanti il disfattismo della guerra imperialista.

Eppure questo programma di trasformazione sociale, presentato da Lenin nell’Aprile 1917 come programma della seconda tappa della rivoluzione, non presenta alcun articolo che conduca alla trasformazione socialista. Lenin dice che noi non instauriamo il socialismo, parola che prende con le molle, perché nessun governo «instaura» il socialismo; la dittatura proletaria vera e pura servirà a disperdere i rapporti e le forme borghesi di produzione: compito distruttivo, non instaurativo. Nella successiva conferenza di fine Aprile, Lenin spiegherà ancora meglio il tutto, e con parole ancora più recise.

46 – Altri falsi dispersi

Abbiamo così messo a punto le «Tesi di Aprile» nel loro quadro e nel loro tempo, e provato che lo svolto impresso da Lenin verteva unicamente sul ritorno più energico ad una strategia rivoluzionaria, in seno al processo complicato e arduo della liquidazione di una Russia feudale e zarista. La rivoluzione si era, come abbiamo premesso, divisa in due tappe rispetto alla classica attesa dei bolscevichi, non perché fosse stata ancora aggiunta una tappa ulteriore ma perché la prima tappa prevista, per le remore della situazione, e un po’ per debolezza rivoluzionaria, si era spezzata in due. La tappa di febbraio era una falsa rivoluzione, non una rivoluzione solo borghese. Essa, se la storia non avesse avuto ben altro sbocco, conduceva diritto alla controrivoluzione, ossia non solo al controllo da parte della borghesia mondiale, ma perfino, e nel succedersi delle intricate vicende della guerra, a tentativi di controrivoluzione zarista.

A questo pericolo ovviarono le «Tesi di Aprile». E quindi altro enorme falso dello stalinismo (dopo aver tentato di attribuire a Lenin la paternità della dottrina: costruzione del socialismo nella sola Russia, al tempo delle tesi del 1914 contro la guerra imperialista e il tradimento opportunista, che concernevano la distruzione della guerra col disfattismo in ogni paese e anche in uno solo e anche in Russia, ma non annunziavano costruzioni di sorta) di attribuirgliela come se avesse enunciata una tale enormità al tempo del suo ritorno in Russia nell’aprile famoso.

Ecco un saggio di come si esprime una pubblicazione di fonte stalinista, a fianco dei suoi riporti dei testi inconfondibili di Lenin: «Ciò che contraddistingueva la situazione era dunque il passaggio dalla rivoluzione democratica borghese alla rivoluzione socialista, o come diceva Lenin la trasformazione della rivoluzione borghese nella rivoluzione socialista». Ma le parole di Lenin sono lì sopra:
«Il fenomeno che contraddistingue l’attuale storia russa è la transizione dalla prima tappa della rivoluzione, che ha dato il potere alla borghesia a causa dell’insufficiente grado di preparazione ed organizzazione del proletariato, alla seconda tappa che dovrà rimettere il potere al proletariato e agli strati poveri del ceto contadino».

Questo secondo testo sarà a suo luogo anche utilizzato. Ma la causa è istruita. Il principale difetto, dice perfino Lenin nella successiva conferenza del partito (vedi il par. 49 più oltre), è che i socialisti pongono la questione odierna in una maniera troppo generale: passaggio al socialismo. Noi non possiamo pretendere di instaurare il socialismo: sarebbe la più grande assurdità. La maggioranza della popolazione è di piccoli coltivatori, di contadini che non possono nemmeno pensare al socialismo. Noi dobbiamo «preconizzare» il socialismo.

La dialettica della storia è in questo: quegli che dichiarava di non voler ancora passare al socialismo, era il più grande dei rivoluzionari. Quelli che dicono di aver avuto da lui la consegna di costruirlo, e affermano di averlo fatto, non sono che dannati borghesi.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (VI)

47 – Verso la conferenza di aprile

L’arrivo di Lenin, Zinoviev, Sokolnikov, Krupskaja ed altri compagni avvenne il 16 aprile 1917 nuovo stile (calendario europeo gregoriano) e 3 aprile vecchio stile (russo). Le note tesi furono lette da Lenin alla conferenza allargata già indetta a Pietrogrado dalle organizzazioni locali, il 4/17 aprile[27]. Questa conferenza era in preparazione a quella nazionale (settima) del partito del 24 – 29 (7 – 12 maggio). Conviene seguire la vecchia cronologia per non dover chiamare conferenza di maggio quella ormai nota come di aprile, e rivoluzione di novembre la classica Rivoluzione di ottobre. Lo scarto tra le due date è di 13 giorni.

Abbiamo già detto che la conferenza era già in corso e vi si stava varando la risoluzione di intesa con i menscevichi, ed anzi vi era la proposta di unificazione delle frazioni del vecchio partito socialdemocratico russo. A detta di Trotsky
«Il contrasto era troppo stridente. Per raddolcirlo, Lenin, contrariamente alla sua abitudine, non sottopose all’analisi la risoluzione accettata (già prima, in sua assenza), ma semplicemente le voltò le spalle»[28].

Abbiamo esposto lo smarrimento che provocò in tutti il discorso inatteso, con le tesi che lo ricapitolarono. La dimostrazione di Trotsky che Stalin era totalmente, con quasi tutti del resto, sconfessato, è tanto inconfutabile quanto la storia dei trucchi incredibili grazie ai quali la storiografia posteriore ufficiale ha in seguito, a poco a poco, falsato tutto il periodo e il contrasto: prima aprile – dopo aprile; lasciando, si capisce, nelle peste Kamenev e gli altri futuri «trotzkisti». Nel 1924 Stalin ammise di aver condiviso l’erronea posizione di compromesso con il governo provvisorio, che «portava acqua al mulino del difesismo» e confessò: «l’ho ripudiata solo alla metà di aprile, dopo aver aderito alla tesi di Lenin». Ma nel 1926 dice che «sono chiacchiere» e si trattò solo di «tentennamenti passeggeri: chi non ne ha avuti?». Nel 1930 viene perseguitato lo storiografo Jaroslavskij per aver fatto cenno a quei tentennamenti. La frase di Leone è felice: L’idolo del prestigio è un mostro vorace!

Finalmente nella Storia ufficiale si bollano per quella posizione semi-menscevica Kamenev, Rykov, Bubnov, Nogin e si attribuisce la reazione a Stalin appena tornato dall’esilio, a Molotov e ad altri. Noi non diamo a questa polemica eccessivo peso. Stalin = Kamenev, nel tempo anteaprile, è uguaglianza dimostrata. Ma davanti alla storia rivoluzionaria è riabilitato a conti fatti non Stalin, ma Kamenev. Potrebbe essere l’opposto, l’analisi delle forze storiche resterebbe.

Trotsky non può essere seguito quando vuole rivendicare qui un suo giudizio del 1909 sul dissenso tra le «due tattiche» secondo cui vi erano elementi anti-rivoluzionari nella tesi menscevica e in quella bolscevica, i primi tali che già allora affioravano, i secondi tali che sarebbero affiorati solo in caso di vittoria rivoluzionaria[29]. Questo sarebbe accaduto in Aprile, e sarebbe stato dovuto a Lenin il «riarmo» del partito, espressione usata da Leone nel 1922 che scatenò poi le ire degli stalinisti. Trotsky vi innesta la sua teoria del capo geniale che esprime le masse più rivoluzionarie del partito, e il partito più rivoluzionario della sua «macchina» organizzativa.

In queste idee è la prova del tardivo avvicinarsi di Trotsky a Lenin e di una parte di verità della controcritica staliniana, sebbene i due campi abbiano torto nel far credere che con la bomba di aprile Lenin operasse una revisione delle vecchie tesi.

Noi ribadiamo il peso rivoluzionario della funzione del partito con la prova che la teoria aveva tutto preveduto in modo ortodosso quanto sicuro. Se Lenin «riarmò» il partito, il termine cuoce a quelli che stavano «disarmando», ma prova appunto, come nella nostra presentazione, che Lenin lo rimise sulle posizioni del vecchio contrasto tra le «due tattiche» che a Trotsky non garbava. Non dette Lenin al partito nuove armi segrete o inedite: gli fece riprendere quelle che stava lasciando cadere.

48 – Dissenso alla conferenza

Vi fu la resistenza a Lenin. Non da parte di Stalin, che si mise da un canto a guardare, ma dai più ingenui Kamenev, Rykov, Nogin, Dzeržinskij, Angarski ed altri. «La rivoluzione democratica non era finita». «L’impeto per una rivoluzione sociale doveva venire dall’Occidente».

Prima di passare alle risposte di Lenin, decisive, bisogna qui dare una formulazione felice nel racconto di Trotzky, dopo quest’ultimo riferimento all’Occidente:
«Questo era vero. Tuttavia lo scopo del Governo Provvisorio non era di completare la rivoluzione democratica, ma di rovesciare il suo corso. Donde risultava che la rivoluzione democratica poteva essere completata solo con la classe proletaria al potere»[30].
Qui era in linea.

La conferenza panrussa delle organizzazioni bolsceviche del 24–29 aprile vide rappresentati ben 79 mila membri del partito da 131 delegati con voto deliberativo, più 18 con voto consultivo. Di quei 79 mila ben 15 mila erano della capitale, Pietrogrado. Ecco le vere dimensioni di un partito rivoluzionario di classe. Altro che sguaiati festivals con conti di greggi, e di versamenti in cassa sollecitati con» attractions» da Luna Park!

A conferma delle dichiarazioni di Trotsky pare che anche il Cremlino sia del parere che Aprile non è molto interessante. Nelle «Opere Scelte» di Lenin tradotte in italiano (oggi si stampano le Opere complete) del contributo di Lenin alla conferenza di Aprile si riportano solo le brevi tesi sulla questione agraria e sulla questione nazionale, tuttavia espressive ed importanti quanto mai. Manca dunque il rapporto principale di Lenin sul Momento attuale che, in modo organico, sviluppò i temi delle «Tesi di Aprile». Dobbiamo ricorrere dunque a testi riassuntivi, tratto uno da una pubblicazione italiana di tipo popolare, l’altro da un resoconto in tedesco piuttosto saltuario[31].

I temi della conferenza erano (dopo il discorso di apertura che fu tenuto da Lenin, sottolineando la storica portata di quella conferenza in quanto «fa parte non solo delle condizioni della rivoluzione russa, ma anche della rivoluzione internazionale che sta avanzando») i seguenti
1) Il momento attuale;
2) La conferenza della pace;
3) L’atteggiamento da tenere nei Soviet;
4) Revisione del programma del Partito;
5) Situazione nell’Internazionale;
6) Unificazione delle organizzazioni socialdemocratiche internazionaliste (avanzo postumo dell’organizzazione della conferenza dopo quella di marzo);
7) La questione agraria;
8) La questione nazionale;
9) L’assemblea costituente;
10) Questioni di organizzazione;
11) Rapporti per regioni;
12) Elezioni del Comitato Centrale.
La conferenza aveva il valore di un congresso di partito. Lenin dopo il suo arrivo fu incaricato di svolgere i punti 1, 7, 8 dell’ordine del giorno, ma parlò anche sul punto 4 e 6, sull’atteggiamento verso i Soviet operai e contadini, a sostegno della risoluzione sulla guerra, e sulla situazione dell’internazionale e i compiti del POSDR. Tenne anche il discorso di chiusura.

Non seguiremo tutto lo sviluppo in quanto la costruzione da Lenin sviluppata nei suoi molti interventi è quella stessa delle «Tesi di Aprile» da noi integralmente riportate precedentemente e commentate a fondo. Vi sono tuttavia qui chiarificazioni e formulazioni molto notevoli.

49 – Ancora la questione del potere

Lenin chiarisce ancora che nel febbraio il potere è caduto dalle mani del dispotismo feudale in quelle della borghesia capitalista e dei grandi proprietari fondiari, rappresentati dal Governo provvisorio e dai suoi uomini parlamentari cadetti e liberali, sostenuti dalla banda dei populisti e socialistoidi opportunisti. Ma la storia pone alla borghesia dominante tre compiti che non può risolvere: far finire la guerra, dare le terre ai contadini, trarre il paese dalla crisi economica. La borghesia è solidale con gli imperialisti stranieri nella guerra di rapina, come lo era lo zar, anzi soltanto più di esso.

Al massimo potrebbe giungere ad una pace imperialista, che prepari nuove guerre. La borghesia capitalista non ha interesse alla nazionalizzazione della terra, non perché tale misura sia incompatibile col capitalismo, ma per i legami tra fondiari e capitalisti, per i crediti ipotecari sulla terra delle banche borghesi. Infine la borghesia non può concepire ed attuare misure di ripresa economica, che non siano a tutte spese dei lavoratori delle campagne e delle fabbriche.

Quindi il potere deve essere tolto alla borghesia ed assunto dal proletariato rivoluzionario, appoggiato dai contadini.

Qui abbiamo una formulazione suggestiva. Dinanzi alla solita obiezione che mancano le condizioni per il passaggio da una rivoluzione sociale borghese ad una socialista, Lenin risponde:
«I consigli dei deputati operai contadini e soldati devono prendere il potere non per creare una repubblica borghese, e nemmeno per passare immediatamente al socialismo»[32].

Nell’esposizione di Lenin, la questione economica e quella politica sono ancora una volta messe a pieno fuoco.

«Non possiamo essere per la 'introduzione' del socialismo. Sarebbe la più grave delle assurdità. Dobbiamo propugnare [altra volta trovammo tradotto preconizzare] il socialismo. La maggioranza della popolazione in Russia è composta di contadini, di piccoli proprietari, che non possono nemmeno pensare al socialismo. Dobbiamo quindi proporre misure concrete»[33].

Abbiamo detto molto su queste misure concrete economico-sociali nei vari campi, ed è assodato con le parole di Lenin che esse non hanno carattere tale, da uscire dal quadro capitalistico. Non ci ripetiamo sul controllo della produzione e sulla banca di Stato, ma diamo ancora una definizione del postulato della nazionalizzazione della terra:

«La nazionalizzazione della terra, che è una misura borghese, assicura alla lotta delle classi la massima libertà possibile e concepibile nella società capitalistica e libera il godimento della terra di tutte le sopravvivenze non borghesi. Inoltre, la nazionalizzazione, in quanto abolizione della proprietà privata della terra, vibra in pratica un colpo così formidabile alla proprietà privata di tutti i mezzi di produzione in generale, che il partito del proletariato deve contribuire in tutti i modi a questa riforma»[34].

Qui l’impiego della scienza economica marxista giunge al massimo rigore. Statizzare la terra (in altro testo si dice Staatseigentum, ossia proprietà statale) vale sopprimere dei tre personaggi il primo, reddituario fondiario, e lasciare in gioco nella lotta di classe altri due: affittuario capitalista e agricoltore salariato. Questo val meglio che passare il godimento, per definizione borghese, al piccolo contadino coltivatore diretto. Comunque nella tesi Lenin lo tollera, a condizione che si organizzino a parte i Soviet dei braccianti salariati (oggi scomparsi, ma con qual senso sociale?), e in vista dell’altro vantaggio: abolire la proprietà della terra è un gran passo per poter preconizzare l’abolizione di ogni proprietà privata, anche sul capitale.

50 – La nuova forma del potere

Quindi tutte queste misure concrete, necessarie a far muovere la maggioranza contadina nel nostro senso, e a farle appoggiare il passaggio del potere dal Governo provvisorio (parlamento, assemblea costituente) ai Consigli, non significano affatto «mettere un piede economico nel socialismo». Ma, quanto al trapasso del potere integrale ai Soviet, questo sì significa mettere «un piede nel socialismo», quello politico. In relazione a queste considerazioni abbiamo scartata la definizione dell’Ottobre come rivoluzione borghese condotta dal proletariato.

L’Ottobre deve dirsi rivoluzione socialista, non solo perché il proletariato è la classe pilota e dominante, ma per la sua forma politica e statale originale, che trascende ogni repubblica borghese e che è quella propria della rivoluzione socialista internazionale, mentre tuttavia la trasformazione socialista della struttura economica questa nuova forma e forza non la potrà cominciare dalla Russia, bensì dall’Europa.

Vediamo come va questo sviluppo nelle parole di Lenin, o meglio nei resoconti che ne possediamo.

«Quali sono i compiti del proletariato rivoluzionario? Il difetto e la lacuna fondamentale di tutte le trattazioni dei socialisti sta nel fatto che il problema è posto in un modo troppo generale: passaggio al socialismo; mentre si deve parlare dei passi e delle misure concrete. Alcune sono mature, altre no. Stiamo attraversando un periodo di trapasso. Abbiamo chiaramente creato forme che non sono simili alle forme statali borghesi: i consigli degli operai e dei soldati, una forma di Stato che finora non è mai esistita. È questa una forma che rappresenta i primi passi verso il socialismo, e all’inizio storico della società socialista è un fatto decisivo. La rivoluzione russa ha creato i consigli operai. In nessun paese borghese del mondo esistono istituzioni statali di questo genere, né possono esservi: nessuna rivoluzione socialista potrà operare con una forma di potere diversa da questa»[35].

«La rivoluzione è borghese, quindi non si deve parlare di socialismo, dicono gli avversari. Noi invece diciamo: poiché la borghesia non può uscire dalla situazione creatasi, proprio perciò la rivoluzione continua. Non dobbiamo ridurci ad una fraseologia democratica, ma spiegare chiaramente la situazione alle masse e indicar loro una serie di misure pratiche: prendere nelle loro mani i sindacati [leggi: i sindacati di produzione; noto esempio degli zuccherieri], controllarli mediante i consigli degli operai e dei contadini, ecc. E tutte queste misure avranno per effetto, se realizzate, che la Russia si troverà con un piede nel socialismo»[36].

E in un passo della risoluzione:
«Il proletariato della Russia, che agisce in uno dei paesi più arretrati di Europa, in mezzo ad una gigantesca popolazione piccolo-contadina, non può porsi immediatamente come scopo la realizzazione della trasformazione [Umgestaltung] socialista. Ma sarebbe un gravissimo errore e, in pratica, il completo passaggio dalla parte della borghesia, se si volesse da tanto dedurre la necessità di un appoggio politico della classe operaia alla borghesia stessa, o limitare la nostra attività al quadro di ciò che la piccola borghesia può accettare, o la rinunzia al ruolo dirigente del proletariato nell’illuminare il popolo sulla indilazionabilità di una serie di misure praticamente già mature che conducano verso il socialismo [nella direzione che conduce al socialismo]»[37].

51 – La chiara alternativa

Prendere dunque il potere, rovesciare il governo provvisorio, abolire il dualismo, fare dei Consigli la esclusiva base dello Stato politico rivoluzionario, è la tesi inesorabile, non contraddetta dal fatto che le misure in se stesse non sono socialiste, ma, costituendo una decisiva avanzata dal cessante feudalismo al capitalismo, vanno verso il socialismo.

L’incitamento ricorre ad ogni passo. Abbiamo già riferito: la rivoluzione continua. Altre espressioni:
«Se i Consigli devono prendere il potere lo devono solo a questo scopo [in fine delle altre misure, statizzazione del trust degli zuccheri]. Altrimenti non ha nessun senso prenderlo. La questione si pone così: O i Consigli si sviluppano, o cadranno come la Comune di Parigi. Se si ha bisogno di una repubblica borghese, possono darcela anche i cadetti [.…]. Il successo pieno di queste misure è possibile solo in caso di rivoluzione mondiale, solo se gli operai di tutti i paesi sostengono la rivoluzione ed essa strangola la guerra. Perciò la presa del potere è l’unica misura concreta; l’unica soluzione».

«Che cosa debbono fare i Consigli, se il potere passa nelle loro mani? Devono mettersi forse dalla parte della borghesia? La risposta è: per la classe operaia la battaglia di classe continua».

«È impossibile passare direttamente al socialismo. A che scopo dunque devono i Consigli prendere il potere? Proprio per fare i primi passi concreti verso questo trapasso, che si possono e devono fare. Sotto questo aspetto il peggior nemico è la paura. Bisogna chiarire alle masse che questi passi concreti vanno fatti subito, altrimenti il potere dei Consigli degli operai e dei soldati non avrà più senso, non darà nulla al popolo»[38].

Traduciamo questo discorso ribadito venti volte in parole semplici. In un ambiente arretrato, feudale, le piene misure capitalistiche hanno il valore di passi dati verso il socialismo. Nella specifica situazione russa e per quella di guerra imperialista mondiale, la borghesia non farà mai questi passi di deciso, totale capitalismo, di eversione feudale radicale. Occorre lasciar vivere una repubblica mezzo-borghese, esporsi alla controrivoluzione feudale perfino? Mai più. Il proletariato e il partito comunista devono prendere il potere e tagliamo fuori la borghesia, per attuare quelle misure di capitalismo integrale, totale: con tali drastici passi la Russia mette un piede – quello politico, diciamo noi, e non quello economico – nel socialismo.

52 – Un piede e l’altro piede

Anche un Lenin nelle sue immagini di propaganda può talvolta essere pedestre. Noi saremo addirittura nella nostra modestia pedissequi, e di questi due piedi ci occuperemo per un tratto.

Anzitutto, ripetendo che disponiamo di resoconti a frammenti e non ordinati e abbiamo dato un nostro ordine progressivo alle questioni, rileveremo che le «dispense «di marca stalinista cui talvolta attingiamo concludono il passo che abbiamo citato togliendo di mezzo la storia del piede e sostituendola con queste sfrontate parole: E queste misure, una volta attuate, trasporteranno di colpo la Russia sul terreno del socialismo!

Naturalmente per quanti sforzi facciamo non potremo mai venire in possesso sicuro di quei verbali del 1917. Ma non ci sono necessari per dare ancora una volta alla divulgazione di fonte stalinista la taccia di menzogna.

Vediamo un altro passo di Lenin a base di piede.
«Questa misura [seconda: la prima è come noto la nazionalizzazione del suolo agrario; vengono ora il controllo dei Soviet sulla grande produzione, sui sindacati degli zuccherieri, il carbone, i metalli, ecc., sulle banche, la tassazione più giusta e progressiva dei redditi e dei patrimoni], permanendo il grande capitale, [.…] non è il socialismo, è soltanto una misura transitoria, ma la realizzazione di una serie di misure di questo genere, insieme con l’esistenza dei Consigli degli operai e dei soldati, farà sì che la Russia si trovi con un piede nel socialismo: con uno solo, perché l’altro settore della vita economica del paese è dominato dalla maggioranza contadina»[39].

Il primo dei due piedi si riferisce dunque al proletariato dell’industria, il secondo ai piccoli contadini coltivatori diretti. Il primo sta nel socialismo, il secondo fuori. Il primo vi sta in senso politico perché vi è giunto grazie a due condizioni: la presa del potere da parte dei Soviet, e il controllo dello Stato proletario sulla grande industria, l’industria pesante. Ora questa, come ampiamente vedremo nel corso ulteriore della presente trattazione, è anche una condizione politica; si tratti di controllo su quanto rimane di grande capitale privato, si tratti di statizzazione delle grandi fabbriche, di Staatseigentum di esse. È condizione politica socialista perché l’industria pesante assicura a chi l’ha in potere le armi della guerra di classe e della guerra civile davanti alla controrivoluzione interna ed esterna. Non è invece condizione economica socialista, poiché economicamente si tratta ancora di azienda privata soggetta al controllo di Stato, ovvero più oltre di azienda in proprietà dello Stato. E una condizione economica di «capitalismo di Stato», in cui il sistema aziendale, salariale, mercantile, monetario resta in piedi: sarebbe condizione, oltre che politica, anche economica socialista, dal momento che il mercantilismo e la redditibilità dell’azienda singola fossero superati, e con essi il sistema del salario.

Dunque il piede messo con la frase di Lenin, anche ammettendo che non sia tra le sue la più elevata, nel socialismo dalla Russia è dovuto ad un passo fatto dal solo settore urbano-industriale-proletario: questo passo consiste nel potere assunto dagli operai contro la borghesia e nel ruolo dirigente rispetto al «popolo» minuto e contadino, e consiste nell’avere adottato la misura di togliere ai borghesi il controllo di banche, assicurazioni, trusts industriali e così via.

Il piede rimasto nel capitalismo è quello rurale-agrario, dove non si può porre nel 1917 (né si è posta nel l955) una consegna di misure di integrale capitalismo di Stato. La nazionalizzazione o statizzazione della terra non è nemmeno capitalismo di Stato, perché si può associare al capitalismo privato grande e minuto. La terra in Marx non è capitale né in campo economico né in campo storico: rimandiamo per questo basilare assunto alla serie sulla questione agraria nel marxismo, per la quale Lenin è l’Ortodosso degli ortodossi. Capitale sono gli strumenti produttivi dell’esercizio agricolo, le scorte vive e morte, fisse e circolanti. Un capitalismo pieno nella terra sarebbe l’aver trasformato tutti i contadini in salariati di grandi aziende, c da privato diverrebbe di Stato quando questo espropriasse e confiscasse tutte le aziende agrarie, il capitale di esercizio agrario, le scorte tutte.

Perciò nazionalizzando la terra ci si assicura «l’appoggio della maggioranza contadina», ma non si crea nessuna base ad un socialismo nell’agricoltura. Si espleta semplicemente un lato della rivoluzione agraria borghese, liberando il piccolo contadino dalla servitù feudale e da una parte della rendita dovuta al proprietario fondiario; una parte, perché lo Stato, borghese o proletario che sia, dovrà necessariamente imporgli tasse almeno pari a quelle che il proprietario titolare del suolo pagava, se non a tutta la rendita di cui egli godeva.

53 – I passi ulteriori dei due piedi

 

Una costante aspirazione di Lenin è la prevalenza del proletariato rurale sul piccolo agricoltore esercente: e questi resta tale sia che abbia la proprietà, sia che abbia il godimento divenendo in fondo un affittuario dello Stato. Anticipando quanto in seguito si dirà, è chiaro che non è facile giungere, nemmeno nei paesi più sviluppati, ad una agricoltura tutta a salariati, che si ha quando le famiglie rurali non consumano direttamente il prodotto del proprio lavoro in natura. Solo da questo gradino si potrebbe pensare a salire a quello di un capitalismo agrario di Stato, e dire: non siamo certo al socialismo, ma abbiamo messo il piede sullo scalino che vi conduce. Lenin riprenderà questa idea nell’opuscolo 1921 sull’imposta in natura di cui parleremo a lungo.

Supponiamo che, spariti i boiardi ed i grandi proprietari fondiari di tipo borghese (landlords, latifondisti), gli imprenditori agrari (kulaki in Russia) avessero spogliati tutti i piccoli contadini e conducessero tutta l’agricoltura con salariati. Sarebbe stato salito lo scalino al capitalismo privato in campagna, e si potrebbe dire: Se statizziamo tutto il capitale dei kulaki, e almeno dei grandi, entriamo nel capitalismo di Stato e mettiamo l’altro piede (fermo restando che tutto il potere lo abbiano i salariati dell’industria e della terra) nel socialismo.

Che cosa è invece avvenuto in Russia? Si sono più che espropriati, liquidati i kulaki, sia pure. Il loro capitale non è passato allo Stato ma è stato diviso in due parti: l’una l’hanno grandi aziende cooperative ma non statali, l’altra in tante piccole porzioni tutti i contadini di dette aziende, che sono quindi mezzi salariati, mezzi produttori diretti, e il prodotto diretto parte consumano, parte vendono. Questa soluzione ha preso il posto della diffusione quantitativa delle vere aziende di Stato, che coltivano relativamente poca terra. Questo non è stato un passaggio dal capitalismo privato a quello statale, ma un permanere in una forma che per metà è piccola produzione parcellare, ossia sta sotto l’agricoltura capitalista, per l’altra non vi sta sopra, in quanto una «cooperativa di lavoro» rurale con le sue entrate e spese può essere divenuta una grande azienda non più parcellare, ma è sempre azienda privata e non di Stato.

In altre parole ripetiamo il concetto. Il piccolo contadino in regime borghese differisce dal servo feudale perché è libero da servitù personali di lavoro e prodotto. Egli sintetizza in sé (Marx, Lenin) tre figure: è proprietario fondiario, perché tutta la poca terra su cui lavora è sua; è capitalista perché tutto il piccolo capitale di esercizio è suo; è lavoratore perché tutto il lavoro sul campo è dato da lui e dai familiari.

Nazionalizziamo la terra senza passare da piccola a grande azienda: sparisce la figura di proprietario, e restano nel produttore parcellare le due di piccolo capitalista e di lavoratore (analogia: l’artigiano, il piccolo affittuario lavoratore, o colono).

Passiamo alla grande azienda capitalista: i piccoli contadini sono espropriati di terra e capitale: resta la terza figura di lavoratori a salario nelle imprese concentrate in grosse unità.

Passiamo al colcos russo. Il piccolo contadino è divenuto, per metà circa del suo tempo (forza) lavoro, salariato e capitalista collettivo (gli si versa una quota salario e una quota utili in un sistema complicato che vedremo) e per metà è ridivenuto produttore parcellare: ha la casa, il capitale scorte, e vi impiega l’altra sua parte di tempo (forza) lavoro.

Lasciando le due parti minoritarie di grandi aziende di Stato, e di piccole famiglie contadine non colcosiane ancora, resta il fatto che la maggioranza dei lavoratori della terra in Russia aderisce ancora alle forme della minima produzione, con tutte le conseguenze economiche sociali e politiche. Il secondo piede è rimasto in terra non socialista, ed è perfino precapitalista.

54 – Cattive mosse dei primo piede

Indubbiamente dopo le violente crisi di cui ci occuperemo – lotta per la conquista del potere, per lo strangolamento della guerra, per l’uccisione della controrivoluzione – l’industria ha preso da un lato a divenire tutta o quasi statale e dall’altro ad assumere un peso quantitativo molto più forte nell’economia sociale russa. Ove un tale fatto fosse rimasto associato al potere politico nelle mani del proletariato russo, e legato al moto generale del proletariato rivoluzionario mondiale, il piede di cui diceva Lenin starebbe ancora più fortemente nel socialismo pure essendone il corpo ancora fuori, in ambiente mercantile e di capitalismo di Stato.

Purtroppo è l’altra condizione politica base che si è allentata. Lo Stato russo ha partecipato in pieno ad una guerra tra Stati imperialisti, come alleato di uno (qualunque) dei due gruppi di essi. Il proletariato russo non ha più ruolo dirigente rispetto alla classe contadina, sia pure colcosiana, cui è reso pari nella costituzione politica del 1936 e nel diritto. Il suo movimento politico non è più legato al programma internazionale della rivoluzione armata e della dittatura, l’Internazionale Comunista è stata smontata. Quella condizione è stata demolita pezzo per pezzo, e l’espressione fisica di tale fatto sono state le persecuzioni all’opposizione di sinistra e le «purghe» che ne hanno sterminato le file.

In queste condizioni il capitalismo di Stato resta, il dominio della grande industria resta, ma il carattere socialista della realizzazione di queste «misure» si è perduto: siamo al livello di un capitalismo di Stato come quello tedesco e di altri paesi (che Lenin illustra nel citato opuscolo del 1921).

La rivoluzione che Lenin voleva, e l’Ottobre ci dette, fu dunque socialista, perché mise solidamente il piede politico-proletario nel socialismo.

Vi avrebbe messo il secondo piede economico-rurale se fosse venuta in soccorso la rivoluzione proletaria internazionale. Forse solo dopo questa perfino paesi avanzati come Germania e Stati Uniti vedranno come forma di passaggio il grande capitalismo agrario di Stato. E vi sarebbe entrata con tutto il suo corpo iniziando lo sradicamento della autonomia aziendale del salariato e della distribuzione mercantile monetaria, in città e in campagna in parallelo.

Ma ha vinto nel mondo la controrivoluzione capitalista, pure essendo stata battuta in Russia quella feudale, spalleggiata dai borghesi del tempo.

Non solo quindi non è stato portato il secondo piede sul terreno del socialismo, ma il primo ne è stato ritratto. Tutti e due, oggi, e da non pochi anni, quasi trenta, ne stanno fuori.

Non solo la Russia non è una società socialista, ma nemmeno una repubblica socialista. Socialista resta, alla luce della storia rivoluzionaria, la Rivoluzione di Ottobre, e la coerente monolitica lungimirante costruzione di Lenin del cammino della Russia.

55 – La difficile manovra dopo aprile

Lenin aveva appena guadagnata l’aspra battaglia di sciogliere il partito bolscevico da ogni legame con la tolleranza del governo borghese e del difesismo, che si trovò di fronte l’obiezione sedicente di sinistra: Avete detto che occorre prendere il potere: benissimo; torniamo nella illegalità e prepariamo a breve scadenza l’insurrezione.

Il rapporto di Lenin sugli sviluppi tattici, secondo la trama delle Tesi del 4 aprile, fu tanto delicato quanto esauriente.

Noi, egli disse, non abbiamo che una minoranza: occorre essere molto diffidenti. Molti lavoratori sono in buona fede caduti nel difesismo, per euforia rivoluzionaria, anche nelle città. I contadini, fino alla attuazione delle misure economiche concrete, non saranno con noi. Se vogliamo salvare alla rivoluzione internazionale la forma nuova dei Consigli, non possiamo attaccare il Soviet solo perché in maggioranza non segue noi ma gli amici opportunisti del borghese governo provvisorio.

Disse Lenin[40]: Alcuni si domandano: non ci siamo ritrattati? Avevamo preconizzata la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile ed ecco che ora parliamo di azione pacifica e non armata per il passaggio del potere ai Soviet. Ma noi siamo, spiegò, in un periodo di transizione in cui Miljukov, Guckov non hanno ancora impiegata la violenza: e quindi ci occorre una profonda paziente propaganda. Se noi parlassimo ora di guerra civile non saremmo marxisti, ma blanquisti. La nostra politica deve nell’immediato futuro condurre il governo borghese a smascherarsi, e ancora più i suoi manutengoli menscevichi (evidentemente, a quella data, su questo Lenin non insiste nei testi pubblici). Ma nella costruzione di Lenin la futura fase di guerra civile è certa e precisa: ne discuteranno a lungo i bolscevichi nei mesi successivi, e freneranno ancora l’azione nel luglio, dopo il quale saranno assoggettati a persecuzioni e provocazioni: alfine in ottobre accetteranno la sfida.

Il partito, ben disse Trotsky, aveva bisogno di un periodo di riarmo, e di chiarificazione dell’orientamento dei militanti e della parte avanzata delle masse; solo dopo avrebbe al momento segnato dalla storia dato battaglia, per vincerla.

Questo poderoso insieme di decisioni venne fuori dagli apporti di Lenin sul programma di lavoro, predisposto sotto l’effetto di un indirizzo precedente e non molto felice. Venuta al punto della unificazione dei socialdemocratici internazionalisti (con cui Kamenev e Stalin intendevano in marzo il ripescamento di quasi tutti i menscevichi), la Conferenza, seguendo la linea di Lenin, condannò ogni intesa coi social-sciovinisti russi ed esteri e con ogni opportunismo e formulò la parola d’ordine dell’internazionale Comunista[41].

Abbiamo così dato ampio sviluppo a quanto Lenin sostenne in ordine al compito da svolgere nella situazione politica di quello svolto fondamentale, e anche in riguardo al tema sulla questione agraria. Meriterà ulteriore attenzione la questione delle nazionalità; gravissima nell’impero degli zar, definito mosaico di cento popoli.

Il successivo congresso (quinto) della fine luglio segnerà il passaggio dalla fase di lotta pacifica alla nuova insurrezione armata: ma la linea teorica e storica sarà il chiaro sviluppo della conferenza di aprile, e gli stessi nomi faranno parte dei 32 del comitato di ottobre, come dei 14 di aprile. Stalin fu chiamato la prima volta al comitato centrale: Trotsky era ancora assente ed estraneo alla organizzazione bolscevica. Secondo Trotsky, a parte Lenin e Stalin, di tutti gli eletti in questo Comitato Centrale solo Sverdlov morì di morte naturale, tutti gli altri furono o giustiziati o soppressi non ufficialmente, nel seguito.

È forse nella storica conferenza di Aprile che i punti cardinali della rivoluzione russa splendono di maggior luce: rottura con la borghesia antizarista a metà, rottura con i social-opportunisti, rottura con la guerra, legame con il movimento rivoluzionario e lotta per lo stato della dittatura proletaria, in tutti i paesi[42].

Punti formidabilmente avanzati, pur nell’aperta dichiarazione che nella sola Russia non siamo allo svolto storico della trasformazione socialista.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (VII)

56 – La questione nazionale russa

Circa il contributo di Lenin alla conferenza dell’Aprile (24 – 29 aprile; 7 – 12 maggio stile europeo) 1917, ci resta da esaminare la questione nazionale. Abbiamo qui il testo della risoluzione che Lenin propose, e uno scorcio dei concetti di essa in un opuscolo del 10 Aprile (subito dopo le Tesi del 4 già illustrate)[43]. Da altra pubblicazione non completa come fonte può trarsi un cenno della discussione.

Secondo tale fonte il merito principale dell’impostazione della questione nazionale è dato a Stalin, relatore ufficiale.

È possibile che Stalin abbia così inteso rifarsi della sconfessione della politica da lui seguita verso il governo provvisorio borghese e i partiti opportunisti dei Soviet: comunque, l’intervento decisivo fu di Lenin e determinò le conclusioni della conferenza.

Indubbiamente è giusto dire che le nazionalità oppresse dallo zarismo (cento razze, cento lingue, soleva dirsi, in un solo Stato e sotto un autocrate solo) rappresentavano una parte immensa nella lotta impegnata nel 1917 per la fondazione di un nuovo potere, il suo passaggio a una nuova classe. L’esito della rivoluzione dipendeva, in gran parte, dal sapere se il proletariato sarebbe riuscito a trascinarsi dietro le masse lavoratrici delle nazionalità oppresse. Questo è un fatto: si pensi alla sola Polonia, ove i più feroci pogrom zaristi avevano maciullato nazionali polacchi ed ebrei; ed ivi l’odio non era solo per lo zar ma per Pietrogrado, per la razza russa, dominante nell’impero storico. Altro decisivo rilievo storico è che il governo provvisorio borghese era propenso a continuare la vecchia politica di strangolamento e di oppressione delle nazionalità: reprimeva i moti nazionali, discioglieva le organizzazioni del tipo della Dieta di Finlandia. Per i partiti borghesi e piccolo-borghesi, in relazione alla situazione di guerra per cui vaste zone dell’ex impero erano nelle mani dello straniero tedesco, è vero che restava prima parola d’ordine quella della «Russia una e indivisibile», come sotto lo zar in cui era perfino Santa.

Non meno storico è che solo i bolscevichi prendevano posizione contro questa parola d’ordine feudale, dichiarando apertamente che i popoli delle nazioni oppresse avevano il diritto di disporre della loro sorte. Il testo popolare che abbiamo qua e là parafrasato nel suo poco rigore attribuisce questo diritto ai «lavoratori», ma la formula si riferisce senza ambagi ai popoli.

Si dice poi che era Stalin che aveva elaborato con Lenin i principi della politica nazionale bolscevica, e che nel suo rapporto svelò la politica di brigantaggio del governo e denunziò senza pietà i conciliatori piccolo-borghesi a rimorchio della borghesia. Orbene la questione della paternità delle direttive secondo i nomi degli uomini illustri non è quella che ci preme, è noto, e al suo punto diremo dei contributi di Stalin sulla questione nazionale in genere (vedi il nostro «Razza e Nazione nella teoria marxista»). Quello che è certo è che lo svolto dell’Aprile, contro il Governo provvisorio e gli opportunisti dei Soviet, investe la questione nazionale come quella della guerra e della pace, della attitudine verso il Governo provvisorio e il dualismo dei poteri, delle misure economiche e agrarie e così via. Chi avesse visto giusto nella politica reazionaria dei borghesi e piccolo-borghesi sul punto delle nazionalità, avrebbe dovuto vedere giusto su tutto, e non organizzare la conferenza di cui trattiamo nella direzione della «benevola attesa» verso il governo fino alla Costituente, e di una fusione coi menscevichi!

57 – Contrasto tra due posizioni

Possono assumersi i punti che si attribuiscono a Stalin, ma troveremo nella risoluzione da Lenin stilata:
a) riconoscimento del diritto dei popoli a separarsi (che significa riconoscerlo ai lavoratori? nulla);
b) per i popoli riuniti in un dato Stato, autonomia regionale;
c) per le minoranze nazionali, leggi speciali che garantiscono il loro libero sviluppo;
d) per i proletari di tutte le nazionalità di un dato Stato. una organizzazione proletaria unica indivisibile, un unico partito.

Ora qui, se non soccorre la dialettica, non se ne viene fuori, come non ne venne fuori la sinistra bolscevica di allora. E questa la soluzione della questione nazionale per una società comunista? No certo. È la sua soluzione in una rivoluzione borghese democratica conseguente.

Ma alla data 1917 e in fase di capitalismo imperialista, conquistatore, brigantesco, oltremare ed entro Europa la borghesia di ogni paese e russa soprattutto è del tutto incapace a tener fede ai tanti incensi letterari (più che storicamente concreti) bruciati ai tempi ottantanovisti e quarantotteschi per l’autonomia delle piccole nazionalità e la loro liberazione (che, se avvenne, fu per insurrezioni e guerre di indipendenza, e non per affrancamenti dall’alto).

Un tale programma, come tanti di quelli di natura sociale agraria ed urbana, sub-socialisti ed ancora democratico-borghesi, può essere assunto e attuato solo da un potere proletario che afferri il timone del processo rivoluzionario antifeudale: la chiave di tutto il problema sta sempre li, nelle precedenti teorizzazioni di partito, nelle lezioni della storia debitamente interpretate dal 1900 ad oggi, e con legame a quanto in teoria e politica stabilì Marx a partire dal 1848, ad esempio in ordine alla classica questione di Polonia, da noi a fondo trattata.

Ma Pjatakov, marxista da non buttar via, sostenuto da alcuni membri della conferenza, fece un altro rapporto sulla questione nazionale. Pjatakov fu fatto fuori in seguito, e ci serviamo del riferimento che abbiamo. Egli avrebbe affermato che in un’epoca in cui l’economia mondiale ha stabilito legami indissolubili tra molti paesi, lo Stato nazionale costituisce una tappa storca già superata:
«La rivendicazione dell’indipendenza appartiene ad un’epoca storica già sorpassata», egli disse, «essa è reazionaria perché vuole far camminare la storia a ritroso. Partendo dall’analisi della nuova epoca, l’epoca dell’imperialismo, noi diciamo che al momento attuale non possiamo concepire una lotta per il socialismo diversa da quella condotta sotto la parola d’ordine ‹Abbasso le frontiere›, una lotta che tenda alla soppressione di tutte le frontiere fra le nazioni e gli Stati».

58 – Confutazione di Lenin ai sinistri

Riporteremo quanto attribuito a Lenin perché contiene un concetto di alto valore, e non allo scopo di livragare Pjatakov, come quelli che scrivono con animo «pubblicitario». Compagni che ragionano come qui si fa parlare Pjatakov ne conosciamo diversi, anche ottimi ieri ed oggi. Anche noi abbiamo cantato i versi di cui il vecchio Turati arrossiva: «i confini scellerati cancelliam dagli emisferi», né ripudiamo di aver cantato e… stonato. Ma altro è cantare, altro marxisticamente dedurre. Preconizziamo pure quella cancellazione e l’Internazionale della cultura e della lingua, o la mondiale fusione delle umane razze, ma nel seguire il corso storico guardiamoci bene dal dire e dal fare poetiche e liriche pistacchiate.

Lenin polemista non usava pannicelli caldi, ed avrà probabilmente parlato come si riferisce:
«Il metodo della rivoluzione socialista sotto la parola d’ordine 'abbasso le frontiere' è una confusione completa… Che diavolo significa il metodo della rivoluzione socialista sotto la parola d’ordine: abbasso le frontiere? NOI SOSTENIAMO LA NECESSITÀ DELLO STATO. MA LO STATO PRESUPPONE LE FRONTIERE… Bisogna essere dei pazzi per continuare la politica dello zar Nicola [che era, supponiamo abbia aggiunto Vladimiro, abbasso ogni frontiera che osi tagliare il territorio della mia Santa Corona]… La parola d’ordine ‹abbasso le frontiere› diventerà giusta quando la rivoluzione socialista sarà una realtà, invece di essere un metodo…»[44].

Fermatevi sulle parole che abbiamo maiuscolato. Sono grandi. Perché le ha dette in un momento felice il gigante Lenin? Può essere il gigante Engels, quando teorizza con frase cristallina: Due elementi definiscono lo Stato: un definito territorio, un armato potere di classe. Può essere, a dirle, il gigante Marx quando sul terreno teoretico, prendendosi dell’autoritario e accettando il termine, ridicolizza i libertari anarchici del 1870, che erudiscono il cosmo e la storia con gli abbasso a Dio, Padrone, Stato. Può essere un uomo normale come tutti noi, dal momento che senza nessun suo merito ad un certo svolto della sua vita la faccenda «gli entrò nelle chiocche» per non doverne più uscire. Le chiocche sono gli emisferi cerebrali, le meningi, la corteccia o quel che vi pare della naturale zucca.

59 – La questione centrale: lo Stato

Ancora oggi la cultura borghese pone la questione tutta qui: capitalismo vuol dire economia privata, socialismo vuol dire statizzazione. Da tempo nove socialisti su dieci seguendo l’andazzo pugnavano per esaltare lo Stato, e se al solito fine didattico prendiamo un momento l’Italia, si sapeva che gli anarchici «erano contro lo Stato», i socialisti marxisti (ahi ahi!) per la conquista dello Stato, sotto l’infelice formula dei «pubblici poteri».

Avevamo noi, bambini al tempo del congresso di Genova 1892, bisogno per dipanare la questione di leggere, verso il 1919, «Stato e rivoluzione»? Bastava a tanto mezza paginetta di Marx o di Engels, note e citatissime, acquisibili anche di quarta mano, e senza imbottirsi di erudizione.

Il marxismo è contro lo Stato in generale ed è contro lo Stato borghese in particolare. La società che è nel suo programma storico, essendo senza classi, è senza Stato. Ma il marxismo prevede che lo Stato sarà uno strumento rivoluzionario transitorio per appunto distruggere la classe dominante presente, dopo che la rivoluzione ne avrà distrutto lo Stato attuale.

Il marxismo conduce la lotta contro lo Stato borghese che solo dalla violenza sarà travolto. Ma in precedenti stadi storici il marxismo prevede l’utilizzazione di questo stesso Stato allorché distrugge lo Stato feudale, e in dati settori allorché colpisce i privati detentori del capitale con le sue disintossicate nazionalizzazioni. Prevede l’entrata in dati periodi negli organi dello Stato borghese prima a fine «stimolante», poi a fine «sabotante», e ad un certo tempo deve prevedere che si abbandoni questo terreno per quello dell’insurrezione e della presa di tutto il potere.

Un fatterello: alle volte alleggerisce l’esposto. Dal 1908 in Italia si cominciò dai marxisti a strappare il monopolio dell’azione rivoluzionaria ad anarchici e sindacalisti dell’allora moda soreliana, verbalmente estremisti ma in sostanza piccolo-borghesi, allo stesso tempo bollando l’ala riformista del socialismo. Ebbe una certa notorietà la «sinistra magistrale» coi compagni Dini, Capodivacca ed altri, pionieri dell’agitazione sindacale dei maestri, e solidi militanti del partito. Per il deputato ed avvocato Turati: i Dini, i Ciarlantini ed altri simili omini. Per il deputato ed avvocato Turati (certo non fesso nemmeno in marxismo, e con lui Treves ed altri) un marxista senza laurea non si concepiva.

Proprio il maestro Ciarlantini al congresso di Reggio Emilia 1912, dominato da Mussolini come alfiere della sinistra, fece un discorso, forse non da tutti capito ma meritevole di franca felicitazione, sul tema del socialismo contro lo Stato, per motivi marxisti e non anarco-soreliani.

Tutta la questione verteva allora sull’andare alle elezioni da intransigenti e non con gli obbrobriosi blocchi popolari, metodo di collaborazione di classe tra proletari e borghesi. Ci battevamo noi allora giovani per questo, ma sapevamo ben chiaro che la classe proletaria vuole essere sola non per penetrare nello Stato parlamentare, ma per distruggerlo con la rivoluzione[45].

Comunque, tornando a Lenin, egli con Marx ed Engels, e noi della platea, ha stabilito che ci serve lo Stato, e in certi casi lo Stato post-feudale quale ch’esso sia, un secolo fa anche borghese. Tutte le volte che questa macchina storica che è lo Stato ci servirà, ci servirà forza di armi politiche, militari, anche di polizia, e ci servirà un territorio tassativamente circoscritto: ci faranno gioco le frontiere.

Quando non ci sarà più feudalismo, quando non ci sarà più borghesia e non ci saranno classi e meglio forme economiche e produttive di classe, ossia quando non ci saranno più proletari, allora, come Engels disse, butteremo via lo Stato nei ferrivecchi, butteremo via gli ultimi Stati, e solo allora cadranno le ultime frontiere nazionali.

Non certo appena avremo preso il potere in un paese di grande capitalismo moderno; tanto meno quando avremo preso il potere nella feudale Russia del 1917. E allora, dice Lenin a Pjatakov, non mi dici nulla con la frase: non più frontiere. Mi devi dire: le frontiere del territorio Románov, o altre? e quali?

Arde la questione dell’Aprile 1917 adesso ancora. In questi giorni grida la Francia borghese che l’Algeria africana e nera sta entro le sue frontiere di «République une et indivisible». Rinfaccia a quella ancora più centralista dei Soviet di assoggettare popoli entro una cortina dilatata rispetto a quella Santa di Nicola.

Il marxismo per risolvere tali punti fiammeggianti non si può fondare sul grido caldo ed ingenuo dei Pjatakov. Ben altro bisogna, quando per muovere le frontiere occorrerebbero torrenti di energia storica, e scarse si mostrano quelle dell’Internazionale operaia, che le dovrebbe cancellare dalla lavagna sferoidica del pianeta.

60 – La solita cucina storica

Il bilancio di questo scontro sulla questione nazionale si fa dai testi cominformisti al modo noto.
«Ciò che univa L. Kamenev e I. Pjatakov [disinvoltamente non si dice che il primo e Stalin, poco prima e anche poco dopo di Aprile, sostennero lo stesso indirizzo!] era l’incomprensione dei compiti della rivoluzione e attirava il partito nel pantano menscevico [e Stalin che aveva redatta e rimangiò la mozione di unificazione con quelli, che faceva?]; Pjatakov, senza dichiararsi in questa questione apertamente [tutti quelli che non sono oggi in santità sono stati, a tale stregua, sempre mefistofelicamente simulatori!] contrario alla tesi di Lenin, condannava praticamente la rivoluzione all’isolamento e alla disfatta. Il partito lottava su due fronti: contro l’opposizione opportunistica di destra e contro l’opposizione di sinistra»[46].
E si seguita a ripetere che le principali questioni della conferenza le esauriscono i rapporti di Lenin e Stalin, per cancellare, non frontiere come voleva lo sventurato Pjatakov, ma il ricordo, ogni ricordo del fatto che allora l’opposizione di destra significava Stalin, giusta i dati incontrovertibili e le testimonianze da noi addotte.

Comunque l’opposizione di sinistra avrebbe detto: Se prendiamo il potere rivoluzionario totale a Mosca e Pietrogrado, saremmo fessi a mollare Varsavia, Kiev, Charkov, Odessa, Baku, Batum e così via: sarebbe un regalo alla controrivoluzione fatto in nome di un nostro teorico rispetto di scuola al «diritto di separarsi». Quale razza e nazionalità ha mollato Stalin, ortodosso allora contro errori di sinistra, nella questione nazionale? Fu la vicenda alterna di guerre che fece sorgere la libera Finlandia borghese, anche oggi rispettata, e la libera Polonia, risolutamente, Hitler aiutando, ripappata nel 1940.

Sarà dunque il caso di tornare al testo originale di Lenin, risoluto su questo punto quanto mai.

Prima è bene rilevare che i vari cuochi di quella cucina non sempre sono all’unisono. La ben nota Storia ufficiale del Partito dice che il relatore sulla questione nazionale, Stalin, aveva insieme a Lenin elaborato, ecc. ecc., poi riporta la risoluzione lasciando credere che sia redatta dal relatore Stalin, come ovvio. Ma invece nelle «Opere scelte» di Lenin edite a Mosca figura lo stesso testo della risoluzione, pubblicata nella «Soldatskaia Pravda» del 3 maggio 1917, come in calce, e compresa nel volume: «Scritti del 1917» di V. I. Lenin, Vol. I, pp. 352–353, ed. 1937[47]. Quale delle due la verità?

61 – Lenin e la questione delle nazionalità

Una prima bella breve formulazione è nell’opuscolo scritto subito dopo le Tesi del 4 Aprile. Il capitolo sulle questioni agraria e nazionale è ottimo anche per la prima: insiste sulla divisione tra il Soviet rurale dei braccianti salariati e semi-proletari (quelli, sia detto una centesima volta, che hanno un lembo di terra, ma non ci possono campare e devono lavorare a salario giornaliero qua e là in altre maggiori aziende) e il Soviet generico dei contadini, contro la
«dolciastra fraseologia piccolo-borghese dei populisti sui contadini in generale, velante l’inganno della massa non abbiente da parte dei contadini agiati, i quali sono soltanto una varietà di capitalisti»[48].
In che dunque il qui schiaffeggiato populismo differisce dall’odierna politica agraria dei cominformisti, poniamo in Italia, ove amoreggiano perfino coi grandi fittavoli?!

Lenin chiese, allora, che in ogni azienda confiscata ai fondiari (confisca che gli opportunisti volevano sospesa in attesa della… Costituente) sorgesse una grande azienda modello tenuta sotto il controllo dei Soviet. E aggiungeva:
«Il partito del proletariato, in antitesi alla fraseologia e alla politica piccolo-borghesi che dominano tra i socialisti-rivoluzionari, soprattutto alle loro chiacchiere sulle norme di ‹consumo› o di ‹lavoro›, sulla ‹socializzazione della terra›, ecc., deve spiegare che il sistema della piccola azienda in regime di produzione mercantile, non è in grado [corsivo di Lenin] di emancipare l’umanità dalla miseria e dalla oppressione delle masse».

Detto ancora che né democristiani né «comunisti» in Italia mostrano di essere menomamente sensibili a un tale obiettivo, e covano nidiate di sterili miserabili aziende familiari, che uccidono tanto la squallida Basilicata quanto la magnifica Sicilia, torniamo a bomba sulla questione nazionale: anzi diamo tal quale il brano di Lenin (punto 14 dell’opuscolo):
«Nella questione nazionale il partito del proletariato deve rivendicare anzitutto la proclamazione e la realizzazione immediata della piena libertà di separazione dalla Russia di tutte le nazioni e nazionalità oppresse dallo zarismo, unite o mantenute con la forza nei confini dello Stato, cioè annesse.
Tutte le dichiarazioni, i proclami, i manifesti sulla rinuncia alle annessioni, che non implichino l’effettiva libertà di separazione, si riducono ad un inganno del popolo da parte della borghesia o a pii desideri piccolo-borghesi.
Il partito proletario tende a creare uno Stato [udite!] quanto più possibile vasto, poiché ciò è nell’interesse dei lavoratori; esso tende all’avvicinamento e poi alla fusione delle nazioni, ma vuole raggiungere questo obiettivo senza violenza, attraverso l’unione libera e fraterna delle masse operaie e lavoratrici di tutte le nazioni.
Quanto più la repubblica russa sarà democratica, quanto meglio si organizzerà in repubblica dei soviet dei deputati operai e contadini, tanto più sarà vigorosa la forza di attrazione che porterà liberamente verso di essa le masse lavoratrici di tutte le nazioni.
Piena libertà di separazione, la più ampia autonomia locale (e nazionale), garanzie minuziosamente definite dei diritti delle minoranze nazionali: ecco il programma del proletariato rivoluzionario«
[49].

62 – La risoluzione della conferenza

Le grandi questioni storiche che qui si presentano, e la cui prospettiva imbarazza non pochi compagni, si seguono meglio in base alla risoluzione sviluppata. Naturalmente l’impostazione del problema si sposta.

Siamo (a) in un regime a periodo feudale e peggio asiatico-dispotico? Diamo mano completa ai movimenti di libertà nazionale, che nelle famose tesi del 1920 al II Congresso dell’Internazionale Comunista (accettate dalla sinistra italiana, che dissentiva fieramente da quelle tattiche per i paesi avanzati nel capitalismo) si dibatté se definire: demo-borghesi o nazional-rivoluzionari. I due termini invitavano a mangiare, con esofago comunista e marxista, lo stesso piatto dalla ingrata presentazione: nei detti luoghi, tempi e modi sociali, e purché si tratti di dare mano ai fucili, si fa blocco non solo con le masse non proletarie, ma con le stesse borghesie. Questo è quanto[50].

Siamo invece (b) all’indomani della caduta del feudalesimo e in una repubblica diretta dalla borghesia che non si decide a farla finita con la questione della guerra e della terra? Bisogna imporle la liberazione delle nazionalità chiuse nello Stato ex-feudale, che intendano separarsi. Ciò vuol dire concretamente che il quesito non sarà posto a una consultazione «panrussa», ma si ammetteranno consultazioni nazionali periferiche.

Siamo (c) per andar oltre, non alla società socialista, ma ad una Repubblica socialista che fondi il potere sui Consigli degli Operai e Contadini? Ebbene saremo coerenti, in attesa di forme sociali superiori e soprattutto della rivoluzione internazionale, proclamando che i Soviet delle nazionalità saranno liberi di decidere la loro separazione o meno dall’unico Stato.

Premettiamo che la questione non è la stessa delle Repubbliche unite in Federazione, di cui a suo tempo, in quanto anche nella Repubblica Socialista Sovietica Russa quasi tutte le nazionalità e le razze in gioco sono in minoranza rappresentate, e le varie Repubbliche federate ed autonome non corrispondono, e non lo potrebbero, a lingue e razze uniformi.

All’indomani della conquista del potere manterremo il principio di separazione, ma sulla sua attuazione influiranno le guerre civili e militari, o meglio con Stati che abbiano inviato corpi controrivoluzionari di invasione, variamente operanti in tutte le regioni dell’immenso territorio.

Ad un certo punto la grande battaglia del 1920 alle porte di Varsavia deciderà un grande svolto, meglio che non farebbe una sollevazione operaia polacca, e la decisione di un Soviet Nazionale polacco sulle «frontiere» da proclamare.

63 – Dispotismo ed imperialismo

Il procedere della risoluzione è storico.
«La politica di oppressione nazionale, eredità dell’autocrazia e della monarchia, è sostenuta dai grandi proprietari fondiari, dai capitalisti e dalla piccola borghesia, allo scopo di difendere i loro privilegi di classe e di dividere gli operai delle diverse nazionalità. L’imperialismo moderno, rafforzando la tendenza a sottomettere i popoli più deboli, rappresenta un nuovo fattore di aggravamento dell’oppressione nazionale»[51].

Si risale alla tesi storica fondamentale dei marxismo che, per il pieno sviluppo della forma capitalista di economia e lo scioglimento di tutta la società europea dai lacci feudali, fu necessaria la sistemazione, con insurrezioni interne e guerre nazionali, in Stati fondati su una nazionalità; fu ed era necessario liquidare tutti gli storici Imperi infracontinentali, di cui duri a morire furono quelli di Vienna, di Berlino, di Costantinopoli, durissimo quello di Pietrogrado.

Se quindi il modo capitalista di produzione lega il suo sorgere nei campi europei alla libera sistemazione delle nazionalità, a cui i proletari sono direttamente interessati, nella ulteriore fase imperialista esso, nella concezione di Lenin, si viene a risaldare alla oppressione. La lotta per i mercati extra-continentali e di oltremare conduce a potenti apparati di forze statali e a contese guerresche continue, tendenti al dominio politico sui paesi degli altri continenti. Quando sul piano delle grandi guerre gli imperialismi si scontrano per derubarsi a vicenda delle colonie e dei possedimenti, anche quelli di pieno sviluppo capitalista e democratico volgono i loro appetiti alla conquista a danno altrui delle province europee, e a seconda degli esiti delle guerre i piccoli paesi e popoli passano da una ad altra mano.

All’ideologia della liberazione nazionale europea e generale si surroga l’altra dell’espansione della moderna civiltà: questa è dapprima impiegata a giustificare il soggiogamento, la schiavizzazione e la stessa distruzione di popoli e razze di colore, infine viene a prendere la forma della richiesta, nella metropoli, di province di frontiera contese in punti nevralgici: l’Alsazia Lorena, la Venezia Giulia, la regione di Danzica, i Sudeti, i Balcani. Da queste contese nasce la solidarietà dell’opportunismo socialista con il capitalismo imperiale, nasce l’epidemia del difesismo, in quanto da ogni lato si cela il desiderio di conquista sotto le frasi del salvataggio della propria sviluppata civilizzazione da minacce aggressive.

Quello stesso socialismo che si diceva contro tutte le annessioni divenne il fautore di tutte le guerre. Se si ammette il sofisma che un popolo dai modi di produzione più avanzati ha «il diritto» di governare i meno progrediti, sofisma di cui tutti i paesi d’Europa hanno conosciuto i delitti, l’idea borghese di libertà dei popoli e di uguaglianza delle nazioni, storicamente in sé stessa vuota, si svolge in quella dell’oppressione e della conquista.

Avendo rotto al tempo stesso con lo zarismo alleato in Europa di tutte le sopraffazioni di nazione e di classe, e con l’opportunismo del 1914 consacrante l’omaggio del proletariato a tutte le guerre borghesi, la rivoluzione russa non poteva che prendere la direttiva di finirla con le guerre di espansione e conquista e di offrire la libertà a quei paesi che le conquiste violente avevano inclusi nello Stato russo.

64 – Separazione di Stati

Lenin premette il concetto che una repubblica borghese, ma di democrazia sviluppata al limite estremo, può consentire una convivenza di popoli e lingue senza predominio di uno: egli si riferisce, è chiaro, alla Svizzera, ove non vi è una, ma tre lingue ufficiali dello Stato. Ed aggiunge:
«A tutte le nazionalità che compongono la Russia deve essere riconosciuto il diritto di separarsi liberamente e di costituirsi in Stato indipendente».
Egli dice che una diversa politica fomenta gli odi nazionali e il sabotaggio della solidarietà proletaria internazionalista. Cita il caso della Finlandia ed il conflitto sorto col Governo borghese di Pietrogrado, sostenendo che alla Finlandia, tolta dal giogo zarista odiatissimo, deve consentirsi la separazione.

In quanto non si giunga ad una separazione statale, il partito deve sostenere una larga autonomia regionale e l’abolizione della lingua ufficiale obbligatoria, chiedere che la nuova Costituzione vieti ogni privilegio nazionale e ogni violazione dei diritti di minoranze nazionali.

I lettori ricordano alla relazione di Trieste sui «Fattori di razza e nazione» la parte dedicata agli scritti di Stalin sulla linguistica[52]: le teorie secondo cui una rivoluzione di classe non comporta un’interruzione della funzione storica della lingua nazionale si riferivano alla lingua russa, divenuta di fatto lingua della Repubblica dei Soviet e di tutta l’Unione. La nostra critica di questo punto valse a provare che questa esigenza storica di una lingua statale uninazionale è altra prova del carattere borghese assunto dalla rivoluzione, e vane sono le storture teoriche per giustificare sul piano marxista quella esigenza. Dove è dunque finita l’opposta rivendicazione dello Stato che anzitutto propone alle minoranze nazionali di separarsi statalmente, e se non lo chiedono le accoglie in una amministrazione polilingue, tipo svizzero? Torneremo a suo luogo a considerare se il grande impalcato statale russo di oggi abbia una lingua nazionale unica, di diritto e di fatto, uno dei lati oscuri che definiscono una struttura imperiale.

65 – Contro l’autonomia «culturale»

È qui che veniamo al famoso punto su cui Stalin, nel 1913, aveva avuto a collaborare con Lenin per la questione nazionale, in contraddittorio con la socialdemocrazia austriaca dell’anteguerra; punto che nel 1917 Lenin ribadisce. Era la proposta dei socialisti dello «Stato mosaico» degli Asburgo. Essi concedevano che l’amministrazione dello Stato fosse unica politicamente e burocraticamente, nella finanza, nell’esercito e così via (a parte il rapporto di parità tra Austria e Ungheria, unite nella Corona) e propugnavano che a tutti i popoli subordinati: slavi, ottomani, latini, si concedesse
«lo stralcio degli affari concernenti l’istruzione pubblica e le materie affini dalla competenza dello Stato centrale, per rimetterle nelle mani di Diete nazionali sui generis»
non aventi altro potere. Ciò divide artificialmente, Lenin aggiunge ora, gli operai che abitano in una stessa località, magari lavorano nella stessa officina, rafforza il loro legame con la cultura borghese delle singole nazioni mentre i socialisti invece si propongono
«di rafforzare la cultura internazionale del proletariato mondiale»[53].

Nello studio del giovane Stalin che colpì Lenin e sua moglie era appunto svolto il tema che la soluzione dell’autonomia scolastica, universitaria, culturale, era tesi di destra e opportunista, mentre era rivoluzionaria la tesi della separazione dallo Stato austro-ungarico delle province italiane, slovene, croate, ottomane, serbe, romene, ceche e slovacche, della frattura di questo Stato, sebbene esso fosse compito non necessariamente di una rivoluzione socialista – che all’opposto avrebbe potuto riunire quei popoli su ben diverso piano – ma di una rivoluzione borghese e di una guerra di sistemazione, come per l’Austria fu la prima europea, come erano state per l’impero ottomano le precedenti balcaniche.

Questa tesi è coerente alla considerazione marxista delle questioni nazionali, che con ampi sviluppi mostrammo non potersi ridurre alla negazione delle nazionalità come odierno fatto storico, e fu allora ben difesa. Ma mentre nel 1917 Lenin impegna ad essa la rivoluzione russa, che non è una ribellione nazionale, ma lo sconvolgimento storico dello Stato che tante nazionalità teneva inchiodate nella sua rete, possiamo ben chiederci quale sviluppo abbia avuto quella tesi negli anni seguenti, e quale tipo di Stato, in riguardo alla libertà di movimento di nazioni e regioni, sia quello dell’U.R.S.S. costruita nel nome di Stalin e che appare come un formidabile monoblocco, mentre Stalin rivendica la tradizione e il merito di super-autonomista nazionale. Coerentemente al pensiero di Lenin il successivo passo della Russia, che potesse superare sia il servaggio che lo spezzettamento nazionale, poteva esser fatto solo in compagnia della rivoluzione proletaria europea. Dato che questa mancò, la Russia si ordinò in un super-stato concentrato ed unitario nelle forze armate interne ed esterne; squisita forma del moderno capitalismo.

66 – Nazioni ed organismi proletari

Sempre i marxisti radicali avevano combattuta la formazione di partiti nazionali nel seno di uno stesso Stato, che si dicevano socialisti (Polonia, Boemia, ecc.). In Russia la questione, quanto a movimenti dei sindacati operai e ad organizzazione del Partito, già socialdemocratico, era scottante. Lenin aveva sempre sostenuto un partito unico per tutto lo Stato russo. La questione fu particolarmente viva col Bund ebreo, partito di vivace azione rivoluzionaria e di dottrina marxista, accettato nei congressi russi ed internazionali ma restio a fondersi col partito socialista, e poi comunista, comprendente indifferentemente militanti di tutte le nazionalità. Lenin ribadisce questo punto con le parole:
«Gli interessi della classe operaia esigono che gli operai di tutte le nazionalità della Russia si fondano in organizzazioni proletarie uniche: politiche, sindacali, cooperative, educative, ecc. Soltanto una tale fusione degli operai delle diverse nazionalità in organizzazioni uniche permetterà al proletariato di condurre una lotta vittoriosa contro il capitale internazionale e il nazionalismo borghese»[54].

Queste formule finali mettono nel giusto rapporto il costante perseguimento dell’internazionalismo sia nel movimento proletario che nella futura organizzazione socialista della società, e la lotta contro il nazionalismo «immanente» dei borghesi, con le soluzioni storiche che nelle grandi tappe e le grandi aree abbiamo il dovere di trovare e dare alle questioni di razza e di nazione. Quanto abbiamo detto con ampiezza a proposito della fondamentale conferenza di Aprile 1917, che traccia tutto il quadro della Rivoluzione di Russia saldando strettamente il passato e il futuro del movimento, che anche per facilità di esposto in Lenin si personifica, integra storicamente quanto abbiamo in dottrina svolto nel più volte citato rapporto di Trieste, che come i compagni ricordano svolse la questione di razza e nazione, nell’applicazione storica, fino alla prima grande guerra mondiale e nei limiti del campo europeo centro-occidentale, e si riservò la presente applicazione alla Russia e quella di una futura stesura per l’Oriente e l’Asia, oralmente svolta a Firenze[55].

Ogni elasticità giusta, alla scala storica e della geografia mondiale, è possibile, sul piano dottrinale marxista ben chiaro, a condizione che sia rispettata la condizione Leniniana dell’organizzazione unica pluri-nazionale entro ogni Stato, e dell’unione internazionale di essa: di quella Internazionale Comunista che sulle orme della staliniana declinazione – monolingue – si liquidò chiassosamente non meno che servilmente, e dovrà un giorno risorgere come Unico Partito Comunista, con sezione in ogni Stato territoriale.

67 – Nazionalità ed occidente

Una prova di scarso internazionalismo che dettero i vari Graziadei, Serrati, Cachin, e così via[56] fu appunto di non capire la questione nazionale del mondo fino ed oltre gli Urali e il Mediterraneo, perché quei dati non erano quelli della loro politica di paese d’origine.

Al solo fine di rendere più intelligibile la costruzione di Lenin per la Russia e il mondo extraeuropeo, che si mostrò veramente profetica, e soprattutto strettamente ortodossa in marxismo, ancora una volta ci ripiegheremo sull’esempio dell’Italia, e ci domanderemo se e da quando era giusto dire: Da noi la questione razziale e nazionale non esiste; quindi il nostro partito (ma questo sarebbe giusto proprio se esso fosse nazionale!) si occupa solo di questioni di classe. Bello, ma insignificante.

Lo Stato borghese nazionale italiano si è formato tardi, nel 1861, da guerre e da insurrezioni di una giovane borghesia, cui il proletariato dette la piena sua partecipazione. Benché sorgesse uno Stato di razze miste nel senso etnografico, tutto concorse (e, oltre alla tradizione democratica alla francese, quella stessa del cattolicismo, della Internazionale chiesastica) a liquidare le questioni razziali: un russo o anche tedesco si meravigliava a sentirci dire che non sapevamo se un concittadino fosse ebreo o di religione non cattolica: l’eguaglianza delle condizioni di vita era totale non solo giuridicamente ma nel fatto e nel costume.

Rapidamente su un tale sfondo laico si disegnò, sebbene tarda l’economia capitalista apparisse tra noi nelle forme recenti (aveva ben altre tradizioni dal Nord al Sud, da Palermo a Milano), la lotta di classe del proletariato della città e della campagna.

Nel 1911 il partito proletario si spogliò delle ultime ubbie nazionali: denunziò la celebrazione del cinquantenario dell’unità clamorosamente, e nello stesso tempo si liberò dalla alleanza con la piccola borghesia contro pretesi ceti retrivi, mentre di essa più retrivo non ne esiste nessuno.

Restò sullo stomaco della borghesia una questione nazionale negativa, irredentista. Un onesto radicale borghese della fine del secolo sentiva che sarebbe venuta la quarta guerra e la chiamava in anticipo «la prova del fuoco»; e l’Italia borghese ne uscì bene per l’andamento della guerra imperialistica, ma senza l’appoggio del proletariato, che seppe rendersi indifferente.

Il proletariato socialista aveva fatto buone prove (non sono meriti, ma facilitazioni date dalla storia) nelle posizioni antimperialiste ed antiannessioniste nelle dure imprese africane della fine ottocento e del 1911–12; aveva imparato a disonorare la tesi che corruppe molti marxisti: Giusta la guerra se ad un popolo barbaro porta ordinamenti moderni e civili[57].

In un certo senso il proletariato italiano nel 1918 si trovò non impacciato nelle questioni nazionali negative (irredentismo) e positive (impero) nelle quali la borghesia si era da sola impegnata, e si sentì pronto, nel quadro interno, ad andare avanti ed ingaggiare battaglia di classe.

68 – Rivoluzione con l’Europa

Se questa battaglia, che non occorre riandare negli episodi gloriosi e ingloriosi, fu perduta, si deve anche a insufficiente impostazione delle lotte nel quadro internazionale, a sottovalutazione del ben più nutrito imperialismo che aveva in Inghilterra, Francia, Germania, scavato il terreno sotto i passi della Rivoluzione Europea.

Se una rivoluzione russa non può attingere il vertice del suo ciclo senza una rivoluzione di Europa, soprattutto per il motivo delle scarse forme economiche, una rivoluzione italiana non lo può, non per le solite balle di regioni depresse e arretrate, ma perché geograficamente i fatti di Italia sono fatti internazionali, e la stessa rivoluzione borghese è andata avanti perché nelle guerre di sistemazione l’Europa dell’Ovest o quella dell’Est hanno travolto gli ostacoli conservatori. Qualunque dei due blocchi imperiali in cui l’Europa può dividersi abbia vinto può comandare in Italia, e in passato e in futuro questo paese dalle troppe frontiere confinerà con entrambi i contendenti. Non pecchino dunque i militanti italiani di troppo orgoglio per aver prima superato il male dell’opportunismo sciovinista. Non dicano che per la loro esperienza di politica vissuta all’interno possono dichiarare sorpassata la questione nazionale, o procedere a cassare quelle troppe frontiere.

Ciò non sarà prima di avere liquidata la questione di quelle di Europa, tra cui il problema tremendo delle due Germanie: la rivoluzione sola può unirle, ma la rivoluzione di Europa ha bisogno di una unità germanica, e di una dittatura operaia tedesca, più fragile presentandosi quella inglese o francese, per diverse ragioni.

Sarebbe proprio sciocco orgoglio nazionale chiudere gli occhi su questo punto, e non capire che abbiamo da imparare dalla rivoluzione di ieri in Russia, e perfino da quella di domani in Asia, per rompere il cerchio di cento condizioni che si pongono, in aspro cammino, tra noi e il socialismo[58].

Non sarà male, avendo riaperto l’argomento, aggiungere qualche altro cenno sulla questione nazionale nella Russia del 1917.

La tesi storica che il governo provvisorio fatto di borghesi e social-opportunisti, così come tendeva a continuare la guerra, manteneva la direttiva zarista di dominio su tutta l’indivisibile «Panrussia» e – cosa tipica – combatteva con misure di repressione i moti delle periferie di tipo nazionalista-borghese (laddove all’opposto i bolscevichi arrivavano alla disannessione al fine di raggiungere l’intesa rivoluzionaria internazionalista tra le classi operaie), ha riscontro in una serie di fatti.

Ucraina (un terzo della popolazione rispetto alla Russia europea, un nono del territorio). Petljura ed altri borghesi nazionali seguiti dai social-opportunisti formavano la Rada, che venne in contrasto col governo di Pietrogrado, chiedendo autodecisione, ma non separazione. Lenin disse modeste tali richieste e affermò che non si dovesse
«negare il pieno diritto dell’Ucraina a separarsi liberamente dalla Russia; proprio il riconoscimento senza riserve di tale diritto e, solo esso, permette di condurre una campagna per la libera unione degli ucraini e dei grandi russi; per l’unione volontaria dei due popoli in un solo Stato»[59].
In luglio vi fu un accordo tra Pietrogrado e Kiev; ma il 4 agosto fu revocato drasticamente e unilateralmente dal primo governo.

Finlandia (popolazione 3 per cento, territorio 4 per cento). Consentita la Dieta in base ad una precedente costituzione zarista, dopo un conflitto con essa il governo provvisorio nel luglio 1917 la disciolse con la forza. Lenin aveva scritto:
«Gli zar hanno praticato una politica brutale di annessioni barattando un popolo con l’altro d’accordo coi monarchi (smembramento della Polonia; compromesso con Napoleone sulla Finlandia, ecc.), così come i proprietari fondiari si scambiavano i contadini servi della gleba. La borghesia, diventata repubblicana, fa la stessa politica, ma in modo più sottile, camuffato […] Operai, respingete la politica annessionistica del Governo provvisorio nei confronti della Finlandia, della Curlandia, dell’Ucraina»[60].

Turkestan, Azerbaigian, Kirghizistan, Kazahstan, Uzbekistan, Tagikistan (territori nell’Asia centrale in parte, popolazione un settimo della Russia europea). Il governo provvisorio li amministrò dal centro col vecchio apparato burocratico degli zar, amnistiò i carnefici delle insurrezioni nazionali, impose a quei mussulmani e mongoli la lingua russa e la scuola russa.

Polonia. Qui il governo provvisorio fece il grande gesto di pubblicare nel febbraio 1917 la dichiarazione di indipendenza della Polonia russa. Ma il fatto è che i tedeschi occupavano tutto, e un anno prima avevano proclamata la stessa indipendenza! Dove occupavano i territori le truppe russe, i borghesi e opportunisti impedivano ogni «disannessione». La Polonia è il «test» classico della vessata questione nazionale: la sua funzione non comincia né finisce qui.

Un cenno sulla lingua. Il 29 marzo 1917 il governo provvisorio russo
«autorizza l’impiego di tutte le lingue e di tutti i dialetti nei documenti di società private, nell’insegnamento impartito nelle scuole private e nei libri di commercio».

La costituzione del 1918 (che consacra l’indipendenza di Finlandia, province persiane, Armenia, e il diritto di separazione nazionale) comprende tra i commissariati centrali del popolo quello dell’istruzione, sancisce il diritto generale all’istruzione gratuita, ma non parla dell’uso delle varie lingue.

La costituzione del 1936 (su cui dovremo in seguito intrattenerci) dice all’art. 121 che il diritto del cittadino all’istruzione è «nella lingua materna».

Lascia il dicastero dell’istruzione alle Repubbliche federate (che non sono tuttavia monolingui).

Non si parla dunque esplicitamente né di una lingua unica dello Stato né dell’equivalenza giuridica delle lingue.

Praticamente lo stesso pamphlet staliniano sulla linguistica, che pone il fattore lingua (vedi il rapporto di Trieste su «Razza e Nazione») fuori della determinazione economico-sociale e della «politica», è l’erezione di un piedestallo monumentale alla classica lingua russa storica letteraria, che non è più considerata lingua di nazionalità, ma lingua di Stato, per quanto plurinazionale.

Concetto che nella storia si accompagna, indissolubile, con una fase di dominio nella forma borghese-capitalista di produzione, se Marx è Marx.

In ordine a tale ciclo, e in relazione a quanto di Marx citammo in quel rapporto sulla guerra di Crimea e l’assedio di Sebastopoli: Voroscilov ha in questi giorni, in quella città, glorificata la resistenza eroica e patriottica nel centenario della difesa. Santa Russia![61].

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (VIII)

69 – Dopo aprile verso la gran lotta

Il lettore che ha inteso la portata della nostra trattazione sa che non intendiamo fare storiografia generica e racconto integrale dei fatti, che esigerebbe maggiore uniformità nella «densità della stesura». I fatti, anche in cronache, sono noti, tuttavia nelle loro pieghe alquanto controversi e resi ermetici: è dove ci soffermiamo con la documentazione e l’analisi più a fondo.

Ma quello a cui tendiamo è il confronto continuo tra l’elaborazione dottrinale compiuta in anticipo dal partito – o anche dagli altri partiti – che agiscono nel processo storico, e gli effettivi accadimenti posteriori.

Per tal motivo abbiamo dato molto spazio alla fase di Aprile: fase di bilancio teorico di partito tra due battaglie di contenuto diverso di cui ci è bastato e ci basterà tratteggiare le tappe essenziali, gli scontri importanti.

Il partito bolscevico aveva su larga scala adempiuto una grande costruzione di prospettive storiche nel periodo che va fino al 1905: innestando le conclusioni e previsioni relative alla Russia sulla grande prospettiva del comunismo marxista circa le battaglie del proletariato dei paesi di razza bianca.

Un secondo bilancio dovette essere affrontato nella nuova pausa determinata dalla reazione che seguì il 1905 e utilizzando gli insegnamenti di quella grande lotta, fino a che non si giunse alla nuova grande crisi che colpì il socialismo internazionale con lo scoppio della guerra del 1914. Una nuova battaglia dottrinale fu condotta, in primo tempo non tanto in seno al socialismo russo, che apparve anche a Lenin tutto contrario ad una guerra proclamata dall’odiatissimo zar (vedemmo che qui in gran parte Lenin si era illuso, non potendo pensare che dopo tanta preparazione di teoria e di lotta si esitasse su un tale punto), quanto nei partiti di occidente, i più dei quali erano crollati vergognosamente nel tradimento sciovinista.

Quando nel febbraio 1917 la crisi inghiotte lo Stato zarista russo tutte le previsioni della dottrina vengono di nuovo al vaglio dei fatti, ma gli effetti sconvolgenti della guerra europea e mondiale si accavallano con quelli dello scontro delle classi in Russia, e della rivoluzione antifeudale in cui la classe operaia deve scegliersi un posto di combattimento difficile a definire, ma certo nelle prime schiere.

Il partito che era stato l’ambiente di una così ricca preparazione dopo il febbraio, pure avendo nell’azione fatta degnamente la sua parte, non si ritrova sull’impostazione della fase ulteriore in riguardo a tre problemi, che abbiamo adeguatamente tratteggiati. Primo: comportamento davanti alla guerra. Secondo: compito del partito proletario nel procedere della rivoluzione antifeudale. Terzo: lotta contro l’opportunismo internazionale socialdemocratico e social-patriottico.

In aprile il bilancio storico è compiuto con una completezza di primo ordine, profittando della transitoria legalità vigente in Russia; il programma di azione è costruito decisamente: si tratta di applicarlo.

70 – Preparazione legale o battaglia?

La questione può vedersi sotto due aspetti, di principio e di metodo, di tattica. Due ali estreme, sebbene la dizione non sia esatta, la vedono in modo esclusivo. La dialettica veduta di Lenin vede i due tipi di attività e si sforza di collocarli per quanto possibile nelle fasi più opportune per giungere al successo.

Una posizione nettamente menscevica ed opportunista è dire: Lo zarismo è caduto, il potere è tenuto da una coalizione a volte nascosta a volte palese di borghesi e di opportunisti piccolo-borghesi. È assodato che non si può sostenere un tale governo su nessuna parte del programma interno ed estero: occorre dare la parola che il potere passi ai Consigli operai e contadini. Ma ora che la propaganda e l’agitazione sono libere, e da quando la rivoluzione democratica ha vinto, si tratta solo di guadagnare alla luce del sole e con mezzi legali la maggioranza nelle organizzazioni operaie e nei Soviet. Peggio sarebbe dire: Tale agitazione pacifica si deve estendere oltre, anche se si avesse la maggioranza nei Soviet, fino alla convocazione dell’Assemblea costituente, per riuscire a mettervi in minoranza la soluzione del governo di coalizione coi borghesi.

Una tale soluzione intanto è da respingersi come non rivoluzionaria in quanto non è proposta come riferita ad una fase che trascorre, ma nel senso di ammettere che, dopo la liberazione democratica, il partito per programma e per principio esclude la lotta armata, la guerra civile, pure avendo dal lato opposto escluso un blocco parlamentare e governativo coi partiti borghesi. È invece pienamente dialettica la risposta di Lenin: oggi, fine aprile, non ci conviene provocare a breve scadenza una guerra civile per prendere il potere. Tuttavia la guerra civile si avrà, ed anzi in due ipotesi: di una controrivoluzione zarista che tenda a rovesciare il governo provvisorio, nel qual caso lo sosterremo con le armi (ed avvenne), ed in una seconda ipotesi: che, essendo la lotta proletaria sviluppata fino alla capacità e necessità di assumere coi Soviet tutto il potere, il governo provvisorio resista a cederlo (ed avvenne).

Quindi Lenin risponde no a questa destra che vuole rinunziare per sempre ad una lotta armata, da ora in poi, e al tempo stesso le accorda che non sia ancora il momento di dar fuoco alle polveri e occorra lavorare legalmente.

Un’altra ala opposta cui anche sfugge il legame dialettico fra teoria e metodo strategico vuole la lotta immediata, da provocare senza indugio, e da avviare in ogni occasione con combattimenti preliminari. Avvenuta la rivoluzione liberale, dicono questi compagni, ogni eventualità di appoggio a governi borghesi, anche se ratificati da un parlamento, è esclusa e la via per abbatterli non è la conquista pacifica di una maggioranza ma solo l’insurrezione. Anche questa posizione è difettosa se diviene esclusiva, limitativa per il partito, e non dice soltanto che la lotta armata è plausibile e sicura in tempo futuro, ma asserisce che in ogni fase sia da pensare a questa sola, e non a pacifica preparazione.

Contro questi compagni Lenin dovette fare i più grandi sforzi perché non si attaccasse prima di essere pronti, pur ammettendo pienamente che in ogni spontaneo muoversi delle masse lavoratrici il partito dovesse essere presente non solo con l’agitazione politica ma anche con la forza materiale[62].

Data l’estrema difficoltà di individuare il momento propizio a così difficili conversioni per l’attività del partito, in momenti tanto convulsi, tra guerra sulla frontiera e crisi economica e sociale, quasi tutti i compagni si sono nel seguito aspramente rimproverati, chi di non aver voluto la lotta, chi di averla voluta compromettere scatenandola prematuramente.

È indiscutibile che, senza la poderosa preparazione del dibattito di Aprile, il partito sarebbe andato, o per la via della fiacchezza o per quella dell’esasperazione, alla sicura sconfitta e rovina.

71 – La fase dopo aprile

Sappiamo che già prima che la conferenza si aprisse, il 17 aprile, 14 giorni da che Lenin era giunto, le masse ebbero una reazione per una provocazione del Governo. Coincidendo la data col l° maggio nuovo stile, il primo postzarista, si ebbe altra coincidenza con la nota di Miljukov, ministro cadetto degli esteri, che prometteva, a richiesta degli alleati, la continuazione della guerra. Nonostante il grado relativo di infatuazione difesista da Lenin constatato nel popolo russo e nei soldati, in contrasto con le tendenze di immediata liquidazione della guerra, si aprirono a Pietrogrado e Mosca una serie di giornate in cui i lavoratori chiesero la testa di Miljukov con dimostrazioni armate, reclamando la pace e le sue dimissioni, date alcuni giorni dopo. Ma le masse non andarono oltre le dimostrazioni, ed il partito era ancora intento a liquidare i suoi dubbi.

Fu il 17 maggio, ossia il 4 maggio vecchio stile, dopo la chiusura al 12 maggio (29 aprile) della Conferenza, che giunse a Pietrogrado Trotsky (accolto con entusiasmo anche come antico presidente del 1905) e fece al Soviet un discorso in cui si dichiarò (non apparteneva ancora al partito bolscevico) pienamente concorde con la direttiva politica di Lenin.

Nelle giornate di Aprile alcuni bolscevichi avevano proposto di lanciare la parola di rovesciare il governo, ma il partito li riprese opponendosi. Trotsky afferma qui che Stalin sottoscrisse con due conciliatori il telegramma che invitava i lavoratori e marinai di Kronstadt a sospendere l’azione anti-Miljukov. Ai primi di maggio intanto Miljukov e Guckov si dimettevano da ministri, e nella coalizione entravano i menscevichi e i socialrivoluzionari.

Dopo il 12 maggio, chiusura della conferenza, e fino alla convocazione del congresso dei Soviet del 3/16 giugno 1917, i bolscevichi svolsero il lavoro di propaganda, organizzazione e penetrazione prospettato alla conferenza.

Frattanto gli opportunisti avanzavano sulla strada prevista da Lenin. Prima di aprile il comitato esecutivo del Soviet, da essi controllato, era quasi in pari numero favorevole e contrario ad entrare nel governo. Dopo quella prima crisi di piazza, 34 delegati contro 19 si dichiararono per l’accordo coi borghesi. Nel giudizio di Lenin, era la piccola borghesia che davanti alla minaccia di una nuova fase rivoluzionaria rinculava, consegnando ai capitalisti tutte le posizioni. Il 6/19 maggio fu annunziata la lista del nuovo governo, presieduto dal borghese Lvov con Kerenski e gli altri nominati sopra: borghesi e opportunisti avevano stretto il patto di acciaio.

Come era previsto, questo governo fu impotente anche nel senso riformista e i timidi passi dei «socialisti» furono presto bloccati, sicché nelle masse della città e delle campagne aumentò il disappunto verso il governo e verso i capi del Soviet in quel tempo.

72 – La lotta nelle campagne

Ribolliva la lotta dei contadini per prendersi in un modo o nell’altro la terra dei grandi proprietari, e uno degli scopi della coalizione era di deviare questo fermento minaccioso in conquiste pacifiche. Il ministro all’agricoltura Černov fece tentativi per attuare il contorto programma teorico di spartizione dei socialisti rivoluzionari. Egli accolse la richiesta delle zone rurali che denunziavano i tentativi degli agrari di salvarsi dalla spogliazione con vendite frazionate a prestanome e a contadini ricchi e medi: e adottò la misura di sospendere, con un ordine legale ai notai, tutti i contratti di compravendita di terre.

Contro questa strana misura, in contrasto teorico con lo stesso programma di una grande rivoluzione borghese, che come in Francia nel 1789 facesse «della terra un articolo di commercio», si levarono indignati i grandi fondiari pretendendo che Černov ritirasse il suo provvedimento. Miseramente costui prima lo mise praticamente nel nulla precisando che non era vietata la trasmissione dei diritti ipotecari, ed infine ancora più vilmente autorizzò la ripresa di tutte le contrattazioni conformi «alle leggi», sotto pretesto che solo la futura Costituente avrebbe diversamente potuto legiferare. Questa la misera fine di quello che era stato detto il «ministro dei mugic».

Qui si riconfermava la veduta esatta dei bolscevichi che proponevano che senza attendere la Costituente e senz'altro indugio fosse dichiarata la terra proprietà dello Stato, dandone l’immediato materiale possesso ai consigli locali dei contadini per la gestione collettiva o con transitorie distribuzioni di lotti alle famiglie coltivatrici.

73 – Le richieste degli operai urbani

Al tempo stesso nelle città la scarsità di risorse e di derrate agitava gli operai che invocavano aumenti delle paghe. Per mesi e mesi il governo non toccò questo tasto scabroso, non ebbe un ministro del Lavoro, mentre il progressista Konovalov era a quello dell’industria. Finalmente si dedicò alla cosa il menscevico Skobelev, ma col solo mezzo di far nominare nella cosiddetta ed ufficiosa conferenza della Duma una commissione divisa in sottocommissioni e sezioni prive di qualunque autorità, che indietreggiarono al dire dei datori di lavoro che ogni maggiore spesa avrebbe fermata la macchina produttiva o indotto aumento enorme dei prezzi. Circa un milione di operai industriali entrarono in agitazione nelle fabbriche, poco soddisfatti dei vaghi comitati di azienda che il nuovo regime esitando aveva riconosciuti.

Fino al principio di giugno il governo non trattò che in commissioni e con dichiarazioni teoriche la questione di una politica economica dello Stato, del suo controllo sulle fabbriche e delle prospettive di statizzazione delle maggiori, che vedeva poco favorevolmente in quanto… data la penuria di mezzi non si poteva passare al socialismo! Peggiorarono le condizioni dell’approvvigionamento, le code delle mogli degli operai duravano intere giornate, e nei grandi e medi centri l’onda del malcontento saliva irresistibile.

Quanto all’esercito, mentre il governo tramava una ripresa della lotta militare con appoggi delle potenze dell’Intesa pur temendo le conseguenze – che poi vennero – dello scatenarsi folle di offensive al fronte, cresceva nei soldati l’avversione alla prosecuzione della guerra e nei reggimenti si sollevavano agitazioni e organizzavano Consigli, orientati sempre più verso la tendenza bolscevica.

In questo quadro sociale torbido si apriva, per un altro grande scontro politico, ancora in forme incruente, il Primo Congresso dei Soviet di tutta la Russia.

Con la rinvigorita frazione bolscevica Lenin, come aveva portato la forza delle esigenze rivoluzionarie nella sessione di partito, si accingeva a recarla alle assise di tutta la classe lavoratrice. Fu urto memorabile.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (IX)

74 – Il primo Congresso Panrusso dei soviet

Il congresso si aprì il 3/16 giugno 1917 e si prolungò fino al 24 giugno/7 luglio, con lunghe discussioni che per il momento lasciarono la situazione come l’avevano trovata. Ma con quel congresso si chiuse la fase di preparazione legale del partito bolscevico, di agitazione sulla piattaforma stabilita dalle «Tesi di Aprile», e si aprì la nuova fase, ossia non il passaggio del partito all’attacco insurrezionale, bensì l’attacco ad esso della controrivoluzione, la fine dell’utilizzazione delle pubbliche libertà, il ritorno forzato «nel sottosuolo», ossia a quell’azione illegale in cui il partito era ferratissimo.

Al potere come sappiamo era il governo della coalizione stabilita il 6/19 maggio tra i borghesi e i social-opportunisti: Lvov presidente, altri dieci ministri tra ottobristi e cadetti (i «dieci ministri capitalisti»), i menscevichi Tsereteli e Skobelev, i socialrivoluzionari e affini Kerenski, Pereverzev, Černov, Peshekhonov. Kerenski, anima dannata degli alleati di occidente, era alla Guerra: il partito socialrivoluzionario era in quel torno il più numericamente influente in Russia.

Tre mesi corrono fra l’arrivo di Lenin e la lotta di Luglio: il riarmo del partito fu valido: nel lato teorico con la precisa definizione degli obiettivi, nel lato tattico con l’indirizzo di svolgere per il momento azione di organizzazione, propaganda ed agitazione tra le masse.

Deriva da questa fase la tradizione, poi esageratamente stamburata, di una speciale «ricetta» che la «bolscevizzazione» conferirebbe per dare la sveglia alle masse se dormono, con un lavoro tenace, indefesso e così via, come in una abusata demagogica campagna. Tale ricetta venne in tutto il tempo della dominazione staliniana impiegata in modo ipocrita, filisteo e tecoppesco per chiudere la bocca a chi, invece, vedeva la vera tradizione venir tradita bassamente e impunemente. Si trattò, invece, di una particolare attitudine a valutare il trapasso storico, dalla lunga preparazione teorica previsto ed atteso, e non di un espediente da ciarlatani per capovolgere sempre ed ovunque situazioni stagnanti. Oggi noi stagniamo da trent’anni, allora la situazione evolveva ogni mezzo mese. Non in ogni tempo è dato andare alle «grandi masse», ma solo in quello in cui esse sono in moto verso la rivoluzione: tempo che si capisce, non si provoca.

Quei tre mesi non furono, in quello specifico tempo e luogo, certo buttati via. Il Comitato centrale di Aprile aveva così riassunto i compiti:
«1. Spiegazione della linea e dell’indirizzo proletario per mettere fine alla guerra.
2. Critica della politica piccolo-borghese di fiducia e di appoggio al governo dei capitalisti.
3. Propaganda ed agitazione da gruppo a gruppo in ogni reggimento, in ogni officina, particolarmente in seno alle masse arretrate dei domestici, braccianti, ecc. [testo non di Leninista penna qui, o mal tradotto, se appaia i domestici di città e campagna, versione peggiorata del servo russo della gleba, con gli operai agricoli puri], poiché soprattutto su di essi la borghesia ha cercato di far leva nei giorni della crisi.
4. Organizzazione, organizzazione e ancora una volta organizzazione del proletariato in ogni officina, in ogni rione, in ogni quartiere«
[63].

Questa è lezione storica di primo ordine nello studio dei processi rivoluzionari; non è una filosofia eterna quanto spicciola dell’organizzazione, forma storica il cui gioco sta nel suo contenuto, e che automaticamente non è rivoluzionaria, e può anche essere l’opposto. Seguiamo infatti il gioco ardente delle forze sociali.

Alla vigilia del congresso varie volte i bolscevichi misurarono il grado della loro assidua preparazione: alla Conferenza dei comitati di fabbrica e d’officina tenuta il 30 maggio – 3 giugno (12–16 giugno nuovo stile), in cui i tre quarti dei delegati accettarono la linea bolscevica di Lenin – ben illustrata dalla «Risoluzione sulle misure di lotta contro lo sfacelo economico»[64], alla conferenza delle organizzazioni militari bolsceviche tenuta durante il congresso panrusso tra i soldati, e in altre occasioni e manifestazioni. I sindacati operai erano saliti in quel periodo a 130 di nuova costituzione nella capitale e 2000 in tutta la Russia.

75 – Schieramento al Congresso

Il Congresso Panrusso, aperto il 3/16 giugno sotto la regia dei capi opportunisti del governo e del Soviet della capitale, constava di mille delegati e più, ma solo 822 avevano voto deliberativo. Di questi 285 erano socialisti rivoluzionari, 248 menscevichi, che, seguiti da varie piccole frazioni, disponevano della maggioranza schiacciante. I bolscevichi non erano che 105. Al Congresso erano rappresentati 305 Soviet locali unificati di deputati contadini e soldati, di tutta la Russia; 53 Soviet regionali e provinciali; 21 organizzazioni dell’esercito attivo; 8 della riserva; 5 della marina da guerra. Era la disposizione di una forza colossale inquadrata e armata: si mostrò totalmente impotente.

La solida frazione bolscevica non aveva in quel congresso né il proposito di raggiungere la maggioranza, né quello di attaccare il congresso dal di fuori quando questo ne avesse respinte le proposte. Il passo di quel momento era solo di proclamare in campo più vasto il programma rivoluzionario fatto proprio dal partito in aprile.

Alla presidenza sedevano per i bolscevichi Kamenev, Zinoviev, Nogin, Krylenko. Oratori principali furono Lenin, Zinoviev, Kamenev. Ma il lavoro della frazione fu silenziosamente condotto da due organizzatori di forza: Stalin e Sverdlov, che mai andarono alla tribuna. Trotsky non era ancora nel partito bolscevico. È giusto il suo rilievo che se Sverdlov non fosse morto, presto avrebbe egli assunto, vicinissimo a Lenin, le funzioni di segretario organizzativo del partito.

Comunque i bolscevichi, che come i fatti mostrarono già controllavano le masse della capitale Pietrogrado e avrebbero potuto premere dall’esterno sul congresso, per l’ultima volta condussero una grande battaglia di parole e di idee, su un terreno neutro, che fu una dichiarazione di guerra vicina tanto alla borghesia quanto agli opportunisti, ancora insediati a dividersi l’eredità dello zarismo.

La questione primaria era quella dell’attitudine verso il governo provvisorio. Socialrivoluzionari e menscevichi sostenevano, nel congresso panrusso, la posizione che avevano fino allora fatta prevalere nel Soviet di Pietrogrado: lasciare il potere governativo al ministero di coalizione, formato fuori dei Soviet, nel seno dell’equivoco comitato che pretendeva risalire alla vecchia Duma «eletta» sotto lo zar. Ed intanto rimettere tutto all’Assemblea costituente da eleggersi «come nei paesi liberali e civili».

Tsereteli, uno dei più loquaci oratori, ripete per l’ennesima volta:
«Nel momento attuale, non vi e in Russia nessun partito politico che dica: dateci il potere, andatevene, noi occuperemo il vostro posto. Un tale partito in Russia non esiste».
Il vecchio retore era sicuro del suo effetto e della sua platea, ma una voce – era quella di Lenin – gli rispose da uno dei banchi dei delegati:
«Questo partito esiste

Tra rumori e commenti stupiti Lenin salì alla tribuna:
«Egli, Tsereteli, ha detto che in Russia non c’è un partito politico che si dichiari pronto a prendere tutto il potere nelle sue mani. lo rispondo: C’è! Nessun partito può rifiutarsi di far questo, e il nostro non vi si rifiuta: esso è pronto, in ogni momento, a prendere tutto il potere nelle sue mani!»[65].

76 – Gli interventi di Lenin

Questa narrazione sarà un poco romanzata, forse, ma noi abbiamo nelle «Opere» di Lenin due testi: quello del discorso che appunto il 4 giugno tenne sulla questione dell’attitudine verso il governo, e quello della risoluzione proposta sulla scottante questione agraria.

Nel discorso (verbale ufficiale del Soviet non bolscevico?) figura la risposta alla frase citata di Tsereteli: evidentemente Lenin riprese l’interruzione lanciata in precedenza, e la dichiarazione di essere pronti a prendere il potere. Segue tra parentesi: (applausi, risa). Infatti il congresso in parte applaudiva l’aperta dichiarazione; i capoccioni, povera gente, ostentarono di sghignazzare: eran quelli che in aprile avevano sentenziato: Lenin rimarrà solo, mentre noi staremo alla testa della rivoluzione!

Compito primo del movimento marxista, dichiarata organizzazione per prevedere la storia, è l’inesausto confronto coi fatti delle previsioni di quei bravi uomini che ci trattano da visionari. E questa ce la offriamo.

Prima di citare i passi che resero acido il riso di uno Tsereteli, sottolineiamo un istante questo fatto storico: il partito non nasconde mai di essere costruito per tenere, solo, il potere.

Badate: nel momento che quel Lenin ritenuto in tattica – da chi nulla ha mai capito – un imprevedibile funambolo senza scrupoli, un acrobata del doppio gioco, assesta con assoluta calma quel fendente, la situazione è questa: non si tratta di costruire la società socialista, di attuare il programma socialista; non si tratta nemmeno di minacciare per domani l’azione in piazza, la violenza insurrezionale, di darne dalla tribuna la parola d’ordine alle masse; si dichiara ancora di intendere di usare le facoltà legali di propaganda; non si dice – e lo si dirà, e, come vedremo, in dottrina lo si teorizza fin da ora – che restando in minoranza si vedrà di far fuori la maggioranza a spintoni; non si chiede al Soviet di assumere immediatamente il potere, sotto pena di boicottarlo. Niente di tutto questo, ma, per gli infernali iddii, pur non annunziando né minacciando la rivoluzione alle porte, si proclama altamente che il partito della classe lavoratrice esiste per raggiungere questo solo scopo: pigliare il potere, e non già, sia pure nella fase più a lui sfavorevole, per quello di parteciparvi al fine di reggere i pendagli all’amministrazione altrui.

Valga questo per gli «allievi» di Lenin, che dicono di avere imparato da lui quella duttilità che le ragazze-squillo imparano dalla ruffiana, e (oggi 1955) che il loro partito altro scopo non ha che il bene della nazione, e a tal fine la governi chi vuole. Maiali!

77 – La posizione bolscevica

È in un ambiente ostile che Lenin parla, ed è esatto l’altro episodio verbalizzato.
«(Il presidente: Il vostro tempo è scaduto).
Lenin. Fra mezzo minuto finisco… (Rumori, grida, inviti a continuare, proteste, applausi).
(Il presidente: Comunico al Congresso che la presidenza propone di prolungare il tempo concesso all’oratore. Chi è contro? – La maggioranza è favorevole)»
[66].
Il discorso terminerà «fra gli applausi di una parte dell’assemblea».

Egli cominciò col chiedere: che tipo di istituzione è questa assemblea? Potete voi dire che esiste in qualche altro paese del mondo? No. E allora la questione è questa: o un governo borghese come in tutti i paesi odierni, o questa istituzione a cui oggi si fa appello perché decida del potere. Ora questa nuova istituzione è un governo, di cui si trovano esempi solo nella storia dei più grandi slanci rivoluzionari, come quello del 1905 in Russia, e del 1792 e del 1871 in Francia.

La conclusione di Lenin ci è familiare: è una conclusione contro la coesistenza. Governo borghese di tipo parlamentare e Soviet non possono coesistere: quindi o si sopprime il primo, ovvero il secondo sarà travolto dalla controrivoluzione ed al più naufragherà nel ridicolo.

Conformemente a questa dottrina (non dite, Lenin grida, che si tratti solo di una questione teorica!) abbiamo sempre, da allora ad oggi, dato del bagolone a tutti quelli che, senza nessun movimento e stando bene in piedi il governo parlamentare borghese, volevano «fondare in Italia i Soviet»[67].

Tutti ce l’hanno col costruire, edificare, fondare. L’animus borghese dell’impresa di costruzione! Siamo rivoluzionari in quanto aspiriamo solo ad abbattere demolire e sfondare!

Ma vogliamo fermarci sulla notevolissima affermazione che un’istituzione di governo sorgente dalle masse sfruttate si ebbe non solo nella Russia del 1905 e nella Comune di Parigi, ma altresì «nella Francia del 1792».

Questa è una tesi di Marx e di Lenin fondatissima. La rivoluzione francese del 1789–1793 fu una rivoluzione borghese, ossia fu determinata dalla pressione del modo capitalista di produzione che doveva sostituire quello feudale; né poteva esservi altra prospettiva sociale che il passaggio del privilegio economico e del potere politico dalla nobiltà feudale alla grande borghesia. Ma lo scontro si manifestò come urto delle masse povere della città e della campagna contro l’antico regime e le sue difese: ed è proprio di una rivoluzione storicamente a cavallo tra feudalismo e capitalismo che resta ben detto rivoluzione veramente popolare. Fu una rivoluzione di classe per la borghesia, ma non della borghesia, che fece combattere i poveri, e i medi dell’intelligenza. Vera rivoluzione di classe e non di popolo sarà la nostra, perché il proletariato farà la rivoluzione per se stesso, e più ancora per distruggere le classi tutte; la farà la stessa classe operaia, ed essa sola.

In Russia nel 1917 tra febbraio e ottobre non abbiamo il problema storico della rivoluzione tra capitalismo e socialismo, bensì quello ancora della rivoluzione tra feudalismo e capitalismo. Solo che nel lontano 1792 si trattava della seconda rivoluzione borghese, e il popolo povero poteva combattere ma non governare; nel recente 1917 si trattò della… penultima rivoluzione borghese, ed il proletariato, già ben presente, dovette combattere col popolo e governare con esso – in egemonia su esso.

78 – Le rivoluzioni «popolari»

Non ci dilungheremo ora in citazioni di Marx e di Lenin a proposito di un dualismo di potere nella rivoluzione antifeudale rivelatosi già nella rivoluzione francese del sec. XVIII (e potremmo dire anche nell’inglese del XVII al tempo di Cromwell e poi degli Orange) e finito in entrambi quei casi con la disfatta dell’embrionale «potere del popolo» e il trionfo di quello della classe possidente minoritaria di fabbricanti, banchieri e terrieri borghesi. In questo concetto si vede contrapposta al primo Parlamento, agli Stati Generali, del 1789, la Convenzione estremista del 1793 che esprimeva l’ardore rivoluzionario dei sanculotti urbani e degli incendiari servi liberati delle campagne, cadendo nel Termidoro sotto il potere grande-borghese, come doveva tanto tempo dopo cadere la Comune sotto gli sgherri di Thiers.

Tralasciando una tale analisi daremo un passo di Lenin che conferma come la Rivoluzione russa era nel suo complesso una rivoluzione borghese, e tra queste si svolse come «veramente popolare» – il che non contraddice alla tesi che vinse in Ottobre come rivoluzione politica socialista, e diretta allo sviluppo sociale anticapitalista, pure essendo, alla fine del ciclo e con la sconfitta del partito rivoluzionario e internazionalista seguita a quella dei comunisti europei, ritornata a chiudersi – non meno della francese del 1793 – nel grande trapasso feudalismo-capitalismo. Il passo è questo, di «Stato e rivoluzione»:
«Se prendiamo ad esempio le rivoluzioni del XX secolo, bisogna ben riconoscere che le rivoluzioni turca e portoghese furono rivoluzioni borghesi. Ma né l’una né l’altra furono popolari, poiché la massa del popolo, la sua immensa maggioranza, non intervenne in modo attivo e indipendente, con rivendicazioni economiche e politiche proprie, né nell’una né nell’altra di queste due rivoluzioni. La rivoluzione borghese russa del 1905–1907 [Lenin scrive tra febbraio e ottobre, proprio al tempo di quel congresso di giugno, e qui denunzia Tsereteli per avere, pochi giorni dopo il discorso che stiamo trattando, avanzata la sua candidatura al compito di fucilatore dei bolscevichi] è stata invece senza dubbio una rivoluzione veramente popolare [frase presa da Marx ed Engels, che senza posa denunziarono la mancanza di questo trapasso storico per la Germania borghese] poiché la massa del popolo, la sua maggioranza, i suoi strati sociali inferiori più profondi, oppressi dal giogo e dallo sfruttamento, si sono sollevati in modo indipendente e hanno impresso su tutto il corso della rivoluzione il suggello delle loro esigenze, dei loro tentativi [qui, immaginate un corsivo messo da noi alla profetica parola] di costruire a proprio modo una nuova società al posto dell’antica che essi distruggevano»[68].

Qui resta chiaro che tra le rivoluzioni borghesi quella russa è stata squisitamente popolare, e che Lenin ha condotta una rivoluzione popolare nel corso del 1917, rendendosene perfettamente conto. In tutto questo ha camminato sulla via della rivoluzione anticapitalista europea, in un’Europa in cui ormai non si verificava la condizione del 1871
«in cui sul continente in nessuno degli Stati il proletariato non costituiva la maggioranza del popolo»,
come dice subito in seguito a quel passo.

Ma vile e traditore è chi dice che proprio Lenin ha tracciato una nuova via della rivoluzione di classe d’Europa, degradandola a «veramente popolare»: laddove era questa una promozione autentica per una rivoluzione capitalistica-borghese nascente, come la Russia, dal feudalismo storico.

Avvenuta che fosse tale rivoluzione, che egli non vide, la rivoluzione russa non sarebbe scesa da popolare a capitalista, ma di colpo veramente salita da popolare a proletaria classista e comunista. E ciò fu.

Ma torniamo al I Congresso dei Soviet.

79 – La «democrazia rivoluzionaria»

Lenin deride la mania di questa frase pomposa negli opportunisti. Egli non lascia il suo binario di venti anni (come inventa lo stalinismo) e non nega affatto di proporre solo una dittatura del proletariato e dei contadini poveri nella rivoluzione democratica. Siete voi, dice, che non dovete parlare di democrazia rivoluzionaria, ma di «democrazia riformista con un ministero capitalista». E qui che l’oratore si rivolge a quello che non chiama certo compagno, ma «cittadino ministro delle Poste e Telegrafi» e gli dà la risposta che suscitò negli opportunisti le già dette risate.

«Potete ridere quanto volete, ma se il cittadino ministro pone anche noi, oltre che un partito di destra [oh, quanto vecchia risorsa di rinnegati!] di fronte a questa questione [del potere] riceverà la risposta che si merita. Finché esiste la libertà, finché le minacce di arresto e di deportazione in Siberia – profferite dai controrivoluzionari con i quali i nostri ministri quasi-socialisti si trovano tutti uniti in uno stesso collegio – non sono che minacce, ogni partito in simile momento dice: dateci la vostra fiducia e noi vi esporremo il nostro programma. La nostra conferenza del 29 aprile ha esposto questo programma […]. Cercherò di darne al cittadino ministro una spiegazione ‹popolare›»[69].

Lenin fa seguire l’esposizione delle idee e delle proposte di aprile. Il governo vuole che la guerra continui, perché tale è l’interesse dei capitalisti russi ed esteri, ed è un governo della stessa classe.

Ma la confutazione di Tsereteli sul diritto dei partiti in regime di libertà ebbe un gran sapore dialettico e polemico. Purtroppo Lenin non ha potuto rivedere i volumi delle sue «Opere»Lenin prevedeva che era questione di giorni per la messa fuori legge dei bolscevichi, dei soli nemici della coalizione coi borghesi, ossia della servitù sotto i borghesi.

Egli contrappone le due alternative: Se, per evitare che il proletariato, e il nostro partito, vadano al potere, prendete contro di noi e le nostre possibilità di agitazione nelle elezioni dei Soviet, nella stampa, ecc., misure repressive, ciò ben mostrerà che la nostra tesi è giusta. Ma fino a quando asserite che la libertà democratica ha con voi trionfato, allora perché, dopo la consultazione delle classi lavoratrici in seno ad una democrazia rivoluzionaria, pretendete che l’assemblea dei Soviet per principio rispetti il potere di un centro esterno ad essa, precostituito? Invitate i lavoratori a eleggere delegati menscevichi e socialisti rivoluzionari, li invitate a seguire questi partiti che si dicono socialisti; ma con quale logica, se tali partiti affermano per principio di non volere arrivare al potere?

Questa chiara quanto tagliente argomentazione tende a realizzare la serie dei risultati: solo i Soviet devono avere il potere e formare il governo. Ma perché questo sia possibile bisogna che nei Soviet non prevalgano i partiti che si dicono operai mentre propongono alla classe operaia di rinunziare in partenza ad ogni eventualità del potere.

80 – Le misure di politica economica

Dal discorso di Lenin riceve luce anche la questione delle misure pratiche anticapitaliste che il governo di coalizione è impotente a prendere. Gli opportunisti qui si difendono con la solita solfa: la situazione economica è grave, la Russia è povera ed ulteriormente immiserita dalla guerra. Chiedere misure contro la grande industria significa pretendere di «instaurare» il socialismo: essi si dicono socialisti, ma eccepiscono, ben fuori di luogo, che il socialismo segue solo sulla base di uno sviluppato capitalismo. Lenin spiega che non si tratta di questo, ma solo di andare avanti nel senso degli interessi dei lavoratori e contro quelli borghesi. Noi abbiamo chiesto in aprile solo l’accertamento, egli dice, dei profitti del 500 e 800 per cento degli industriali di guerra, col mezzo di schiaffarne alcuni in prigione per un po’ di tempo in modo che rivelino tutto, e mediante il controllo degli operai rivoluzionari nell’azienda. Questo non è socialismo.

Siamo sempre sullo stesso punto della polemica. Sono una serie di passi nella direzione della lotta della nostra classe, possibili anche fin quando non sarà possibile il socialismo, che come punto di arrivo è fuori della rivoluzione in Russia, ma deve restare il traguardo della classe e del partito. Si tratta dunque del controllo operaio, della cartellizzazione obbligatoria, ossia della costituzione di sindacati industriali controllati dallo Stato. Questo lo fanno anche i governi borghesi (in Italia le varie IRI) ma al fine di accrescere il profitto capitalista con soldi dello Stato: la rivoluzione deve farlo per incamerare parte dei profitti. E finalmente, ma solo più tardi, i bolscevichi proporranno la statizzazione delle fabbriche.

Fin dal 1918, e nel 1921, Lenin spiegherà che non si tratta, nemmeno con l’espropriazione senza indennizzo, di socialismo, ma di salire il gradino del capitalismo di Stato, che è sulla marcia verso il socialismo.

Ma ponete la questione come concreto rapporto di forze politiche. Il partito rivoluzionario dà la parola delle fabbriche di industria bellica, pesante, allo Stato, per rafforzare la forma armata dello Stato stesso e il potere politico della classe operaia. Gli opportunisti si oppongono, perché non vogliono togliere ai capitalisti né il profitto né il potere, e assumono che non essendo maturo il socialismo non è il momento di statizzare i grandi mezzi di produzione! La giusta risposta è duplice: statizzazione industriale è capitalismo di Stato, e non ancora socialismo (nemmeno nel senso di fase inferiore del comunismo). Ma nel negare questa misura e nel sostenerla si ha un atto della lotta contro il socialismo e per il socialismo, lotta quest’ultima che il proletariato conduce anche sapendo che viene ad amministrare il potere, ancora in forma democratica, di una società borghese.

81 – Il congresso rincula

Lenin concluderà dicendo che la rivoluzione non può sostare: deve fare tutti quei passi reali in avanti, o deve cedere alla controrivoluzione se indietreggia. Ma i tempi non sono ancora maturi e questo Primo Congresso rincula, vota per Tsereteli, per Černov. Prima però i bolscevichi avranno dato la dimostrazione piena che il governo vuole e conduce una guerra di vittorie imperiali, e prepara rovinose offensive militari, che esso non sostiene i diritti degli operai delle città contro l’esosità dei padroni, che inganna i contadini fermando ogni riforma fino alla decisione dell’Assemblea Costituente[70].

A questo proposito, per un’ennesima volta, poderosa è la stesura di Lenin della – respinta – risoluzione sulla questione agraria, nel progetto da lui redatto per il I congresso dei deputati contadini di tutta la Russia, 17 maggio – 10 giugno, ovvero 4 – 28 maggio vecchio stile[71].

Le formule economico-sociali sono quelle ben note e strettamente marxiste:
«Bisogna incoraggiare la trasformazione di ogni grande proprietà fondiaria in un azienda modello, coltivandone la terra in comune, con i migliori attrezzi, sotto la direzione di agronomi e secondo le decisioni dei Soviet dei deputati operai agricoli».
Più che mai la populista spartizione e la proprietà contadina parcellare sono fieramente condannate.

Ma il punto interessante politicamente è quello 2.
«I contadini devono prendere immediatamente in gestione tutta la terra, in modo organizzato […] senza che ciò pregiudichi la decisione definitiva dell’Assemblea costituente – o del Consiglio dei Soviet di tutta la Russia, se il popolo darà a tale Consiglio il potere statale centrale - sul regime agrario».

Qui la dizione sente con pari potenza delle posizioni di principio e di dottrina e di una prospettiva storica sicuramente tracciata.

I Soviet, se non devono sparire, e mancare oltre a tutti gli altri compiti a quello di ricevere collettivamente la terra dei grandi fondiari, ed evitarne la frammentazione, certamente giungeranno al punto di avocare a sé il potere centrale dello Stato, eliminando il Governo provvisorio. Questo eliminato, cade la necessità dell’Assemblea Costituente: saranno «costituenti» in materia agraria e in ogni altra i Soviet nel Consiglio centrale supremo.

Leggiamo già la condanna, che parve – ai fessi – improvviso ripiego al non avervi avuto la maggioranza, dell’Assemblea costituente futura ad una poco lusinghiera liquidazione appena nata!

Nessuna forma costituzionale ed organizzativa in sé e per virtù propria può fare miracoli.

Questo congresso opportunista e timoroso del potere capitalista ne fu la prova: presto udremo Lenin pronunziare ben altra condanna; e dire che la formula: il potere ai Soviet va fino a che i Soviet si muovono come forza di classe: altrimenti la formula viene, come fu, mutata: la classe e il suo partito possono, se necessario, prendere il potere senza i Soviet e contro la loro maggioranza.

Né l’involucro della democrazia parlamentare, né quello particolarmente instabile e fugace della «democrazia rivoluzionaria» sono in diritto di arrogarsi l’esclusiva della rivoluzione: questa potrà passare anche senza e contro tali forme, anche se è, come è, una rivoluzione socialmente antifeudale, ed è condotta come anticapitalista nel senso «potenziale», ma non ancora in quello «attuale».

Durante e dopo il Congresso gli avvenimenti incalzano.

82 – Le lotte del giugno

Durante il Congresso, che erano ben sicuri di controllare fino in fondo, i partiti menscevico ed esserre avevano preparato una manifestazione in onore dei caduti della rivoluzione, fissandola al 12 giugno. Cominciando a trepidare per gli umori del proletariato di Pietrogrado, esitarono e finirono con lo spostarla al 18 giugno (1 luglio). Ma in tale giorno doveva per fatale coincidenza essere scatenata la nuova offensiva sul fronte tedesco, che il semidemente Kerenski aveva fomentata, e i piani della quale, pronti da tempo, erano quelli stessi del febbraio dello Stato Maggiore Generale zarista, con la complicità di una serie di generali controrivoluzionari, che saranno poi famosi, come i Kornilov e i Denikin.

La dimostrazione del giugno riuscì all’opposto di quello che i maneggioni del Congresso aspettavano. Gli operai di Pietrogrado scesero nelle piazze con bandiere, cartelli e grida infrenabili che riecheggiavano in tutto le parole del partito bolscevico: «Tutto il potere ai Soviet!» – «Abbasso i dieci ministri capitalisti!» – «Pane, pace e libertà» – «Controllo operaio sulla produzione» e simili. Benché già prima del giorno 12 al congresso si fosse da Dan e Tsereteli inveito contro i bolscevichi accusandoli di complotto controrivoluzionario e sabotatore della rivoluzione, la dimostrazione del 18 giugno vedeva pacificamente mobilitato mezzo milione di cittadini di Pietrogrado e dei centri vicini. I pochissimi gruppi con motti di fiducia al Governo provvisorio furono derisi e dispersi dagli stessi dimostranti, e grave fu la paura degli opportunisti. I giornali menscevichi ebbero a scrivere cose di questo genere:
«La dimostrazione del 18 giugno si è trasformata in dimostrazione di sfiducia al Governo Provvisorio. Esteriormente produceva una impressione deplorevole. Sembrava che la Pietrogrado rivoluzionaria si fosse staccata dal congresso dei Soviet di tutta la Russia… Alcuni giorni prima questo aveva votata la sua fiducia nel Governo. Il 18 tutta la Pietrogrado rivoluzionaria sembrava esprimergli una netta sfiducia».

I bolscevichi in questa occasione non avevano affatto l’obiettivo di uno scontro armato, e contennero il movimento nei limiti di una dimostrazione imponente, ma tranquilla. Ma frattanto gli eventi precipitavano: gli opportunisti preparavano piani di repressione, di cui si erano in pubblico congresso vantati, i soldati fremevano per le notizie dei successivi invii di formazioni verso il fronte, e i lavoratori di Pietrogrado, tra cui non pochi compagni bolscevichi impazienti, cominciavano a domandarsi se non era meglio attaccare con tutte le forze il governo e tentarne l’abbattimento.

83 – La situazione muta

Siamo in effetti ad uno svolto storico, ad uno di quei capovolgimenti che solitamente sono invocati per pretendere una revisione totale ed una completa inversione non solo delle disposizioni tattiche di azione, ma anche, con grave errore e danno, per elaborare tutta una nuova visione della prospettiva storica e della valutazione dottrinale fino allora dal partito seguita, ed è in queste svolte che scoppiano le crisi dell’infezione opportunista.

La forza del partito bolscevico, come alla luce dei fatti andiamo qui dimostrando, a sbugiardamento della pessima, falsa, traditrice utilizzazione di queste celebri e grandiose esperienze, fu invece di spostare con magnifica sicurezza il fronte del suo schieramento e i mezzi pratici di combattimento, ma senza mai smarrire la linea solidamente ininterrotta della sua teorizzazione e previsione sul corso della rivoluzione in Russia. In verità in tutti questi svolti ora Tizio ora Sempronio, ora la tale tendenza ora l’altra, non evitarono la crisi, e ciò difficilmente era evitabile, ma quasi sempre il partito come unità superiore ai singoli prese e tenne la giusta via.

Non è nemmeno giusto attribuire questo eccezionale favorevole risultato della lotta storica più memorabile che abbia fin qui registrato il movimento operaio alla presenza dell’uomo di Genio che appare solo ogni cinquecento anni, come Zinoviev si lasciò una volta andare a dire. Lenin stesso ha provato e dichiarato che il risultato utile si dovette ad una costante, per lunghi anni, osservanza dei principi del partito, all’utilizzazione coerente del cammino del movimento proletario in un lungo corso ed in tutte le nazioni, al rigoroso confronto dei fatti presenti con le leggi del divenire storico in tutte le fasi passate, elaborate dalla nostra teoria rivoluzionaria. Volontà, tenacia, coraggio e dominio di sé davanti ai momenti terribili ne mostrarono centinaia e migliaia di compagni e di proletari.

Il Congresso dei Soviet si chiude dopo le interminabili e talvolta vuote discussioni il 24 giugno / 7 luglio 1917: nei venti giorni dei suoi sterili lavori tutto è mutato.

Dopo la dimostrazione del 18 giugno i movimenti dei nemici del bolscevismo stringono i tempi: ministri capitalisti e generali zaristi sotto la pressione dei collegati imperialismi di occidente devono far scattare la guerra, sia pure al solo scopo di alleggerire la pressione tedesca contro i paesi «democratici»; gli opportunisti del «socialismo», anche quelli che erano stati in una vaga attitudine internazionalista e zimmerwaldiana quando alla testa dell’esercito era la monarchia autocratica, sono irresistibilmente trascinati sulla via del tradimento social-nazionale dei partiti europei: essi hanno insultato Lenin come agente tedesco quando questi additava loro la via segnata da Liebknecht, incarcerato in quel tempo per aver detto ai soldati tedeschi di sparare sul loro Kaiser. Essi non capiscono che la loro coalizione coi borghesi facilita il legame di questi con la controrivoluzione, anche autocratica e zarista, come poco tempo dopo vedranno senza tuttavia poter guarire – Lenin prevedrà e constaterà nelle fasi seguenti che simili rinsavimenti non sono possibili.

Le famose giornate di luglio si datano tra il 4 e il 6, ossia tra il 17 e il 19 nuovo stile: il 7/20 sarà spiccato il mandato di arresto di Lenin, il quale dovrà nascondersi. Intanto il Congresso dei bolscevichi, che ammetterà Trotsky e la sua tendenza, è convocato per il 26 luglio/8 agosto e sarà completamente sotterraneo: il 22 lo stesso Trotsky verrà arrestato e con lui Kamenev e molti altri compagni. Stalin rimasto libero condurrà tutta l’organizzazione della messa in salvo di Lenin in Finlandia come del congresso illegale, le cui discussioni dovranno, ancora una volta, molto risentire di quel tornante tumultuoso.

84 – Le battaglie di luglio

Come abbiamo detto proprio il 18 giugno/1 luglio, mentre le masse manifestavano in Pietrogrado, si iniziò l’offensiva, con circa 300 mila uomini su un fronte di 70 chilometri e con l’impiego di rilevante artiglieria, 800 pezzi leggeri, più di 500 medi e pesanti. Vi fu un iniziale successo militare. Fino al 25 giugno i russi registrarono successi e avanzarono sia pure sacrificando 60 mila uomini. Ma i tedeschi contrattaccarono e già il 6 luglio sfondarono il fronte definitivamente facendo fallire la famosa offensiva di Kerenski e Brusilov e determinando la dissoluzione dell’esercito russo combattente.

Tutti questi eventi: il tradimento dei social-opportunisti, dei «fautori dei compromessi», col passaggio alla reazione poliziesca, le collusioni tra i loro capi e ministri e i generali zaristi, la catastrofe dell’offensiva imposta dagli alleati imperialisti, il ritorno all’illegalità del partito e alla situazione di guerra civile, erano integralmente previsti nella prospettiva seguita da Lenin.

Tutto ciò confermava la tattica seguita nei Soviet che doveva arrivare fino allo smascheramento della politica borghese opportunista innanzi alle masse contadine del fronte, ed il partito vi era dunque pienamente preparato.

Tuttavia la strategia predisposta da Lenin e dalla maggioranza non era ancora quella di accettare la battaglia nelle strade e di rovesciare il governo: anche questo era svolto storico previsto dalla teoria e preparato tatticamente, ma il partito non aveva e non avrebbe scelto il luglio: era troppo presto. Tuttavia dopo il riarmo dell’Aprile il Luglio non fu affatto una sorpresa, ed anzi venne a provare che si era visto giusto, e che si procedeva bene sulla via storica che il partito si era disposto a percorrere fino alla fine.

E falso dunque il titolo che nel VI congresso il partito (come nella solita Storia ufficiale) si orientò verso l’insurrezione armata. Esso era da tempo orientato verso di essa, e non aveva mai ammesso che per altra via potesse arrivare alla vittoria e al potere. Lenin non aveva nulla di nuovo da scoprire in materia, e tanto meno aveva bisogno che lo scoprisse Stalin, giusta la grossolana insinuata manipolazione!

Le dimostrazioni spontanee scoppiarono nel quartiere di Vyborg il 3/16 luglio, e si fusero in un’unica grande manifestazione di lavoratori, questa volta armati, sotto la parola del passaggio dei poteri dal Governo provvisorio ai Soviet. Il partito fu presente per evitare che si sferrasse l’assalto armato, ma il governo scatenò sui dimostranti gli junker (allievi ufficiali) e il sangue prese a scorrere. Borghesi e guardie bianche si illusero di aver vinto[72].

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (X)

85 – Sconfitta nelle strade e repressione

Non è nel nostro attuale compito fare la cronaca delle giornate del luglio 1917. Nel già tanto ampio nostro sviluppo ci interessa ricordare gli avvenimenti soprattutto per mettere in evidenza l’avvicendarsi delle fasi e le valutazioni che a volta a volta il partito dette di esse (o ne dettero sue parti e correnti) in ordine ai principi teorici generali, e alla sua organica e decennale visione della rivoluzione russa.

Come abbiamo già accennato le due giornate di attività delle masse, soprattutto di Pietrogrado, nelle piazze, furono il 3 e 4 luglio (16–17). I lavoratori spontaneamente e violentemente reagirono a vari fatti che abbiamo illustrati: la coalizione sempre più stretta dei menscevichi e socialrivoluzionari con i cadetti borghesi e altri partiti di centro, lo scatenamento della folle offensiva al fronte voluta da Kerenski.

La versione che dettero in combutta borghesi e opportunisti fu che i bolscevichi, vista battuta all’esecutivo dei Soviet, che sedeva dal 3/16 giugno, soprattutto per la tuttora grande influenza di social-populisti e menscevichi in provincia e nelle campagne, la loro tesi per l’assunzione del potere da parte dei Soviet stessi, e la rottura della coalizione coi borghesi nel governo provvisorio, rispondessero alla sconfitta nel voto col deliberato ricorso alla forza; il tutto condito da calunniosi attacchi agli agenti dei tedeschi, e perfino dello zarismo! Ma tutte le storie, su tal punto, ci confermano che questo non era vero, e che non solo il partito non aveva affatto preparato questo immediato cambiamento di fronte, ma fece di tutto per evitare, in quel momento, lo scontro generale.

In realtà masse di operai di Pietrogrado e di soldati e marinai della flotta, in armi e padrone per due giorni della città, si assembrarono intorno al Palazzo di Tauride dove sedeva il Comitato Esecutivo dei Soviet e inviarono di continuo delegazioni minacciose che esigevano la fine della coalizione di governo, la pace e la fine delle offensive al fronte, e tutte le altre misure che collimavano con la posizione dei bolscevichi. Tra gli agitatori, oltre ad operai bolscevichi più impazienti ed estremisti, non mancavano operai anarchici, e anche agenti provocatori sia dei bianchi, sia degli stessi traditori socialistoidi, che premeditavano il contrattacco ai bolscevichi.

Fatti principali furono la richiesta del reggimento dei mitraglieri di assalire ed arrestare il ministero, l’assedio alla fortezza di S. Pietro e Paolo, la materiale presa di possesso del quartiere rosso di Vyborg e della base navale di Kronstadt. Ma Trotsky e Stalin concordano nel dire che i dirigenti bolscevichi e il Comitato Centrale si adoperarono per fermare tali azioni armate e di vera guerra civile.

Fatti principali della subito scatenata repressione furono gli interventi di forze armate chiamate da Kerenski: gli junker, il reggimento di Volinia (quello che in ottobre doveva far traboccare la bilancia dalla parte della rivoluzione) al cui arrivo i vari Tsereteli deponendo paura e maschera proclamarono la nuova coalizione governativa, identica alla prima; la devastazione delle redazioni e stamperie dei giornali bolscevichi, in cui l’operaio Vojnov fu trucidato. Le guardie rosse operaie vennero disarmate, le unità militari più rosse fatte partire per il fronte. Si iniziò l’onda di arresti, cui fu sottratto Lenin. Fu annunziato il grande processo per «alto tradimento». Il partito era messo fuori legge, gli operai dovettero indietreggiare.

Come il partito giudicò tale nuova fase e quale strategia si fissò per l’avvenire? Noi qui siamo intenti a provare che il filone conduttore era lo stesso dal 1900. Ma le fasi furono molte ed alterne. Da febbraio ad aprile tolleranza larvata della coalizione borghese-operaia e della guerra, propositi di riavvicinamento ai menscevichi (cose che hanno storico nome da Kamenev-Stalin, senza che i posteriori schieramenti in campi opposti dei due nomi, uno di vittima, l’altro di giustiziere, le abbiano potute cancellare). Da aprile a giugno, dopo il ritorno di Lenin, ripresa sul filone rivoluzionario «classico» e chiarificazione di tutte le tesi e posizioni con la strategia di azione legale e pacifica per conquistare il Soviet, e da questo far conquistare, avocare a sé, il nuovo potere dello Stato. In luglio sconfitta dentro il Soviet, ira delle masse lavoratrici, offensiva dei rinnegati traditori della classe operaia, momentanea disfatta di questa, tentativo del governo borghese di annientare il partito.

86 – Congresso clandestino

Sarà nell’Ottobre che Lenin, afferrati per la collottola i dissenzienti, urlerà che non vi è un minuto da perdere, che non è l’ora di consultazioni, che vadano a farsi strafottere anche il congresso dei Soviet, anche quello del Partito, anche il voto del Comitato Centrale, e l’opinione cogliona delle maggioranze; che si deve nella notte che trascorre (dal 24 al 25 ottobre – dal 6 al 7 novembre) finire il governo nemico, o sparire dalla storia.

Ma in questa fase di indietreggiamento è di sommo interesse seguire le reazioni del già detto VI congresso del partito (che seguiva a dieci anni il V di Londra e che si tenne dal 13/26 luglio al 3/16 agosto).

Questo fu anzi preceduto da una conferenza delle organizzazioni bolsceviche di Pietrogrado, che era stata interrotta dalle dimostrazioni, e si concluse tra il 4 e il 7 (17 e 20) di luglio. Gli animi erano eccitati: la conferenza nella prima fase aveva fatto di tutto per frenare le masse impazienti, adesso si discuteva ardentemente se il rovescio era stato decisivo e si apriva la fase della vittoriosa controrivoluzione. La maggioranza seguì uno dei più valorosi bolscevichi, Volodarskij, che rifiutava accanitamente di ammettere che la controrivoluzione ci avesse vinti. La sua risoluzione in questo senso fu accettata con 28 voti contro 3, ma con ben 28 astenuti. Chi fosse Volodarskij, ben altro che uno specialista presentatore di ordini del giorno, lo dicono queste tremende parole di Trotsky, che mostrano come il partito rivoluzionario può in dati casi opporsi allo scatenamento della guerra civile, ma a battaglia perduta è il primo alla riscossa:
«L’umore disfattista delle masse durò solo poche settimane. Aperte agitazioni ripresero alla metà di luglio, quando nei piccoli comizi in diverse parti della città apparvero tre audaci rivoluzionari: Sluckij, che fu più tardi ucciso dalle guardie bianche in Crimea, Volodarskij, ucciso dai socialrivoluzionari a Pietrogrado, Evdokimov, ucciso da Stalin nel 1936»[73].

Poniamo in alto la memoria del compagno Volodarskij, più che per la fine a mani di un traditore del proletariato, per la poderosa impostazione alla conferenza di Luglio, braccata dai camelotti del capitale. E non condividiamo i giudizi che seguono in Trotsky.

I documenti che oggi abbiamo, tra cui articoli scritti in luglio e pubblicati in settembre a Kronstadt (ove non si era osato sopprimere la stampa, come pare che il birro Kerenski non osò stuzzicare Vyborg facendo sciogliere il congresso immediatamente successivo alla conferenza) stabiliscono come Lenin giudicò immediatamente e senza alcuna incertezza la situazione del momento.

La Storia ufficiale a questo punto mette Stalin al primo piano nel VI Congresso e gli attribuisce la paternità della diagnosi del passaggio dalla fase legale a quella di guerra civile, e ancora una volta l’enunciazione che la rivoluzione deve volgersi alla costruzione del socialismo. Ma Trotsky documenta come Stalin, che solo o quasi era collegato col nascosto Lenin, possedeva le «Tesi di Luglio» scritte subito da Lenin che nessuno ha più viste, né sono state mai pubblicate. Evidentemente il testo di queste si può desumere dai detti articoli, ed è pacifico che Stalin non enunciò queste scoperte, ma, fatto avvisato dal passato, si fece portavoce pedissequo di Lenin[74].

Inoltre se risulta che alla Conferenza di Pietrogrado Stalin, benché relatore sul momento politico, si oppose alla risoluzione di Volodarskij che negava la vittoria della controrivoluzione, non si vede come abbia potuto apparire lui quello che tracciava la fase futura di guerra civile rivoluzionaria.

87 – Ancora un bilancio della rivoluzione

Siamo in presenza di tre presentazioni storiche che possiamo dire di Lenin, Trotsky, Stalin. Gli ultimi due dicono che la loro è quella di Lenin, anzi sostengono in un certo senso che Lenin abbia indicata una strada su cui essi si erano già messi, quella dello sviluppo non pacifico ma insurrezionale della rivoluzione apertasi col febbraio.

In verità Trotsky e Stalin hanno una posizione comune: quella cioè che nel corso del 1917 Lenin abbia modificata e rinunziata la sua tesi del 1905 sulla dittatura democratica del proletariato e dei contadini poveri. A questo proposito Trotsky rivendica una sua tesi antica, che invero sostenne dal 1905: la rivoluzione permanente, ossia una serie ininterrotta di guerre di classe che vadano, come enunciò Marx per la Germania del 1848–50, dalla rivoluzione chiaramente borghese, sostenuta dal proletariato, ad una rivoluzione chiaramente proletaria. Stalin poi rivendica una tesi che sviluppò molto dopo, almeno sette-otto anni dopo, ossia che, avendo la prima rivoluzione esaurito i compiti borghesi, la seconda avrebbe avuto per contenuto l’instaurazione nella sola Russia della società socialista integrale.

Va subito notato che la costruzione di Trotsky sta sul piano politico e non si discosta da quella di Lenin, in quanto con lui ritiene che la chiusura della rivoluzione permanente non si avrà che in parallelo di una rivoluzione socialista europea.

Ma Trotsky ha con Stalin torto quando sostiene che Lenin abbia spezzata la linea del 1905. Le rivoluzioni in Lenin – e nella storia – non sono né due autonome storicamente e socialmente, né una a lungo sviluppo: esse sono tre. Rivoluzione antifeudale condotta dalla borghesia con l’aiuto degli opportunisti piccolo-borghesi – rivoluzione democratica ma condotta, contro i primi, dal proletariato rivoluzionario – rivoluzione anticapitalista coincidente con la rivoluzione proletaria «pura» nell’Occidente.

Il secondo punto di Lenin, politicamente e quanto al potere. contiene già un lato della rivoluzione socialista e costituisce la sola via al socialismo. Il terzo punto solo conduce alla trasformazione socialista dell’economia europea e russa.

Trotsky riporta che Volodarskij, dopo aver presa la giusta posizione sulla questione della battaglia di Luglio
«continuò in sostanza a difendere lo schema bolscevico della rivoluzione del 1905: prima la dittatura democratica, poi l’inevitabile rottura col contado; e nell’eventualità della vittoria del proletariato in occidente, la lotta per una dittatura socialista».
Poi dice che
«Stalin appoggiato da Molotov e da alcuni altri difese la nuova concezione di Lenin: soltanto la dittatura del proletariato, appoggiandosi ai più poveri tra i contadini, può assicurare una soluzione ai compiti di una rivoluzione democratica e nello stesso tempo aprire l’era delle trasformazioni socialiste».

Strano che in un libro scritto per demolire Stalin si debba dargli ragione dove ha marcio torto, cioè nel farlo banditore di una nuova concezione di cui per tanti decenni si menerà enorme scalpore! Qui non deploriamo la formula di «aprire l’era» che era in Lenin ed anche in Marx (vedi in «Russia e teoria marxista» a proposito del «segnale alla rivoluzione dei lavoratori in Occidente») ma contestiamo che il 1917 abbia apportato una diversa e nuova concezione della via storica in Russia, e tanto meno in Lenin. Di cui vedremo subito le originali formulazioni.

Né può Trotsky dire:
«Stalin aveva ragione contro Volodarskij, ma non sapeva provarlo».
Sarebbe stata piccola cosa. Né è giusto aggiungere:
«D’altra parte, rifiutando di riconoscere la decisiva vittoria della controrivoluzione borghese, Volodarskij provò di aver ragione contro Lenin e Stalin»[75].
Volodarskij aveva ragione e aveva diritto di richiamarsi a Lenin: è Stalin che non aveva diritto di farlo allora (e se ne stette zitto al momento del voto) e tanto meno lo ebbe dopo di far raccontare che dette lui per primo l’ordine di rotta: e adesso la prora sulla guerra civile!

88 – L’orientamento da Lenin

Desumiamo quanto sopra affermato dallo stesso testo di Trotsky: quando Volodarskij vide che Stalin era relatore dichiarò: il rapporto dovrebbe farlo Lenin, oppure Zinoviev. Quando poi i 28 si astennero, dichiararono che lo facevano per non aver potuto leggere le tesi di Lenin, e perplessi per l’esitazione di Stalin. Solo che avessero saputo che Lenin pensava come Volodarskij, il voto sarebbe stato unanime.

L’opera dell’imboscato Lenin fu ancora una volta mirabile. Qui Trotsky lo riferisce da pari suo:
«Benché la sua lontananza lo facesse non di rado cadere in errori di tattica, questa stessa lontananza gli permetteva di definire nel modo più sicuro la strategia del partito»[76].
Una grande verità che mostra come la direzione di una rivoluzione tutto è fuori che un palcoscenico da esibizione drammatica. Il che non ancora un secolo ha capito.

Abbiamo di Lenin questi testi[77]: «Sulle parole d’ordine» scritto in luglio e poi apparso in opuscolo, crediamo a Kronstadt; «Gli insegnamenti della rivoluzione» scritto in fine luglio e pubblicato in settembre nel giornale «Rabocij» (I Lavoratori), e in opuscolo. Lo studio di questi testi basta a chiarire, a distanza di tempo, le questioni che il partito affrontava in quel torno al VI congresso, anche se la redazione in tesi non si possiede più.

Il primo articolo enuncia quella che nella Storia ufficiale viene sbandierata come geniale innovatrice nuova consegna data da Stalin: la parola d’ordine: tutto il potere ai Soviet, su cui abbiamo lottato da Aprile a Giugno, va liquidata. Lenin si rese da allora conto di quanto sarebbe accaduto. In questi casi si ha il malvezzo di dire: si sbagliò e fece male ad Aprile a dare quella parola, che produsse effetti deleteri (disfatta a Luglio). Ed in questo stesso senso il giudizio popolare sbaglierà quando in settembre si darà di nuovo la stessa parola d’ordine del potere ai Soviet, inducendo che si fosse risbagliato in Luglio a metterla via… È un ragionare come quello di moderne opinioni fasulle sul tipo dell’americana: la politica è l’arte di inventare e lanciare appropriati slogan della forza di quelli: Meglio del brill non c’è che il brill, oppure: Non è risotto se non c’è l’otto. Chi li imbrocca guadagna la grande partita politica ed il successo, poiché le masse, incitrullite, prendono a danzare su quei ritmi il can-can della storia…

Ben altra dialettica c’è nelle posizioni di Lenin, come ad esempio nella critica del blanquismo che, come ricordammo, gli serve in Aprile contro i cosiddetti sinistri, e nella difesa del blanquismo, ossia della marxista definizione di arte dell’insurrezione, in Ottobre, contro i disfattisti-pacifisti.

Le apparenti contraddizioni nella mente del fessame si lasciano invece collocare magnificamente sul cammino di una stessa visione dottrinale, ne confermano l’unità e continuità potente, invitano gli apportatori di nuove concezioni, passate o postume, generose o tendenziose, a risparmiarsi il disturbo.

L’esposizione di Lenin chiarisce che, mentre nella prima fase era possibile prevedere il passaggio del potere ai Soviet in maniera pacifica, nella successiva l’abbandono del potere da parte del governo borghese è impossibile senza lotta. Ora la parola di questa lotta violenta non può essere quella del passaggio del potere dal vinto governo al Soviet, perché gli attuali Soviet (Luglio) sono «montoni condotti al mattatoio» in quanto stanno nelle mani dei menscevichi e socialrivoluzionari, la cui azione ha, sola, permesso il passaggio del potere alla borghesia controrivoluzionaria.

Già in questa concezione è contenuto il futuro obiettivo che, quando i Soviet dalle mani degli opportunisti verranno in quelle dei rivoluzionari (i bolscevichi), si avanzerà la rivendicazione che sia ad essi dato il potere dello Stato. È un caso di negazione della negazione. Ma non nel senso di un ripentimento, che annulla il primo pentimento, bensì nel senso dialettico del passaggio su un piano superiore: in ottobre non si tratterà più di passaggio pacifico del potere ai Soviet, bensì di passaggio violento, insurrezionale, condizionato dal rovesciamento armi alla mano del potere borghese.

Lenin insiste sul fatto che la formulazione della parola di azione immediata va fatta non secondo criteri generici ma in relazione alla situazione concreta, non in forza della natura del Soviet in astratto, ma di quella dei Soviet che di fatto sono presenti. Potrà anche avvenire, se l’evoluzione avrà un certo corso degenerativo, che dei Soviet come forma del potere della classe operaia in avvenire non si abbia più a parlare. Non è la forma ma il contenuto della Rivoluzione che interessa. Il contenuto di ogni rivendicazione si giudica dal suo carattere di classe: un Soviet nelle mani di borghesi o servi di borghesi è un cadavere di Soviet:
«allora vuol dire che essi sono degli zeri, delle marionette, che il potere reale non è nelle loro mani»[78];
allora, cioè in risposta all’obiezione che non è il Soviet, e per avventura Černov e Tsereteli come persone, che hanno fatto sparare sui lavoratori dimostranti.

Grave errore è nei partiti del «Leninismo» e della «bolscevizzazione», che interpretano questa aderenza delle parole di azione ai caratteri immediati delle situazioni di forza, come un’inclinazione corriva a mutare e rifabbricare di volta in volta nuove ideologie e teorie del partito!

89 – Storia dell’oscillante potere

Ed infatti Lenin spiega le vicende del gioco di forza tra Soviet e borghesia rifacendosi al più puro filone teoretico. Lo Stato, egli dice, secondo Engels, consiste innanzi tutto «di reparti di uomini armati, con accessori materiali come le prigioni…».

Subito dopo la rivoluzione di febbraio tale attrezzatura era nelle mani della monarchia zarista e delle classi feudali. Tale attrezzatura fu infranta ad opera delle masse operaie e contadine che rapidamente si organizzarono in spontanei gruppi armati e presero ovunque localmente il potere, aprendo una fase di libertà completa, il che in concreto significò che ogni corrente politica antifeudale poté organizzarsi senza disturbo di sbirri e prigioni.

I Soviet, già noti dal 1905, sorsero subito ovunque e si cominciarono a dare una tessitura per tutta la Russia: se avessero tenuto nelle mani il potere centrale nessuno avrebbe potuto vietarlo con mezzi di coercizione, polizia e imprigionamenti. Ma da un lato la borghesia capitalista e terriera cominciò a costituirsi il proprio potere, in forme aderenti a quelle soppresse: ministero tra i gruppi della già Duma non di destra, comitati pseudo-parlamentari – dall’altro i partiti dominanti tra la classe lavoratrice lasciarono istituire il dualismo del potere, e lo amministrarono fuori del Soviet in una coalizione coi borghesi. Nel periodo fino al 18 giugno il Soviet avrebbe potuto decidere di rompere il dualismo formando nel suo seno un governo di partiti operai, sia pure non rivoluzionari: in quei mesi non avrebbe potuto la borghesia vietarlo con atti di forza. Di più, dice Lenin, anche in modo non violento poteva procedere la lotta tra questi partiti piccolo-borghesi e il partito proletario rivoluzionario, se i Soviet, invece di essersi da sé esautorati, avessero avuto in mano il potere dello Stato, il controllo di tutti i reparti armati.

La politica degli opportunisti ha svuotato queste possibilità storiche: il governo civile e soprattutto militare ha posto i suoi comandi fuori del Soviet, ha avuto il controllo dell’esercito, della burocrazia e della polizia: in ogni sforzo di classe di opposizione ad esso, menscevichi e socialrivoluzionari hanno fatto sì che il Soviet ne ratificasse gli atti.

Si è giunti al punto che un tale governo ha potuto usare a suo modo i reparti armati e le prigioni: la fase di libertà di agitazione è finita, si è sparato sulle masse, si sono soppressi giornali, fatti arresti, ecc.

In tale situazione ci sono due sole vie: o la controrivoluzione borghese (non ancora bianca, zarista) conserva il potere armato e toglie ogni libertà di azione al proletariato, o questo rovescia con la forza il governo controrivoluzionario coi suoi alleati opportunisti.

Socialmente parlando Lenin spiega la questione col fatto che la piccola borghesia, secondo Marx vile ed oscillante sempre, si è alleata con la borghesia.

Con il potere nelle mani dei Soviet, sarebbero potuti avvenire per via pacifica il distacco della piccola borghesia dalla borghesia ed un’intesa tra essa e il proletariato. Ma i partiti di essa divenendo, coi loro capi, servi della borghesia stessa, hanno chiusa la via ad ogni soluzione non guerreggiata di questi rapporti.

Quindi oggi la parola d’ordine non sarà, Lenin dice, tutto il potere ai Soviet, bensì «lotta decisiva [ossia distruttrice ed armata] alla controrivoluzione che ha preso il potere»[79].

90 – Risposta ad obiezioni tattiche

Lenin stesso prevede che gli si dirà: Siamo di opinione che non sia ancora il momento di metter mani alle armi di guerra civile: se cambiamo ora in tal modo la parola d’ordine ci presteremo ad iniziative imprudenti e al gioco della provocazione. Lenin risponde che gli operai russi sono ormai abbastanza sicuri e consapevoli: comunque è il momento di non sottacere affatto che occorre la ripresa integrale della lotta armata, in quanto solo il proletariato rivoluzionario avrà la forza di battere la controrivoluzione.

Con ciò ribatte anche una seconda obiezione: Quando abbiamo dichiarato che non avremmo attaccato in armi un governo su base sovietica di menscevichi e socialrivoluzionari staccatisi dalla borghesia parlamentare, abbiamo mostrato alle masse di ritenere che questi movimenti piccolo-borghesi potevano essere accetti come alleati. Come ora denunziarli quali nemici, e quale nemico anche lo stesso Soviet che essi controllano? Se la reazione borghese, e peggio zarista, attaccasse anche costoro, e volesse sciogliere i Soviet, resteremmo noi indifferenti? Ma la risposta anche qui non ha incertezza alcuna.

Noi sappiamo, dice Lenin, che i capi di questi partiti faranno la fine che dovevano fare: tuttavia ciò non ci impedisce di difendere le masse contadine e del popolo minuto contro gli attacchi della reazione sia capitalista che feudale. E qui nettamente disegnata la fase che verrà con Kornilov poco oltre.

«Sarebbe un gravissimo errore credere che il proletariato rivoluzionario sia capace per vendetta, se così può dirsi, contro i socialrivoluzionari e i menscevichi – che hanno dato il loro appoggio al massacro dei bolscevichi, alle fucilazioni al fronte ed al disarmo degli operai – di rifiutarsi di appoggiarli di fronte alla controrivoluzione [bianca, feudale]. Porre così la questione vorrebbe dire, innanzi tutto, attribuire al proletariato concezioni morali piccolo-borghesi (perché il proletariato appoggerà sempre, se sarà utile alla causa, non solo la piccola borghesia esitante, ma anche la grande borghesia)»,
ma soprattutto sarebbe un errore velare il fatto che i controrivoluzionari,
«i Cavaignac […], i nuovi detentori del potere, possono essere vinti soltanto dalle masse rivoluzionarie, e queste possono muoversi a condizione non solo di essere dirette dal proletariato, ma di sottrarsi all’influenza dei socialrivoluzionari e dei menscevichi, traditori della causa della rivoluzione»[80].

Lenin ha risposto richiamandosi a direttive classiche del marxismo. Fino a che la minaccia feudale è in piedi (lo sarà con Kornilov e molto dopo) il proletariato appoggerà la piccola borghesia e la borghesia (in Marx perfino la grande contro la piccola, spesso alleata ai feudali). Ma esso ricorderà la lezione dei Cavaignac, dei generali e ministri della repubblica del 1848, che dopo aver vinto in febbraio con la forza proletaria massacrarono ferocemente in giugno gli operai di Parigi; e non vedrà la sua vittoria che nella finale distruzione di questi alleati di un momento di passaggio.

Seguendo questi documenti, non redatti a freddo come in lontana analisi storica, ma nel divampare delle battaglie, si deve saperli collocare nella dialettica serie. Il Partito sa dal principio quale sarà il decorso: dovrà fare da alleato ai borghesi e talvolta salvare essi stessi (come da Kornilov), ma sa che deve finire col disperderli; sa che dovrà trascinarsi come alleati i partiti piccolo-borghesi, ma che i loro capi tradiranno e dovranno essere battuti, e le stesse classi che stanno sotto alla fine si porranno contro il proletariato.

Ma nei proclami esterni queste tappe dell’azione sono annunziate quando i successivi dati contenuti nella dottrina sono entrati nell’esperienza delle masse spinte nella fornace rivoluzionaria: da febbraio a giugno si dichiara possibile un governo di dittatura democratica di proletari e contadini anche sulla base di un fronte di partiti di sinistra; fatto il fronte a destra, la formula sociale non viene affatto buttata via – in divergenza da Trotsky e da Stalin – ma la rottura coi partiti populisti e menscevichi è proclamata irrevocabile: ogni contesa pacifica con essi anche sul piano dei Soviet viene esclusa.

Con ciò, quando la inanità di queste forze politiche avrà loro tirato addosso i generali dello zar che mordono il freno e mirano a sbaragliare Soviet e ministeri parlamentari, saranno gli operai rivoluzionari e il partito bolscevico che, prese le armi, faranno mordere la polvere a quelle armate della reazione, e salveranno, ma per ben stritolarlo loro a suo tempo, il potere kenrenskiano.

Tutto ciò non fa una grinza come strategia rivoluzionaria. Tutto ciò non è in nessun modo da giustificare con teorie improvvisate in pretesi svolti imprevisti, anche se tutte le previsioni teoricamente raggiunte non si mettono negli stessi tempi al centro dell’agitazione.

91 – La conclusione di Lenin

Il secondo scritto sviluppa più ampiamente questi stessi concetti ed in modo speciale quello marxista dell’instabilità della piccola borghesia e dell’insuperabile carattere piccolo-borghese dei contadini.

Dal tutto a luce meridiana risulta che non fu opera di Stalin passare dalla parola del periodo pacifico a quella del periodo di guerra civile, e che tra l’altro la nuova svolta consisteva in diversa posizione (e prevista tappa) del Weg zur Macht, del cammino che conduce al potere, giammai in una nuova versione del programma sociale immediato della rivoluzione russa e del partito bolscevico, e tanto meno nella dichiarazione che, solo per avere smascherato i partiti piccolo-borghesi, si sia d’un tratto passati ad affermare – quasi, come diceva Lenin, per fare ad essi dispetto – che si attuerà in Russia e senza l’appoggio europeo un socialismo totale (unipaesista), volgare balla fabbricata ben posteriormente.

Ecco infatti come Lenin chiude:
«L’insegnamento della rivoluzione russa è questo: le masse lavoratrici non si salveranno dalla ferrea morsa della guerra, della fame e del giogo dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti, se non rompendo completamente con i partiti socialrivoluzionario e menscevico, prendendo chiara coscienza della funzione di tradimento di questi partiti, respingendo ogni accordo con la borghesia, schierandosi risolutamente accanto agli operai rivoluzionari. Solo gli operai rivoluzionari, se saranno sostenuti dai contadini poveri, potranno spezzare la resistenza dei capitalisti, condurre il popolo alla conquista della terra senza indennità, alla libertà completa, alla vittoria sulla carestia, alla vittoria sulla guerra, ad una pace giusta e duratura»[81].

Non v’ha dubbio alcuno che, mentre col luglio la condanna degli opportunisti è ormai clamorosa e pubblica ed apertamente irrevocabile, e il ricorso alla violenza è parimenti dichiarato inevitabile, le rivendicazioni sono ancora politicamente sul piano democratico e socialmente non ancora sul piano socialista: tutte, ad ogni passo, tuttavia conclamate in quanto si pongono sul cammino, politicamente al potere integrale del partito proletario, socialmente alla società socialista internazionale.

Falso completo quindi quello della Storia che ci fa vedere Stalin, dopo aver abilmente – ciò è innegabile – messo Lenin al sicuro, prenderne il posto e dettare lui le norme della nuova strada!

Del resto la stessa Storia dice che il Congresso pose come punti essenziali della piattaforma economica del partito: la confisca delle terre di tutti i proprietari fondiari, la nazionalizzazione delle banche e della grande industria, e il controllo operaio sulla produzione e la ripartizione, ossia misure solite pre-socialiste; altri scritti e documenti mostreranno che ancora in Ottobre la nazionalizzazione è richiesta del tutto limitata e in forme borghesi.

92 – Ancora il sesto congresso

Malgrado il difficile momento, convennero 157 delegati: il numero degli iscritti era passato a 240 mila aderenti. Il partito aveva 41 giornali; strano che il principale («Pravda») non stampasse per tutta la Russia che 320 mila copie.

Erano assenti perché in prigione o fuggiaschi Lenin, Trotsky, Lunačarskij, Kamenev, Kollontaj e moltissimi altri. Presenti erano, tra i più noti, Sverdlov, Bucharin, Stalin, Molotov (peccato che non lo si può spiombare dalle conferenziali gommepiume per chiedergli un po’ come davvero andò la cosa!), Vorošilov, Ordžonikidze, Jurenëv, Manuilskij.

Sverdlov tenne il rapporto organizzativo del Comitato Centrale. Stalin ripeté i rapporti fatti alla Conferenza di Pietrogrado: attività politica e stato del paese. Dichiarò che ormai andavano combattuti a fondo i social-compromessisti. Bucharin trattò le questioni internazionali e la guerra, e sostenne che solo dal rovesciamento del governo provvisorio poteva sorgere un’azione per la pace.

Nella discussione si vide che i due relatori non erano d’accordo. E anche qui strano che Trotsky, nel prospettare le due tesi, dia ragione a Stalin. Bucharin avrebbe difeso il «vecchio schema bolscevico»: prima rivoluzione spalla a spalla con i contadini, seconda rivoluzione spalla a spalla con il proletariato europeo, la prima volta in nome della democrazia, la seconda in nome del socialismo. Stalin disse futile lo schema di Bucharin, poiché il proletariato se si batte non può non farlo per i propri problemi. Trotsky trova la confutazione esatta avendo fin dal 1905 sostenuto che il proletariato se prende il potere non può che dare inizio ad una rivoluzione socialista[82]. Accusa però tanto Bucharin quanto Stalin di avere pochi anni dopo fatta rivivere la «dittatura democratica» anche ai fini dell’internazionale, e con effetto per Trotsky rovinoso nella rivoluzione cinese e di altri paesi.

Trotsky, autentico rivoluzionario, è sempre più di Lenin ribelle a tollerare che una classe proletaria ed un partito marxista debbano impegnare notevoli energie a fini di rivoluzioni antifeudali democratiche e borghesi, e dice che in tal caso, e dato che Lenin avesse ragione nel dire che lo si faceva «ai soli fini della nostra causa socialista», si doveva levare al più presto dalle mani una tale sale bésogne e passare alla rivoluzione socialista.

Indubbiamente prendere il potere anche nella sola Russia, ed anche avendo non pochi compiti di natura democratica e capitalistica da sbrigare, era sempre un passo nel senso del socialismo, ed anzi un atto della rivoluzione socialista. Molto più saggiamente nel 1926 Trotsky magnificamente dice che senza lasciare il potere e senza rinunciare a proclamare la propria politica e anche la propria politica economica come socialiste, si doveva saper aspettare anche decenni. Si posson prendere misure non solo simboliche e propagandistiche ma anche concrete di contenuto socialista, quando si riconosce che la società socialista non può ancora sbocciare: si coltiva uva anche quando si pota il pampino, e si mira al vino anche quando si innaffia con l’acqua.

Andiamo più oltre: non vi è nulla di male ad annunziare la società socialista più prossima di quello che è, purché non se ne tradiscano i caratteri. In quel momento vediamo che non solo Bucharin e Trotsky ma anche Stalin erano convinti che la società socialista in Russia non si sarebbe sviluppata prima di una vittoria politica del proletariato europeo.

Stalin infatti concluse con le parole: Siccome le forze della rivoluzione si sviluppano, delle esplosioni dovranno avvenire e verrà il momento in cui i lavoratori si solleveranno e raduneranno intorno a sé un certo strato di contadini poveri, alzeranno la bandiera della rivoluzione dei lavoratori e inizieranno l’era della rivoluzione socialista in occidente. Questa, nota qui Trotsky, rimase la formula del partito negli anni avvenire. Mostrammo nell’esposizione sintetica di questo studio che nel 1926 Trotsky e Zinoviev contestarono a Stalin di avere anche lui pensato e parlato così fino al 1924.

Attribuiamo la più grande importanza – speriamo con la comprensione dei lettori – al mostrare come nelle varie tappe ed intertappe il partito teorizza e sente queste grandi questioni, anche oggi scottanti.

Quando a sua volta la Storia stalinista cita la confutazione di Stalin a certi elementi destri, nelle parole: Non è escluso che sia la Russia ad aprire la strada al socialismo, cerca un alibi che non regge. Quella previsione sta fin dal 1882 nella prefazione alla traduzione russa del «Manifesto». Essa non ha a che fare con la previsione di una società socialista in Russia entro un mondo capitalista, che allora avrebbe tatto ridere lo stesso Stalin. La confutazione era diretta a pochi compagni – non certo Bucharin – che volevano rinviare alla rivoluzione socialista occidentale la presa del potere politico da parte del partito comunista in Russia, restando fino allora una semplice opposizione al governo di tipo kerenskiano.

A questo Trotsky era fieramente avverso, come mostra con lo scritto e con l’opera; tuttavia egli è tanto attaccato alla tradizione della polemica del 1905 che, pur non essendo disposto a lasciare tale compito ibrido ai kerenskiani, di cui fu lo sterminatore, pensa – ed era utile certo pensarlo negli ultimi tempi precedenti la guerra civile di Ottobre – che comunque non si debba indugiare, dopo preso con le armi il potere, a rigettare compiti non socialisti. Ed è anche fatto rivoluzionario che al 1917 non si pongono, né Lenin, né Trotsky, né il partito che deve portarsi al calor rosso, il formidabile quesito: Che sarà di noi se il proletariato di Europa non si muove?

In quella fase è lavoro socialista per un’intera generazione politica quello che sempre riassumiamo nei tre compiti: liquidare la guerra – liquidare tutto l’opportunismo dei vari partiti russi, e annientarli – riorganizzare e riportare sul programma rivoluzionario l’Internazionale Proletaria.

La conquista del potere che si prepara, da quel momento di luglio, dal partito con le sole sue forze – salvo la frazione sinistra dei socialrivoluzionari di cui sarà successivo il ciclo di crisi – è vista da quella posizione (come dalla nostra del 1955) come la più grande e la sola vittoriosa delle rivoluzioni socialiste.

Ma la più alta e decisa, ardente e fredda al tempo stesso, prospettiva di Lenin, che essa deve pure addossarsi compiti immensi di natura sociale capitalista e dissetare richieste demo-borghesi del popolo, si erge oggi più grande, oggi che la rivoluzione proletaria occidentale è mancata, che il capitalismo governa il mondo; e tuttavia con questo bilancio noi mai concederemo che Lenin e il bolscevismo sbagliarono, e non capirono la storia rivoluzionaria, o non lavorarono nel suo solco grandioso.

93 – Dove la linfa fu infranta

La tesi di Trotsky che il proletariato non poteva in una rivoluzione successiva alla prima borghese-popolare prendere tutto il potere senza andare verso il socialismo, in un dato senso delle espressioni innegabile (ed anche da porsi inevitabilmente al proletariato russo nella situazione ante-ottobre, in quanto è vero che il proletariato deve portare gravi fardelli storici non suoi, ma alla fine deve sentire di lottare per le sue esigenze), detta tesi resta solidamente in piedi fino a che le questioni di politica economica «interna» restano ancora dormienti: in sostanza, nel periodo di liquidazione della guerra, che prende quasi un anno, in quello della demolizione delle cento forze contro-rivoluzionarie, che ne prende altri tre se non più, e nel contemporaneo periodo del gigantesco lavoro per aiutare la rivoluzione europea, che possiamo estendere ad ancora altri tre anni.

Tutti questi compiti si svolgono governando da socialisti, e come solo un governo proletario e comunista può agire.

Man mano che la possibilità di un intervento nella trasformazione sociale di grandi e avanzati paesi di occidente si affievolisce, il problema per il nuovo potere bolscevico diviene sempre più tremendo.

La formula cruda che il potere proletario non può avere che un programma socialista, diverrebbe l’altra reciproca che, se questo potere non vive in una società socialista, non più capitalista, esso dovrà rovinare, o peggio ancora dimettersi dalla storia.

In effetti la soluzione che i nemici vincitori e uccisori di Trotsky trovarono fu quella di governare e non dimettersi, di dichiarare non solo che la società socialista poteva generarsi in Russia anche prima di generarsi nell’ambiente della produzione capitalista europea, ma che si era già generata; ciò che fu, con formula orrenda, chiamata la costruzione del socialismo in un paese solo, la sua coltivazione in serra, la surrogazione dell’enfantement rivoluzionario con un cataplasma amministrativo.

Non per necessità insita, nelle due direzioni opposte, alla formula di Trotsky – che in quei giorni Stalin avrebbe avuto il merito (!) di opporre ai Volodarskij e Bucharin – ma per la meno rigida conseguenza che la più ricca e alta visione di Lenin contenne… Vincerà o cadrà da rivoluzionario integro nella teoria e nel combattimento chi, come Volodarskij, dice: Strapperò il potere alla controrivoluzione borghese e lo terrò contro di essa, anche se lo dovrò chiamare per un tratto democratico e popolare, e tollerare di avere solamente in Russia declanché, travolgendo ogni diga, il prorompere del più ardente capitalismo da una società millenaria ed immobile.

Consegnerà per altra via il potere al nemico mondiale chi lo sosterrà con la dichiarazione che quella palingenesi di forme moderne capitaliste – e nella campagna capitaliste solo a mezzo – è invece il realizzato avvento di quella società socialista verso la quale tutti e da tempi ultra-secolari abbiamo dimostrato che camminiamo; peggio, che questa forma, per noi storicamente necessaria, è sorta da una volontà, una volontà di costruzione, espressione di per se stessa sconciamente borghese!

Ove Volodarskij, sulla posizione che da integro militante sempre tenne, non fosse stato ucciso da controrivoluzionari esserre, quando si smascherarono, sarebbe stato certo anche lui, come i suoi amici del Luglio, ucciso da questa specie di controrivoluzionari.

Rei dunque solo di un errore di definizione storico-economica? Un piccolo errore, ma scritto su cartellini legati alle spalliere delle seggiole, davanti ai plotoni di esecuzione.

Non piombo nei deretani, ma nelle schiene dei compagni di ieri. Tuttavia non è sulla mozione degli affetti che facciamo assegnamento, ma sulla organica dimostrazione del tradimento alla dottrina. Errore assai più mostruoso di quello fatto nel premere il grilletto. La rivoluzione è sempre passata su miriadi di errori di questo secondo tipo.

I primi la assassinano.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XI)

94 – Dogma o guida per l’azione?

È necessario inserire ancora alcuni rilievi nel corso cronologico di questa esposizione, pur rendendoci conto che siamo ancora sulla soglia del vero tema, svolto nelle parti finali delle riunioni di Napoli e Genova, ossia l’economia sociale in Russia dalla rivoluzione di Ottobre in poi.

Dobbiamo provare che la posizione di Lenin e del partito tra il luglio e il settembre 1917, in cui si abbandonò la parola «il potere ai Soviet», che poi doveva essere ripresa per la lotta armata di ottobre non fu un lapsus, non subì la lamentevole vicenda del riconoscimento di errore, in cui la rivoluzione spense piano piano le sue fiamme e la sua gloria nei successivi anni.

Questa formula del riconoscimento vale per le persone, che poco importano coi loro pentimenti, sottomissioni o cruente liquidazioni. Per il partito essa si trasforma nell’altra di rettifiche successive della strategia della classe operaia, derivate dall’apparire di situazioni «impreviste». Man mano che queste successive accostate hanno condotto il proletariato mondiale e russo nei più fetenti miasmi del pantano borghese, si è con sempre più potenti risorse iniettata nelle masse smarrite la credenza ignobile che questo dettame sia contenuto nella linea di Marx, di Engels, di Lenin, ridotti alla pietosa figura di spregiudicati allievi dell’ultima moda.

Noi siamo lunghi nell’esporre, non gli episodi gloriosi o vergognasi, ma le successive valutazioni del corso storico da parte del movimento marxista, per provare che esse sono legate ad un corso unitario indeformabile, teorizzato di getto non da una mente qualunque in un tempo qualunque, ma da un collettivo movimento di classe determinato all’epoca fissa dell’apparire del contrasto tra capitalisti e proletari, epoca più feconda a questo fine delle passate e delle posteriori. Noi siamo – è bene dirlo, fra tanto annebbiarsi di immagini trasmesse, nella forma cruda – per un corpus di dottrina che non è permesso mutare, lungo l’arco storico della classe operaia moderna, dal suo apparire alla scomparsa delle classi. Se un insegnamento storico smentisse questa costrutta dottrina «di parte» del passato e del futuro, essa, nella dannata e contestata ipotesi, crollerebbe nel nulla, e non potrebbe essere salvata da contingenti puntellature, da ibridazioni bastarde. E dobbiamo, come abbiam detto, essere lunghi, per opporci al gioco di citazioni con cui, senza collocarle nel tempo, nel filo dei tempi, nello specifico documento di cui si tratta, si cerca di avvalorare questo spregevole eclettismo, a cui tutto il disfattismo, che ci ha a tante riprese travolti, ma non dispersi, integralmente si riconduce.

Tutta la letteratura dello stalinismo mira, nella sua possente organizzazione, a questo traguardo. Ad esempio vi ricorre una frasetta di Lenin, o a lui attribuita, che condensa il concetto:
«il marxismo non è un dogma, ma una guida all’azione».

95 – La pretesa «filosofia della prassi»

Questa vecchia frase, che Gramsci usò allo scopo di evitare che la parola marxismo non facesse passare i suoi quaderni sotto la pedestre censura carceraria, è anch’essa equivoca, e non qui concluderemo la disquisizione, cui occorre ancora dare materiale anche relativo alla politica comunista, oltre che in Russia, anche nel mondo, nella sua lunga storia.

Il marxismo ha a che fare con la prassi (parola che significa azione umana, comportamento della specie uomo, e null’altro di diabolico), ma non nel senso che ne faccia il soggetto, il punto di appoggio, la chiave del mondo sociale e della sua storia. Meglio è dire che il marxismo è una dottrina o scienza delle cause e delle leggi della prassi, e che non tratta della prassi del singolo individuo ma del comportamento medio sociale. La spiegazione che ne dà non consiste nel porre tale comportamento alla base, ma alla sommità della ricerca, il che non vuol dire che questo effetto di cause ambienti, materiali e relative alla materiale vita della specie, non si riverberi in cause del procedere storico: lo fa, ed è tutto qui il misterioso «capovolgersi» della prassi, quando lo si scopre non nel pensiero e nella volontà del singolo uomo, anche di eccezione, ma nell’intervento in tempo maturo delle classi sociali in senso largo e del partito di classe in senso più stretto. A questo punto e in questo piano si vede che la dottrina marxista non sorse per soddisfare la voluttà di cervelli anelanti di scoprire il retorico mistero dell’essere, ma per servire di base al movimento di una data classe sociale e del partito che ne prepara la rivoluzionaria vittoria.

Al lume di questo rapido richiamo, la frase che il marxismo non è un dogma ma una guida per l’azione, anche se figura, per motivi che è facile a volta a volta trovare, in tesi di propaganda di agitazione e di battaglia, non dice nulla e non vale nulla.

Dogma nella comune accezione etimologica e filosofica significa un’affermazione derivante da una sopraumana rivelazione, che è valida per tutti i tempi e che non è consentito negare e nemmeno sottoporre a critica analisi. I trascendentisti lo ammettono, gli immanentisti lo negano alla loro maniera e noi marxisti… ci freghiamo degli uni e degli altri.

Noi non diciamo né che il dogma è stato rivelato dal dio, né che è stato inventato da un furbacchione o una banda di furbacchioni. Il dogma è sorto in un tempo ed una società determinati, come primo embrione di una scienza, e non di scienza astratta ma di scienza che doveva servire alla prassi: sia a tramandare le tradizioni della prassi (dell’esperienza, dell’attività sociale anche primitiva), sia come base di normativa pratica, di codice etico. La forma dogmatica sorse per interesse di classi che volevano conservare una struttura sociale e il suo controllo. La religione non è, per noi, e non appare come risposta all’esigenza di capire il mondo, ma a quella, molto precedente ed assorbente, di controllare la società (e in genere per infrenare le sue tendenze a mutarsi).

In sostanza per un marxista i dogmi, storicamente, erano guide per l’azione. La frase che il marxismo non è dogma ma guida per l’azione è dunque un nonsenso, se detta da un marxista.

Essa ci espone a confonderci con due posizioni borghesi: una che l’attuale scienza di classe sia uscita dalle pastoie del dogma rivelato e autoritario, e quindi faccia legge uguale per lor signori borghesi e per noi. L’altra che col condannare i dogmi fideisti si sia fatto tutto quel che occorreva per avere il diritto di guidare l’azione umana, e si sia chiuso il periodo delle rivoluzioni. Per noi le vecchie società avevano per guida dell’azione un sistema di dogmi, quella borghese ha per guida di azione una falsa scienza e una filosofia che si pretende a torto antimitologica e consacra vuoti ideologismi sull’umanità la personalità e la libertà al solo fine di difendere e conservare il modo sociale capitalistico – il marxismo è una nuova forma di superare e il dogma, e il borghese antidogma, e di porre, in linee prima improponibili, il vero rapporto tra conoscenza e prassi, dottrina ed azione, in dialettica inseparabilità.

Ben si dice che il marxismo non è dogma, in quanto è teoria di una classe sociale che nasce ad un dato svolto storico e tratta scientificamente i fatti sociali del presente, del passato e dell’avvenire. Ben si può dire che la teoria marxista vale di guida alle decisioni del partito, e in questo senso di guida all’azione della classe.

La frase che collega i due termini, nella troppo pasteggiata dagli opportunisti formuletta di comodo, può servire solo a ribattere chi voglia esaurire il marxismo nello studio del divenire storico, oscurandone il lato essenziale della partecipazione collettiva alla storica azione.

96 – Ancora Lenin filotempista

La posizione della sfiducia contingente nei Soviet è storicamente della più alta importanza, perché converge in una tesi marxista e Leninista essenziale che si pone contro tutti gli operaismi, laburismi, sindacalismi, consigliaziendismi destri e sinistri, e che siamo soliti a spesso richiamare. La rivoluzione non è una questione di forme di organizzazione. Ovvero: essa non è una questione costituzionale, ma una questione di forze di classe.

Questo resta dimostrato quando si fa vedere che quella sfiducia, non contraddicente alla fiducia nel risultato finale della conquista del potere, molto dopo Ottobre, viene sempre considerata come giustissima, nel detto tempo luglio-settembre. Il documento è questo.

Al II Congresso di Mosca dell’Internazionale Comunista, nel giugno 1920, sulla questione del parlamentarismo Lenin, e Bucharin relatore, respinsero la proposta di abbandonare in Europa la partecipazione alle elezioni parlamentari, sostenuta dalla frazione comunista astensionista italiana. Ambo gli oratori presero atto che la stessa non cadeva nell’errore di proporre in Italia l’immediata formazione dei Soviet, propugnata dagli altri gruppi che poi ebbero a convergere nella formazione a Livorno 1921 del partito comunista (Bombacci, Gennari ed altri: quanto ai torinesi essi nella loro particolare dottrina mal distinguevano la rete degli organismi di azienda, immersa nella società attuale, dagli organi di un nuovo potere politico rivoluzionario).

Bucharin osservò che i compagni astensionisti
«riconoscono con noi che non si può procedere all’organizzazione immediata di Soviet operai in tutti i paesi. I Soviet sono organi di combattimento del proletariato. Se le condizioni che rendono possibile questo combattimento mancano, non ha senso creare dei Soviet, perché essi si trasformerebbero in appendici filantropico-culturali di altre istituzioni puramente riformiste, e v’è il grave pericolo che si organizzino secondo il modello francese, in cui un paio di individui si riuniscono in associazioni pacifiste e umanitarie, prive di ogni valore rivoluzionario»[83].

Lenin trattò, dunque non a caso, lo stesso punto notando che il rappresentante degli antiparlamentaristi italiani
«ha detto che bisogna trasferire la lotta in un altro campo, nei Soviet. Ma ha poi riconosciuto che i Soviet non possono essere creati artificialmente. L’esempio della Russia dimostra che i Soviet possono essere costituiti durante la rivoluzione o nella imminenza di essa. Al tempo di Kerenski, i Soviet (e precisamente i Soviet menscevichi) erano costituiti in modo tale che non potevano dar vita in nessun caso al potere proletario»[84].

È chiaro che la deduzione dell’uno e dell’altro oratore era che fino a che i Soviet non sorgessero nella lotta, lo scopo – allora a tutti comune – di distruggere il parlamento borghese si dovesse raggiungere lavorando dentro i parlamenti per sabotarli. Gli astensionisti obbedirono, ma restando sulle loro posizioni formularono la previsione facile che nessun parlamento sarebbe caduto per sabotaggio dall’interno, e il partito che vi entrasse sarebbe finito nel marxistico «cretinismo parlamentare». Non è qui questo il punto, ma quello di provare come sia concatenata strettamente in corso unitario l’interpretazione della rivoluzione di Russia, lungo trent’anni in generale, e in ispecie nei trapassi sconvolgenti dei mesi del 1917, anno di fuoco.

Lasciamo l’argomento rilevando – a confusione di quanti considerano una fredda storiografia di cose morte la nostra ricostruzione – quale sapore di ironia abbia l’articolo che per la «Pravda» ha scritto, nell’ultimo anniversario della rivoluzione sovietica, quegli che sarebbe il successore in pectore del segretario generale dei comunisti italiani. Due occasioni, costui ha scritto, si sono perdute per sovietizzare l’Italia: quella del primo dopoguerra nel 1919–20, e quella del secondo dopoguerra col movimento di liberazione.

L’una e l’altra volta, in posizione difensiva o offensiva, il proletariato italiano, potente nelle città e nelle campagne, maggioranza e prima forza sociale del paese, cimentato dal disgusto per avere bevuto fino alla feccia il calice oleoso delle democrazie parlamentari borghesi, che ad ogni fase superano se stesse nella propria ignominia, è stato distornato dalle soglie della rivoluzione di classe da tutta una gamma di «compromessisti», ha fatto naufragio negli Aventini e nei Comitati di Liberazione Nazionale, forme regressive a fronte delle quali il più menscevico e kerenskiano dei Soviet di Russia è un modello di forza rivoluzionaria.

Il tartufesco rimpianto suona amara beffa, sulle labbra degli affogatori della rivoluzione nel costituzionalismo più smaccato, e se possibile perfino, in episodi di oggi, sotto-parlamentare. Un Gronchi è assai meno di un Kerenski! Anche se altrettanto ama esser teatrale.

97 – Famoso «fronte antidestro». Kornilov

La nuova situazione era dunque questa: il partito bolscevico aveva apertamente dichiarato esaurita ogni possibilità di pervenire al potere per via pacifica ed entro i Soviet: questi, diretti dai social-opportunisti, si erano ancor più aggiogati al governo di coalizione coi borghesi diretto da Kerenski, il quale aveva non meno apertamente iniziato la repressione del movimento proletario rivoluzionario e la messa dei bolscevichi fuori della legge.

Frattanto l’offensiva al fronte scatenata dal governo Kerenski era finita nel disastro, e il tedesco avanzava.

L’esercito era comandato dal generale Kornilov, che al 3/16 agosto, sviluppando un sistematico piano reazionario, imponeva l’istituzione della pena di morte per i militari, non solo al fronte ma anche nelle retrovie.

Il governo provvisorio, che mirava alla dispersione dei Soviet, benché a lui non ribelli, indisse per il 12/25 agosto in Mosca una «Conferenza di Stato», uno dei tanti tentativi di mettere in piedi, prima delle elezioni per la Costituente, una rappresentanza «popolare» confacente agli interessi borghesi.

I Soviet vi furono rappresentati al solito da menscevichi e socialisti rivoluzionari. Kerenski minacciò di reprimere con la forza ogni movimento nelle città ed ogni tentativo espropriatore nelle campagne. Kornilov andò più oltre chiedendo lo scioglimento dei Soviet. Al suo Quartiere Generale si avvicinarono con aiuti di ogni sorta grandi terrieri, industriali e banchieri, e con esso stabilirono stretti rapporti gli agenti degli alleati francesi e inglesi.

I bolscevichi, che lavoravano intensamente e guadagnavano influenza tra le masse, opposero alla Conferenza uno sciopero generale a Mosca e in altre città. D’intesa con Kerenski, Kornilov spostava da Pietrogrado le truppe di tendenza rivoluzionaria e vi avvicinava reggimenti che riteneva «fedeli». La stessa gravità di queste misure cominciò ad impressionare Kerenski e il suo governo, spargendo lo smarrimento tra i soldati menscevichi ed esserre.

Il 21 agosto / 3 settembre Kornilov aveva abbandonata la città di Riga ai tedeschi: quattro giorni dopo mosse verso Pietrogrado. Kerenski aveva invano trattato con lui per sostituirgli altro comando: Kornilov gettò la maschera e mosse contro il governo civile.

Kerenski dichiarò il generale «traditore della Patria» e invocò l’aiuto delle masse popolari. Nel comitato centrale esecutivo dei Soviet intervenne per i bolscevichi Sokolnikov, che dichiarò essere il suo partito pronto a «trattare misure militari con gli organi della maggioranza del Soviet» al fine di respingere Kornilov. Trotsky così si esprime ed aggiunge che
«menscevichi ed esserre accettarono quest’offerta ringraziando e digrignando i denti, poiché i soldati e gli operai ora seguivano i bolscevichi»[85].

È importante che questo esempio di fronte unico tra tutti i partiti operai, di cui tanto si è discusso nel seguito per giustificare altre forme di tattica del fronte unico «politico», sorse sul piano militare e non come un vero accordo tra i comitati dirigenti i partiti. È da notare che la stessa Storia ufficiale dice che
«lividi di spavento, i capi socialisti-rivoluzionari e menscevichi chiesero in quei giorni protezione ai bolscevichi, convinti come erano che nella capitale essi erano la sola forza reale capace di sconfiggere Kornilov. Ma, mobilitando le masse per la disfatta di Kornilov, i bolscevichi non cessavano la lotta neppure contro il governo kerenskiano. Essi smascheravano di fronte alle masse il governo di Kerenski, dei menscevichi e dei socialrivoluzionari, i quali con la loro condotta politica avevano favorito obiettivamente il complotto controrivoluzionario di Kornilov».

Non vi fu bisogno di passare dalla mobilitazione delle masse lavoratrici ad una vera guerra civile. Contro l’avanzante ottavo corpo di cavalleria al comando di Krymov si schierarono alla periferia di Pietrogrado operai armati dei sindacati, guardie rosse, reparti di marinai di Kronstadt. Agitatori bolscevichi raggiunsero la «divisione selvaggia» cosacca: la truppa rifiutò di proseguire la marcia sulla città rossa. Il generale Krymov si fece saltare le cervella: Kornilov stesso coi suoi seguaci Lukomskij e Denikin fu arrestato al quartier generale di Moghilev l’1/14 settembre. Kerenski, rimasto al potere, dopo non molto liberò costoro. Fu una avventura in sostanza incruenta. Ma aumentò in modo decisivo il prestigio dei bolscevichi.

98 – Fronte svanito, bolscevismo avanzante

Battuto Kornilov, Lenin dispone che si riprenda la parola del potere ai Soviet, i quali avevano per la forza del movimento bolscevico dimostrato di aver vinta facilmente una battaglia che Kerenski avrebbe perduto. Lenin attraverso la stampa, a dire di Trotsky, «propose un compromesso ai fautori di compromessi» che tanto aveva svergognati. Impegnatevi, disse, a garantire la piena libertà di propaganda ai bolscevichi, e questi si impegneranno a non attaccare «la legalità sovietica», ossia rispetteranno la volontà della maggioranza del Soviet senza ricorrere alla forza insurrezionale.

Ma come ben Lenin sapeva furono i «fautori di compromessi» a declinare il compromesso coi bolscevichi. Questo non giovò loro: il prevalere dei bolscevichi su essi era vicino. E qui Trotsky, grande anche come storico, scrive:
«Come nel 1905, il vantaggio che la prima ondata della Rivoluzione aveva dato ai menscevichi, disparve tosto nell’atmosfera inasprita della lotta di classe. Ma contrariamente alla linea di sviluppo della prima Rivoluzione, la crescita del bolscevismo ora corrispondeva al rafforzamento e non al declinare del movimento delle masse»[86].

Ben diverso è, come studieremo al suo luogo, il gioco del compromesso e della «offerta di compromesso» in un paese appena uscito dalla rivoluzione antifeudale, e in uno ove questa è lontana, scontata, passata. Tuttavia questa frase ci ricorda un rapporto a Mosca della direzione del Partito Comunista d’Italia dopo lo sciopero generale di agosto 1922 contro il fascismo, che segnò la vera data della vittoria della controrivoluzione borghese capitalista e dello Stato tradizionale, di solito confusa con la farsa della marcia su Roma e del 28 ottobre, pretesa rivoluzione in frack quirinalesco. Scrisse il partito italiano: il proletariato dopo avere valorosamente combattuto è stato battuto non dai fascisti ma dallo Stato borghese e dalle sue forze armate. Le sue forze ripiegano, ma quelle del nostro partito avanzano rispetto a quelle dei partiti opportunisti. La lotta deve continuare contro la borghesia fascista come contro i socialisti opportunisti[87].

Sembrò questa la via che preparasse una nuova fase rivoluzionaria, in cui il partito comunista avanzasse in una situazione di ripresa proletaria e rivoluzionaria.

Mosca nel 1924 dettò la parola: Blocco per la libertà con tutti gli antifascisti. Quelli che ebbero lo stomaco di raccoglierla sono ancora oggi affogati nel popolarismo parlamentare, affamati di blocchi di governo non coi soli socialdemocratici e liberali italiani, ma addirittura coi cattolici. Una situazione di movimento in avanti intrinseco ed estrinseco come quella del settembre bolscevico 1917 non si può nemmeno intravedere.

Disgraziati tra i disgraziati quei poveri operai che la sogneranno in una nuova «rivista» schedaiola, ove la degenerazione del costume sarà ancora più palese, in tutte le sfumature contendenti.

99 – Preparlamento e boicottaggio

Visto che la «Conferenza di Stato» aveva preparato il terreno a Kornilov (i bolscevichi non vi erano nemmeno invitati), il governo di coalizione tentò di risollevare le sue sorti con una «Conferenza Democratica», convocata stavolta dal Comitato Esecutivo dei Soviet per lo stesso giorno della caduta di Kornilov, 1/14 settembre. Fu gabellata come matrice di un Pre-parlamento o Consiglio della Repubblica. Frattanto i bolscevichi avanzavano di successo in successo. Il 3/16 settembre Trotsky e gli altri loro capi venivano liberati. Il giorno dopo nel Soviet di Pietrogrado una votazione dava la prima volta la maggioranza ai bolscevichi. Il 9/22 doveva dimettersi il vecchio presidio; l’11/24, sostituendo Čcheidze, Trotsky tornava al suo posto del 1905, alla presidenza.

Si pone subito per i bolscevichi la questione se debbano prendere parte al cosiddetto Pre-parlamento. È in questo tempo che cominciano le celebri lettere di Lenin al Comitato Centrale, che pongono la questione dell’insurrezione, e con un incalzante crescendo incitano a predisporla, e finalmente e contro tutte le esitazioni esigono che sia scatenata.

Su questa questione del Pre-parlamento avvenne al solito una disparità di opinioni. I bolscevichi designati come membri di tale Consiglio consultivo presero parte alle prime sedute: ben presto Lenin, dopo avere indicato il tenore delle prime dichiarazioni, denunzianti ogni possibile ulteriore compromesso coi partiti che lo avevano respinto, richiese l’uscita della «frazione» (noi diciamo gruppo) del partito.

Il Comitato Centrale, discorde, rimise il problema alla riunione della stessa «frazione». In questa Stalin e Trotsky furono per il boicottaggio, riscuotendo l’approvazione di Lenin con lettera del 22–24 settembre (5–7 ottobre). Ma furono per la partecipazione Rykov e Kamenev, ottenendo la maggioranza. L’espressione di Lenin era stata particolarmente drastica; dobbiamo dare alle masse una parola chiara e precisa: date un calcio a Kerenski e al suo Pre-parlamento![88].

Finalmente il 24 settembre / 7 ottobre la frazione bolscevica lasciò il risibile pseudo parlamento: Ci appelliamo alle masse! Tutto il potere al Soviet! Un mese dopo questa parola era realtà.

100 – L’insurrezione e un’arte!

Dobbiamo rapidamente seguire il decorso della lotta per prendere il potere. Le vicende ne sono note: ma dato il fatto notevole che una corrente del partito si oppose, dobbiamo dare la precedenza a questa questione «politica» per verificare dopo con quale programma sociale il partito bolscevico impostava la battaglia conclusiva, e stabilire ancora una volta la continuità della prospettiva.

Indubbiamente mai più sarà possibile avere la serie vera della corrispondenza tra Lenin e il centro del partito, e quella dei verbali del Comitato Centrale in cui si dibattevano gli storici punti; preparare l’attacco armato, scegliere il momento per sferrarlo con successo[89].

Uno scritto di Lenin dell’1/14 settembre si riferisce diffusamente al problema della crisi economica e della «catastrofe imminente» per la Russia, governata da borghesi e social-traditori, e minacciata da colpi di destra. Ma una lettera al comitato centrale che segue di pochi giorni (13/26) porta decisamente in primo piano il tema dell’assalto al potere: Il Marxismo e l’Insurrezione. L’urgentissima comunicazione non omette di riportarsi alle basi di dottrina. I revisionisti di destra del marxismo hanno rivolto l’accusa di blanquismo ai marxisti radicali. In Marx invece l’insurrezione è trattata come un’arte, nello stesso senso che si parla con correzione terminologica di un’arte della guerra e delle sue norme e regole[90].

Distingue i marxisti rivoluzionari dai blanquisti il fatto che essi non considerano l’insurrezione come la sola attività politica e non la considerano un’attività da intraprendere in un momento qualunque. La guerra, dicono i teorici militari, è una continuazione della politica degli Stati. Nessuno Stato è sempre in guerra, normalmente il mezzo della sua politica estera e dei suoi rapporti anche di contrasto con altri stati è la negoziazione, la diplomazia: quando da questa si passa (e come oggi vediamo nei più vari modi e trapassi) alla guerra dichiarata. esiste per condurre questa un’arte, affidata agli Stati maggiori.

L’estrema forma del contrasto tra le classi sociali è la guerra civile, Marx lo dice ad ogni momento.

Lenin chiarisce la differenza col blanquismo nello stabilire che per l’iniziativa dell’insurrezione non basta il volere di un gruppo cospirativo e nemmeno di un partito rivoluzionario (sempre indispensabile, non sufficiente di per sé ed in ogni caso e momento). Occorre un determinato grado di attività delle masse, che in genere si ravvisa ad un solo istante del decorso di una grande lotta classista. Scoprire tale momento, come prepararlo e condurre l’azione armata, è un’arte che il partito deve studiare, conoscere, applicare felicemente.

Lenin esamina i rapporti delle forze al 3–4 luglio e conclude che in quel momento il partito non doveva tentare l’assalto. Gli avversari non erano ancora sconvolti dagli eventi, lo slancio rivoluzionario proletario era limitato.

Dopo l’episodio Kornilov, tutto questo, dai due lati, è mutato. Oggi «la nostra vittoria è certa». Lenin disperde l’alternativa, cui sa che alcuni credono, di un’azione nel seno del Preparlamento.
«La decisione sta fuori della Conferenza, nei quartieri operai di Pietrogrado e di Mosca»!

I tedeschi minacciano Pietrogrado. Il governo non può più difenderla e non può né vuole fare la pace. Noi, dice Lenin ponendo a questo stadio le due facce del tremendo problema internazionale, noi soli possiamo fare le due cose. Proporremo la pace, anche un armistizio ci basterà. «Ottenerlo oggi significa già vincere il mondo intero!» Ma se non potremo fermare l’ondata noi condurremo anche la disperata guerra rivoluzionaria: per il fronte toglieremo ai capitalisti stivali e pane! Brest Litovsk doveva superare questa più che tragica alternativa.

Per la Conferenza Lenin sostiene non discorsi ma una breve dichiarazione, cui seguirà il boicottaggio del derivato Preparlamento. Rottura completa con la borghesia, destituzione di tutto il governo attuale, rottura con gli imperialisti franco-inglesi, passaggio di tutto il potere nelle mani di una democrazia rivoluzionaria guidata dal proletariato rivoluzionario.

Lenin sottolinea le ultime parole e ci riconferma che non ha interruzioni la linea del 1905 e di Aprile, se pur dispiace a Trotsky: ciò in connessione, egli aggiunge, col nostro progetto di programma: la pace ai popoli, la terra ai contadini, confisca dei profitti scandalosi dei capitalisti, repressione dello scandaloso sabotaggio della produzione perpetrato da essi. Per la centesima volta: la rivoluzione socialista, ma non la società socialista (che verrà, lo vedremo presto ancora, da Occidente).

Dopo di ciò azione a fondo nelle officine e nelle caserme (notate: in questa convulsa fase dell’attacco non si attendono alleati contadini insorti). Subito dopo ciò, scegliere il momento propizio per l’insurrezione.

Come nota Trotsky (mentre qui Lenin vuole solo dimostrare che non si resta fedeli al marxismo e alla Rivoluzione se non si capisce che l’insurrezione va trattata come un’arte) le sue comunicazioni passano all’applicazione in concreto, si diffondono su tutti i particolari della strategia insurrezionale, dei posti da prendere, delle forze da dislocare…

101 – Ancora contrasto nel partito

Nella lettera dell’8/21 ottobre Lenin incita ancora e discute perfino la cifra di armati occorrenti per superare la resistenza del governo. Egli in tal frangente torna a citare Carlo Marx:
«L’insurrezione, come la guerra, è un’arte».
Si serve delle stesse raccomandazioni fatte da Marx 65 anni prima, e conclude con la finale citazione di Danton,
«il più grande maestro di tattica rivoluzionaria finora conosciuto: dell’audacia, ancora dell’audacia, e sempre dell’audacia»!
E Lenin chiude così:
«Speriamo che nel caso in cui sarà deciso di agire, i dirigenti applichino con successo i grandi comandamenti di Danton e di Marx».
«Il successo della rivoluzione russa e della rivoluzione mondiale dipende da due o tre giorni di lotta»![91].

Nella storica riunione del Comitato Centrale cui Lenin giunge travestito, il 10/23 ottobre (a quindici giorni dalla vittoria) si vota la mozione che deduce l’urgenza di attaccare da motivi tratti dalla situazione internazionale: l’ammutinamento della flotta in Germania, come più alta manifestazione di sviluppo in tutta Europa della rivoluzione socialista mondiale… la situazione militare, ecc… mettono all’ordine del giorno l’insurrezione armata.

La decisione non fu concorde. Kamenev e Zinoviev votarono contro. Non seguiremo qui tutte le manovre della storia ufficiale per far credere che anche Trotsky in qualche modo dissentisse, e che non fosse lui a dirigere in pieno l’arte dell’insurrezione. Negli anni dal 1920 al 1926 queste cose le raccontavano a Mosca, senza che nessuno dissentisse, anche le pietre.

Il 16/29 ottobre nella riunione allargata del Comitato Centrale i due tornarono a parlare contro l’insurrezione. Battuti ancora una volta, e qui fu il fatto grave, due giorni dopo dalle colonne di un giornale menscevico affermarono che il loro partito sbagliava, lanciandosi in una pericolosa avventura.

La nuova lettera di Lenin del giorno stesso è tremenda. Egli si impegna a chiedere al Congresso che i due siano espulsi dal partito, li chiama signori e li sfida a fondare un partito dissidente «con qualche decina di disorientati o di candidati all’assemblea costituente». Lenin si ferma sulla rivelazione di una decisione interna del partito. Accenna agli «argomenti ideologici» dei due: l’attesa dell’assemblea costituente, sperando (!) di resistere fino ad allora, e un «querulo pessimismo»: i borghesi sono fortissimi, gli operai ancora troppo deboli.

La conclusione di Lenin è questa, drammatica:
«Momento difficile. Compito arduo. Tradimento grave».
Lenin non dispera un momento degli operai.
«Gli operai serreranno le file, l’insurrezione contadina e l’impazienza estrema dei soldati al fronte compiranno l’opera! Serriamo le file, il proletariato deve vincere!»[92].
Ma egli vede sabotata la lotta di due o tre giorni, nella cerchia delle grandi capitali.

102 – Gli organi della lotta

In un primo tempo, al momento dell’abbandono del Preparlamento, fu dal partito (nel racconto di Trotsky) formato un Ufficio per le informazioni sulla lotta con la controrivoluzione[93] affidato a Trotsky, Sverdlov e, proposto da Stalin in sua vece, Bubnov. Secondo Trotsky Stalin era per l’insurrezione, ma non credeva il partito pronto. Secondo Stalin, è il contrario, o addirittura Trotsky fece una proposta tale da silurarla. È incredibile questo estremo raggiunto, nella nostra età, nel modo di esporre la storia: si mente alla Danton: dell’audacia, ancora dell’audacia, e sempre dell’audacia! Ci perdoni la grande giacobina ombra, se prendiamo a prestito per così vile cosa la sua storica parola.

Il 9/22 ottobre il conflitto tra Soviet e governo stava per scoppiare per il minacciato trasferimento al fronte della guarnigione rivoluzionaria. Nel seno del Soviet, Trotsky propose e formò il Comitato Militare Rivoluzionario.

Sotto le pressioni bolsceviche il Secondo Congresso panrusso dei Soviet era convocato per il 20 ottobre / 2 novembre. Poiché era necessario che il potere fosse preso almeno a Pietrogrado prima del 20, perché il Congresso, in cui era sicura la maggioranza per la tesi bolscevica, potesse prendere il potere a governo giù battuto, alla descritta seduta del 10/23 si stabilì come giorno per l’insurrezione il 15/28. Al Comitato Militare parvero troppo pochi 5 soli giorni (su ciò specula Stalin) e del resto alla riunione allargata del 16/29 uno era già passato. In quella, mentre le date incalzavano, e Zinoviev e Kamenev tentavano di far rinviare tutto almeno fino alla riunione del Congresso, Stalin divagò senza proporre date. La grave situazione fu sciolta dai capi del Comitato Panrusso, non ancora bolscevico: costoro decisero di spostare il congresso dei Soviet al 25 ottobre / 7 novembre.

Quei cinque giorni di più bastavano al Comitato Militare Rivoluzionario. Ma intanto la questione fu complicata dall’atteggiamento del «Rabocij Put», che pur non ponendosi contro Lenin disse che era troppa l’asprezza del suo articolo contro Kamenev e Zinoviev.

Il 16/29 fu anche deciso di organizzare un «Centro rivoluzionario militare» del Partito, con Sverdlov, Stalin, Urickij, Dzeržinskij e Bubnov. Stalin ha in seguito gonfiata l’opera di questo centro, per vari anni a detta di Trotsky dimenticato, e che del resto nella decisione di pugno di Lenin doveva far parte del Comitato militare del Soviet, pacifico protagonista dell’azione. Non ci diffonderemo su questa poco edificante questione: non certo Trotsky è quello che inventa, e del resto stanno con lui i documenti che cita e la generale notorietà sulla sua azione, e il riconoscimento di essa da parte di Lenin e di migliaia di partecipanti a quelle giornate[94].

103 – La suprema ora

Lenin scrive l’ultima storica lettera la sera del 24 ottobre / 6 novembre: pare che nella stessa giornata, e prima di riceverla, il Comitato Centrale decidesse l’azione.

Nel protocollo Trotsky fa le proposte e comunicazioni fondamentali: Stalin, assente, non ha mai detto il perché. La storia ufficiale della sua partecipazione – sebbene né Trotsky né alcun altro lo abbia mai tacciato di poco coraggio – è fatta non di acciaio, ma di materia plastica.

A noi interessa più che il dettaglio delle ore e degli scontri, che è da molte fonti ben noto, la valutazione di Lenin sulla fiammeggiante urgenza della situazione.

«Compagni, ogni ritardo nell’insurrezione equivale veramente alla morte. Voglio con tutte le mie forze convincere i compagni che ora tutto è sospeso ad un filo, che sono all’ordine del giorno questioni che non sono risolte da conferenze né da congressi (nemmeno da congressi dei Soviet), ma esclusivamente dai popoli, dalle masse, dalla lotta delle masse armate».
«Bisogna a qualsiasi costo, stasera, stanotte, arrestare il governo dopo aver disarmato (e sconfitto se opporranno resistenza) gli junker ecc.».
«Non si può attendere! Tutto può essere perduto!»
«Chi deve prendere il potere? Questo ora non ha importanza. Lo prenda il Comitato Militare Rivoluzionario o ‹un’altra istituzione› che dichiari di volerlo consegnare ai veri rappresentanti degli interessi del popolo, dell’esercito, dei contadini».
«Non lasciare il potere nelle mani di Kerenski e Co. fino al 25, in nessun caso: decidere la cosa immancabilmente stasera o stanotte».
«Noi non prendiamo il potere contro i Soviet, ma per essi. La presa del potere è compito dell’insurrezione. Il suo scopo politico si preciserà dopo. Sarebbe la rovina o puro formalismo attendere l’incerto voto del 25»!
«Il governo esita. Bisogna finirlo ad ogni costo! Indugiare nell’azione equivale alla morte»![95].

La notte del 25 ottobre /6 novembre Lenin viene allo Smolny. Alla mezzanotte tra il 6 e il 7 l’azione comincia. Alle 3 del pomeriggio Lenin appare al Soviet di Pietrogrado. Alle 9 cominciano le operazioni contro il Palazzo d’Inverno. Alle 11 di sera del 7 si apre il secondo Congresso panrusso dei Soviet.

I social-traditori lo abbandonano. Il Congresso assume il potere. Nel giorno stesso il manifesto del partito bolscevico ai «Cittadini di Russia» aveva dichiarato che il governo provvisorio era finalmente stato deposto[96].

Il grande ciclo della lotta era compiuto con la fase della presa insurrezionale del potere.

Il partito era di fronte al suo programma. Ma, molto prima dei compiti sociali, questo stesso e la storia gli ponevano ancora tremendi compiti politici. Proletari e socialisti, questi secondi, al mille per mille. Ancora involti in grosse scorie democratiche e capitaliste, i primi.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XII)

104 – Il conquistato potere

Il nostro lavoro non è che un tentativo verso la stesura, non di una storia (nel senso che per i benpensanti si indica col termine di storiografia) ma di alcuni capitoli di scienza storica, termine che per tutto il moderno pensiero è una bestemmia. Il modernismo ostenta di aver cacciato da tutte le scienze, anche naturali e non umane (per il marxismo la scienza della specie umana è una scienza naturale), causalità e determinismo, solo perché molti problemi – da tempo per nulla recente – si affrontano e risolvono, quanto ad apparato matematico, col metodo probabilistico. Ossia non si assume di aver determinato, mediante leggi scoperte, il valore preciso del dato incognito, ma solo di avere stabilita la conoscenza di un certo campo di valori in cui il dato che si domanda dovrà con buona probabilità «aggirarsi». A una conoscenza del futuro (meglio dire dell’incognito, potendo essere una incognita del passato cento volte più difficile a calcolare di una del futuro: poniamo la composizione chimica del nero che Cleopatra si dava sotto gli occhi, e l’ora fino al minuto secondo del prossimo eclisse di luna) rigorosa e puntuale, obbligata e certa, se ne sostituirebbe una elastica ed approssimata. Non qui svolgiamo il punto che questa alternativa si riduce ad una masturbazione filosofica da tempi smidollati: la certezza assoluta della soluzione non è che una finzione di comodo, una convenzione, che nella prassi della specie ha fatto sempre buon gioco, figliando fiammeggiante potere di conoscenza, come il classico buscar oriente per occidente, come l’«altissimum planetam tergeminunt observavi» di Galileo, che primo adocchiò l’anellato Saturno. La sicurezza matematica non è che un espediente per evitare di pigliar cantonate troppo in pieno; la collettiva dotazione di esperienza della specie, che chiamiamo nella storia religione, filosofia, empirismo, scienza, è un edificio elevato con tante pietre, su ognuna delle quali si può scrivere: individuale fesseria.

È così che a noi parrebbe un gran risultato se si verificasse la previsione che la terza guerra mondiale avverrà intorno al 1975, a tre quarti del secolo, e non sarà preceduta da una generale guerra civile tra proletariato e capitalismo nei paesi avanzati di Occidente, offrendo soltanto la possibilità di questo grandioso evento. E saremmo quindi disposti ad ammettere che una tale cifra non si può ricavare da nessuna equazione (troppo vaga quella 1945 – 1918 + 1945 = 1972) ed è soltanto il risultato di induzioni probabilistiche. Nel «Dialogato»[97] mostrammo che in tale profezia collimavano il pensiero di Stalin, quello dell’economista liberale Corbino, e quello della assai piccola ed assai anonima sinistra marxista ortodossa.

Questa digressione serve al rilievo che naturalmente siamo anche noi influenzati dal modo tradizionale di trattare l’argomento, e come siamo vittime dell’abuso dei nomi dei personaggi illustri, così lo siamo di quello della mania delle date «matematiche».

Trattando Russia svolgemmo alla riunione di Bologna una prima parte che saggiava l’esposizione marxista della storia di quel paese fino alla grande Rivoluzione. Nelle riunioni di Napoli e Genova siamo passati al tema dell’attuale struttura russa, e il contenuto di tale esposizione si divide in due parti: la lotta per il potere nelle due rivoluzioni, e quella più specialmente diretta al tema: ossia a provare la tesi che la società russa di oggi è capitalista in giovane sviluppo, non socialista.

Giunti al 26 ottobre / 8 novembre del 1917 dovremmo chiudere di colpo il primo argomento: i bolscevichi hanno preso il potere. Eccoli alla prova: Come hanno governato? Come hanno attuato il loro programma? È indubbio che nel marxismo il possesso del potere è un mezzo, non un fine – una partenza, non un arrivo. Ma numerosi argomenti restano, che sono ancora nel raggio della lotta per il potere, e non in quello della forma sociale, cui il trapasso di esso ha aperta la strada.

105 – La luce di ottobre

I marxisti non avrebbero ragione di commemorare date a giorni fissi, è sicuro, ma non è delitto se lo fanno: quella tale avanzata alla conoscenza di specie, collettiva, si è fatta, come testé ricordato, congegnando insieme materiali eterogenei, piccole sciocchezze e grandi ingenuità, soprattutto clamorose contraddizioni, girando in labirinti ove non si incontrano Arianne. E solo alla fine di una corsa millenaria, e molto oltre questo nostro conato, che non può procedere senza intoppi e insuccessi, il «Filo del Tempo» sarà trovato.

Da molto più di un secolo lo si snoda dal fuso, ma solo in esso sta il miracolo, che più dei luminari del mondo ufficiale può segnare la giusta via il fesso qualunque; per la superiorità che ha l’ultimo timoniere con l’occhio alla bussola magnetica sul dantesco magnifico Ulisse, che non fermò il «folle volo» verso l’ignoto, «per seguir virtute e conoscenza», fino che il mare, sopra di lui coi suoi sacrilego, non fu richiuso.

Ha quindi una grande portata il martellare la data del 26 ottobre vecchio stile come uno svolto istantaneo, perché così si sottolinea una primaria lezione storica: quella contenuta nelle lettere di Lenin che invocano di non più attendere un giorno e nemmeno poche ore per rovesciare in Pietrogrado il governo Kerenski. In effetti questa grande verità, ossia che il partito deve saper scorgere il momento, determinato nella storia, tra i rarissimi in cui la prassi si capovolge e la volontà collettiva gettata nella bilancia la fa traboccare, non toglie che la lotta continui a lungo dopo quello svolto, eretto a simbolo: nel resto della Russia, nelle immense province, tra i reparti militari.

E non toglie che, anche dopo la prima conquista ripercossa dalla capitale a tutto il paese ancora libero dalla tedesca invasione, la lotta continui nella liquidazione della guerra, nella eliminazione dell’ultimo partito alleato, il socialista rivoluzionario di sinistra, e della Assemblea Costituente, e nella resistenza di vari anni a ribellioni interne e a spedizioni di guerra civile scagliate sulla nascente repubblica proletaria.

La lezione contenuta in questi dati della storia è tanto più grandiosa, in quanto il contenuto di queste imprese è totalmente di classe, e consacra il nome di socialista e comunista alla rivoluzione di Ottobre e allo Stato dei Soviet diretti dal partito bolscevico, in tutta la sua azione politica, in quanto ed in tanto questa ha un centro solo, non in un sistema di misure per governare la Russia e amministrarla, ma nella inesausta lotta per la Rivoluzione comunista di Europa.

Più dura, difficile e complessa è la lezione che deriva dallo studio delle misure, per così dire, di amministrazione interna.

Più ardua la sua utilizzazione rivoluzionaria, che si raggiunge solo compiendo lo sforzo di ammettere che un tale compito «russo», quando la rivoluzione occidentale declina, ha per massima parte contenuto non socialista.

Importano dunque molto ancora vari argomenti, che precedono una tale dimostrazione.

106 – Distruzione dello Stato

Lo stato di classe è una macchina immensa, caratterizzata dalla esistenza di un «comando» centrale unico. È venuto il momento, come dice Lenin alla fine del classico «Stato e rivoluzione», di giustapporre la prassi alla dottrina. Ogni stato è definito, in Engels, da un preciso territorio e dalla natura della classe dominante. È dunque definito da una capitale dove si aduna il governo, che è in marxismo definito
«il comitato di amministrazione degli interessi della classe dominante».

Non sfugge a tale definizione il trapasso dal potere feudale a quello borghese nemmeno in Russia: una macchina di dominio deve sostituire un’altra, e ciò può avvenire solo con una cruenta lotta, che si svolge nel febbraio del 1917. Ma è inevitabile che in questa fase venga a galla la teoria politica, del tutto e diametralmente opposta, che in tutte le rivoluzioni storiche ha dissimulato il carattere del passaggio da feudalesimo a capitalismo. Si afferma di distruggere il dispotico potere centrale di una classe, che si configura in quello di un monarca e di una dinastia, non per sostituirvi il governo di una nuova classe dominante contro un’altra, ma per costruir uno Stato, un governo ed un potere che non esprimano la soggezione di una parte della società ad un’altra classe governante bensì si fondino su «tutto il popolo».

Il fatto più grande storicamente è che, là dove fatalmente si dovevano pagare i maggiori tributi a questa interpretazione democratica della rivoluzione, che come nelle rivoluzioni europee si adagiava bene su un grande campo di reali esigenze – ed anche tenaci illusioni – di vasti strati sociali, ivi una serie di fatti storici positivi mise in luce, per il mondo proletario, la robustezza della dinamica rivoluzionaria marxista fondata sulle classi, la dittatura di una di esse, la violentazione delle libertà delle altre e dei loro partiti fino al terrore, fatto del resto inseparabile da tutte le rivoluzioni anche puramente borghesi.

Uno dei primi di questi fatti è la rottura del vecchio apparato statale che la classe assurta al potere deve operare senza esitazioni: lezione già tratta da Carlo Marx dalle lotte in Francia, e dalla Comune di Parigi, che si installò contro Versailles all’Hôtel de Ville, pose macchina contro macchina armata, soffocò anche nel terrore, prima di venire assassinata, i fisici membri della classe nemica, ed ebbe dal proletariato rivoluzionario mondiale, dopo vinta, il formidabile attestato che, se ebbe colpe, non fu di essere stata troppo feroce ma di non esserlo stata abbastanza.

Non è la teoria che qui si debba ancora una volta disegnare, ma solo si devono presentare le sue conferme, le cui notizie facevano balzare come ebbri di luce e di gioia i rivoluzionari di occidente.

Il governo borghese è arrestato al Palazzo d’Inverno, ma i suoi uffici non vengono, col loro personale, posti agli ordini di nuovi capi di governo; essi sono chiusi e la guardia rossa bivacca nelle sale. Il nuovo governo si forma fin dalle prime cellule con nuova materia-uomo all’istituto Smolny, sede dei bolscevichi. Trotsky racconta un episodio, che voleva sfottere Stalin ma che a tutti fa onore. Questi era stato nominato Commissario del Popolo alle Nazionalità (il nome di Commissario del Popolo al posto di Ministro fu, pare, proposto da Lenin: indubbiamente esso definisce – sunt nomina rerum – una dittatura democratica: in Germania sarebbero stati Commissari operai, o del proletariato). Ma quel che è grande è il piantar baracca nuova, bruciando la vecchia. Un compagno bolscevico di tacca comune, ma di pasta adatta, apostrofa per le stanze dello Smolny Giuseppe Stalin: Hai un commissariato, compagno? No, rispose il secondo. Lasciati servire: non mi serve che un mandato. Stalin lo scrisse su un pezzo di carta e lo fece firmare nella sala del Consiglio (una comune stanza ove un tramezzo di legno divideva dal locale del dattilografo e del telefono). Pestkovskij in una delle stanze dello Smolny già occupata trovò un tavolo libero e lo spinse contro il muro, attaccando a questo una scritta: Commissariato del Popolo per le Nazionalità. A tutto questo aggiunse due sedie.
«Compagno Stalin, non abbiamo un soldo sul nostro conto» – «Occorre molto?» – «Per cominciare un migliaio di rubli» – «Andate da Trotsky: ha del danaro che ha preso al Ministero degli Esteri».
Aggiunse Pestkovskij che con regolare ricevuta prese da Trotsky in prestito tremila rubli, che probabilmente mai il Commissariato delle Nazionalità ha restituito a quello degli Esteri…[98].

Sulle tombe dei comunardi fucilati aleggia l’ineguagliabile elogio funebre di Marx, che li assegna alla storia, ma li accusa di non avere, ingenuamente, fatto saltare i forzieri della Banca di Francia.

La Rivoluzione non ha il diritto di avanzare a mani pulite.

107 – L’Assemblea Costituente

La rivoluzione liberal-democratica del 19 febbraio, sulla traccia storica di ogni rivoluzione borghese, convocò un’assemblea Costituente elettiva di tutta la Russia, che doveva promulgare la nuova Costituzione e le leggi parlamentari. Nel travagliato periodo che seguì, le elezioni venivano di continuo dilazionate dal governo provvisorio, anche quando divenne di coalizione tra borghesi e socialisti della destra opportunista.

Mentre i bolscevichi conducevano la lotta nei Soviet, ed anche quando rompendo gli indugi la trasferirono sul campo della guerra civile, mai essi sconfessarono ufficialmente la Costituente né annunciarono che ne avrebbero disertate le elezioni. Pure agitando la formula del potere ai Soviet, essi non dissero pubblicamente che il governo stabile non dovesse essere designato dalla maggioranza della Costituente. Annunziarono i loro candidati ad essa ripetutamente.

Noi sappiamo tuttavia che fin dalle «Tesi di Aprile» Lenin proclama il principio che la repubblica debba essere non parlamentare ma poggiata sul sistema dei Soviet, e quindi escludendo il voto dei non lavoratori, pure essendo ammessi nei Soviet oltre agli operai anche i contadini-soldati. Vi era fedeltà assoluta alla formula della dittatura democratica (ciò, ancora una volta, vuol dire non di una sola classe, ma di più classi. Se la base fosse di una sola classe, resta il sostantivo dittatura e va via l’aggettivo democratico – se di tutte le classi, va via la dittatura e resta la democrazia). Il preteso passaggio sostenuto dagli stalinisti, in un certo limitato senso anche da Trotsky, non solo in teoria ma anche in pratica, alla dittatura del proletariato tout court, come si concilia col fatto che oggi in Russia votano tutti i cittadini? La risposta che non essendovi borghesia la sanzione è superflua, è vana: in ogni caso, se valesse a dimostrare che vi è la dittatura, questa sarebbe sempre dittatura interclassista (ammette al voto contadini, artigiani, piccoli industriali, commercianti etc. che è pacifico esistano ad oggi) e quindi il passo oltre la dittatura democratica giusta Lenin 1905 non è mai avvenuto: infatti lo poteva solo per effetto della rivoluzione fuori Russia.

A suo tempo la questione dello studio delle Costituzioni, e della definizione della Russia odierna come una repubblica capitalistica che, malgrado la prassi statale totalitaria, è tanto parlamentare quanto lo erano quelle borghesi di Hitler e Mussolini.

Lenin dunque teorizza che, anche non essendo in presenza di una rivoluzione proletaria integrale, deve subito porsi il superamento della forma parlamentare di Stato. Quindi dall’Aprile condanna l’Assemblea Costituente. La stessa formula del 1903 – 1913 l’aveva già condannata come pratico programma di governo alla caduta degli Zar.

Abbiamo poi citato passi di Lenin, come il lettore conosce, che implicitamente contengono il principio della non convocazione della Costituente, pur nel protestare contro il rinvio a questa della espropriazione terriera.

Eppure lo stesso Trotsky, il quale si dice fautore della dittatura proletaria nella rivoluzione permanente, crede di doversi giustificare in via contingente della misura di scioglimento dell’Assemblea, convocata dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi. Scrivendo nel 1918 egli evidentemente pensa che sia dai più ritenuto potersi buttar via la dittatura restando nel campo della democrazia, e non passare per sempre oltre la democrazia, andando traverso la dittatura uniclassista e unipartitica fino al traguardo del non-Stato – nel quale solo senso marx-engelsiano la dittatura è «transitoria».

108 – Trotsky e Lenin

Riportiamo la giustificazione di Trotsky dal libretto «Dalla Rivoluzione di Ottobre alla Pace di Brest Litovsk» scritto appunto nelle lunghe more di quelle trattative.

«Noi eravamo perfettamente sinceri quando dicevamo che la via per l’Assemblea Costituente non passava attraverso il Parlamento Preliminare di Tsereteli, bensì attraverso la conquista del potere da parte dei Soviet. La continua proroga della Costituente aveva lasciate le sue tracce…».
Qui Trotsky spiega che il partito numericamente più forte in Russia era il socialista rivoluzionario, la cui ala destra prevaleva di gran lunga, nelle campagne, con una minoranza di sinistra di operai urbani. Ora sebbene le elezioni avessero luogo anche dopo la rivoluzione di Ottobre nelle prime settimane, le notizie si diffusero male nell’immenso territorio, e fu chiaro che gli esserre di destra avrebbero avuta la maggioranza: ciò significava la maggioranza al deposto governo di Kerenski: graziosa l’idea di richiamarlo indietro e dirgli: Abbiatevi le nostre scuse e risalite sullo scanno, i principi della democrazia sono per noi preliminari ed universali: rivoluzione, socialismo, proletariato, sono cose in sottordine![99].

Trotsky è sotto l’effetto dell’orgia di imprecazioni venute dall’occidente alla notizia della dispersione del branco di neo-onorevoli a suon di calcio di moschetto e senza spargere una goccia di sangue, delle ignobili pedanterie di Carlo Kautsky, cui dedicò indi un volume formidabile: «Terrorismo e comunismo».

Dopo avere escluso con la storia della questione che fosse proponibile il recitare la parte del fesso fino a tal punto, egli prosegue:
«Resta ora da esaminare la questione sul terreno dei principi. Nella nostra qualità di marxisti noi non fummo mai idolatri della democrazia formale. Nella società di classe le istituzioni democratiche non solo non tolgono di mezzo la lotta di classe, ma danno agli interessi di classe una espressione sommamente imperfetta. Le classi dominanti continuano pur sempre ad avere a loro disposizione innumerevoli mezzi per falsificare, distogliere e violentare la volontà delle masse popolari lavoratrici. Un apparato ancora più imperfetto per esprimere la lotta di classe sono, nel trambusto della rivoluzione, le istituzioni della democrazia. Marx disse che la rivoluzione è ‹la locomotiva della storia›. Grazie alla lotta aperta e diretta per conquistare il potere governativo, le masse lavoratrici accumulano nel minor tempo una quantità di esperienza politica, e nella loro evoluzione salgono rapidamente da un gradino all’altro. Il lento meccanismo delle istituzioni democratiche può tanto meno seguire questa evoluzione, quanto più grande è il paese e quanto più imperfetto è il suo apparato tecnico»[100].

Questa è buona polemica contro i socialdemocratici che tuttavia ammettono lotta di classe e conquista del potere politico. Ma sembra a noi analisi insufficiente, in quanto riteniamo che più un paese è sviluppato quanto a tecnica e quanto a lungo esercizio della democrazia rappresentativa borghese, tanto più l’apparato di questa si presta a menzogna, corruzione e rinvilimento delle masse, ed è atto, se consultato, sempre più a dire di no al socialismo proletario.

Trotsky stesso dice che Lenin tenne lui a redigere il decreto di sfratto. Da almeno sei mesi gli stava sullo stomaco.

109 – Decreto di scioglimento

Volete un piccolo assaggio di dialettica? La Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato, nocciolo della prima costituzione sovietica, e che sarà in seguito oggetto del nostro esame, scritta da Lenin in data 4 gennaio 1918, ha per soggetto grammaticale l’Assemblea Costituente. Il decreto, della stessa penna, che questa discioglie, è del 7 gennaio.

Infatti l’Assemblea, adunata il 5 gennaio, non aveva accettata la richiesta del Comitato Esecutivo Centrale Panrusso dei Soviet di adottare la Dichiarazione dei Diritti nel progetto di Lenin, che comincia con l’affermazione che tutto il potere centrale e locale appartiene ai Soviet.

Il decreto di Lenin non si fonda su svolti contingenti ma va diritto alla sua lapidaria conclusione:
«Il Comitato Esecutivo Centrale decide: l’assemblea costituente è sciolta».

La decisione parte dal fatto che la Rivoluzione Russa fin dall’inizio ha creato i Soviet, che questi si sono sviluppati contro le illusioni di collaborazione coi partiti borghesi e
«le forme ingannatrici del parlamentarismo democratico-borghese», e «sono giunti praticamente alla conclusione che la liberazione delle classi oppresse senza la rottura con queste forme e con ogni specie di conciliazione è impossibile». Questa rottura «si è avuta con la Rivoluzione di Ottobre, che ha rimesso tutto il potere nelle mani dei Soviet».

Questa ha provocato la reazione degli sfruttatori e
«nella repressione di tale disperata resistenza ha pienamente dimostrato di essere l’inizio della rivoluzione socialista».
Tale rigorosa formula va fatta propria dai marxisti integralmente, in quanto si trattava della rivoluzione socialista internazionale, e non affatto della poi favoleggiata «edificazione socialista nella sola Russia».

Il testo prosegue:
«Le classi lavoratrici hanno dovuto persuadersi, sulla base dell’esperienza, che il vecchio parlamentarismo borghese ha fatto il suo tempo [giovane in Russia, vecchio in Europa, per la quale tutta la grandiosa dimostrazione storica si eresse allora, e resta oggi integrale], che esso è incompatibile con l’obiettivo della realizzazione del socialismo; che non le istituzioni nazionali, generali, ma soltanto quelle di classe, come i Soviet, sono in grado di vincere la resistenza delle classi possidenti e di porre [aggiunta nostra sul filo della logica e della dottrina: con questo stesso fatto] le fondamenta della società socialista. Ogni rinuncia all’integrità del potere dei Soviet, ogni rinuncia alla Repubblica sovietica conquistata dal popolo, a vantaggio del parlamentarismo borghese e dell’Assemblea costituente, sarebbe ora un passo indietro, sarebbe il fallimento di tutta la Rivoluzione di Ottobre operaia e contadina».

Il testo continua dicendo che questa Assemblea ha respinto la tesi del potere ai Soviet e con ciò
«ha spezzato ogni legame con la Repubblica Sovietica rossa. L’abbandono di una simile assemblea da parte del gruppo dei bolscevichi e dei socialrivoluzionari di sinistra, i quali formano oggi la maggioranza dei Soviet e godono la fiducia degli operai e della maggioranza [udite] dei contadini, era inevitabile».
I partiti in maggioranza alla Costituente conducono in realtà fuori di essa un azione disfattista della rivoluzione, difendono i sabotatori capitalisti, gli appelli al terrore di ignoti agenti della controrivoluzione.
«È chiaro che in forza di ciò l’altra parte dell’Assemblea costituente potrebbe avere soltanto la funzione di coprire la lotta dei controrivoluzionari per l’abbattimento del potere sovietico»[101].

Giù, dunque, la scure, il grandioso documento è chiuso.

La grandezza di questo testo è che non si basa su contingenze scontate e particolari del concreto sviluppo russo. Questo ha offerto soltanto le attese occasioni: magnifica quella che, alle elezioni, i rivoluzionari non avessero avuta la maggioranza; sarebbe stato terribilmente imbarazzante, e chissà quanti bolscevichi avrebbero una volta ancora claudicato.

Lo storico testo si basa su argomenti di principio tolti non dalla storia decorsa, ma dalla storia attesa della rivoluzione proletaria e comunista mondiale, sulla incompatibilità tra la democrazia parlamentare e la realizzazione del socialismo, che seguirà al violento abbattimento degli ostacoli sociali, delle forme tradizionali di produzione, come nel «Manifesto» sta scritto.

Non lessero l’argomento, al di là di dieci frontiere, i seguaci del marxismo incorrotto, ma bastò loro la nuda notizia del fatto che la minoranza lasciò l’assemblea e ordinò che la maggioranza fosse ridotta al silenzio, per inneggiare ad uno dei più fiammanti incontri tra la previsione dottrinale e la vivente storia.

La massa dei proletari sfruttati, sollevata dalla guerra alla lotta rivoluzionaria, comprese la grandezza dell’evento, anche se in forma meno scientifica; gridò con milioni di voci che una volta ancora la Luce (chiamatela, o filistei, se vi dà veleno, messianica: nel lessico nostro non è il Verbo che si fa Carne, ma è la Teoria che si fa Realtà!) si era levata sfolgorando sull’orizzonte di Oriente.

Tramontò poi nel fetido spegnitoio dell’incarognata parlamentare.

A questo svolto la Storia ufficiale del Partito dedica poche righe.
«L’Assemblea Costituente, le cui elezioni si sono svolte in gran parte prima della Rivoluzione di Ottobre, e che si è rifiutata di ratificare i decreti del II Congresso dei Soviet sulla pace, sulla terra, sul passaggio del potere ai Soviet, è sciolta»[102].
Sono di pura scusa.

110 – Guerra e pace

Le pagine della narrazione stalinistica su questo punto sono tali, almeno per chi in quel tempo già campava, che il solo citarle per confutazione varrebbe confessare una idiozia congenita. Trotsky e Bucharin avrebbero lavorato contro la pace, per far sì che i tedeschi, che li pagavano, conquistassero la Russia e stroncassero la Rivoluzione. Il genio di Lenin lo impedì: ma come quel genio non sarebbe arrivato a capire che i suoi collaboratori in prima, ancora per anni ed anni e fino alla sua morte, erano dei puri sicari? e come non lo avrebbe capito nemmeno Stalin, per la cui grandezza si diffonde quel testo? Loro due, e tutti gli altri, e tutti noi, che fantastica mappata di fessi! Lasciamola lì. Non possiamo infatti confessare che i tedeschi pagano anche il Filo del Tempo.

Per la stessa ragione non interessano tutti i dettagli, sebbene decisivi, della confutazione che dà Trotsky dell’incredibile costruzione. Chi crede che il socialismo sia una costruzione, può anche mettersi ad «edificare la storia», come l’ufficialità cremlinesca. In ambo i casi fabbrica sulle sabbie mobili, e a noi premono cose più sode.

Il II Congresso panrusso dei Soviet che assunse il potere il 26 ottobre / 8 novembre, nella stessa seduta adottò il decreto sulla pace, preparato da Lenin, primo atto del nuovo potere. Con esso si propone a tutti i paesi in guerra l’immediato inizio di trattative «per una pace giusta e democratica». Il testo dice subito che cosa per tale formula si intende:
«Una pace immediata, alla quale aspira la schiacciante maggioranza degli operai e delle classi lavoratrici di tutti i paesi, sfinite, estenuate e martoriate dalla guerra, una pace senza annessioni (cioè senza conquista di terre straniere, senza incorporazione forzata di altri popoli) e senza indennità»

Una ulteriore delucidazione:
«Per annessione o conquista di terre straniere il governo russo intende – conformemente alla coscienza giuridica della democrazia in generale e delle classi lavoratrici in particolare – qualsiasi annessione di un popolo piccolo e debole ad uno Stato grande o potente, senza che il popolo ne abbia espresso chiaramente, nettamente e volontariamente il consenso e il desiderio, indipendentemente dal momento in cui questa incorporazione forzata è stata compiuta, indipendentemente anche dal grado di sviluppo o di arretratezza della nazione forzatamente annessa o forzatamente tenuta nei confini di quello stato, e indipendentemente, infine, dal fatto che questa nazione risieda in Europa o nei lontani paesi transoceanici».

Questa proposta concreta non costituisce una costruzione teorica. La posizione marxista è che un partito proletario non può in nessun caso appoggiare una annessione politica forzata; ma non consiste nel fare un capitolo del programma del partito della sistemazione ex novo di tutti i popoli omogenei in un nuovo ordinamento politico-geografico di Stati raggiunto e mantenuto dal consenso e senza violenza. Questa è ritenuta dai marxisti una utopia inconciliabile con la società di classe capitalistica, più ancora che con ogni altra, mentre in una società socialista il problema passa su altre basi, includenti la distensione e lo spegnimento di ogni violenza statale.

Una proposta tale che i paesi borghesi potrebbero accettarla, o almeno non possono rifiutarla per ragioni di principio, e che quindi li smaschererebbe se la rifiutassero – come è sicuro – nel loro appetito di brigantaggio imperiale. Si sarà così provato che una coscienza giuridica internazionale degli Stati non esiste di fatto, né può esistere nel mondo attuale.

Il decreto contiene altri due punti fondamentali: la rinunzia al segreto diplomatico e l’annullamento dei trattati, segreti o meno, stipulati dallo Stato russo fino allora – e la proposta di un armistizio di almeno tre mesi per lo svolgimento dei negoziati.

La conclusione della relazione illustrante il decreto è poderosa Essa spiega che non si può non offrire di discutere con i governi, e va dato carattere non ultimativo alla proposta di pace «senza annessioni e indennità», al fine di potere ingaggiare ogni discussione. Ma con ciò non si rinunzia a parlare anche ai popoli, agli operai di tutti i paesi perché rovescino i governi che si oppongono alla pace.
«Noi lottiamo contro la mistificazione dei governi che, a parole, sono tutti per la pace e per la giustizia, ma che di fatto conducono guerre di conquista e di rapina».
Il decreto apertamente inneggia alla insurrezione operaia, agli ammutinamenti nella flotta tedesca. Esso tuttavia esclude la possibilità di finire unilateralmente la guerra. Questa non può essere fatta finire che con la pace: il decreto non contiene – ancora – la previsione di una pace separata[103].

111 – Cronologia tragica

Il 7 novembre la proposta fu trasmessa a tutti i governi in guerra. La risposta degli alleati francesi, inglesi, etc. fu trasmessa non al governo bolscevico ma al Quartier Generale dell’esercito l’11 novembre: era una chiara minaccia di attaccare la Russia se questa avesse osato concludere con i tedeschi una pace separata.

Lenin nel discorso di chiusura aveva lealmente spiegato che non si era data alla proposta di armistizio generale la forma di ultimatum minacciando la pace separata, ma che si faceva assegnamento sulla stanchezza delle masse belligeranti per costringere i governi a trattare: ancora aveva ricordato l’ammutinamento ferocemente represso nella marina tedesca, e i moti italiani dopo Caporetto e nelle giornate di Torino:
«Prendete l’Italia dove questa stanchezza ha provocato un movimento rivoluzionario di lunga durata, che reclamava la cessazione del massacro»[104].

Alla minaccia alleata dell’11 novembre, rispose un proclama del Soviet agli operai soldati e contadini in cui si dichiarava che mai il potere sovietico avrebbe tollerato che il sangue «del nostro esercito fosse versato sotto la frusta della borghesia straniera». Il governo bolscevico mantenne l’invito all’armistizio, e l’impegno di pubblicare tutti i trattati segreti.

Il 30 novembre il governo sovietico decide di iniziare le negoziazioni per la pace con le potenze centrali, e inutilmente invita le potenze occidentali a parteciparvi. Il 2 dicembre a Brest Litovsk cominciano i negoziati della prima delegazione diretta da Joffe: dal 22 al 28 si svolge la conferenza della pace che si conclude con proposte severissime ed inaccettabili dei tedeschi. Le dette date sono nel nuovo stile, che seguiremo d’ora innanzi in quanto nel febbraio 1918 un decreto del nuovo governo lo adottava per tutta la Russia.

Un armistizio con i tedeschi era stato concluso il 5 dicembre. Il 9 si era cominciato a discutere e i tedeschi avevano in primo tempo ostentato di accettare le basi giuridiche della pace proposte dai russi, il che fece una grande impressione. La dichiarazione di Kühlmann in tal senso dopo molte proroghe era stata fatta il 25 dicembre e provocò il 28 una grande dimostrazione di massa a Pietrogrado per la pace democratica. Ma l’indomani la delegazione Joffe rientrava denunziando che le effettive richieste tedesche comportavano la caduta sotto il giogo germanico dei paesi baltici, della Polonia, perfino della Ucraina.

Il 10 gennaio viene inviata la seconda delegazione, diretta da Trotsky, e si iniziano nuove lunghe sedute che durano fino al 10 febbraio.

La situazione fu complicata da una delegazione della Rada ucraina di Kiev che, ostentando di essere autonoma dalla nuova Repubblica Russa, era come un fantoccio in mano tedesca, e il 9 febbraio, mentre il suo potere era divenuto sempre più fittizio, firmava da sola una pace con la Germania e l’Austria.

Il giorno dopo i russi dichiarano di non potere accettare le esose condizioni, e si ritirano dichiarando che porranno comunque fine alla guerra, smobilitando l’esercito.

Si sperava nella reazione dei proletari di Germania ed Austria, si sperava che l’esercito tedesco non avrebbe ripreso una avanzata di invasione. Ma così non fu. Il generale Hoffmann, cinque giorni dopo l’ultima seduta, violando il convenuto termine di sette giorni, dichiarò spirato l’armistizio e ricominciò le operazioni. Il fronte russo si sfaldò totalmente. I controrivoluzionari finlandesi e ucraini invocarono le baionette tedesche per resistere ai bolscevichi che li avevano sopraffatti. La minaccia gravava su Pietrogrado. Il 19 febbraio per radio il governo russo si dichiara pronto a firmare una qualunque pace dettata dai tedeschi, che non si arrestano e solo il 23 comunicano le nuove tremende condizioni. Il 28 febbraio la terza delegazione, diretta da Sokolnikov, giunge a Brest Litovsk: il 3 marzo 1918 finalmente la pace-capestro è firmata. Passavano alla Germania Estonia, Lettonia e Polonia, l’Ucraina ne diveniva Stato vassallo, una indennità doveva venire pagata dalla Russia. Ma tutto ciò sul quadrante della storia era destinato a durare solo pochi mesi, fino al crollo tedesco nel novembre e all’armistizio generale con gli occidentali vittoriosi. La crisi di Brest Litovsk aveva in sostanza fiaccato internamente la Germania e non la Russia.

112 – La grave crisi nel partito

Durante le tremende alternative di Brest si era sviluppato nel partito un profondo dissenso. Una corrente, che si disse dei comunisti di sinistra, e che trovava appoggio nell’atteggiamento della destra della coalizione di governo, ossia negli esserre, si schierò contro la pace separata e soprattutto contro l’accettazione di condizioni così gravose. Preso il potere dai lavoratori, sostenevano costoro, la guerra non è più quella degli imperialisti e degli opportunisti, ma è una guerra rivoluzionaria, una guerra santa: bisogna sollevare in armi tutto il popolo russo, non firmare apparendo ai proletari esteri come traditori dell’internazionale, e piuttosto soccombere nella lotta perdendo il potere e la conquista della rivoluzione, se le forze proletarie russe saranno schiacciate sul campo.

Contro questa posizione si levò con costanza e decisione inflessibile, e al solito in certe fasi quasi solo, Lenin. Il suo fondamentale argomento era la fiducia nella rivoluzione europea, cui occorreva fare il credito di un’attesa più lunga che quella di settimane e mesi, sacrificandosi a tutte le concessioni nazionali pur di trovarsi al potere alla fine della guerra, anche se si doveva, come poi avvenne, trasportare a Mosca la capitale.

Come già altra volta fatto, ricorderemo che, quando di questo tremendo dibattito pervennero in Europa gli echi, e quando molti che passavano per sinistri si esaltavano all’idea di una guerra di disperazione antitedesca, gli elementi di sinistra del partito italiano, pure nella quasi mancanza di documentazione, sposarono la tesi Leniniana e la sostennero sull’«Avanti!» e sull’«Avanguardia» dei giovani, con la stessa intensità con cui avevano solidarizzato con la dispersione della Costituente e la tremenda crociata contro gli opportunisti e traditori dentro e fuori di Russia; facendo carico ai lavoratori di Europa e d’Italia del compito di spegnere, di sotterrare la guerra scongiurando una fiammata di fanatismo patriottico, sulla china di quello dell’interventismo traditore e antitedesco[105].

La delegazione Trotsky ritornò con la notizia che non aveva accettato di firmare la pace il 10 febbraio. Ma già la questione era stata discussa in una conferenza di 63 bolscevichi, tenuta il 21 gennaio cui era stato chiamato Trotsky. La tesi di Lenin di firmare la pace come i tedeschi volevano fu battuta avendo avuto solo 15 voti. Ne ebbe 16 la tesi né guerra né pace di Trotsky. La maggioranza assoluta, 32 voti, seguì la tesi Bucharin per il rifiuto della firma e la proclamazione di una guerra rivoluzionaria. Il 24 gennaio la discussione tornò avanti al Comitato Centrale del Partito. Lenin propose di non rifiutare la firma, ma tirare in lungo le trattative: 12 sì, 1 no. Trotsky insistette nella proposta: rifiuto di firma, smobilitazione, con 9 sì e 7 no.

Il 25 gennaio si discute ancora in una riunione comune agli esserre di sinistra. La maggioranza decide di sottoporre al Congresso dei Soviet la formula: né guerra né pace.

Il 10 febbraio, come detto, rientra la delegazione che ha applicato questo indirizzo, contro il parere di Lenin ma non contro quello della maggioranza. Krylenko che aveva il comando supremo ordina la smobilitazione. Le condizioni militari in linea tecnica erano così palesi, che nessuno si oppose.

Quando si seppe che i tedeschi, dopo una conferenza presieduta dal kaiser Guglielmo ad Amburgo, avevano ripresa l’avanzata, fu ancora riunito il Comitato Centrale il 17 febbraio. La proposta tedesca di riprendere i negoziati e firmare fu rigettata con 6 voti contro 5. Non vi furono voti per la guerra rivoluzionaria, ma solo l’astensione di Bucharin, Joffe e Lomov.

Il 18 febbraio in una lunga seduta, prima sostennero la firma Lenin e Zinoviev, il diniego Trotsky e Bucharin, e la proposta di trattare fu respinta con sette voti contro sei: più tardi si decise l’invio di un telegramma che offriva la pace alle vecchie o anche diverse condizioni, con l’approvazione di Lenin, Smilga, Stalin, Sverdlov, Trotsky, Zinoviev, Sokolnikov, con 5 no e un’astensione[106]. La risposta venne il 23. Il Comitato Centrale votò l’accettazione con 7 voti contro i quattro di Bucharin, Bubnov, Urickij e Lomov. Si votò tuttavia la preparazione alla guerra rivoluzionaria. Il 3 marzo si ebbe la pace.

Al 6–9 marzo la polemica scoppiò violenta al settimo Congresso del Partito, e fu approvata, contro la viva opposizione della frazione Bucharin, l’accettazione della pace di Brest. La risoluzione di Lenin ebbe 30 voti, contro 13 no e 4 astenuti. A questo congresso il partito prende il nome di Comunista (bolscevico), come proposto un anno prima da Lenin.

Al Terzo Congresso dei Soviet la questione ritorna e, stavolta, sono all’opposizione anche i socialrivoluzionari di sinistra: la coalizione viene rotta e questi passano all’opposizione più decisa contro il governo bolscevico. Siamo al 15–17 marzo; viene formato diversamente il governo, con Čičerin Commissario per gli Esteri, Trotsky per la Guerra.

113 – La valutazione di Lenin

Gli scritti di Lenin colpiscono gravemente l’attitudine di quella «sinistra» che voleva il rifiuto di ogni pace e la guerra santa ai tedeschi. L’opposizione aveva guadagnato l’organizzazione di partito a Mosca, e il 24 febbraio votò la sfiducia al Comitato Centrale. Lenin chiama «strana e mostruosa» tale posizione. I sinistri dovevano ammettere che questa guerra sarebbe stata senza speranza e che i tedeschi avrebbero ulteriormente vinto ed avanzato, con la conseguenza della caduta del potere dei Soviet. Essi avevano risposto che una tale eventualità era preferibile al disonore di subire l’imposizione imperialista tedesca. Lenin mostra che questa è una posizione di disperazione e che non è disfattismo della rivoluzione internazionale firmare una pace onerosa e tremenda con l’imperialismo germanico: la sua prospettiva che la rivoluzione supererà questo passo tremendo avrà sapore, una volta ancora, di profezia[107].

Non ha tuttavia mai Lenin condannata in principio la guerra rivoluzionaria. Pochi giorni infatti prima dello scritto ora citato, il 22 febbraio, egli aveva redatto l’appello per la difesa rivoluzionaria intestato nelle «Opere» con le parole, non sappiamo se originali, e tanto abusate nel 1942:
«La patria socialista è in pericolo!».
Sono date tutte le disposizioni per la disperata resistenza all’invasore, nel caso che questo respinga la delegazione già partita per firmare la pace e continui deliberatamente ad entrare nel paese[108].

Ma negli ulteriori scritti in preparazione del VII Congresso Bucharin e i suoi sono ulteriormente, in base a minuta relazione sulla situazione reale, fieramente stigmatizzati.

La chiusura della guerra era un traguardo fondamentale, forse il più vitale, di una lunghissima lotta, che durava dal 1914 e in un certo senso dal 1900. Era indispensabile che questo caposaldo fosse a qualunque costo stabilito: la guerra imperialista e zarista è finita: il tradimento social-sciovinista è stato stritolato; ed era tanto un caposaldo della rivoluzione russa quanto, e sopra ogni altra cosa, della rivoluzione internazionale. Non sarebbero mancate lotte e guerre civili per la difesa della rivoluzione e delle vittorie di Ottobre: Lenin lo sapeva e chiaramente lo disse.

Ma Brest fu una tappa del cammino che doveva condurre dalla guerra imperialista alla guerra civile in ogni paese, come dichiarato nel 1914, e anche prima, dal marxismo rivoluzionario. E il proletariato tedesco dette con Spartaco nel 1918, alla fine di quel tremendo anno, la prova di avere inteso l’impegno che gli derivava dallo strazio consumato con la «pace obbrobriosa», cui il bolscevismo e Lenin ebbero il gigantesco coraggio di mettere deliberatamente la propria firma nello storico tre marzo di Brest. Fu la controparte stipulante e trionfante, che presto la storia pose al tappeto.

Alla tappa di Brest la Rivoluzione Europea era in marcia gloriosa. Sulla linea politica rivoluzionaria, il potere russo di Ottobre ne teneva in pugno da solo, e con tutti i crismi, la rossa bandiera.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XIII)

114 – La tremenda guerra civile

L’uscita dal governo degli esserre si ebbe al quarto Congresso dei Soviet che, subito dopo il settimo Congresso del partito comunista (bolscevico), come da allora si chiamò, approvò la linea di Lenin a Brest Litovsk; la rivolta seguì al V congresso panrusso dei Soviet, del 4–10 luglio 1918, che ratificò il trattato definitivamente, adottò la Prima Costituzione, proclamò la formazione (iniziata dal febbraio) dell’Esercito Rosso stabile, e respinse le tesi social-rivoluzionarie contro la lotta senza quartiere al contadino ricco e capitalista agrario (il kulak). Dall’opposizione gli esserre passano alla rivolta: il 5 luglio il loro seguace Bljumkin (poi, in un film alla Totò, presentato come agente di Leone Trotsky) assassina l’ambasciatore tedesco Mirbach sperando di riaccendere la guerra. In varie città e a Mosca gli esserre insorgono, giungono a scaricare i loro cannoni contro il Cremlino. Il partito comunista senza la minima esitazione dispone la liquidazione dell’avventura, che viene attuata in pochi giorni: quest’ultimo residuo alleato, quest’ultimo oggetto coibile di «blocco» e di «fronte unico», tra l’orrore di tutto l’opportunismo mondiale e la gioia dei marxisti rivoluzionari di non fiacca pelle di ogni paese, viene posto fuori della legge rossa e schiacciato come un nido di serpi. Essi dovevano ancora, fedeli al loro metodo terrorista, consacrato ormai alla controrivoluzione, assassinare il 30 agosto il valoroso bolscevico Urickij, grave perdita per il partito, e con la mano della Fanny Kaplan cacciare nella spalla di Lenin stesso una palla di pistola, che forse ne abbreviò l’esistenza.

Si aprivano in quel momento uno dopo l’altro i fronti dell’intervento esterno, della guerra civile; il 17 agosto tagliando corto ad un’altra noiosa pratica viene tolta di mezzo su ordine del governo bolscevico ad Ekaterinburg, ove i bianchi stanno per arrivare, la famiglia imperiale; e non è da credere che qualcuno sia stato lasciato scappare fuori.

Si era aperto il periodo dopo il quale restò risolto il problema che indicammo nel riassunto di questa serie di riunioni[109] come conclusione: che deve fare il partito rivoluzionario, appena giunto al potere? – con la soluzione: duramente e lungamente combattere, per non perderlo. Lotta che, per ambo le parti, non può lasciar quartiere ai battuti.

115 – I tre compiti socialisti di ottobre

L’ossatura critica di questa nostra storica ricostruzione sta nel sostenere dialetticamente che la rivoluzione russa non ha condotto ad una Russia socialista, ma capitalista; e che questo non contraddice ma conferma la teoria storica del partito. Tra rivoluzione russa e società socialista russa poneva questa il «ponte» che è mancato: rivoluzione proletaria europea. E nel sostenere nello stesso tempo che, mentre il febbraio 1917 fu una rivoluzione politica borghese, l’Ottobre 1917 fu una rivoluzione politica proletaria, e socialista (e quindi anche rivoluzione sociale da definire socialista), al che nulla toglie se, dopo, la dialettica strada alla vittoria del socialismo nel mondo capitalista non poté essere percorsa tutta. Non è perduta una causa storica, per il rinvio ad una successiva udienza.

Abbiamo quindi fondato la dimostrazione del «diritto» di Ottobre russo alla classificazione di «socialista», e «comunista», su tre suoi compiti, che sono rimasti solidamente impiantati nel corpus storico umano.

Il primo è lo schiacciamento del traditore opportunismo nazionalista della seconda Internazionale, e la liquidazione della guerra capitalista.

Il secondo compito è la successiva decisa dispersione di tutti i movimenti sociali e politici che si accampano tra la borghesia e il proletariato rivoluzionario, esaurendone in una possente serie dialettica la funzione storica man mano che non ha più forza propulsiva, a partire dalla caduta del feudalesimo, e costruendo la fisica reale prova della necessaria unità e totalità del potere rivoluzionario dittatoriale, e quando occorre terroristico, nelle mani del partito di classe, del partito marxista e comunista.

Il terzo compito sta nella soluzione, teorica e di azione, del rapporto tra la classe proletaria rivoluzionaria e lo Stato. L’emancipazione della classe lavoratrice è impossibile entro i limiti dello Stato borghese: esso deve essere sconfitto nella guerra civile e il suo meccanismo demolito: con ciò la versione socialdemocratica del corso storico è dispersa. Dopo la vittoria rivoluzionaria e insurrezionale è giocoforza che sorga un’altra storica forma statale, la dittatura del proletariato, condotta dal partito comunista, che apre la tappa storica in cui sorge la società socialista e si va spegnendo lo Stato. Con ciò è giudicata la lotta del 1870–72 tra marxisti e libertari, chiuso il ciclo della piccolo-borghese illusione anarchica, pur dando ai libertari atto della giusta tesi che lo Stato non si conquista, ma si distrugge.

116 – Le somme tornarono

Quale il bilancio, in Russia e nel mondo internazionale, di questi tre compiti storici giganteschi?

Per primo: la disfatta dei traditori del 1914 fu definitiva nel campo teorico, e definitiva, sempre in tal campo, l’opera di fondazione della nuova Internazionale. Nella storica attuazione, per quanto riguarda la Russia, il risultato fu pieno, con la distruzione del «difesismo» che risorgeva minaccioso (Lenin – Aprile), ma, per quanto riguarda l’Internazionale, alla poderosa base critica e teorica non rispose eguale successo. Non essendo intervenuta una rivoluzione proletaria europea vittoriosa, al socialista Ottobre russo non si poté innestare il passaggio della società russa al socialismo. Ma, quel che fu peggio, non vi si innestò lo sviluppo, coerente alle gloriose basi, dei partiti comunisti in Russia e altrove. Comunque, alla data di Ottobre 1917, bilancio positivo!

Non meno positivo il bilancio per il secondo compito: in teoria, la totalitaria distruzione dei partiti «affini» resta una conquista universale, nell’azione essa è raggiunta in quel torno in Russia senza eccezioni. Internazionalmente e per le stesse dette ragioni si è regredito poi dall’altezza di Ottobre.

Il terzo compito della distruzione dell’apparato statale tradizionale nella dottrina è stato adempiuto con «Stato e rivoluzione», con la totale restaurazione del marxismo, e nell’azione il compito in Russia è stato parimenti portato fino all’estremo facendo a pezzi sia l’apparato zarista che i conati di ordinamento borghese nel governo provvisorio e nell’aborto di Stato parlamentare. Al tempo di Ottobre questo bilancio splende di completezza, ed è risultato che il futuro utilizzerà in pieno, malgrado il rovescio della rivoluzione di Europa e l’involuzione del potere russo a forme sociali di capitalismo, e statali di menzogna demo-popolare.

La rivoluzione di Ottobre ed il partito comunista di Lenin sono andati alla vittoria conducendo tutta l’azione sulla vera linea rivoluzionaria, conseguendo tutti i risultati conseguibili e nel senso favorevole allo sviluppo dell’internazionale rivoluzione proletaria e della società socialista; le sole forme possibili allora, oggi e domani.

La resistenza della forma storica capitalista nel mondo moderno ed a più forte ragione in Russia si lega ancora alla tremenda disfatta del moto della classe operaia alla prova dell’agosto 1914.

Malgrado i rovesci strategici ulteriori del proletariato mondiale, e malgrado la nuova peggiore ondata di opportunismo che ha ucciso Partito ed Internazionale di Lenin, il punto di appoggio dell’Ottobre è valido potentemente e lo resta per tutto il corso della Rivoluzione futura. Delle rivoluzioni proletarie che la storia segnerà, Ottobre è stata la prima a vincere, e a segnare la sola strada, da allora gloriosamente aperta.

117 – Isolato sforzo supremo

Se sono insegnamenti e «allenamenti» storici grandiosi del proletariato mondiale gli acquisti di Ottobre quanto a totalità unipartitica della rivoluzione, a stritolamento della guerra imperiale, a riduzione in frantumi dello Stato parlamentare, non lo è meno la vera e propria epopea attraverso la quale, in tre e più anni di paurosa guerra civile, furono schiacciati senza lasciare traccia palpabile tutti i feroci ritorni della controrivoluzione, alimentati dalle classi dominanti e dalle forze di conservazione del mondo intero e dai poteri costituiti di tutti i paesi.

Una parte enorme del potenziale rivoluzionario che possedevano i proletari russi e il loro formidabile partito fu assorbita in questo sforzo incredibile. I nemici arrivavano da tutte le direzioni, si schieravano su diecine e diecine di fronti, avevano basi e mezzi di operazione da tutti i punti non solo dell’orizzonte geografico, ma di quello politico: le multiple e multiformi puntate, venendo da classi, partiti e Stati di tutte le condizioni, bianchi, gialli, verdi, rosei, reazionari feudali, grossi capitalisti liberali, radicalume piccolo-borghese, socialistume pseudo-operaio, colpivano con un solo obiettivo: abbattere il potere bolscevico. Non sarà il caso di fare la storia della lunga lotta, cui nella sintesi dedicammo qualche cenno elencativo, ma ciò sarà provato dai riferimenti ai tempi, ai luoghi di partenza e di attacco, ai nomi delle nazionalità, dei governi, e dei generali che operarono. Cento attacchi contro una difesa sola, unicolore, e che vinse perché fu «unipartitica».

Vogliamo qui fare due rilievi. Perché, intendiamo domandare, dinanzi alla incredibile eterogeneità dell’avversario e alla diversità di origine degli interessi da cui erano stati mossi e venivan sorretti, non si pensò nemmeno un momento a metterne alcuni contro alcuni altri, a seminare tra essi la solita abile discordia, a discriminarli, a graduarli; e la rivoluzione si impegnò senza discutere nel programma semplice ed unico di ributtarli ed annientarli tutti, dallo zarista fino all’anarchico? Perché qui nessun ricorso fu enunciato alla teoria della manovra aggirante, che tanto male fece nella strategia politica frammezzo al caleidoscopio dei partiti europei, e che pose le radici dell’attuale pullulare rovinoso e fetido di equivoche strizzate d’occhio, dell’ondeggiare incessante in mostruose aperture ed ammiccamenti del marciapiede politicantesco?

E in secondo luogo vogliamo notare che, se anche non mancarono alcuni episodi di internazionalismo proletario che fermarono o ritardarono non poche delle imprese dell’intervento borghese e straniero nella socialista Russia, troppa sproporzione corse tra la parte del carico che ricadde sull’esercito interno della rivoluzione, e quello che fu l’aiuto dei proletari esteri e la lotta al grido di: giù le mani dalla Russia!, che meglio sarebbe stata al grido: giù la borghesia dal potere, fuori di Russia! Non poco questo enorme consumo di forze in una lotta feroce per la vita o per la morte, ove ad ogni atto tutta la posta era in gioco, si ripercosse sulle debolezze della strategia esterna dei partiti, sulla non facilmente spiegabile fragilità con la quale il bolscevismo, forte di una tradizione di fermezza senza pari, lasciò poi, e sia pure dopo l’immolazione di una parte notevolissima della sua grande milizia, imbastardire i cardini programmatici del marxismo e della rivoluzione, bassamente barare sul valore delle forme sociali, e finalmente imperversare la degenerazione paurosa che si svolse sulla parola insensata della costruzione del socialismo nella sola Russia.

Tutto quello che il proletariato russo e il partito russo potevano fare da soli, alla data della vittoria civile nel 1920–21, era fatto. E tutto quanto dare si poteva era stato dato. L’avvento del socialismo esigeva la scesa in campo del proletariato internazionale. A questo non fu data la consegna, che si seppe dare all’Esercito Rosso, fin dalla difficilissima e tormentata fase della sua formazione: Andare allo stesso titolo contro tutti i nemici, e tutti tentare senza discriminazioni ruffiane di trafiggere al cuore.

118 – In Russia e in Europa

Come questa doppia posizione si spiega? Imbroccata sul terreno militare, e sbaglio di manovra su quello politico ed estero? Sarebbe cosa banale. Non sono capi, dirigenti, governi e partiti che hanno nelle mani simili scelte. È la forza della storia stessa che li determina a prendere le posizioni che sorgono dai rapporti fisici della sottostruttura. In Russia la fase rivoluzionaria era matura per urgere in breve ciclo di forze nuove e disgregarsi di morte forme; fuori in Europa la situazione era falsamente rivoluzionaria e lo schieramento non fu decisivo, l’incertezza e mutevolezza di atteggiamento fu effetto e non causa della deflessione della storica curva del potenziale di classe.

Se errore vi fu e se di errore di uomini e di politici è sensato discorrere, esso non consistette nell’aver perduto autobus storici che si potevano agguantare, bensì nell’aver colto, nella lotta in Russia, la presenza della situazione suprema, nell’aver creduto in Europa di poterle sostituire l’effetto di illusionisti soggettivi abilismi, nel non aver avuto, da parte del movimento, la forza di dire che l’autobus del potere proletario in occidente non era passato e quindi era menzogna segnalare in arrivo quello dell’economia socialista in Russia. La storia per noi non la fanno gli Eroi: ma i Traditori nemmeno.

Il momento e il periodo felice fu avvertito invece in Russia dai sismografi del sottosuolo sociale. I diagrammi furono decifrati dagli occhi di un Lenin che urlò l’urgenza di ore dell’assalto di Ottobre, che vigilò dal centro di una rete di fili telegrafici la dinamica unitaria dello strozzarsi e dell’allentarsi del capestro unico intorno alla gola della rivoluzione, cui cento mani traenti davano un’unica tensione. Di un Lenin che diramava comunicazioni nello stile impellente che Trotsky attesta: a Kamenev (mandato nella primavera 1919 in Ucraina con funzioni amministrative, e accerchiato dai bianchi):
«assolutamente necessario che portiate voi stesso i soccorsi al bacino del Don, altrimenti non vi è dubbio che la catastrofe sarebbe tremenda e difficilmente rimediabile: periremo tutti quasi certamente se non riusciamo in breve tempo a ripulire il bacino (carbonifero) del Don»[110].
La storia non si fa, una volta ancora, ed è già saltuaria fortuna decifrarla: lasciamo che ogni giorno aumentino di una unità i fessi che ciò non intendono, e scussi scussi si mettano a farla loro, a colpi di solitario pollice… Anzi non se ne decifra nemmeno la via sicura, il che potrebbe concludere al fatalismo, che inorridisce l’impotente nato…: se ne stabiliscono solo alcuni legami tra date condizioni e corrispondenti sviluppi.

Non si era in un periodo analogo di fremiti storici nell’Europa centro-occidentale in quegli anni e nei successivi: si andò a tentoni, si sbandò più volte e alla fine, come l’organismo di Lenin cedette dopo aver tutto dato (il confronto è solo di valore didattico), cedette quello del partito russo, e il comunismo internazionale andò alla deriva.

119 – «Ionizzazione» della storia

Per chiarire il concetto sul divario tra i due ambienti (aree dicemmo talvolta) e i due tempi, o fasi, ci consentiremo di ricorrere ad un’immagine fisica, e diremo che nella Russia del periodo di guerra civile non si sbagliò la direzione di puntamento delle artiglierie perché nei periodi vitali per la Rivoluzione l’atmosfera storica è ionizzata.

Ogni umana molecola si orienta necessariamente, automaticamente, non deve faticare a scegliere posizioni.

La scoperta degli Ioni fece da preludio alla moderna chimica fisica infratomica, sebbene non si trattasse ancora di parti di atomi; fece da preludio alle sintesi tra i dati sperimentali meccanici, chimici ed elettrici.

Ogni molecola di un dato corpo chimico si compone di due parti che si dicono joni, unite da un legame elettrico. I due joni sono carichi di elettricità di polo opposto, e quindi si attraggono, si tengono stretti tra loro. Lo jone positivo sodio e lo jone negativo cloro (metallo e metalloide) formano, combinati, il sale comune, cloruro di sodio. Badate che non è il discorso dell’elettrone e del protone, che uniti formano il neutrone, ma qui ci serve lo stesso. La molecola di sale è, dopo quell’amplesso elettrochimico, neutra, scarica, stabile, indifferente, si mette in una posizione qualunque anche se sta in un campo elettrico potente, e non si degna di voltarsi verso nessuno.

Ma jonizzate il sale! Il che avviene in tanti casi, tra cui quello molto semplice di scioglierlo nell’acqua, e fate passare in esso una lieve corrente elettrica (ben aveva detto l’alchimista di mille anni fa corpora non agunt nisi soluta, i corpi sono attivi solo in soluzione, e la scienza è sempre alla fine vecchia e nuova); ebbene, i due joni si staccano, la loro carica polare torna in evidenza, essi non si possono più porre in un’attitudine arbitraria, secondo un asse qualunque, ma si distinguono in due soli tipi: quelli positivi e quelli negativi. Corrono in due soli opposti sensi sulla stessa linea: i primi verso l’afflusso di forza elettrica negativa, gli altri inversamente.

Applichiamo, di grazia, per un momento il nostro modellino, che vale in una più profonda indagine per tutti i corpi e per tutti i campi della natura fisica, fino al caso sensazionale dell’atmosfera terrestre in cui siamo immersi, e che lontani cataclismi astrali, o terrene umane bombe atomiche, vengono in vario modo a polarizzare, a rendere radioattiva (per quanto ora monta, è quasi lo stesso), al corso storico dell’agglomerato umano. In certi momenti, come nel 1956 e in questa sorda fase della civiltà borghese occidentale, l’ambiente storico non è jonizzato, le innumeri molecole umane, gli individui, non sono orientati in due schieramenti antagonisti. In questi periodi morti e schifosi, la molecola persona può mettersi a giacere orientata in un qualunque modo, il «campo» storico è nullo e nessuno se ne frega. È in questi tempi che l’inerte e fredda molecola, non pervasa, e inchiodata su un asse indefettibile, da una corrente imperiosa, si ricopre di una specie di incrostazione che si chiama coscienza, e si mette a blaterare che andrà quando vuole, dove vuole, eleva la incommensurabile sua nullità e fessaggine a motore, a soggetto causale di storia.

Lasciate però che, come nella Russia della grande guerra civile, le grandi forze del campo storico si destino suscitate dagli urti delle nuove forze produttive che urgono contro la rete delle vecchie forme sociali che vacillano; è allora che nella nostra immagine l’atmosfera storica, il magma sociale umano, si presentano jonizzati, e se vi fosse un contatore Geiger della rivoluzione le sue lancette prenderebbero a follemente danzare. Le linee di forza del campo si inchiodano sulle loro traiettorie, tutto è polarizzato tra due orientamenti inesorabili e antagonisti, ogni elemento del complesso sceglie il suo polo e si precipita allo scontro con quello opposto, finisce il mortifero dubbio, va a ignobilmente farsi fottere ogni doppio gioco, l’individuo-molecola-uomo corre nella sua schiera e vola lungo la sua linea di forza, dimentico finalmente di quella patologica idiozia che secoli di smarrimento gli decantarono quale libero arbitrio!

Abbiamo voluto in questo modo presentare il suggestivo fatto storico che nella lunga guerra triennale l’immensa e gloriosa rivoluzione bolscevica ebbe di contro dozzine e dozzine di nemici schieramenti, ma la storia della sua battaglia portentosa e del suo atteggiamento sovrastrutturale conosce due soli campi, due direzioni, due forze che cozzano, due sole uscite della tragedia sociale: o periremo noi, o periranno le sozze orde di controrivoluzionari senza aggettivi.

La rivoluzione comunista può solo vincere quando, polarizzata da forze nuove questa morta atmosfera che oggi ci soffoca, dispersa la bestemmia scientifica dell’indifferente vile coesistere tra poli nemici, tutto il mondo capitalista sarà jonizzato nella fase rivoluzionaria futura, e due soli scioglimenti si porranno davanti alla lotta suprema.

Non jonizza la storia il prurito di molecoline neutre fino alla sterilizzazione mortifera, né la ha solo jonizzata la nostra rivoluzione: lo fu ad esempio perfino quando il Cristo, che fu detto Dio perché non si ridusse alla parte risibile di Uomo Capo ed Eroe, ma era impersonale forza del campo storico, jonizzò il mondo delle società schiaviste antiche con l’equivalente formula: Chiunque non sarà con me, sarà contro di me.

120 – Dialogo di colossi

Un episodio di enorme eloquenza varrà a spiegare la nostra parabola odierna. Esso risale al tempo quando l’unitaria difesa rivoluzionaria doveva senza trarre il fiato gettarsi contro avanzate sorrette da tedeschi, bulgari e turchi, contro sbarchi di inglesi, americani, francesi e giapponesi, contro rivolte contadine di partiti opportunisti ed anarchici, contro nidi di forze feudali e nobiliari di stampo zarista, contro ex generali della monarchia e sanfedisti chiesastici, contro pseudo governi borghesi, socialdemocratici e socialrivoluzionari, e quando questa unitaria difesa aveva un’arma sola: l’Esercito rosso, di recente e febbrile formazione, nel cui seno tentava ad ogni passo, e spesso con successo, di farsi strada il sabotaggio e il tradimento, consumato da spie di tutti i colori politici, nel fine comune di pugnalare al cuore il governo rosso.

Ogni esercito è uno strumento tecnico, e i suoi ingranaggi ne vanno da gran distanza predisposti ed allenati. Il numerosissimo esercito rosso sorgeva dalle prime formazioni di operai armati e di guardie rosse, che avevano tratto dal solo entusiasmo rivoluzionario e di classe la loro preparazione all’arte del combattere in massa. Si stava tra la continua alternativa di disporre di elementi politicamente sicuri, ma militarmente inesperti, o di elementi politicamente almeno dubbi, ma tecnicamente adatti alla guerra e debitamente preparati educativamente e come allenamento.

L’esercito, diretto da Trotsky supremo Commissario alla Guerra, fu organizzato assumendo a farne parte, oltre ai volontari comunisti e operai, soldati e soprattutto ufficiali dei vari gradi nella professionale armata zarista.

Una posizione, indubbiamente tacciabile di infantilismo, fu presa da taluni elementi del partito: che non si dovesse combattere che con militanti dalla provata fede rivoluzionaria, e per scongiurare tradimenti non affidare reparti al comando di ufficiali dell’ex Zar.

Trotsky aveva da tempo superato tali esitazioni per diretta esperienza della complessa attività e malgrado l’indubbia conoscenza di molti casi di disfattismo. La cosa fu reiteratamente portata alla decisione di Lenin. È Trotsky che narra, al solito nel suo Stalin:
«Nel marzo 1919, alla sessione serale del Consiglio dei Commissari del Popolo, a proposito di un telegramma che annunziava il tradimento di un certo comandante dell’Armata Rossa, Lenin mi scrisse un biglietto: ‹Non sarebbe forse meglio dare un calcio a tutti gli specialisti e nominare Lascevic comandante in capo?›. Io capii che gli oppositori della mia condotta militare e in particolare Stalin avevano fatta pressione su Lenin nei giorni precedenti con particolare insistenza, e avevano fatto sorgere dei dubbi anche in lui. Scrissi sul verso della sua domanda: ‹Puerile!›. Si vede che la rabbiosa risposta aveva prodotto un’impressione: a Lenin piacevano i pensieri formulati in modo chiaro e tagliente. Il giorno dopo, con un rapporto dello Stato Maggiore in tasca, io entrai nell’ufficio di Lenin al Cremlino e gli chiesi:
‹Sapete voi quanti ufficiali zaristi abbiamo nell’Esercito?›.
‹No, io non lo so›, egli rispose, interessato.
‹Approssimativamente?›
‹Non lo so›, disse, categoricamente rifiutandosi di indovinare [non era il tipo da lascia e raddoppia, lasciateci inserire…].
‹Non meno di trentamila!›. Questa cifra lo sbalordì addirittura. ‹Ora calcolate – insistetti – la percentuale dei traditori e dei disertori fra tanti, e vedrete che non è affatto alta. Nel frattempo abbiamo potuto costituire un Esercito dal nulla. Questo Esercito aumenta e diverrà sempre più forte›.
Alcuni giorni dopo, durante un comizio di Pietrogrado, Lenin fece il bilancio dei suoi dubbi sulla questione della direzione militare: ‹Quando recentemente il compagno Trotsky mi disse che il numero degli ufficiali ammontava a diverse decine di migliaia io mi resi conto di come potevamo usare gli stessi nemici per il nostro bene; come potevamo costringere quelli che sono contrari al comunismo a costruirlo; come potevamo costruire il comunismo con i mattoni che i capitalisti avevano accumulato per usarli contro di noi… Noi non abbiamo altri mattoni›»
[111].

121 – Chiosa al «dialogato»

Questo episodio, autentico perché solo un minorato lo può prendere per uno di quelli che si inventano, non ci serve qui per rilevare che quando Lenin parla di costruzione non parla da appaltatore edile ma da dirigente di partito rivoluzionario. Qui i mattoni non sono di argilla ma di carne e ossa, e l’immagine del mattone vale quella della molecola umana. Che poi quando solo il capitalismo avrà cotto mattoni e fuso acciaio ve ne saranno abbastanza per la forma economica socialista, questo è chiaro anche in senso fisico. E in Russia troppe case sono ancora di legno. Dunque non svicoliamo.

Abbiamo riportato il vivo e vibrante dialogo per applicare al caldo dato, ancora dopo quasi quarant’anni palpitante di forza storica, e parallelo a dati analoghi che potremmo trarre dalla storia di ben più lontane guerre civili e rivoluzionarie, per applicare ad essi la nostra, non certo nuova dottrina, ma attuale maniera di presentazione. Gli ufficiali zaristi poterono efficacemente combattere e vincere per la rivoluzione, anzi determinare essi col loro apporto indispensabile la vittoria della rivoluzione, perché l’ambiente sociale era, usando il termine adottato, altamente «jonizzato», e la molecola «ufficiale dell’esercito» non poteva che polarizzarsi in uno dei due sensi, e necessariamente in quello della sconfitta dei controrivoluzionari.

Essi combatterono con pari impegno, sia avendo contro forze dalle bandiere dinastiche e feudali, sia forze di origine borghese nazionale od estera, e non si fermarono a discriminazioni politiche tra i vari reparti e fronti nemici. Nella situazione suprema in cui tutta la società si muove tra due poli fiammeggianti, poco tempo vi è per i secondari fatti delle crisi di coscienza e delle decisioni soggettive, o del «voto» che si dà consultando nel foro interiore la propria signora opinione.

Gli stessi fatti e campi potenti orientarono, jonizzarono gli atteggiamenti di Trotsky e di Lenin, la cui grandezza emerge appunto da episodi come questi. L’indirizzo nelle grandi questioni non sorge dalla mente del Capo come non lo fa da una costituzione collettiva: esso è segnato secondo le determinanti leggi della storia da cervelli che costituiscono dei «contatori» di joni, di elettroni in corsa, particolarmente validi e sensibili.

Se lontanamente fosse cosa plausibile pigliare conto di quelle versioni peggio che romanzate in cui i personaggi sono, dopo messi fuori campo e dopo morti, colati in stampi ridicoli, vedremmo i due interlocutori del nostro dialogo prendere opposte spoglie e figura di Genio l’uno di tutto il Vero ed il Bene, l’altro di tutto il Falso ed il Male. Dovremmo trangugiare una versione di questo calibro: che mentre era Lenin quello di cui ogni parola era per virtù arcana infallibile (e Trotsky stesso disse alla discussione del 1926 che ogni volta che uno di loro aveva dissentito da Lenin, la Storia gli aveva dato torto, e provò che in questi casi erasi gravemente trovato Stalin, come ben sappiamo – ma non certo nel senso scemo che in un solo cervello sia insito il mandato di emettere ad ogni svolto il Verbo), all’opposto il suo contraddittore d’allora non si consultava con lui e gli altri per il miglior successo dell’armata della Rivoluzione, ma già da molti anni mirava al suo sabotaggio; e che il potere divinatorio di Lenin lo impedì! Non potendosi tuttavia assumere in fatto che abbia avuto corso la proposta di radiare tutti gli ufficiali di origine professionale dall’esercito, e non avendo in questo trionfato sabotaggio e tradimento, una tale versione non troverebbe possibile credito in sede alcuna.

Ma possa anche, favorendo lo stato di una società amorfa e disorientata se mai ne vissero, agli antipodi della vitale e generosa ionizzazione, accreditarsi una siffatta manipolazione; che resterebbe, in una teoria della storia in cui le forze della base economica e delle classi perdessero ogni determinante effetto, e al loro posto tutto fosse lasciato al gioco di due personalità, di due Uomini e di due Nomi di cui uno abbia la virtù di tutto salvare, l’altro quella di tutto disperdere?

Ammesso dunque che di questa versione dei fatti si possa convincere il mondo, è palese che altro non resterebbe a fare, anche a chi abbia per un’intera vita studiato ed applicato il «Capitale» di Carlo Marx, che recare questo al posto dove si tiene quel rotolo di carta che assomma uno degli alti portati della società capitalistica, da quando questo funzionale oggetto ha sostituito il drappo di velluto riservato ai prenci e la pratica che il medioevale rozzo Jaeger canta nella rustica ballata risolvendo il caso mit seiner Faust, di proprio pugno.

Perché a questi livelli si scende quando si spaccia una «storia» di cui ben più rispettabili sono le favole, pensate da mimi e da istrioni al fine di far scompisciare dalle risa il pubblico di buona bocca, quello che con pari animo e midolla passa dalla sala di proiezione all’elettoralesco comizio.

122 – Il pensiero di Lenin

Fate di Lenin un automa infallibile e la vostra sciocca idea di elevare in alto sulle «forze di campo» della dinamica storica il valore motore dell’uomo-genio condurrà, per effetto di questo scempio tentativo, a rimpicciolire la storia vera del suo compito e del suo insegnamento che è la stessa cosa del suo apprendere, dell’apprendere del partito, dalla lezione degli eventi alla scala dei decenni e dei secoli.

Duramente il partito con Lenin e tutte le forze sue giunse al successo, e vi giunse in tanto, in quanto seppe tenersi sulla linea del filone dottrinario sicuro e continuo sopra i tempi e le generazioni. Tutto Lenin è nell’episodio citato in cui non detta, ma afferra con la potenza dei veri marxisti e con la diffidenza che essi hanno per il fattore opinione e volontà degli individui. È nel marzo 1919 che egli conferma nell’esercito, fino alla vittoria, gli ufficiali zaristi. Eppure nel novembre 1918 egli parla per la «giornata dell’ufficiale rosso», e fa un parallelo tra il vecchio e il nuovo esercito, quello odiato, questo amato dalle masse. E dice (in verità si tratta di un resoconto di giornale):
«I vecchi quadri dell’esercito erano composti in prevalenza dei figli della borghesia, viziati e corrotti, che non avevano nulla in comune col soldato semplice. Perciò oggi, creando il nuovo esercito, dobbiamo reclutare i comandanti solo nelle file del popolo. Soltanto gli ufficiali rossi avranno prestigio tra i soldati e sapranno consolidare il socialismo nel nostro esercito. Un esercito di questo tipo sarà invincibile»[112].

Queste sono idee diverse da quelle messe a fuoco dopo il discorso con Trotsky, ma solo un filisteo troverebbe che constatare questo sia sminuire Lenin ed il suo eccezionale apporto. Ben vero quello ora citato non è suo testuale linguaggio, e basta confrontarlo coi rudi testi circa l’uso in genere di specialisti non compagni, e con l’indubbiamente originale dizione citata da Trotsky.

Al disopra degli uomini grandi e piccoli, e contro l’insulsa teoria che il partito e i suoi capi possono e devono in ogni situazione escogitare risorse per mutarla e smuoverla, noi deduciamo tutto dai gradi del potenziale storico, di cui tuttavia possono indagarsi le leggi di mutamento, e poniamo sotto il naso di ogni presuntuoso attore storico senza scrittura il contatore Geiger: Vedi le lancette ferme? Risparmiati la pena di muovere… la coda.

123 – Fronte nemico senza fratture

Più del dettaglio di cronaca della guerra civile russa ci è dunque sembrato importante questo rilievo: che non si pensò un attimo di fare leva negli interstizi tra l’uno e l’altro esercito della controrivoluzione, ma si lottò contro tutti contendendo palmo a palmo il terreno, con una guerra che non aveva su nessun settore prospettive di armistizi, ma solo la fine di una delle due armate schiere nel nulla. Non si sognò neppure di «sbloccare» la massa paurosa ed incombente di tanti aggressori. E torniamo a vedere in questo elemento storico un’altra grandiosa conquista della rivoluzione russa, conquista che resta come arma e monito per il futuro, nonostante il fatto che la totalitaria vittoria di allora sui campi della guerra di classe non abbia potuto condurre al trionfo finale del comunismo, che appunto non può giungere se sono in armi, in parti del mondo borghese, eserciti indenni.

Questa lezione dei fatti scrive nella nostra dottrina l’altro teorema che «la guerra delle classi non ha pacifismi», non ha coesistenze di eserciti in armi e nemmeno e tanto meno di Stati politici nazionali. E questa lezione sorge dalla fase più grandiosa della rivoluzione dei bolscevichi, turpemente fatta svicolare da chi ne rubò le insegne in giochetti di truffaldina destrezza.

E qui dovremo ancora una volta far parlare Lenin, nella sua lettera del maggio 1918 agli operai di Pietrogrado, «Sulla carestia»:
«O gli operai coscienti, gli operai di avanguardia vinceranno, raggruppando intorno a sé la massa dei contadini poveri, istituendo un ordine rigorosissimo, un potere severo ed inesorabile, una vera dittatura del proletariato, e costringeranno i kulak a sottomettersi, stabilendo una giusta distribuzione del pane e del combustibile su scala nazionale – [mettiamo qui tra parentesi un brano eloquente che segue più oltre, ma calza: «L’operaio, divenuto guida avanzata dei contadini poveri, non è diventato un santo. Egli ha condotto avanti il popolo, ma anch’egli si è contagiato delle malattie proprie della piccola borghesia in disgregazione… La classe operaia non può di colpo disfarsi delle debolezze e dei vizi ereditati dalla società degli sfruttatori e dei vampiri…»] – oppure la borghesia, con l’aiuto dei kulak, con l’appoggio indiretto di uomini senza carattere e confusionari (anarchici e socialisti-rivoluzionari di sinistra) spazzerà via il potere dei Soviet e porterà avanti un Kornilov russo-tedesco o russo-giapponese… Una delle due. Non c’è via di mezzo. Il paese è ridotto agli estremi. Chiunque rifletta alla vita politica non può non accorgersi che i cadetti, i socialisti-rivoluzionari di destra e i menscevichi cercano di trovare un accordo per stabilire se un Kornilov russo-tedesco sia «preferibile» a un russo-giapponese, se un Kornilov coronato sia migliore e più sicuro per schiacciare la rivoluzione di un Kornilov repubblicano»[113].

È qui proprio Lenin che allinea davanti ai lavoratori, per incitarli alla lotta mortale, l’unità del multicolore fronte nemico, senza fare distinzione alcuna, senza mostrare altra uscita che la distruzione di tutti o la morte della Rivoluzione.

124 – L’appello contro i nemici

Una sintesi della situazione di guerra deve anche trarsi da Lenin, alla data agosto 1918, in altro appello agli operai per la lotta decisiva. Una volta ancora nessun posto è fatto alla speranza che le ostilità tuttora in atto tra i vari gruppi nemici nel piano mondiale possano rendere meno duro e totale lo sforzo della Russia sovietica. Nessuna inclinazione dalla parte del blocco austro-tedesco o di quello anglo-francese, nessuna maggiore dichiarata guerra di sterminio ai partiti interni di destra o di sinistra.

«La Repubblica Sovietica è circondata di nemici. Ma essa vincerà i suoi nemici esterni ed interni. Tra le masse operaie già si nota una ripresa, che è per noi garanzia di vittoria. Già si vede come in Europa Occidentale si siano infittite le scintille e le esplosioni dell’incendio rivoluzionario [mai si distoglie da questo nodo di tutto lo sviluppo lo sguardo del vivente Lenin, grande proprio per questo magnifico errore] che ci danno la certezza di una non lontana vittoria della rivoluzione mondiale.»
«Oggi, per la Repubblica Socialista Sovietica di Russia, il nemico esterno è l’imperialismo anglo-francese e nippo-americano. Questo nemico sta avanzando oggi in Russia, saccheggia le nostre terre, si è impadronito di Arcangelo, e da Vladivostok (se si presta fede ai giornali francesi) è giunto a Nikolsk-Ussurisk. Questo nemico ha assoldato i generali e gli ufficiali del corpo cecoslovacco [prigionieri di guerra liberati e avviati via Siberia ed Estremo Oriente]. E marcia contro la pacifica Russia con la stessa ferocia e compiendo gli stessi atti di rapina compiuti dai tedeschi in febbraio, con l’unica differenza che gli anglo-giapponesi hanno bisogno non soltanto di conquistare e saccheggiare il suolo russo, ma anche di abbattere il potere sovietico per 'ristabilire il fronte', per attrarre cioè nuovamente la Russia nella guerra imperialistica (o, più semplicemente, di rapina) dell’Inghilterra contro la Germania.»
«I capitalisti anglo-giapponesi vogliono restaurare in Russia il potere dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti per poter spartire con loro il bottino arraffato durante la guerra, per asservire gli operai e i contadini russi al capitale anglo-francese, per estorcere loro gli interessi dei molti miliardi dati in prestito, per spegnere l’incendio della rivoluzione socialista che è iniziata in Russia e che minaccia sempre più [udite] di dilagare in tutto il mondo».
«Le belve dell’imperialismo anglo-giapponese non hanno forze sufficienti per occupare e asservire la Russia. Queste forze fanno difetto anche alla nostra vicina, la Germania, come ha provato l’‹esperienza› dell’Ucraina. Gli anglo-giapponesi contavano di coglierci alla sprovvista. Non vi sono riusciti. Gli operai di Pietrogrado, poi quelli di Mosca e dopo di tutta la regione centrale industriale, si sollevano con sempre maggiore unanimità, con sempre maggiore tenacia, sempre più in massa, con abnegazione crescente. In ciò è il pegno della nostra vittoria.»
«I predoni… contano sul loro alleato interno: grandi proprietari fondiari, capitalisti, kulak… Così hanno agito e continuano ad agire i cadetti, i socialisti-rivoluzionari di destra e i menscevichi: basterà ricordare le loro imprese ‹cecoslovacche›… Così agiscono i socialisti-rivoluzionari di sinistra, che nella loro estrema stoltezza e mancanza di carattere hanno aiutato con la rivolta di Mosca le guardie bianche a Jaroslavl, i cecoslovacchi e i bianchi a Kazan»[114].

Questo scorcio, in cui non ancora si configurano le avanzate di Kolčak, di Wrangel, di Denikin, di Judenič, dà l’idea dell’enorme posta storica in gioco. Quella del compatto fronte che va da zaristi ad anarchici, da kaiseristi tedeschi a democratici francesi e inglesi, è una sola: fermare la rivoluzione in Europa. I due gruppi di stati nemici nella tremenda guerra ancora non decisa si rendono solidali nello sforzo contro il comunismo avanzante. Non si lotta per Mosca o per la Russia, ma per il mondo intiero, e la solidarietà di classe va oltre la guerra nazionale.

Con la stessa potenza dialettica con cui la costruzione poderosa di Lenin snocciolò i grani della serie storica delle classi e dei partiti, dai feudalisti agli esserre di sinistra, in un lungo corso dal 1900 al 1918, così li rimise allora e per sempre insieme nella guerra guerreggiata con la Rivoluzione mondiale. Disonorarono questa tradizione immensa quelli che, nei tristi anni che seguirono, tornarono a raccattare discriminazioni tra gli opportunismi e tra gli imperialismi, che tutti gridarono pari odio e morte al bolscevismo e a Lui.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XIV)

125 – Una guerra, venti nemici

Come non si poteva impostare la discussione sull’economia russa senza l’esame del processo rivoluzionario, e in esso delle prospettive e dei programmi che in quella lunga lotta su fronti mutevoli per il potere furono avanzati appunto circa la formazione di quella struttura avvenire, ragione ed obiettivo della lotta medesima, così non si può chiudere questa parte storico-politica per passare a quella storico-economica (in quanto separabili) senza considerare nella prima la serie tremenda delle guerre civili che la coronarono, e fino a che non si chiusero ovunque con la vittoria non consentirono che tutto lo sforzo si portasse sulla struttura sociale.

Non è possibile qui scrivere di questa, che si dovrebbe chiamare epopea come quella che in tempo meno moderno segnò l’urto tra la civiltà europea e quella araba, una storica narrazione in ordine cronologico, ma è necessario ricordarne la sintesi allo scopo di valutare il peso di questo periodo ardente nel bilancio dello sforzo della rivoluzione, che forse chi giudica da oggi, e non fa parte di quelli della vecchia generazione che visse da lungi e da presso l’ansia di quelle alternative paurose, non mette nella giusta proporzione con l’evento divenuto più famoso e riferito alla fase acuta, all’acme della lotta nella capitale, alle giornate di Ottobre, la cui importanza sarebbe stata cancellata dalla storia di oggi se uno solo dei tentativi innumerevoli di capovolgere Ottobre armi alla mano avesse raggiunto il successo,

Divideremo la serie in fronti seguendo ciascuno dall’inizio alla fine, e appena accennando per ognuno di essi l’origine delle forze controrivoluzionarie, in gruppi politici e quindi sociali interni, e in invii di forze di intervento da Stati esteri; l’inizio, le fasi e alternanze principali e la fine, che ovunque fu segnata con la stessa parola, annientamento, liquidazione, rastrellamento, e una o due volte soltanto con le parole pace, evacuazione, fuga. Dieci, venti guerre: la rivoluzione doveva vincerle tutte; alla controrivoluzione bastava vincerne una: non vinse. Questa colossale lezione della storia resta al proletariato mondiale, quale che sia stata la vicenda che fece finire, ma non per trauma, la Rivoluzione Socialista in Russia.

In questo tragico ciclo le prime date si debbono scrivere subito dopo l’Ottobre 1917, l’ultima alla fine del 1922! Il momento massimo in cui gli attacchi specialmente da nord-ovest e da sud sembravano aver ragione di Pietrogrado e di Mosca, può considerarsi l’autunno del 1919. Due anni di disperata difesa, due e più anni di riconquista dei territori alla rivoluzione.

126 – Fronte tedesco-ucraino

Sappiamo che tra le forze con cui si dichiara in stato di guerra il III Congresso panrusso dei Soviet, il 31 gennaio 1918, vi è il governo della Rada ucraina, che si allea coi tedeschi durante le già note fasi dell’armistizio e della pace di Brest Litovsk, continuazione diretta della guerra coi tedeschi. Sappiamo le successive avanzate di questi, fino all’accettazione delle durissime condizioni ultimative il 3 marzo 1918. Se si segue il confine tra Germania e Russia quale era avanti la prima guerra mondiale, andando dal Baltico al Mar Nero, vi erano prima tre province russe: Estonia, Lettonia, Lituania, quindi la parte russa della Polonia con Varsavia, e dietro questa la Russia Bianca o Bielorussia, quindi l’Ucraina, regione sud-ovest della Russia che toccava allora la Polonia austriaca e il resto dell’impero asburgico, e quindi la Romania. Dopo Brest la Germania incorpora Estonia, Lettonia, Lituania, tutta la Polonia, e viene a confinare con la Russia Bianca, che ha per capitale Minsk, 700 km. a sud di Pietrogrado, e poi con l’Ucraina, che ha per capitale Kiev, altri 300 km. circa più a sud. La Bielorussia non ha grande importanza, con una diecina di milioni di abitanti oggi, contro 40 della ricca Ucraina, che ha oltre Kiev le grandi città di Charkov, Odessa, Dniepropetrovsk ecc. Il fronte fino all’Ucraina fu dalla Germania rispettato, in quanto attaccare sarebbe stato rompere il trattato di pace con prevedibile grave impressione sul proletariato tedesco già in fermento. Ma il governo ucraino della Rada divenne praticamente un vassallo di Berlino; e una vera guerra cominciò in tutta l’Ucraina tra le grandi forze bolsceviche e quelle governative dei bianchi e social-opportunisti. Ben presto il potere dei Soviet si sarebbe esteso a tutta l’Ucraina, se questa non fosse stata occupata dagli «alleati» germanici che sostenevano il governo di Kiev. Sotto questa forma truppe tedesche scacciarono i bolscevichi tra l’aprile e il maggio del 1918 da Charkov, Odessa, Rostov sul Don e Taganrog, porto alla foce del Don sul Mare di Azov, e dalla Crimea. Il 29 aprile i tedeschi deposero la Rada e nominarono hetman o dittatore il generale bianco Skoropadskyj. Era una forma di invasione della Russia rossa bolscevica da parte dei tedeschi, malgrado la pace formale. Tuttavia, questo fronte si dissolse dopo l’armistizio generale in Europa nel dicembre 1918, e l’armata tedesca si ritirò entro le sue frontiere antiche, lasciando automaticamente il terreno alle forze bolsceviche, e chiudendo questa prima fase di lotta nel sud-ovest.

127 – Fronte cosacco e caucasico

Durante il 1918 gli aiuti tedeschi raggiungono le armate bianche che tra il Don e il Volga erano state riunite da vari generali zaristi cui già il III Congresso della riferita data dichiarò guerra: Alekseev nel sud-est e fino a nord del Caucaso, Kaledin sul Don, Kornilov nel vicino Kuban. Con essi era anche il bianco Mamontov, e vari reparti di cavalleria cosacca, già nerbo dell’esercito imperiale. Nell’agosto 1918 Krasnov era a soli 15 km dal centro importante di Zarizin sul Volga, chiave di tutto il sud-est russo (poi Stalingrado), ma le forze rosse di Vorošilov il 20 agosto contrattaccarono liberando la tante volte disputata città. Di nuovo accerchiata, questa viene liberata il 16 e il 17 ottobre dalla «Divisione di acciaio» chiamata dal Caucaso.

Le forze degli imperi centrali agivano anche a sud del Caucaso con reparti turchi e tedeschi. L’Europa confina alla catena del Caucaso che va dal Mar Nero al Mar Caspio, geograficamente, ma politicamente la Russia aveva a sud tre regioni, Georgia con l’alta Tiflis e Batum sul Mar Nero, Azerbaigian con Bakù sul Caspio, e Armenia tra le due con Erivan. Il 15 aprile 1918 i turchi presero Batum e si diffusero in tutta la Transcaucasia, importantissima ai fini di guerra per i giacimenti petroliferi. Caduti gli imperi centrali, la lotta su questo fronte seguirà contro gli inglesi in fase ulteriore.

128 – Interventi dell’intesa

Mentre la rivoluzione duramente lotta da sud e da ovest con i tedeschi, i loro accaniti nemici nell’apertissima guerra concentricamente a loro volta intervengono sperando mirare al cuore della rivoluzione. La prima mossa spetta al Giappone, che sbarca reparti a Vladivostok il 5 aprile del 1918, unendosi ai bianchi della regione del litorale e fondando un governo dell’Estremo Oriente che, se era il più lontano da Mosca, fu anche l’ultimo ad essere cacciato dal territorio sovietico; e solo il 14 novembre del 1922, quattro anni e mezzo dopo, avendo i giapponesi evacuata Vladivostok, la Repubblica dell’Estremo Oriente, creata dal Giappone come Stato-tampone, diviene parte della Russia sovietica.

Si formava intanto ad opera della flotta britannica il fronte nord: gli inglesi sbarcano a Murmansk l’1 luglio del 1918 e ad Arcangelo, più a nord-est, nell’Artico, l’1 agosto, fondando coi bianchi locali un Governo del Nord.

Il 15 agosto anche truppe americane vengono a sbarcare nell’estrema Siberia dando man forte agli allora alleati giapponesi. Gli Stati dell’Intesa: Inghilterra, Giappone, Stati Uniti hanno le stessissime intenzioni dei loro nemici in conflitto guerreggiato, tedeschi, austriaci, turchi e bulgari: far crollare il potere dei bolscevichi e dei lavoratori rivoluzionari.

Poteva la Francia giacobina mancare a simile nobile convegno? Essa vi si unirà non troppo gloriosamente appena la fifa degli ancora validi eserciti di Guglielmone, che solo la frana di Brest Litovsk ha potuto scompaginare, le sarà passata. Il 17 dicembre navi francesi sbarcano truppe ad Odessa e si inoltrano nell’interno. Si tratta di prendere la consegna dalle divisioni boches che in quello stesso mese precipitosamente si ritiravano, come abbiamo visto. Chi ha vissuto i tempi di queste solenne lezioni della storia non potrebbe mai averli dimenticati: e come mai si poteva da esseri ragionevoli piagnucolare ancora sulla borghesia francese quando Hitler nel 1940 le rovinò addosso come Guglielmo nel 1914, piagnucolare come aveva fatto il Mussolini dell’autunno di quel 1914, cui tutti i fessi gridavano: lascerete sgozzare la Francia? – quello stesso Mussolini che poi la sgozzò nel 1940 con poca spesa, quando alle prime mosse delle divisioni corazzate naziste Marianna si affrettò a riporre nel fodero la spada di Vercingetorige, di Carnot e di Joffre? Di qui e di là, gente non cuciva col Filo del Tempo.

Il 21 marzo le truppe francesi sono a Cherson, ma nelle loro vene è il sangue proletario degli Eguali e dei Comunardi; esse rifiutano l’ignobile arte del boia; a bordo degli incrociatori i marinai, con Marty, si sono ammutinati; il 2 di aprile 1919 Odessa viene evacuata dai francesi e le navi riprendono il mare. Episodio che bene si lega alla serie possente di rivoluzioni di lavoratori che segnano di tappe rosse la storia di Francia in date non dimenticate; uno dei pochi generosi apporti che noi dall’Ovest abbiamo saputo dare alla disperata difesa dei compagni, dei fratelli di Russia.

Particolarmente impegnati nel tentato jugulamento della rivoluzione sono gli inglesi col truculento liberatore dell’umanità Winston Churchill. Non gli basta il fronte dell’Artico, bloccato dalle distanze e dal clima. Il Soviet di Bakù sul Caspio dominato dai felloni menscevichi ed esserre - gli stessi partiti che il 25 maggio avevano chiamato in Georgia i tedeschi e consegnato loro la città di Poti – a lieve maggioranza il 25 luglio del 1918 chiama in aiuto gli inglesi contro i bolscevichi. La storia si ripete: Verdun vile città di confettieri… all’inimico aprì le porte. Il 3 agosto gli inglesi, muovendo dalla Persia, arrivano al comando del generale Dunsterville ed occupano il territorio dell’Azerbaigian. Questo impeccabile gentleman non si contenta di fare da predone di oleodotti, ma da autentico boia fa fucilare 26 compagni commissari bolscevichi, tra cui Šaumjan, Presidente del Soviet, con l’aiuto dei socialrivoluzionari. Il 13 settembre si chiude questa gloriosa azione col rientro in Persia delle truppe di Dunsterville.

Altra azione inglese fu la rivolta di Jaroslavl, città a 200 km a nord di Mosca, capitanata dal bianco Savinkov e istigata dall’agente inglese Lockhart. Scoppiata il 6 luglio 1918, già il 21 era stata soffocata dai bolscevichi. Le minacce dal nord su Mosca non destarono mai un vero allarme e il fronte di Arcangelo fu nel seguito ritirato e reimbarcato dagli inglesi.

129 – Est. Cecoslovacchi e Kolčak

Come nell’anno 1918 la sconfitta militare pose fine ai tentativi delle forze tedesche all’ovest e al sud, così ebbero fine i tentativi di intervento diretto con forze regolari straniere: le potenze vincitrici non cessarono di fare piani contro la Russia sovietica, ed anzi svilupparono azioni assai più minacciose in tutto il corso del 1919, ma si portarono anch’esse in pieno sul terreno della guerra civile, organizzando ed armando, sempre col mezzo di generali zaristi, forze «indigene» della popolazione russa avversa al regime bolscevico, illudendosi di far leva su resistenze sociali alla rivoluzione, che certo non mancavano soprattutto tra le classi medie delle campagne. Ne sorsero una serie di aspri conflitti, cui si aggiunsero tuttavia talune vere guerre di Stati, come con la Finlandia e poi la Polonia. Il 12 maggio 1918 una vittoria sui rossi del generale Mannerheim troncava le speranze per una repubblica sovietica in Finlandia: con diretti aiuti dell’Intesa la guerra sul fronte di Carelia durò senza decisivi successi da una delle parti fino al principio del 1920. Anche qui la storia dettò lezioni eloquenti: la guerra di «liberazione nazionale» della Finlandia da Mosca fu messa in piedi dai tedeschi, che la appoggiarono ugualmente quando al posto dei Románov venne Lenin: senza soluzione di continuità al 1918 tale funzione venne pari pari ereditata dagli inglesi ed alleati e dalla travolgente e grossolana simpatia banale degli americani, cicisbei a sangue freddo nel mondo di Madonna Libertà. Quante lezioni, ma come perdute; e soprattutto quando le stesse dozzinali simpatie avallarono lo sconcio amplesso 1941 tra Russia ed America supermilitariste!

Un episodio a sé stante fu la rivolta dei cecoslovacchi prigionieri di guerra dello zar in una zona del medio Volga. Questi ex soldati erano di origine sociale e politica piccolo-borghese e in parte operaia: riformisti e radicali, irredentisti dall’Austria. Essi ebbero dalla rivoluzione la libertà e si pensò avviarli per la Siberia, quando serpeggiò nelle loro file la ribellione ai bolscevichi. Il movimento cominciò nel maggio del 1918, e fu in tutti i modi sostenuto da agenti francesi. Muniti di armi abbondanti gli ex prigionieri prendono Novo-Nikolaievsk (oggi Pugacevsk) sul Volga, il 26 maggio, Celiabinsk, tra il Volga e gli Urali, il 27, Penza, di qua dal fiume, circa 400 chilometri ad est di Mosca, il 29, Omsk in Siberia oltre gli Urali il 7 giugno; Samara (oggi Kuibiscev), sul fiume, l’8, Ufa, ad est sulla Kama, il 5 luglio, Simbirsk (oggi Ulianovsk) sul Volga, il 22 luglio, Ekaterinburg negli Urali (oggi Sverdlovsk) il 25, e il nodo fluviale di Kazan da cui minacciano Nizni Novgorod (oggi Gorkj) il 27.

Ovunque e specie all’est si uniscono forze dei bianchi, degli esserre e perfino operai delle industrie di Votkinsk e Igievsk (città lungo la Kama) che li seguono. Si formano due governi: quello di Samara che si fa dire «della Assemblea Costituente», e quello di Omsk tenuto dai bianchi e per essi dal generale Kolčak, rimasto famoso. Si è così formato un poderoso fronte orientale, e l’Armata rossa si organizza per attaccarlo: una prima offensiva conduce alla riconquista di Kazan e si cominciano a rastrellare i resti dei cecoslovacchi lungo il Volga. Ma Kolčak ritiratosi oltre gli Urali forma un nuovo esercito, dopo che nel dicembre 1918 con un colpo di Stato ha preso da solo il potere rovesciando gli esserre e i menscevichi. Egli muove contro Perm (oggi Molotov) deciso a riprendere la via di Mosca. La città cade il 2 gennaio 1919, il 6 marzo Kolčak è oltre gli Urali e il 15 prende Ufa. Il 28 aprile 1919 l’Armata rossa, che è stata riorganizzata, riprende la controffensiva con successo. Il 26 maggio il Consiglio militare degli Alleati di Parigi offre al capo controrivoluzionario riconoscimento ed appoggi, ma il giorno seguente i rossi lo scacciano da Sterlitamsk, presso Perm. Il 4 giugno Kolčak aderisce alle proposte di Parigi. Ma nel corso di questi mesi egli è stato ributtato oltre gli Urali e non riguadagnerà più terreno. Mosca, che è stata nel frattempo minacciata dal sud, mentre Pietrogrado lo era dal nord-ovest e sud-ovest, non teme più la minaccia da oriente. Il 14 novembre cadono Jamburg ed Omsk, capitale di Kolčak in Siberia, e il 4 dicembre il compagno Ivan Smirnov, uno dei tanti dirigenti di partito mostratisi ottimi generali, può telegrafare: Kolčak ha perduto la sua armata. In gennaio 1920 anche questo energico rastrellamento è compiuto; il capo stesso preso e passato per le armi.

130 – Fronte meridionale: Denikin

Non appena finita la guerra europea, come dicemmo, gli Alleati si prefiggono di prendere il posto dei tedeschi che evacuano l’Ucraina, e rimettere in piedi il fronte sud e sud-ovest. Il 24 novembre del 1918 adunano una conferenza a Jassy, in Romania, dei russi bianchi, ossia zaristi, pienamente sostenuti da Churchill: il generale Denikin viene proclamato dittatore della Russia. Come sappiamo questi aveva forze nel Caucaso settentrionale fin dal principio del 1918: il 26 si proclama comandante in capo di tutte le forze russe della Russia meridionale; dunque tedeschi, francesi ed inglesi non ve ne sono più: bensì i loro rifornimenti di denaro, armi e mezzi di ogni genere, e meglio quelli degli anglo-francesi. La grande offensiva, pericolosissima per i bolscevichi, dal sud, si sferra nel maggio del 1919 e la base principale è nel Kuban, tra il Mar di Azov e il Caucaso.

Le tappe dell’avanzata e della riconquista della tormentatissima Ucraina sono travolgenti. Il 15 giugno Denikin prende Kupiansk, 100 km. ad est di Charkov, poi Charkov stessa. Con ulteriore spinta il 4 settembre prende Kiev, la capitale, e il 22 è a Kursk, sulla direttrice Charkov-Mosca, da cui dista solo 500 km. Si intende che alle spalle tutto è suo: Crimea, Don, bacino del Donetz. La grave minaccia preme su Orel, a soli 250 km. da Mosca, che è presa il 13 ottobre. Il Comitato centrale bolscevico prende misure di emergenza, e finalmente il 21 ottobre l’Armata Rossa schierata tra Orel e Voronetz dette battaglia e l’esercito di Denikin riportò una grave sconfitta. Il 27 novembre Kursk, punto vitale, era ripreso dai rossi.

Disorganizzata la potente armata di Denikin nella fine del 1919 le forze rivoluzionarie si danno alla difficile opera di risistemare il terreno liberato e irto di macerie e di insidie. Prima di parlare di ricostruzione di tutto ciò che è stato devastato ed è indispensabile alla vita della popolazione, già è un compito tremendo la bonifica dell’ambiente umano denso di spie, di sabotatori e di nemici politici. La guerra civile differisce da quella statale per il fatto che non può nel territorio occupato mettere tutto a ferro e fuoco, far bottino e distruggere ulteriormente gli impianti, ma anche per il fatto che deve con drastiche misure neutralizzare la parte dei civili che sono dissimulati partigiani delle forze controrivoluzionarie.

Durante questa dura bisogna, in cui la sicurezza alle spalle delle truppe avanzanti non può essere assicurata da misure di intimidazione indiscriminata, ma bisogna discriminare socialmente tra i compagni e i nemici di classe, Denikin poté ridursi molto più a sud e riorganizzare grazie ai solidi aiuti stranieri la sua base del Caucaso settentrionale. Nel marzo egli tentò di muovere ancora verso il nord, ma questa volta l’Armata Rossa lo fermò assai più a sud. Arrestatolo rientrò a Rostov sul basso Don e il 27 marzo 1920 prese Novorossijsk, al di là dello stretto di Kersc (per cui il Mar d’Azov comunica col Mar Nero) sulla costa. Questa posizione comanda tutta la Ciscaucausia, vecchio baluardo dei Bianchi, e permise la definitiva liquidazione delle forze di essi, chiudendo questa grave fase del conflitto armato.

131 – Fronte occidentale: Judenič

Questo altro gravissimo tentativo che mirava a Pietrogrado prima che a Mosca e che nel tempo fu del tutto concomitante con la guerra di Denikin, fu altra diretta ispirazione degli inglesi e di Churchill. La direzione wilsoniana della Lega delle Nazioni aveva consacrata la «libertà» dei popoli di Finlandia ed Estonia che dovevano servire da basi di attacco ai bolscevichi. Intanto si organizzava in terreno russo l’armata di Judenič. Tutti i tentativi furono fatti per saldare le operazioni di queste forze prezzolate dallo straniero capitalista con quelle nazionali di Mannerheim, ma la Finlandia non voleva fare operazioni di invasione e si fermò sulla sua storica frontiera della Carelia, vicinissima alla base navale di Kronstadt alla foce della Neva e a Pietrogrado. Dal posto di frontiera di Terioki, dove qualche delegato al Comintern nel giugno 1920 non fu dai finlandesi lasciato passare, non correvano che 25 km. per Pietrogrado, ove si inaugurava il II Congresso.

Quanto all’Estonia, avendo la Russia di allora rinunziato ad incorporarla, sebbene durante tutta la lotta di Judenič gli fosse servita di base logistica, il 2 febbraio 1920, dopo un armistizio, firmava la pace con Mosca.

L’impresa di Judenič si inizia colla prima estate del 1919 ed egli muove da nord-ovest minacciando direttamente Pietrogrado; a cui nel maggio, ossia quando Denikin muove dalle basi del Mar Nero, è già molto vicino. Stalin fu allora mandato a Pietrogrado, dove Zinoviev dirigeva partito e Soviet, e con decisive misure formazioni militari e guardie rosse liberarono la città, mentre i marinai rossi liberavano la fortezza di Krasnaja Gorka caduta nelle mani dei nemici. Judenič indietreggiò, ma il 25 entrava a Pskov, 250 chilometri a sud-est, organizzandovi la sua base di operazione. Il 13 giugno avvenne il passo di Churchill per smuovere i finlandesi.

In ottobre Judenič sferra il suo maggiore e più pericoloso attacco, e il 16 prende Gatcina. Il 20–21 ha luogo con l’intervento diretto di Trotsky la battaglia decisiva sull’altura di Pulkovo, poco ad est di Pietrogrado: per Judenič è il crollo finale, e la rossa seconda capitale è libera dal pericolo, nello stesso giorno in cui tra Orel e Voronetz, come abbiamo detto nel precedente paragrafo, le forze di Denikin venivano schiacciate. Il momento di più alto rischio era superato, sui tre fronti più importanti della lunga guerra civile la controrivoluzione era sgominata.

132 – Fronte del sud: Wrangel

Tuttavia ancora un’ondata doveva venire ad abbattersi sulla cinta ormai allentata da eroici colpi di ariete che aveva tentato di stringersi attorno alle due metropoli, cervello e cuore della grande Rivoluzione.

Una nuova armata bianca si è formata in aprile 1920 ed è affidata al barone Wrangel, altra creatura anglo-francese, che avanza dalla Crimea. Le forze nemiche sono ancora imponenti, e dopo aver appena respirato per la lotta con Denikin e Judenič l’esercito rosso deve ancora spiegarsi su due fronti: Wrangel a sud, e all’occidente, come vedremo, la Polonia.

Il bacino carbonifero del Donetz, la regione del Don e del Kuban erano stati di nuovo perduti dai rivoluzionari troppo impegnati all’ovest, ma nel novembre del 1920 è possibile affrontare in forze Wrangel: in una battaglia sull’istmo di Perekop che unisce al continente la penisola di Crimea egli subisce un tremendo rovescio e fugge per salvare la vita: per la metà di novembre tutta la Crimea, tante volte perduta e ripresa, è di nuovo ripulita dalle bande dei bianchi.

133 – La guerra russo-polacca

Questo episodio storico ebbe una portata incalcolabile e sembrò rimettere in movimento tutte le forze proletarie di Europa: credemmo davvero che al levarsi delle bandiere rosse sulla progredita, industriale, occidentale Varsavia tutto il sottosuolo nell’ovest avrebbe tremato e la faccia della vecchia Europa sarebbe tutta cambiata, come al principio del XIX secolo quando la incendiarono le baionette della grande rivoluzione borghese.

Nella sistemazione data dagli americani alla nuova Europa dell’utopia wilsoniana la città bilingue di Vilno era rimasta in disputa tra Lituania e Polonia, con un lungo conflitto finito con la sopraffazione polacca a dispetto degli stessi ordini ginevrini. I polacchi fin dall’autunno del 1919 sconfinarono nella Russia Bianca e ne occuparono la capitale Minsk, con alcune parti della Volinia e della Polonia: Sostarono, al tempo della minacciosa avanzata di Denikin in tutta l’Ucraina, perché la vittoria dei bianchi zaristi avrebbe potuto avversare le pretese polacche di espansione e perfino di indipendenza. Battuto in fine del 1919 Denikin definitivamente, le forze polacche, sostenute con ogni mezzo dalla Francia e dal suo emissario generale Weygand, si mossero occupando tra gennaio e marzo 1920 le città di Dvinsk, Latgalia e Mosyr, che sono tra Russia Bianca e Ucraina, tra Minsk e Kiev. Le forze lituane appoggiano l’invasione, che il 26 aprile è in pieno sviluppo, condotta dalle truppe del governo di Petljura, sotto il comando del «liberatore della Polonia» Piłsudski. Qui scrive Trotsky:
«Per quanto una tale guerra fosse imposta all’armata rossa, lo scopo del governo sovietico non era solo di parare l’attacco, ma di portare la Rivoluzione in Polonia e in tal modo aprire con la forza la porta per il Comunismo in Europa»[115].
Ecco il linguaggio di uno Stato ed un esercito rivoluzionari: quando essi diverranno imperialisti, allora il miserabile loro linguaggio si impasterà di difesa dall’aggressione alla Patria, di pacifismo, di coesistenza – la loro azione, di vile tradimento.

Il 30 aprile Trotsky così scrisse al Comitato Centrale:
«Precisamente perché è una lotta di vita o di morte essa avrà un carattere estremamente intenso ed aspro».
Ed ammonì contro la speranza ultraottimistica di una rivoluzione in Polonia (i soliti falsi sinistri sostenevano ancora una volta che non si dovesse combattere in campo aperto esercito contro esercito, ma contare sulla forza notevole dei proletari e comunisti di Polonia).
«Che la guerra termini con una rivoluzione dei lavoratori in Polonia, non vi può essere dubbio, ma non vi è nessuna base per credere che la guerra cominci con una simile rivoluzione»[116].

Trotsky ha dimostrato di non essere stato favorevole, per la debolezza delle forze militari sovietiche, alla diretta «marcia su Varsavia». Ma Lenin era fautore di questa idea, egli sentiva che la rivoluzione di Europa non poteva essere ulteriormente aspettata, e, come sempre, che senza di essa tutto sarebbe stato perduto; quell’idea allora inebriò noi tutti che seguivamo ansiosi la distanza dalla proletaria Varsavia, che tante prove prima e dopo ha dato di eroismo di classe, autentica Parigi dell’Est, delle avanguardie della Rivoluzione mondiale.

L’8 maggio i polacchi conquistano di forza Kiev, la capitale ucraina, e i bolscevichi rispondono col loro sforzo più potente. Il nemico indietreggia sotto il contrattacco di tutto il fronte: tra l’entusiasmo del mondo proletario si seguono le notizie incalzanti: il 13 giugno la rossa Kiev è ancora una volta nostra; l’11 luglio si è a Minsk; il 14 a Vilno: i polacchi sono fuggiti fino al fiume Bug. Il 1° agosto Tuchačevskij è a Brest: Varsavia è meno di 100 chilometri ad ovest; l’11 l’Armata Rossa è schierata davanti alla città.

Purtroppo questa marcia trionfale fu duramente fermata, con un colpo terribile all’entusiasmo rivoluzionario. Le discussioni sul disastro durano ancora adesso. L’ala sinistra russa si era proiettata verso sud-ovest in direzione di Leopoli (Lemberg, Lvov) al comando di Vorošilov e Budënnyj. S. S. Kamenev (da non confondere col più noto Lev), comandante in capo, dispose che l’armata di cavalleria si lanciasse verso nord per prendere di fianco i difensori di Varsavia, puntando su Lublino, che è tra Lvov e Varsavia. Questo ordine era dovuto a Trotsky, presidente del Comitato rivoluzionario di guerra, mentre Stalin che era presso Vorošilov sembra sostenesse l’avanzata su Lvov, da cui si giunse a dieci chilometri; e, dopo, la conversione. La manovra non riuscì, e il 16 agosto i polacchi, davanti a Varsavia, su consiglio di Weygand, attaccarono Tuchačevskij e lo batterono. Il 17 agosto, spezzato il fronte, non restò al comando russo che ordinare la generale ritirata abbandonando il territorio polacco. La grande speranza era perduta, il 21 settembre si iniziarono le trattative per la pace avendo i franco-polacchi malgrado il clamoroso successo considerata vana l’idea di invadere il territorio sovietico. La pace di Riga fu firmata il 20 ottobre 1920. Da allora quel fronte, quel confine tormentato, non doveva più muoversi fino al settembre 1939, quando 19 anni dopo Hitler e Stalin si divisero la Polonia schiacciata dai tedeschi. Oggi la Polonia è Stato satellite dell’imperialismo militare di Mosca: Leopoli è restata nelle frontiere russe vere e proprie, con molte altre città polacche come Brest e Grodno; sono russe le finno-tedesche Estonia, Lettonia e Lituania; Königsberg si chiama Kaliningrad. Questa frontiera camminerà molto ancora fino a che le grandi capitali non si leveranno vittoriose in piedi, come Varsavia alla fine della guerra tentò di fare soccombendo con i suoi combattenti operai sotto le rovine delle case spianate dai tedeschi una per una, mentre dalle antiche posizioni di Tuchačevskij il vittorioso generalissimo Stalin era fermo a guardare. Come Berlino tentò a sua volta, e un giorno ancora lontano ritenterà.

Nei duri amari dibattiti del decimo congresso del partito comunista russo nel marzo del 1921 si farà il bilancio di quel cruciale rovescio: Lenin ascolterà pallido le reciproche accuse. Forse non pensava egli alla questione del successore, che abbacina la corrente opinione, ma guardava il miraggio immenso della rivoluzione mondiale che, allontanandosi da noi di un gran tratto, ci imponeva una lunga e dura attesa, ma una non diversa certezza.

134 – La pace rossa

La situazione della lotta armata andò per tal modo stabilizzandosi, dopo la serie di fasi convulse di cui crediamo aver presentato le principali. Molti e molti altri furono gli episodi prima che sparissero tutte le minacce al conquistato potere: si dovrebbe dire degli anarchici di Machno che ancora nel difficile agosto 1920 insidiavano strade e ferrovie ucraine, delle ribellioni di Semënov e Ungern in Oriente, di guardie bianche finlandesi in Carelia, di quella tremenda dei marinai di Kronstadt ove indubbiamente comunisti estremisti ed anarchici erano coinvolti, e che fu vinta nel cinquantenario della Comune di Parigi il 18 marzo 1921: la storia non ha tutti i materiali per giudicare un tale episodio.

Crediamo estraneo al nostro tema tutto il succedersi dei dibattiti sulle responsabilità delle crisi che segnarono le tappe della lunga guerra interna. Le confutazioni di Leone Trotsky alle incredibili narrazioni della «Storia» staliniana ufficiale sono di valore decisivo: esse sono perfino superflue agli occhi di chi ha qualche volta constatato l’entusiasmo dei soldati rossi, non tanto per la persona impareggiabile quanto per l’opera luminosa del grande capo guerriero della Rivoluzione. La sua risposta finale a Stalin schiaccia il vincitore sotto la dignità e l’altezza del vinto.

Quasi mai, dice il grande organizzatore della vittoria, che più volte vedemmo davanti i grandi quadri geografici luminosi segnare i punti delle vittorie e delle disfatte, con costante razionale e ordinata visione delle misure da adottare, con freddezza di tecnico e non con pose di condottiero, quasi mai (egli dice serenamente) io fui sui fronti delle sicure vittorie studiate e attuate riparando le frane e i vuoti e gli sbagli, se non i tradimenti (di cui si volle incredibilmente caricare la sua partita), perché il mio impegno era sui punti di minore resistenza, di probabile prossima frattura, nella semplice, come egli dice, nostra strategia per linee interne, che imponeva di correre ai tratti deboli del cerchio, che arrivò ad avere un raggio di soli duecento chilometri. Solo a Pulkovo egli narra di avere direttamente comandato la vittoria su Judenič[117].

La grandezza della vittoria bolscevica nella guerra civile è tanto alta e il significato di questo processo vulcanico della guerra di classe tanto vasto, che solo un folle ed una banda di disfattisti può compiacersi, per luride ragioni di bottega, di descrivere l’eroica falange della difesa rossa come un verminaio di agenti del nemico.

A noi interessa non l’eroe cui tributare la corona, ma l’illustrazione della vastità del compito, che consistette nel difendere colle armi il potere raggiunto dopo una lunga campagna rivoluzionaria, colle tappe dal 1905 al 1917.

Fino al 1921 e 1922, stabilizzato il territorio della dittatura comunista fino ai limiti di quello che era sotto l’impero dello zar, si susseguono le fondazioni delle repubbliche comuniste unite e federate alla Russia; l’elenco sarebbe interminabile: Georgia e Daghestan nella fine del 1921, Crimea in quell’ottobre, Buchara nel settembre del 1920; ecc. Lungamente tormentata dalle lotte che abbiamo esposte fu la Transcaucasia, particolarmente esposta alle insidie del capitalismo mondiale. Nel febbraio del 1921 Stalin fece occupare la Georgia dalle forze armate, mentre il partito desiderava averla per spontanea adesione, ma fu tra le ultime operazioni territoriali di tipo militare. Il 12 marzo 1922 era proclamata la repubblica Transcaucasica (oggi Armenia, Azerbaigian e Georgia).

La guerra civile era finita e cominciava l’epoca della politica economica, amministrativa, di cui diremo nella nostra seconda parte. Non con questo sarà però chiuso l’argomento politico. La lotta tra diverse correnti, che non potevano non rispondere a forze sociali effettive, continuerà a lungo nel partito. Essa non darà quasi mai luogo ad atti di forza armata dei dissidenti, bensì a repressioni dal centro così vaste che ebbero il carattere di vero sterminio di movimenti nemici del centro statale. L’esposizione dei fatti e dei programmi economici, riportandoci nel pieno del problema storico di cui abbiamo ammannito i dati formidabili, non ci permetterà di tacere di questa lotta accanita e di non dedicare nell’esposizione della struttura economico-sociale alcuni capitoli allo scontro con le opposizioni, al terrore nel partito e nello Stato, e alle ferocissime purghe che travolsero tanti dei protagonisti delle lunghe vicende che avevan condotto il partito rivoluzionario al potere, con la sua luminosa conquista e la gloriosa sua difesa. Lunga lotta in cui dietro questi nomi, di perseguitati non tanto coi plotoni di esecuzione quanto con una impalcatura di infamia, indiscutibilmente si trovò un moto di masse del proletariato russo, non in grado di sollevare il peso soffocante sotto cui, rimasta sola in un mondo nemico, la rivoluzione comunista di Russia, in un processo originale, ma leggibile appieno dalla dottrina marxista, sanguinosamente se pure senza una nuova vera guerra civile, ha per la gloria dell’eterno nemico dovuto piegare.

135 – Sempre il dettato di Lenin

Abbiamo sempre illustrato il nostro sviluppo con la dimostrazione che esso si adagia sulla prospettiva russa di Lenin. Ciò è un fatto che non si deduce dal «Lenin ha sempre ragione» dei filistei, perché i lettori sanno che sulla prospettiva europea, alla scala tattica degli anni che cominciano dal 1919, dissentiamo su punti essenziali dalla previsione di Lenin. Quando egli vedeva vicina la rivoluzione occidentale che non venne, non sbagliava. Non sono questi errori, ma meriti rivoluzionari. Ma quando non vide la minaccia dell’opportunismo che avrebbe rialzato la testa, egli sbagliò: perché non lo considerò inseparabile dagli sviluppi di certe manovre tattiche acconsentite.

Nell’economia dello sviluppo russo e nella politica del partito egli non sbagliò, questo è importante, perché nulla ha a che fare con personali infallibilità buone per i gonzi, al fine vitale di fissare la dialettica integrità di tutta una costruzione dottrinale storica.

Ecco come impostò la questione del trattamento agli avversari opportunisti entro la Russia e durante la lotta suprema (luglio 1919):
«Affare nostro è porre apertamente la questione: Che cosa è meglio? Acciuffare e mettere in prigione e talvolta anche fucilare centinaia di traditori tra i cadetti, i senza partito, i menscevichi, i socialisti rivoluzionari, che ‹agiscono› (chi con le armi in pugno, chi con un complotto, chi facendo propaganda contro la mobilitazione, come i tipografi e i ferrovieri menscevichi, ecc.) contro il potere dei Soviet, cioè per Denikin, o lasciare arrivare le cose a un punto tale da permettere a Kolčak e a Denikin di sterminare, fucilare, fustigare a morte decine di migliaia di operai e contadini? La scelta non è difficile»[118].

La Rivoluzione non discriminò in Russia, e fu vittoriosa.

Discriminò tra i nemici fuori di Russia, consentendo un metodo che oggi è giunto fino alla peggiore ignominia, e non è stata solo vinta, ma disonorata ed insozzata.

Dopo la vittoria su Kolčak nell’agosto del 1919 – e con ciò sospendiamo le citazioni – Lenin scrive:
«O dittatura (cioè potere di ferro) dei proprietari fondiari e dei capitalisti – o dittatura della classe operaia.
Non ce via dimezzo. Sognano invano una via dimezzo i figli di papà, gli intellettuali, quei signorini che hanno studiato male su cattivi libri. In nessuna parte del mondo c’è, né può esserci, via di mezzo. O dittatura della borghesia (dissimulata sotto le frasi pompose dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi sul potere del popolo, sulla costituente, sulle libertà, ecc.) o dittatura del proletariato. Chi non l’ha imparato da tutta la storia del secolo decimonono è un perfetto idiota; ma in Russia abbiamo visto tutti come i menscevichi e i socialisti rivoluzionari, sotto Kerenski e sotto Kolčak, sognavano questa via di mezzo«
[119].

Una generazione fa noi con Lenin abbiamo sognato la rivoluzione fuori di Russia. Cosa oggi sognate voi, giovani proletari del 1956? Quale via di mezzo? Quali cattivi libri studiate male; e da perfetti idioti?

Parte seconda

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XV)

Sviluppo dei rapporti di produzione dopo la rivoluzione bolscevica

1 – Politica ed economia

Dal consolidamento del potere statale del partito bolscevico in Russia sono trascorsi poco meno di quarant’anni, ed essi stanno davanti a noi. Dobbiamo chiarire che le due parti di questo nostro lavoro non stanno in contrapposizione, ma sono stabilite a solo scopo di facilità espositiva. Con la nostra prima ricostruzione siamo andati dalla prima guerra mondiale e dalla caduta del feudale impero degli zar fino alla seconda rivoluzione del 1917 e al suo consolidamento di fronte ai tentativi di rovesciamento, che si pone al 1922. Sono otto tremendi anni durante i quali le armi non cessano, da molte e molte bande, di venire scaricate. In questo primo periodo portiamo in primo piano lo studio dei rapporti di forza tra le classi della società russa ed il problema della conquista e della difesa del potere politico: non perciò separiamo la questione politica da quella economica, inseparabili in linea generale nella nostra concezione; abbiamo anzi cercato di dare ad ogni tratto ragione dei rapporti produttivi e delle forme di proprietà russe in quel periodo di incandescente palingenesi. Nel periodo in cui ora facciamo ingresso, e che in sostanza considereremo iniziato con l’Ottobre 1917, solo in apparenza la detenzione del potere centrale dello Stato non subisce mutamenti, in quanto gli stessi non prendono mai la forma di aperta guerra civile, e la continuità del centro dirigente ed esecutivo inteso come ingranaggio amministrativo e militare non viene fatta vacillare e cadere da episodi di conflitti interni e dalle immani vicende della seconda guerra mondiale: meccanicamente parlando, lo stesso apparato statale e di partito traversa senza capovolgersi queste tremende prove della storia, il che non cessa di essere argomento di primo piano per i fautori politici di questo apparato, per i suoi nemici militari dell’Occidente capitalista, e per quei suoi nemici rivoluzionari tra i quali siamo noi, anche se pochi e poco conosciuti.

Ma, come abbiamo detto, al fondo delle cose l’evoluzione è ben altra da quella che è data da un potere stabile e dalla sua evolvente attività amministrativa e legislativa, con le connesse variazioni dell’economia sociale. Come nella prima parte il tema economico non passò in secondo piano, così non passerà in questa nell’ombra quello politico, quanto a gioco delle classi nella complessa società russa, quanto a gioco degli Stati nel mondo internazionale.

La questione del rapporto tra lotta politica per il potere e svolgimento dei rapporti di produzione è la questione centrale del marxismo. Da tutte le parti, e forse più gravemente da quella di non pochi gruppetti che pure affermano di condannare, come degenerato nell’opportunismo, il movimento che oggi fa capo alla centrale statale di Russia, questa questione viene ogni giorno più confusa: e ad ogni passo viene a noi fatto di rimetterla in chiaro. Le forme economiche si mutano in un processo ininterrotto nella storia delle società umane, ma questo processo si attua solo come effetto di periodi convulsi di lotta, in cui lo scontro politico ed armato di classi avverse spezza le barriere al partorirsi e all’ingrandire accelerato della forma nuova. È il periodo della lotta per il potere e del suo scioglimento a mezzo di una dittatura della forza di domani su quella di ieri, o della dittatura opposta, fino ad una successiva crisi, che ancora una volta nella fine della parte precedente dichiarammo con parole di Lenin. O questa alternativa, o la conservazione di forme antiche, nella loro essenza magnificata da un lato, maledetta dall’altro.

2 – Lezioni senza posa obliate

La tesi, che è quella su «Stato e rivoluzione», si impose come fulgore abbagliante nel tempo di quella grande lotta e le fu dato nella dottrina e nella battaglia il nome di Lenin. Per un tratto tutti stettero o per essa o contro essa: non dubitarono che fosse vera e lottarono perché la storia la vedesse attuata; ovvero lottarono come dannati perché ciò non fosse, ma della potenza della tesi stettero sicuri, e tremarono che giunto fosse il momento in cui la dittatura «di Lenin» fosse imposta su tutto il mondo moderno. Passò quel periodo vitale e ardente, e dopo un breve intervallo ritornerà.

Ma in questo vile e stagnante interludio, da ogni lato, virulenti o appestati, Errore e Menzogna risalgono.

Un economista nostrano, Luigi D’Amato, ha pubblicato un volume di studi «Per la critica dell’economia marxista»: di essi fa parte un saggio finale sulla «Teoria marxista dello Stato» e sulla pretesa evoluzione di essa. La teoria è riferita correttamente:
«Sia Marx che Engels avevano fissato in alcuni punti precisi la concezione comunista dello Stato, secondo la quale lo Stato borghese è un organo del dominio di classe; e il proletariato deve conquistare il potere per servirsene come forza repressiva per schiacciare la borghesia. Segue a questa lotta una fase di transizione dalla società capitalista a quella comunista, che non può essere altro che la dittatura del proletariato. Nella fase ultima, quando le classi saranno sparite, sparirà anche lo Stato».

Fin qui, sebbene noi non citiamo che da un articolo di recensione, dobbiamo dire che l’ideologo avversario ha ben riferita la nostra dottrina.

Perché dunque in una trattazione ben condotta deve seguire un enorme strafalcione storico, a parte le teoriche preferenze e parteggiamenti?

«La grande revisione di questa teoria è ormai compiuta. La teoria di Marx e di Engels è stata cancellata, prima da Lenin, poi da Stalin. Lo Stato sarà conservato anche nel sistema comunista, fino a quando non verrà liquidato l’accerchiamento capitalistico. In conclusione il paradiso comunista, dello Stato senza classi, dello Stato non-Stato, della libertà insomma, è ancora molto lontano, oggi come trentotto anni fa, quando la grande e cruenta esperienza ebbe il suo tragico inizio».

Non ci preme il frasario sbagliato sul paradiso, la libertà, l’esperienza, e altri termini fuori elenco, che non sappiamo se addebitare all’autore. Il falso sta nella parte data a Lenin, e anche a Stalin. Il revisionismo socialista dell’anteguerra aveva preteso di aver cancellata la teoria di Marx ed Engels sulla dittatura, e Lenin la rimise poderosamente in piedi; e mai né con gli scritti né con la pratica rinunziò minimamente alla tesi della sparizione dello Stato, con la stessa decisione con cui, a conoscenza dello stesso avversario di oggi, sostenne ed applicò quella della dittatura.

Quanto a Stalin e ai suoi, mai hanno ammesso di avere mutata la teoria generale dello Stato. Essi hanno dichiarato ed operato che lo Stato di Mosca deve nel periodo attuale, sia pure di 38 anni, rimanere in effetto e potenza massimi: se la ragione fosse lo scopo di sfondare l’accerchiamento capitalistico non sarebbero certo dei revisori di Lenin e Marx. Lo sono, ma in quanto: a) dichiarano che in Russia non occorre più la dittatura, pretendendo che non vi siano da contrastare influenze sociali della forza capitalistica; b) dichiarano che lo scontro con l’accerchiamento darà luogo alla pacifica coesistenza; c) ammettono con questo, se pur nolenti, che il loro Stato è permanente, proprio per la ragione che ne dà la teoria Marx-Engels-Lenin, in quanto non si va verso la società senza classi ma verso la società capitalista.

3 – Altra confusione a «sinistra»

Ma non basta che al disordine e allo smarrimento contribuiscano d’accordo economisti capitalisti e rinnegati stalinisti: vi sono indirizzi che si dicono avversari degli uni e degli altri e che pure si atteggiano a rivedere quella che, per il loro spirito piccolo-borghese, è l’esperienza di Russia e di Lenin. Per costoro l’impiego dello Stato ha fatto cilecca, non perché il ciclo che perfino il D’Amato ha saputo riscrivere sia stato spezzato, ma perché il ciclo fino alla sparizione dello Stato sarebbe illusorio, improponibile. Per costoro non è vero che divisione di classi vuol dire formazione di potere di Stato, ma il contrario; ossia che potere di Stato vuol dire formazione di divisione della società in classi; perché Stato vuol dire burocrazia, burocrazia vorrebbe dire privilegio, concussione, arricchimento, sfruttamento del povero. L’esatto rovescio. Marx scoprì che lo Stato è mortale, questi suoi pretesi fautori scoprono che lo Stato è immortale. E allora trovano ricetta non nuova: la lotta per liberarsi dallo Stato non è lotta politica per il potere centrale: è lotta per iniettare tra le cellule della presente economia quella di una economia futura, guardandosi dal fondare Stati e dittature, guardandosi dal fondare partiti, perché partito e politica vogliono dire fame di potere, fame di ricchezza, dirigenza del lavoro altrui e quindi sfruttamento degli sforzi altrui, e nulla conta quanto si deduce dalla storia dei modi di produzione, delle forze e risorse incessantemente nuove della produzione: tutto conta quanto si deduce dalla cattiveria della umana natura…[120]. Roba come si vede più che fradicia, e roba presentata con aria di trionfo da questi che sul serio si credono innovatori, sostitutori di teorie sorpassate, scopritori e duci di verità nuove. Questi fanno del binomio economia-politica non un dialettico rapporto ma un indefinibile pasticcio, e per la chiara impostazione del dato centrale sui capisaldi Classe-Stato-Rivoluzione fanno forse più male che i tradizionali nemici di Marx, Engels, Lenin, difensori dell’eternità dello Stato giuridico e politico, cui tanto spago sta dando lo stalinismo, e tanto flato.

Basta di costoro, ché altra è per ora la nostra via. Ci occuperemo di essi ancora, e localizzeremo le loro fonti, tra le quali distingueremo le nominabili dalle innominabili: e possono le prime essere quelle che solo in questo breve dopoguerra hanno col filone marxista avuto, sia pure senza successo e senza ulteriore speranza di averne, il primo contatto.

4 – Le due pretese anime di Lenin

Abbiamo dunque in tutto quel che precede detto sempre di quelle che furono le previsioni dei bolscevichi e di Lenin, oltre che sulla lotta per il potere nello Stato, anche sulle trasformazioni nelle forme economiche antiche che sarebbero seguite. Abbiamo lungo tutto questo cammino sempre sostenuto l’idea centrale che mentre nel metodo politico rivoluzionario le vedute erano assolutamente radicali, verso una inesorabile dittatura di classe ed un potere monopolizzato dal partito proletario comunista; invece le rivendicazioni economiche erano straordinariamente modeste, e per il più largo campo contenute nella trasformazione di istituti e forme feudalistiche in forme moderne analoghe a quelle dei paesi occidentali usciti da tempo dalle rivoluzioni liberali borghesi.

Con formula un poco esteriore ma al solito di buona utilità espositiva si può dire che passando dall’agone politico a quello economico passiamo da un Lenin estremista, che senza posa spinge il partito più avanti e a mete più complete, audaci e risolute, che spesso ad altri paion follie, ad un altro Lenin pieno di misura e moderazione, che raccomanda di andare adagio e non sostituire alla realtà sociale generose e verbali illusioni. La chiave di questo preteso enigma e sdoppiamento di «anime» in Lenin è quanto mai semplice e facile a cogliere: il socialismo in economia ha la sua base nello sviluppo dell’integrale moderno mondo capitalista ed imperialista, e non può svolgersi rapidamente che dopo il risultato «politico» di una possente dittatura internazionale della classe lavoratrice, del partito comunista mondiale.

In partenza nella mente di Lenin, come in quella di tutti i marxisti rivoluzionari di ogni paese, era ben fermo che in caso di mancata vittoria della classe operaia in occidente la via della rivoluzione di Russia era segnata: politicamente poteva andare oltre tutti i traguardi e travolgere senza esitare tutte le successive forme statali borghesi, scavalcando di un balzo poderoso i limiti di ogni costituzionalismo e di ogni democrazia parlamentare, applicando in tutta la sua estensione la dittatura di classe e di partito, gettando fuori dalle garanzie legali, sulle rovine di ogni menzogna di eguaglianza di diritto popolare, fino gli ultimi partiti borghesi e piccolo-borghesi, nessuno escluso.

Ove a questo appello grandioso non avesse il proletariato di Occidente risposto, di ben altra misura sarebbe stato il risultato della rivoluzione politica, quanto a forme sociali: i suoi passi, pure risultando grandiosi, si dovevano limitare allo sradicamento di forme antiche: feudali, patriarcali, semibarbare nell’immenso territorio, e ad una parallela azione nel contiguo Oriente, alla liquidazione di economie chiuse, locali, naturali, alla formazione di una circolazione economica interna nazionale, e di una partecipazione a quella internazionale più profonda di quella del tempo zarista col suo peculiare ma moderno imperialismo, all’ulteriore sviluppo delle forme produttive moderne nell’industria, nei trasporti. Come partiti politici e come gruppi sociali doveva la dittatura comunista fieramente punire i capitalisti e borghesi locali, e lavorare per prima scagliare contro quelli esteri i lavoratori rivoluzionari di Occidente, forgiando per essi armi teoriche e fisiche: ma i conti con la forma capitalista della grande produzione in Russia non si sarebbero potuti fare da pari a pari che dopo la Rivoluzione Europea; mentre difficilissima per il suo dialettico contenuto sarebbe stata la lotta contro l’interna piccola produzione e la meschina primitiva insidiosa macchina distributiva, lotta che era rovinoso non vincere, ma che sarebbe stata vinta alla maggior gloria della forma capitalista. Un uomo può essere grande fino al punto di capire questo, e Lenin lo fu: un uomo tanto grande da forzare questo passaggio non esiste: tanto meno potevano scoprirlo gli omuncoli che, liquidati i suoi migliori discepoli e compagni di lotta, presero il posto suo. E forse il senso dell’opera dell’uomo nella storia è di così ridotta portata che, se Lenin fosse vissuto, avrebbe parlato ed agito come costoro: morto, è rimasto nostro, e della Rivoluzione Mondiale.

5 – Programmi e decreti

Fino a questo punto abbiamo potuto discutere la prospettiva economica e sociale del partito di Lenin sulla base dei suoi programmi, delle tesi, delle decisioni dei congressi, di quelle proposte nelle adunate operaie, nei congressi dei Soviet. Da questo punto in poi abbiamo a disposizione doppio ordine di materiali: i programmi che il partito seguita ad elaborare, e i provvedimenti che esso fa attuare dagli organi dello Stato, le leggi, i decreti che vengono emessi. Si intende bene che tale materiale integra quello più importante dei dati effettivi dell’economia russa, dei mutamenti che nel suo quadro si verificano dopo la rivoluzione ed in rapporto alla politica del nuovo potere così come, anche prima, di somma importanza, a partire dagli studi degli stessi marxisti russi, sono stati i caratteri della società russa degli ultimi decenni e dei suoi dati di produzione, lavoro e consumo.

Ogni manifestazione del partito contiene inseparabili, ma in diversa misura, due elementi: quello descrittivo e scientifico su cui strettamente le possibilità immediate e concrete vanno innestate, e quello di agitazione che necessariamente deve andare più oltre, e porre maggiori rivendicazioni anche se di più lontano conseguimento. Quando dal programma di partito passiamo al decreto di Stato, nemmeno questo carattere di agitazione, che ha nelle fasi storiche attive e fertili primaria importanza, può totalmente sparire: in certi casi il rapporto può perfino invertirsi, ed essere meno radicale una tesi di economia teorica che internamente il partito, a sua guida, elabora, di un decreto che fa proclamare e che, oltre ad assicurare provvedimenti pratici, deve anche parlare alle masse, svegliarle e addestrarle a compiti di fasi ulteriori.

Senza di questo, mentre conserverebbe validità quanto dedurremo dagli effettivi accadimenti economici nei loro dati – quando se ne disponga – anche quantitativi, non sarebbe bene utilizzato tutto il materiale legislativo della nuova repubblica rivoluzionaria, non solo quando si tratta di dichiarazioni di principi e di diritti, ma anche quando si tratta di effettivi provvedimenti tecnici. E nulla sarebbe bene inteso se non si sapesse dare il giusto peso a questo elemento di agitazione rivoluzionaria, non diciamo solo legittimo ma necessario e inevitabile, inomissibile, tanto più che si parla al mondo intiero e al proletariato mondiale. Non si tratta di dare a questo dei modelli da imitare, ché anzi non devesi sottacere che le misure pratiche sono assolutamente spurie e ibride a petto di quelle che prenderebbe una repubblica proletaria tedesca o inglese. Ma si tratta che passo per passo, mentre si deve dire che la forma che si realizza è per avventura una forma del tutto borghese, si deve ricordare che se la si ammette e favorisce è solo per l’esigenza del cammino generale del mondo tutto, e quindi della Russia stessa in esso, verso l’integrale programma socialista, post-capitalista. Questo deve soprattutto applicarsi con vigorosa dialettica ai materiali della politica rivoluzionaria degli anni primi, degli anni con Lenin, nei quali la guerra guerreggiata col mondo capitalista era in piedi, sia perché i suoi emissari e agenti in Russia impugnavano tuttora le armi, sia perché i comunisti fuori di Russia miravano ancora al cuore del nemico, e potevano essere alla vigilia di avere nelle mani il potere totale, su macchine economiche della potenza ad esempio di quella germanica, ove i decreti del potere socialista, allo stesso modo, avrebbero preceduto di tempi di mezzo secolo quelli di Russia, e avrebbero dato al seriarsi di questi stessi un anticipo di un quarto di secolo almeno rispetto a quelli di una Russia isolata, preteso modello, berteggiato «paradiso».

Al tempo infame di oggi, della diplomazia, delle Nazioni Unite in cui un Lenin vivo mai sarebbe entrato, della coesistenza pacifica, della non aggressione, e perfino della emulazione internazionale, il linguaggio degli Stati è dai due punti cardinali lo stesso, scialbo, sordo e vile nella stessa misura, e anche la retorica che mai non manca a fianco di questi testi d’ufficio fa risuonare le stesse note, gli stessi ipocriti motivi; la forza di classe in atto o in potenza non è mai invocata, sì i valori popolari, progressivi, democratici, e del più scemo umanitarismo, lacrimato come dai coccodrilli da ambo i saggiatori sinistri di bombe acca.

6 – Piani della vigilia

Possiamo ora riferirci a due scritti di Lenin anteriori ad Ottobre e che fanno larga parte ad un programma economico. Essi precedono la fase della lotta armata per il potere ma sono interessanti perché descrivono la difficile situazione economica della Russia per effetto della guerra e delle rovine lasciate dal regime zarista, nonché dalla insipienza di quello borghese, e mostrano la possibilità di misure positive, che sono in fondo le stesse che i bolscevichi propugneranno dopo l’insurrezione vittoriosa e la salita al potere. Fino a questo punto Lenin tratteggia ancora la possibilità di una pacifica andata al potere dei Soviet, che erano ancora in maggioranza non bolscevichi: mentre solo dal principio di Ottobre 1917 egli porta tutta la sua opera sull’incitamento al partito a prendere senza indugio le armi per rovesciare, come ben sappiamo, il governo di Kerenski.

Il secondo scritto, datato 26–27 settembre / 9–10 ottobre 1917 ha per titolo: «I compiti della Rivoluzione», è più breve, ed ha pochi cenni economici, che sono assai più ampi nel precedente, intitolato: «La catastrofe imminente e come lottare contro di essa», datato 10–14 settembre / 23–27 settembre[121].

Da notare che, benché anche il secondo nel tempo, per ovvi motivi di agitazione e di polemica, parli dell’eventualità di una rivoluzione incruenta, è della stessa data il testo da noi largamente chiosato che dimostra come per i marxisti l’insurrezione è un’arte.

In «La catastrofe imminente», redatta da Lenin nel suo nascondiglio finlandese, si esamina dapprima la carestia dei generi di consumo e l’alta disoccupazione. Si dimostra che sono possibili misure utili per ridurle, ma la sola ragione per cui il governo «socialista» non le applica è il non recar danno ad interessi di proprietari terrieri e di capitalisti. Le misure che indica Lenin sono puramente: Controllo, vigilanza, censimento economico «da parte dello Stato». Egli condanna «l’inerzia totale» dello Stato rispetto alla vita economica: chiede in questa fase solo un indirizzo di «intervento» dello Stato centrale nell’economia. I provvedimenti pratici che non si vogliono applicare sono quelli senz'altro che tutti i governi borghesi belligeranti hanno applicato per fronteggiare pericoli analoghi nella crisi di guerra. Per le banche si propone la nazionalizzazione, o anche meno, la loro fusione in una Banca unica sotto il controllo dello Stato. Lenin spiega nettamente che tale misura non ha alcun contenuto socialista, perché consente solo allo Stato di sapere come va il flusso economico dei capitali e dei valori «senza togliere un kopeko a nessun proprietario» o depositante. Con questo controllo lo Stato può regolamentare la vita economica per evitare la crisi finale: America e Germania lo fanno egregiamente nell’interesse dei borghesi: i partiti russi della sedicente democrazia rivoluzionaria non osano né vorrebbero farlo nell’interesse delle classi povere.

Secondo punto: nazionalizzazione dei sindacati capitalisti. Si tratta dei trust, dei cartelli industriali, prodotti del moderno imperialismo ben noti in Russia anche sotto lo zar. Come altrove essi controllano produzione e consumo in date branche: zucchero, carbone, petrolio. Si tratta di sostituire a questi monopoli di gruppi privati il monopolio di Stato su detti rami. Tale misura non è ancora la statizzazione dell’azienda industriale (che nemmeno è socialismo) ma solo il trapasso dal gruppo privato allo Stato del meccanismo che è già in grado di regolare dal centro la produzione e il mercato di quelle merci: ciò farà lo Stato, imponendolo agli industriali, senza espropriarli con ciò dei capitali, né dei profitti.

Altro e terzo punto: abolizione del segreto commerciale. Senza di questo non è possibile alcun controllo di Stato e nessuna indagine sulle fughe di profitti e soprapprofitti. Altra misura odierna di tutti gli Stati borghesi con le varie polizie tributarie e indagini fiscali.

Quarto: la cartellizzazione forzata. Questo vuol dire che lo Stato, nelle branche dove non vi è monopolio e cartello che formi i prezzi di mercato, obbliga i padroni privati, tali restando, a sindacarsi tra loro. È citato l’esempio della Germania.

Tutte queste misure, minime e immediate, in un paese borghese con arretrati feudali, tendono ad affrettare il passaggio dal capitalismo di aziende autonome e concorrenziali a quello di monopoli di produzione e prezzi di imperio. Nei paesi borghesi odierni, e che si pretendono come l’Italia arretrati, di che si occupa l’imbecillità dei formali «leninisti»? Strillare perché siano aboliti i monopoli e titillati i «liberi» piccoli industriali e commercianti, e perfino i medi! Sunt lacrimae rerum!

Regolamentazione del consumo, ultimo punto. La Russia ha fin qui dal tempo zarista avuto come gli altri paesi in guerra la tessera del pane. Ma in tutto il campo del consumo i ricchi non ricevono dal governo alcun disturbo. Questo aveva in quel tempo elevato il prezzo di calmiere del grano e quindi del pane, il che vanamente gli stessi socialisti riformisti avevano deprecato: l’influenza di borghesi agrari e commercianti urbani sullo Stato lo aveva consentito al traditore Kerenski; qui l’economia di Lenin è spiccia: mettere il premier in prigione.

7 – Misure economiche immediate

Delineato il pericolo della bancarotta dello Stato e dell’inflazione monetaria, in questo schema di programma si propone null’altro che un’imposta sul reddito dei capitali fortemente progressiva, che esiste fin dallo zar ma diverrebbe non fittizia solo grazie ad un controllo proletario, al posto del controllo burocratico-reazionario proprio degli Stati esteri.

La parte polemica e politica di questo scritto già è stata da noi invocata. Non si tratta di proporre il socialismo, che non è possibile, ma di provare che i menscevichi e gli esserre non osano queste semplici misure pratiche perché temono di «marciare verso il socialismo».

Qui Lenin tratteggia quella dottrina, cui ricorrerà in tutta coerenza nell’opuscolo del 1921 «Sull’imposta in Natura» che dette luogo alla cosiddetta NEP e che dovrà formare nostro ampio argomento.

In guerra tutti gli Stati si sono evoluti verso un capitalismo monopolistico di Stato che i Kautsky chiamarono in Germania «socialismo di guerra». Non sarà altro, decenni dopo, il «socialismo» nazionale di Hitler. Questo apparato serve alla guerra e agli interessi del capitale. Ma questo stesso apparato, se lo Stato cadesse nelle mani della classe proletaria, servirebbe a lei.

Questi passi di Lenin mostrano come egli tracci il cammino delle forme successive, che la guerra imperialista aveva scatenato. Capitalismo privato. Capitalismo monopolista. Capitalismo monopolista di Stato. Qui siamo nell’«anticamera del socialismo», su quel «gradino della scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato socialismo»[122].

Perciò Lenin afferma che
«la guerra imperialista è la vigilia della rivoluzione socialista».
E aggiunge:
«non solo perché la guerra con i suoi orrori genera l’insurrezione proletaria – nessuna insurrezione creerà il socialismo se esso non è maturo economicamente»[123],
ma appunto per la detta ragione dell’avvento sistematico del monopolismo. Questo (orrore degli odierni cominformisti) costituisce un «passo» sulla «strada» del socialismo.

Lenin guarda ancora qui alla rivoluzione europea. Rimprovera ai Kerenski e soci di evitare quei passi perché non vogliono il socialismo, ma quanto alla Russia precisa:
«è impossibile avanzare senza marciare verso il socialismo, senza muovere dei passi verso il socialismo (passi determinati e condizionati dal livello della tecnica e della cultura: non si può «introdurre» la grande azienda meccanizzata nell’agricoltura a piccola economia contadina, come non la si potrebbe sopprimere nella produzione dello zucchero)».

Messa così chiaramente la tesi delle indispensabili condizioni teoriche per il socialismo, Lenin rinfaccia la paura di esso che hanno i «destri». Essi ne affrontano il problema in modo scolastico, dalla dottrina che hanno imparata a memoria e mal compresa, come un avvenire ignoto, lontano, oscuro.

«Ma il socialismo ci guarda da tutte le finestre del capitalismo moderno; e il socialismo si delinea direttamente e praticamente in ogni provvedimento importante che costituisca un passo avanti sulla base di questo stesso capitalismo moderno»[124].

La previsione di Lenin è sicura. Coi dati dell’economia russa, se tali fossero magari non solo in Russia ma nel mondo intiero, si possono solo aprire finestre nel capitalismo, da cui guarda il socialismo: costruire il socialismo no. Stalin e soci hanno costruito, invero, moltissime di queste finestre, nelle officine delle grandi città industriali, nelle moli delle centrali idroelettriche. Ma il socialismo non ci guarda affatto in Russia dalle finestre delle case colcosiane dei contadini: esso in Italia ed oggi ci volge addirittura il tergo dalle finestre delle case, fabbricate in carrozzoni capitalistici e già rotte dalle intemperie, erette dal caro ai cominformisti (anche se diffamato per ragioni di elettorale bottega) Ente della riforma fondiaria.

8 – Compiti della rivoluzione

Riferimmo del testo così intitolato la descrizione della Russia come un paese nella maggioranza immensa di piccola borghesia. Non adesso ci chiediamo se dopo quarant’anni questa maggioranza sia mutata. Lenin ne deduce che la causa della rivoluzione dipende dalle alternanze di questa classe: se essa va coi borghesi anziché con gli operai comunisti, la rivoluzione cadrà.

Per deciderla a rompere con la borghesia senza che una dittatura strettamente operaia ve la costringa con la forza (come di fatto in larga misura avvenne, perché gli alleati dei bolscevichi furono contadini del tutto proletari, e non piccoli borghesi), Lenin ancora una volta elenca il programma sociale della seconda rivoluzione, che ha il diritto al nome di socialista perché pacifica non fu, e perché quel programma è tutto tessuto di «passi» in quel tempo e paese audacissimi verso il socialismo, ma di misure di contenuto non ancora socialista, se considerate come punti di arrivo, in quanto già attuate in paesi governati dai capitalisti.

Primo punto: Il potere ai Soviet. Punto politico, totalmente socialista, dato che i Soviet erano oramai sul punto di volgere le spalle agli opportunisti e coalizionisti con la borghesia.

Secondo punto: La pace ai popoli. Altro punto politico socialista: proposta immediata di armistizio e pace generale senza annessioni. In caso di rifiuto, denunzia dell’alleanza con l’Intesa. Lenin risponde alla minaccia che questa privi la Russia di aiuto finanziario (che sostiene i proletari russi come la corda sostiene l’impiccato) e alla minaccia di invaderla.

Terzo punto: La terra ai lavoratori. Questo punto, cui abbiamo dedicato ripetute trattazioni, sarà ovviamente ancora svolto, e il suo contenuto non è socialista nel senso economico (Lenin dirà più oltre: ci rinfacciate di avere adottato il programma socialrivoluzionario), in quanto in effetti vi è una marcia indietro tra programma e decreti. Qui non si dice né spartizione né nazionalizzazione, ma abolizione della proprietà privata fondiaria e gestione dei comitati contadini. Accenno alla distribuzione del capitale-scorte ai contadini poveri. Non è socialismo distribuire, come anche oggi, terre e capitali.

Quarto punto: Lotta contro lo sfacelo economico coi postulati di cui ai precedenti paragrafi in materia industriale finanziaria e commerciale.

Per l’ultima volta nella storia Lenin considera l’ipotesi di una rivoluzione pacifica, con
«elezione pacifica dei deputati [non dice dell’assemblea costituente ma vuol dire dei Soviet] da parte del popolo, lotta pacifica dei partiti in seno al Soviet, verifica pratica del programma dei vari partiti, passaggio pacifico del potere da un partito all’altro [nel Soviet]»[125].

È, per le necessità in ultima istanza della dialettica delle forze in un momento di instabile equilibrio, della polemica e dell’agitazione, la presentazione coraggiosa della «faccia complementare» della realtà storica.

Ma (nello stesso giorno partiva la lettera al Comitato Centrale sul marxismo e l’insurrezione) viene subito dopo la faccia diretta della previsione, che leggiamo oggi nella sua indicibile forza.

«Se non si coglie questa occasione [leggete da dialettici: se non accettate questo ultimatum, che canaglie vostre pari non possono accettare] la più aspra guerra civile tra la borghesia ed il proletariato è inevitabile, come dimostra tutto il corso della rivoluzione, cominciando dal movimento del 20 aprile fino all’avventura di Kornilov. La catastrofe [economica] inevitabile affretterà la guerra civile. Come lo attestano tutti i dati e tutte le considerazioni accessibili alla mente umana, le guerra civile finirà con la completa vittoria della classe operaia, sostenuta dai contadini poveri, per quanto possa essere sanguinosa e crudele, PER LA REALIZZAZIONE DEL PROGRAMMA SUESPOSTO».

Programma economico basso basso, perché anche la volontà rivoluzionaria non può violare le condizioni determinate dallo sviluppo delle forze produttive.

Dinamica rivoluzionaria altissima, al più alto potenziale che abbia fino ad oggi visto la storia della società moderna.

Nessun timore nel movimento glorioso del bolscevismo ad andare incontro a questa fiammante contrapposizione: farsi portatore di un programma inferiore socialmente a quello che si potrebbe prendere a prestito da una repubblica borghese progredita ed avanzata; svolgere una politica di classe tale da far tremare sulle basi tutto il mondo capitalista.

Allora, ed oggi e domani non meno di allora, una è la soluzione di questa durissima antitesi: lo scatenamento della guerra di classe nel seno dei più potenti paesi del capitalismo, la dittatura proletaria in Europa e nel mondo bianco, ed enormemente a questa più vicina la doppia rivoluzione dei popoli colorati, la cui teoria non può essere costruita con altro materiale che con quello che ci dà la chiave marxista dell’enigma russo: doppia rivoluzione politica borghese e socialista – società economica post-rivoluzionaria soltanto capitalista, e non socialista. Passo gigante che ha fatto la storia sulla via del socialismo mondiale.

Intermezzo[126]

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XVI)

Ricerca critica di parte e dialoghi col nemico

Saldatura autogena

Non trovi il lettore scocciante e faticoso il fare quasi ad ogni ripresa il punto di tutto il cammino. Pedanteria è termine che abbiamo ormai passato a titolo di onore, con altri vari e noti. Ordine, continuità e concatenazione derivano dal nostro attaccamento dichiarato e sempre crescente al metodo teorico di lavoro, e alla nostra esecrazione per l’opera improvvisata, contingente, occasionale, situazionista, ispirata da velleità, pruriti o disfunzioni biologiche nel cervello degli interventori; dalla caccia facile e beota al consenso, al successo, e basta.

La nostra trattazione sulla Russia era stata svolta per la prima parte (la lotta di classe per conquistare il potere e per difenderlo), ed appena iniziata per la seconda (svolgimento delle forme di produzione dopo la rivoluzione), quando è stata interrotta dalle tre giornate e sei puntate dello scritto dedicato all’indagine critica sulle manifestazioni, ovunque accolte come fatto clamoroso, del XX congresso del partito comunista russo. Collegandoci con il «Dialogato con Stalin» che si riferiva al materiale, in sostanza, del precedente congresso, abbiamo intitolato il nuovo studio «Dialogato coi Morti». Non solo perché Stalin intanto era morto, non solo perché era inscenato un macabro duello di lui con gli altri grandi Morti, con Lenin e Marx, ma perché anche tutti gli altri morti, definiti come vittime di Stalin, hanno avuto la parola. Ultimi noi, minuscoli e pochissimi, col grave difetto di ostinarci a crepare di salute.

Non resta ora che riprendere nello stesso ordine progettato il testo esteso, procedendo nella descrizione e spiegazione dell’economia russa ed esponendo le tesi già ben note, sia per l’esposizione verbale che per il riassunto dato nei numeri 15 e 16 dell’annata 1955.

Prima tuttavia di riattaccare come se nulla fosse stato, dobbiamo aprire un rapido interludio, gettare un ponte provvisorio, per la chiarezza del procedere e per rilevare che l’interruzione, se anche non pianificata, non è stata né arbitraria né inutile, ed è invece servita a ribadire la continuità ed organicità del metodo seguito nella ricerca e nella esposizione.

L’essenziale sono i congressi?

Gli eventi che hanno provocato i due «Dialogati» – ossia hanno fatto sì che, sospendendo la nostra interna ed unilaterale indagine di parte, di partito, di scuola oggi sia pure numericamente ridotta, ed archiviando in tutta umiltà quello che può sembrare freddo monologo di un gruppetto che non ha attorno a sé rumore ed attenzione, ci dessimo alla discussione, alla polemica, al contraddittorio con un interlocutore d’altro canto da noi stessi evocato, e che non aveva e non ha mostrato desiderio di accorgersi del nostro dire – si sono in sostanza ridotti a due congressi. Sono dunque per noi cose tanto fondamentali i congressi, in cui torrenti di voce e rivoli di inchiostro avrebbero finalmente virtù di solidificarsi come ossature della costruzione storica vivente? Sarebbero i congressi a fondare e a plasmare gli accadimenti? È chiaro a chi ci abbia per poco seguiti che mai abbiamo pensato o detto nulla di simile. Come per noi tale virtù non hanno gli individui umani, e nemmeno quelli considerati per la loro notorietà eccezionalmente possenti, così non l’hanno né i congressi, né i gruppi di uomini che li sovrastano, e talvolta si pensa che li inscenino come valenti registi. Nemmeno il congresso fa accadere quel che vuole, realizza quel che pensa. Né esso né i suoi capi sanno quel che verrà, né soprattutto dicono quel che vogliono.

Ma in dati svolti, come questi due sono stati, molto si può leggere in quanto un congresso o altro vertice politico di organizzazione ha detto, molto e ben diverso da quello che i suoi attori pensano, dicono, o desiderano che si capisca.

Ed infatti i due svolti e le relative enunciazioni, ieri di Stalin, oggi di una mano di suoi spirituali figli, su cui tutta la banalità dell’opinione mondiale si getta per intendere che vi è di nuovo, che si prepara di nuovo, sono a noi serviti ad opposto scopo: dedurne le conferme di una teoria dello sviluppo russo da noi stabilita da gran tempo, perfettamente opposta a quella «ufficiale» del sistema politico e statale russo sotto Stalin e ancora peggio dopo Stalin.

Silenzi spezzati

Non certo per sciocca vanagloria ci preme mostrare, prima di riprendere il cammino del nostro studio alla pagina interrotta, che le risultanze del congresso ultimo sono venute, anche più presto di quanto fosse atteso, a dar conferma a quelle nostre posizioni che, immaginando di discutere con il «Grande Stalin», gli avevamo nel 1952 duramente contestato.

Converrà pregare i lettori di riguardare la prefazione e le prime pagine del volumetto allora edito, e da ciò resterà anche chiarito il problema testé posto, del peso che deve darsi ai congressi.

A nostro avviso, fin dal 1926 si pone il distacco del grande movimento russo cui si dà il nome di Stalin dalla linea marxista rivoluzionaria, e quindi anche da quella di Lenin. Fin da allora noi vivi-morti (Trotsky, Zinoviev, Kamenev, ecc.) negammo che il partito in Russia dovesse o potesse «edificare socialismo» come ripiego alternante al declino dell’onda rivoluzionaria occidentale; e affermammo che la società russa era addirittura preborghese e che, in quanto la sua economia poteva essere diretta, ed in mancanza della rivoluzione operaia europea, solo programma poteva essere quel «passo verso il socialismo» che consisteva nello sviluppare le piene forme mercantili capitaliste col traguardo estremo di un capitalismo statale nell’industria.

Stalin e i suoi sostenevano una tesi più radicale: ossia quella che (si fregassero i poco rivoluzionari proletari esteri) in Russia si sarebbe fatto il socialismo nell’economia senza aspettarli. Questa tesi, luridamente opportunista, era sventuratamente fatta per accecare molti militanti non «opportunisti», ma solo impazienti e formalisticamente, sentimentalmente estremisti. Noi, metterci a fare del capitalismo?! Orrore! Il tipo di questa categoria è il grande Bucharin, che ha dato filo da torcere a Lenin per tutta la vita: Noi, firmare la pace con gli imperialisti tedeschi?! La situazione divenne poi ben chiara quando non solo anche Bucharin fu trucidato, ma bollato sotto la vergogna non pure di traditore opportunista, ma di agente provocatore del capitale straniero.

Compagni alla Bucharin ne esistono ancora; in effetti possono fare tanto male, quanto gli opportunisti autentici. Per definirli, si è adottata da tempo la parola coniata da Lenin: infantili, cui si è dato significato oltraggioso laddove Lenin definì l’estremismo come mallatìa di infanzia, ossia di fisiologica crescenza del vigoreggiante comunismo. Per opporli all’opportunistico puttaneggiare di destra, chiameremo tali compagni con l’epiteto di casti. Attenti a non contaminarsi: condannerebbero col loro metodo il partito ad eterna sterilità, anche per quel momento supremo in cui la «ionizzazione della storia» chiama finalmente in campo senza veli il loro «dualismo semplicista», da essi ridotto, da punto di arrivo e di conquista, a chiave magica di tutta la storia.

Comunque, ora questo ci preme: messi i suoi contraddittori a tacere, lo stalinismo per un quarto di secolo abbandona quel dialogo storico; chiama socialismo la sua pratica di direzione economica statale. Siccome tutta la canea capitalista gli tiene pieno bordone, e per odio al socialismo contro di lui si arma di odio e di ferro, il regime e il partito sovietico non discutono affatto la posizione, schifata come «teorica»: Non è forse l’economia socialista, la società socialista, una cosa con cui la situazione russa nulla ha di comune?

Le cose e gli uomini

In questo assorbente conflitto traverso paci e guerre spaventose i pochi e ignoti che affermano: Il socialismo lì non v’è, non vi può essere, sono ridotti a monologare, non hanno con chi dialogare, e se un’eco sollevassero sarebbero facilmente raggiunti al Messico e altrove.

Perché, dunque, nel 1952, Stalin si mise a rispondere su questo? Pretese sul terreno della teoria confrontare le leggi dell’economia capitalista con quelle di un’economia socialista che a suo dire esisteva nel sistema russo? Messa la questione così, la risposta si cerca nella solita direzione: Distrazione? Errore? Finalità occulta? Piano segreto e diabolico? Noi cominciammo, da marxisti, a porre la domanda altrimenti: perché ha Stalin dovuto così risponderci, senza avere nemmeno l’idea che esistessimo?

Scrivemmo nel «Dialogato» con lui:
«Stalin risponde sui punti posti in due anni dal nostro movimento […]. Non intendiamo con questo dire […] che si sia rivolto a noi […]. Non si tratta, per marxisti, di credere che le grandi discussioni storiche abbiano bisogno di protagonisti personificati […]. Egli è che i fatti, e le forze fisiche, dal sottofondo delle situazioni, prendono deterministicamente a discutere tra loro…»[127].

Noi tendiamo a questo risultato (che era alla portata di chiunque abdicasse alla stupida fregola di prenotare un posto nei palchi reali della storia), di avere impostata una anonima discussione tra i fatti e le cose, svolta da vivi e da morti che si contava dormissero l’eterno sonno dell’infamia (infame: chi non può più parlare e di cui non si può più parlare), che ha inchiodato – non certo per forza di soggettivo merito, ma per avere intesa la via delle forze oggettive – e condannato l’avversario a venire nolente su quei temi che riteneva avere per sempre portato sotto il peso soffocante dell’ombra.

Fin da quattro anni addietro il sistematico sviluppo della originale posizione marxista ci permise di anticipare su quali vergognosi termini si sarebbe edificata la preveduta confessione, che dicemmo apparentemente fronteggiata e frenata, ma in realtà preparata da Stalin, sulla natura non socialista di quella economia. Avvertimmo quindi con quali sozzure si sarebbe presentata una tappa ulteriore, che nel XX congresso ha preso la viscida formula delle nuove vie di passaggio al socialismo, lubrificata con l’ipocrita condanna di quelli che si definiscono oggi non tanto gli errori, quanto gli orrori di Stalin.

«I metodi di repressione, di stritolamento che lo stalinismo applica a chi da ogni parte gli resiste non devono dare appiglio alcuno ad ogni tipo di condanna che menomamente arieggi pentimento rispetto alle nostre classiche tesi sulla violenza, la dittatura e il terrore, come armi storiche di proclamato impiego; che lontanamente sia il primo passo verso l’ipocrita propaganda delle correnti del ‹mondo libero› e la loro mentita rivendicazione di tolleranza e di sacro rispetto alla persona umana. I marxisti, non potendo oggi essere protagonisti della storia, nulla di meglio possono augurare che la catastrofe, sociale politica e bellica, della signoria americana sul mondo capitalistico. Nulla quindi abbiamo a che fare con la richiesta di metodi più liberali e democratici ostentati da gruppi politici ultra-equivoci, e proclamati da Stati che nella realtà ebbero le più feroci origini, come quello di Tito»[128].

Nel pieno sviluppo di una linea diritta e coerente, non ci hanno quindi affatto commossi o scossi gli insulti dal XX congresso al nostro gran nemico Giuseppe Stalin, perché diretti soltanto a fornicare con la democrazia mondiale, ad avviare i complimenti servili alla libera America mediante quelli al diffamatissimo capo dello Stato jugoslavo. La surrogazione e sostituzione delle persone, cui solo guarda la morbosa attenzione del mondo, sempre meno influisce a nascondere la contrapposizione inconciliabile tra i metodi dell’opportunismo e quelli, cui ad ogni tappa più si volgono le terga, della lotta rivoluzionaria.

La via della Russia

La storiella della via «nazionale» per il socialismo puzza di fradicio da un secolo. Fino al «Dialogato con Stalin» questa questione della via violenta o pacifica non si era ancora osato scoprirla: la pietra angolare della dittatura proletaria non era stata ancora insidiata con le mine pacifiste. Stalin nel suo ultimo scritto adombrava ancora questa posizione:

Tra forma capitalista e forma socialista, è la forza che deciderà. Dal 1926 noi abbiamo dichiarato di soprassedere al suscitamento della guerra interna di classe all’estero. Tuttavia alla vigilia del 1939 dicevamo ancora che avrebbe deciso la forza bellica; sotto forma di vittoria in campo dell’esercito rosso e russo. Dopo la disfatta dei tedeschi facemmo credere agli operai del mondo che per una tal via avremmo abbattuto l’America. Oggi (1952) siamo per la pace, ma difendiamo ancora la tesi di Lenin: la fine delle guerre sarà data dalla caduta del capitalismo e dell’imperialismo. E la terza guerra imperialista scoppierà tra le potenze estere, anche se noi ci dichiariamo pacifisti e non la faremo se non «aggrediti». Così Josif.

La teoria della forza come «via di passaggio al socialismo» veniva così ritirata dal campo internazionale; ma, dicendo che solo la caduta del capitalismo avrebbe posto fine alle guerre, si mostrava ancora di credere alla via della forza all’interno degli stati.

Oggi il passo indietro è più vergognoso: si dichiara nel campo internazionale attuabile la pace perpetua con i paesi capitalistici, o tra essi. Si dichiara inoltre di ritirare la teoria della forza dal campo sociale: tale viltà Stalin non l’aveva consumata ancora.

La via della forza, la teoria della forza, espulsa ovunque, resta in piedi per due soli casi storici eccezionali. Nel passato, per la rivoluzione russa, che era di un suo tipo speciale, nazionale! Nel futuro, se la pace non si impone per emulativa convinzione, nel solo caso che vada difesa la patria russa da un «aggressore»! Così il XX congresso.

Crediamo importi far notare come tutto questo sviluppo sia esaurientemente giudicato e spiegato dalle connessioni tra il primo «Dialogato», lo studio generale sulla Russia, e il «Dialogato» di oggi.

Russia e marxismo classico

Perché avrebbe la Russia dovuto percorrere, essa sola, la via della forza per andare al socialismo?

Nella riunione di Bologna esponemmo e rivendicammo la visione del primo marxismo europeo sulla «strada russa». Nessuno allora si chiedeva: la forza o la pace?

Questo vecchio sogno dell’evitamento della forza – partimmo di lì – ha tre tappe.

Per il cristiano la meta è raggiunta da duemila anni; occorre solo un’emulazione persuasiva tra uomini e tra genti per proseguire la vita dell’umanità. È il religioso il precursore della teoria della pacifica coesistenza tra il potente e il debole, il ricco e il forte, la gente A e la gente B…

Per il borghese liberale occorre per togliere di mezzo l’uso della forza ancora una tappa, ma una sola, sanguinosa: la rivoluzione che abbatta i regimi feudali e assolutisti. Dopo ciò, tra cittadini eguali, la generale coesistenza sarà possibile; e tra popoli liberi idem con patate.

Il marxismo richiama per una terza volta il compito della forza nella rivoluzione di classe entro ogni paese: non esorcizza la forza nelle guerre tra stati, ma stabilisce che solo la vittoria proletaria internazionale porrà loro fine; non forme di accordo, intesa, rispetto o organizzazione mondiale.

Caso della Russia: consenso unanime di borghesi liberali e proletari marxisti dell’ottocento: occorre la forza per buttare giù lo zar.

Problema storico: si può con questa stessa rivoluzione passare al socialismo saltando il capitalismo? Risposta (qui richiamiamo per cenni quanto svolto a fondo nei riflessi sociali e storici): no, non si potrà saltare il capitalismo.

Se tuttavia la rivoluzione liberale russa scatena la rivoluzione sociale in occidente, e se non è dubbio che qui e ovunque la via sia la forza (come solo i revisionisti e i socialdemocratici verranno in fine ottocento, tradendo Marx, a negare) allora le due rivoluzioni in Russia potranno sovrapporsi. Ma se l’Europa, dopo caduto lo zar, resta borghese, la conclusione è che la forza deve agire in Russia anche una seconda volta, così come nel «caso generale».

Via russa e marxismo russo

Venimmo quindi a spiegare a lungo come i marxisti russi, Plechanov e poi, anche contro questo suo maestro, Lenin ribadiscono la teoria della doppia forza, della doppia rivoluzione russa.

Questa teoria non si smuove di un passo dal punto che la seconda rivoluzione russa abbisogna come condizione della rivoluzione socialista occidentale. La sua originalità, se tale è, è solo quella di non dar credito alla classe borghese e ai suoi partiti, ai ceti medi e ai loro partiti, nemmeno per fare la prima delle due indispensabili rivoluzioni.

Il proletariato e il suo partito marxista le condurranno entrambe. Prima aiuteranno chiunque a rovesciare lo zar. Poi avranno dalla storia due alternative: o prendere il potere mentre lo prende all’estero il socialismo internazionale, e allora «amministreranno» la trasformazione socialista dell’economia. Ovvero prenderanno il potere soli in Russia: allora (fu sempre detto crudamente, e ne abbiamo dato mille prove storiche) attenderanno la rivoluzione internazionale «amministrando» la trasformazione della società russa in capitalismo. Come stabilito dallo scontro dottrinale del 1926, non «edificheranno il socialismo», ma «le basi del socialismo».

Questa presa del potere contro i partiti borghesi e piccolo-borghesi, con il solo appoggio sociale dei contadini poveri (non proprietari) e con una politica economica di tipo transitorio e impuro, fu prevista nettamente, ed attuata come una vittoria del socialismo, ma non come la nascita di una società socialista.

Tutto ciò stabilito nella dottrina e riscontrato negli avvenimenti, in che la via russa differirebbe da quella di altri paesi, più avanzati come struttura produttiva?

In questo solo, che la dittatura proletaria di Marx è necessaria due volte, in doppio modo: in un primo periodo in cui serve solo a ributtare le forze feudali e ad abbattere la forza politica della borghesia, in un secondo in cui servirà al passaggio, come in Europa, e con l’Europa o i suoi paesi più importanti, alla forma economica socialista.

Via europea, italiana o di vattelapesca

Non dubitiamo che in un primo tempo a compagni anche ferrati non sarà sembrato sicuro che la posizione fondamentale giusta fosse quella di dire: Si deve ottenere un’economia capitalista, non socialista, nella Russia sola; e dichiarano. Non è questa una tesi troppo debole? avranno molti pensato. Molti avranno ammesso la nostra prova dottrinale contro Stalin che la forma russa, anche nell’industria, ha carattere capitalista e non socialista, ma in un primo tempo saranno stati condotti a dire: Stalin è un porco, perché ha edificato capitalismo. Ha sapore più dialettico la posizione completa: Stalin è un porco (lasciamo la forma sommaria) perché ha abbandonata la rivoluzione europea, e perché chiama socialismo una forma borghese, mentre Marx e Lenin e tutti avevano stabilito che solo con la rivoluzione europea si poteva da quella forma uscire.

Adesso si vede bene, dopo la clamorosa gettata fuori bordo della dittatura per i paesi capitalistici, dopo il ripiegamento quanto a «filosofia della violenza» su posizioni puramente liberali, peggio ancora che socialdemocratiche, quale sbandata fu quella dei casti, che con Bucharin, dando causa irreparabilmente vinta allo stalinismo, dunque alla controrivoluzione, affermavano che, avendo la dittatura politica ferma in mano, non si sarebbero fermati e avrebbero a dispetto di tutto «creato il socialismo».

Stalin nel XIX congresso dichiarò che ormai questo era fatto, e che ci si accingeva a passare allo stadio superiore, al comunismo integrale: il mondo borghese rifischiò ovunque l’enorme panzana.

Il XX congresso, pure facendo strame dell’opera storica, politica. organizzativa, economica di Stalin, nei limiti in cui questa ancora era tale da far passare brividi marxisti nelle schiene borghesi, mantiene ancora la definizione di costruito socialismo, e di iniziato stadio comunista, mentre tende ai capitalismi esteri passerelle mercantili di affaristico fornicamento.

In questo stesso piano ed intento, porge le scuse di avere in Russia dovuto servirsi di dittatura, forza, violenza, terrore, e dichiara che sono arnesi di uso esclusivo, come lo knut. Era un affare interno, nazionale; quel solo superstite esempio storico di dittatura che si salva (mentre impudentemente si dice di lasciare Stalin per ritornare nel grembo di Marx-Lenin) bisogna riferirlo non ad una generale dottrina della fine del capitalismo, fondata da Marx e restaurata contro ogni attentato da Lenin, ma alle dottrine della fine del feudalismo, a Robespierre e a Danton. Marx è ridotto a zero, mentre si ostenta di togliere via i ritratti di Stalin e sbandierare la sua turbolenta barbaccia. Si promette al mondo borghese che la dittatura non la vedrà mai, perché le vie sono tante e tante, e solo quella russa era così amara e cattiva. È poco ancora la scusa: c’est la faute à Staline – quei signori del XX dicono di più: c’est la faute à… Raspoutine![129].

La chiave di volta

Consentiamoci dunque di guardate alla nostra umile, lenta, ma saldissima costruzione. È palese nell’ultima tappa la rovina di ogni parte storica, organizzativa, politica classista. Nelle giornate dell’ultimo «Dialogato» abbiamo mostrato l’estensione della rovina.

Storia: ci siamo nel nostro resoconto serviti passo per passo dell’ufficiale «Corso di storia del partito bolscevico», dimostrandone le enormi falsità: oggi l’ostacolo crolla davanti a noi spontaneamente. Il seguito del nostro testo prenderà un altro tono: piccola prova che non nasce da teste brillanti, ma dalla fedeltà al determinismo materiale.

Organizzazione: ad ogni tratto abbiamo messo in evidenza il compito del partito di classe, la necessità che sia continuo nel tempo, legato ad una stessa teoria: oggi abbiamo potuto mostrare come, non appena allentati i freni, sia pure tra ipocrite ortodosse dichiarazioni di rispetto, le affittate bande di social-traditori corrono a disonorare questa non meno fondamentale «pietra angolare» di cento anni di marxismo.

Lotta di classe: non si vede solo sconfessata la guerra civile, ma resa regola generale l’alleanza con classi medie e anche borghesi, nei limiti legalitari e costituzionali più proclamati e sacri.

Politica e teoria dello Stato: si vede distrutta la dottrina dello Stato di classe e della conquista del potere: come dicevamo, forza, violenza, dittatura e terrore sono cacciati via con indignazione da tutto il mondo: giustificati nella sola Russia. Ma qui non è eccezione tra le vie al socialismo; è conferma della regola per le vie al capitalismo, in Inghilterra, Francia, ovunque, e Russia infine! La teoria dell’autonoma rivoluzione proletaria è ritirata al mille per mille.

Filosofia: ogni dottrina sul generarsi della storia dalle forze collettive adagiate sulle situazioni economiche è barattata: abbiamo a fondo mostrato come nulla di ciò è salvato dal capolavoro dell’ipocrisia in questo congresso: il preteso svolto dal culto di Stalin alla direzione collegiale. Per Stalin vi è stato un solo svolto: il passaggio tra il suo tracotante atteggiamento verso le potenze borghesi, ad una piaggeria lubrica, ad un’offerta di buona coabitazione in un mondo comune, lupanare di affari del commercio borghese d’ogni riva.

Se ci è stato dato con tanta facilità di tratteggiare nel 1956 questo bilancio totalitario della calata dei guastatori in tutto il campo della nostra sovrastruttura ideologica, proletaria e marxista, ponendo in chiara luce il sostituirvisi in tutto e per tutto di sovrastrutture borghesi, è stato in quanto nel 1952 abbiamo constatato nella base economica del sistema di Stalin lo stesso totale abbandono delle posizioni socialiste e l’adesione alle leggi e forme di produzione e di scambio che definiscono il capitalismo e che allo stesso tempo abbiamo identificate nella realtà della forma russa, nella descrizione che Stalin ne confermava, e nella teorizzazione eterodossa e destituita di ogni forza scientifica che egli ne tentava.

È quindi di pieno valore determinista e marxista il legame indissolubile che stringe la fase storica che si vuol impersonare in Stalin e nella sua vita politica, con la corrente di quelli che, sulla scena del XX congresso, si sono voluti accreditare atteggiandosi a rinnegatori di lui.

In tal senso, la scuola del marxismo integrale dà peso a questo svolto, che ha attirato l’attenzione del mondo, e ne ribadisce la portata in nuovi passi verso l’altro svolto col quale, in non lontano avvenire, il regime statale russo si allineerà storicamente con quelli degli altri paesi, dichiarerà che la sua ideologia e la sua pratica coincidono con quelle dei paesi industriali esteri, e con quanto essi anche denunziano di socialità assistenziale, di sporca lode e gratitudine sociale alla classe soggetta a servitù di salario, di devozione al comune moderno stupido idolo della tecnica superproduttiva, del benessere e dell’alto reddito «nazionale».

Salpando l’ancora

Nell’esposizione storica, alla quale torniamo dopo avere non solo narrato tutte le vicende delle fasi rivoluzionarie successive e di quella finale di difesa del potere nella guerra civile dal 1917 al 1922, ma soprattutto dato passo passo l’interpretazione bolscevica e leniniana del processo che si svolgeva, siamo dunque appena passati allo studio delle misure sociali del nuovo potere, in quanto tendenti a controllare il processo economico.

Abbiamo stabilito e dobbiamo seguitare a stabilire una sicura coerenza tra queste «realizzazioni» e la teoria sempre svolta dal partito di Lenin, lui vivente, e poi rivendicata nelle varie tappe fino al 1926.

Siamo risaliti a testi di programma economico dovuti a Lenin e scritti alla vigilia dell’Ottobre, per mostrare quanto fosse chiara la prospettiva di dovere operare in una forma sociale mista di tipi preborghesi, in cui restavano da superare avanti tutto forme asiatiche, patriarcali, feudali, e per la quale la formazione sistematica di un mercato interno di scambio di prodotti industriali e agrari era ancora un passo avanti non solo, ma difficile e laborioso, fino a quando il capitalismo avesse imperato un metro oltre le frontiere della repubblica rossa.

In quell’opuscolo del 1917 è contenuta tutta la teoria posta a base dello scritto del 1921 sulla «imposta in natura», che ora si tratterà di utilizzare a fondo, costituendo uno dei fondamentali contributi di Lenin al marxismo.

Lenin né la Russia (né la storia) hanno nel 1921 deciso di fare un passo indietro, rinunziando a seguitare a prendere misure statali di contenuto comunista e socialista per dare il passo al «ritorno» su forme borghesi. Quella fase era in dottrina integralmente scontata, e le misure prese ebbero lo stesso carattere politico di «passi verso il socialismo», ed economico di materiale e necessario passaggio per tappe ancora capitaliste, e meno che capitaliste.

È quindi il momento di sfatare la leggenda del «comunismo di guerra» che abbiamo più volte mostrato vana. Senza di ciò non resterebbe che partecipare alle lodi di Stalin, che sarebbe dalla Nep andato oltre contro la borghesia rurale (il che nel giusto senso è un fatto) e che con questo avrebbe «edificato socialismo» (il che è corbelleria). E senza di ciò bisognerebbe sorbirsi nientemeno che la feccia dell’ultimo calice, quello di un Nenni che sogna con prostituta gioia addirittura ad oggi 1956 l’uscita dal «comunismo di guerra»; e ne deduce la vittoria del «comunismo costituzionale», del «comunismo di pace»; ossia (da uomo che non ha scrupoli nel calpestare la dottrina, e che quando lo fa non lo sa neppure) cammina, e sia lode a lui, da buon antesignano della gettata nella fogna dell’ultimo lembo della bandiera del socialismo, e del partito del proletariato, in cui entrò col grimaldello!

Evitiamo simili mefitiche compagnie, ed auguriamo una non lontana riconquista, non di bandiere, ma delle nostre parole, di quel cibo che (come in una frase di Galileo vecchio e perseguitato) solum è mio.

Noi che non abbiamo culti seguitiamo a mostrare la via di Lenin, il cui sguardo fissa con uguale potenza la realtà presente e la futura: ritmo basso e umile di trasformazione economica, dinamica scatenata della guerra sociale contro ogni immane forza nemica.

Parte seconda (continua)[130]

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XVII)

Sviluppo dei rapporti di produzione dopo la rivoluzione bolscevica

9 – Ripresa a distanza

I primi otto paragrafetti di questa seconda parte del nostro studio sono quelli apparsi nel n. 4 di «Programma comunista» del 18 febbraio – 2 marzo 1956. Essi sono stati scritti prima che pervenissero le notizie delle discussioni nel XX congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica.

La lunga interruzione ha coperto ben dieci numeri del periodico, e gli stessi sono stati così occupati: sei numeri dal «Dialogato coi morti»[131], studio del tutto inerente al tema e dedicato al commento al Congresso russo; uno, il n. 11, ad un «Intermezzo», destinato a saldare meglio l’interrotto resoconto dei rapporti alle riunioni di Napoli e Genova (aprile ed agosto 1955) con la continuazione, che solo oggi riprende; altri tre dedicati al resoconto della riunione di Torino, tenuta il 27 e 28 maggio 1956, nella quale si è voluto riandare con opportuni complementi a tutto l’argomento russo, oggetto della complessa elaborazione[132].

Vogliamo anche ricordare che la prima parte del rapporto Napoli-Genova, sulla struttura sociale della Russia, aveva per titolo: «La lotta per il potere nelle due rivoluzioni», e non si è arrestata alla conquista bolscevica nell’Ottobre del 1917, proseguendo per tutti gli anni della guerra civile, in cui si continuò in forma asperrima la contesa per il potere, su fronti multipli e spesso minacciosi per la Rivoluzione vittoriosa. In tal modo l’esposizione si estese agli anni memorabili 1918, 1919, 1920, e anche 1921.

In tale periodo il compito primeggiante del partito vittorioso non fu quello della trasformazione dei rapporti sociali, ma quello delle guerre civili, che si innestarono all’altro non meno tremendo di uscire dalla guerra delle nazioni col memorabile episodio storico di Brest Litovsk. Volta per volta abbiamo indicato e trattato a fondo le ripercussioni di tali stadi all’interno del partito, e illustrati gli altri grandi passi politici: la dispersione dell’Assemblea Costituente e la definitiva rottura con l’unico ultimo alleato: il partito dei socialisti rivoluzionari di sinistra.

Messi questi dati storici al proprio posto, siamo passati a studiare l’evoluzione delle forme economiche nella società russa, per effetto della distruzione del vecchio potere borghese-socialopportunista.

Con l’immutato metodo del costante collegamento ai nostri principi generali nel valutare il legame tra i fatti economici e quelli politici, ponemmo in rilievo, nell’esordire in questo secondo argomento, che un nuovo materiale storico stava ormai a disposizione: la serie dei provvedimenti e dei decreti del potere rivoluzionario in materia sociale. Nel periodo precedente, quando il partito proletario lotta all’opposizione, e quando come nel nostro caso e nel metodo tattico da noi propugnato esso rifiuta ogni blocco nell’esercizio del potere, anche programmaticamente, il solo materiale di cui disponiamo è materiale di propaganda, che va tuttavia dagli studi dottrinali ai programmi politici del partito. La fase della gestione del conquistato potere ci offre tuttora materiale del genere, ma in più quello dei provvedimenti di Stato e di governo. Notammo bene che anche in questo secondo campo, per un partito rivoluzionario, permane un compito e un dovere di agitazione e di propaganda in ogni atto del governare, che deve sapersi collegare anche ai più lontani obiettivi storici del partito, non ancora tuttavia attuali ed attuabili.

10 – Heri dicebamus

Dicevamo ieri, comincia il professore di mestiere anche quando riprende le sue lezioni dopo mesi. Ebbene, l’ultimo testo di cui ci servimmo nell’avvio della Seconda Parte fu un programma di Lenin circa i compiti sociali immediati, risalente a un mese prima della rivoluzione. E chiudemmo rilevando la potenza di un tale scritto in cui la cruda limitatezza delle misure proposte sul piano economico, tali che in ogni Stato borghese contemporaneo avrebbero potuto essere più avanzate, si accompagna alla profezia possente della vittoria dei lavoratori russi nella tremenda guerra di classe che si prepara.

Il lettore ricorda che quanto allora scrivemmo precedeva le dichiarazioni sensazionali del XX congresso, in cui, nello speculare su tutto lo speculabile, si è anche a quel classico testo fatto riferimento. E lo si è fatto con l’intento, più truffaldino di tutti quelli perseguiti da Stalin, sotto Stalin, e meglio in piena combutta con Stalin per tanti anni, di avallare con l’autorità di Lenin medesimo la «nuova» dottrina del passaggio «pacifico» al socialismo. Dove il falso è doppio: che Lenin volesse in quel momento non avanzare verso il socialismo, ma passare in Russia al socialismo – e che egli davvero avesse ammessa la scelta tra la lotta armata ed un procedimento incruento, per il debellamento dei nemici della rivoluzione: blocco tra monarchici, borghesi, e falsi socialisti della piccola borghesia.

Invero in quello scritto è il paragrafo «Lo sviluppo pacifico della rivoluzione». Esso è il finale, e chiude con le parole che noi riportammo; e che torniamo a riportare, con lo stesso inciso che allora intercalammo, prima, ripetiamolo, che il XX congresso lanciasse per il mondo le consegne del nuovo e più spregevole attentato alla grandezza incrollabile della dottrina «marxista-leninista».

«Se non si coglie questa occasione [leggete da dialettici: se non accettate questo ultimatum che canaglie vostre pari non possono accettare] la più aspra guerra civile tra la borghesia ed il proletariato è inevitabile, come dimostra tutto il corso della rivoluzione, cominciando dal movimento del 20 aprile fino all’avventura di Kornilov. La catastrofe [economica] inevitabile affretterà la guerra civile. Come lo attestano tutti i dati, e tutte le considerazioni accessibili alla mente umana, la guerra civile finirà con la completa vittoria della classe operaia, sostenuta dai contadini poveri, per quanto possa essere sanguinosa e crudele, per la realizzazione del programma suesposto».

Ribadivamo quindi la limitatezza sociale del programma «suesposto», per contrapporgli dialetticamente l’altezza gigante della previsione storica.

Né mancammo di notare, pur non avendo ancora tra i piedi un Chruščëv da sbugiardare con tutto il corteggio, come negli stessi giorni in cui questo scritto per il pubblico appariva, o meglio vari giorni prima (13 e 14 settembre v.s.) era partita la lettera al Comitato Centrale, testo interno di partito (reso pubblico solo nel 1921), dal titolo «Il marxismo e l’insurrezione».

In tale scritto Lenin rivendica la questione di principio che per il marxismo, e per il partito marxista, l’insurrezione è un’arte. Ciò al dichiarato fine di scongiurare la bestemmia che il mezzo dell’insurrezione possa da un marxista venire deprecato. Mentre aveva tale profonda preoccupazione, che gli dettò in quei giorni memorandi pagine di fuoco, poteva egli mai aver parlato di «occasione» per lo scioglimento «pacifico» della lotta altro che come mezzo di propaganda e di agitazione per finire di aprire gli occhi dei proletari e dei contadini sul compito storico delle forze borghesi ed opportuniste, ineluttabilmente dirette a spargere sangue e terrore perché la rivoluzione si fermasse, e rinculasse?

11 – Una tregua di classe?

Su due testi fondamentali è d’uopo che si faccia a quelli del XX congresso battere di bel nuovo il camuso naso.

I lettori scuseranno se l’economia sta ancora per qualche decina di minuti in anticamera. È la stessa questione. La macchina staliniana per fabbricare falsi storici è in miglior funzione oggi, che nelle stesse mani dell’inventore. E spezzando il falso politico spezziamo insieme quello economico: che Lenin avesse, lui, posto a compito immediato del potere bolscevico l’edificazione del socialismo. Infatti nel «Breve Corso» questa potente bugia di Stalin, ancora oggi in piedi, la troviamo subito:
«Nella primavera del 1918 comincia il passaggio 'dall’espropriazione degli espropriatori' alla nuova tappa dell’edificazione socialista […]. Lenin giudicava necessario approfittare al massimo della tregua [ma quale?] per cominciare a gettare le fondamenta dell’economia socialista…»[133].
Siamo lì, era più prudente il mentitore in capo che i suoi scagnozzi 1956. «Le fondamenta» sono un concetto giusto, la «costruzione del socialismo» una fesseria, che invano cercano in Lenin.

Comunque l’altra bugia, dell’aver Lenin messo una sospensiva all’insurrezione, alla dittatura, che oggi si lancia sfrontatamente, non la si trova nemmeno in quel florilegio della frode, che è il gettato alle ortiche, oggi, «Breve Corso». Figuriamoci! Fin dal clandestino VI congresso bolscevico del 26 luglio – 3 agosto fu dichiarato:
«Il periodo pacifico della rivoluzione è finito, è cominciato il periodo non pacifico, il periodo dei conflitti e delle esplosioni».
Dichiarato da Lenin, state per soggiungere, sicuri. Macché «dal compagno… Stalin»[134].

Un altro, signori del XX, errore di Stalin?

Vediamo ora quale razza di occasione Lenin indicò alle canaglie dei partiti social-traditori di agosto nello scritto «economico» su «I compiti della rivoluzione». Il paragrafo precedente a quello sullo «sviluppo pacifico» si intitola: «Lotta alla controrivoluzione dei proprietari fondiari e dei capitalisti».

Ci scusiamo di ricordare la situazione. Il potere era nelle mani del governo provvisorio di Kerenski, appoggiato, oltre che dai liberali borghesi, dai partiti socialdemocratico e socialista rivoluzionario. Questi avevano nel Soviet la maggioranza contro i bolscevichi, e avevano consegnato il potere al governo provvisorio. Il primo tentativo armato dei bolscevichi di prendere il potere era stato in luglio schiacciato, e Lenin era nascosto.

Lenin parte dalla rivolta successiva di Kornilov e Kaledin che, appoggiati dai fondiari, dai capitalisti e dal partito borghese dei cadetti, avevano tentato di abbattere il governo provvisorio, ma nel settembre erano stati battuti dal «fronte unico» cui i bolscevichi avevano dato appoggio.

Lenin stabilisce che vi saranno altri assalti controrivoluzionari, e che non vi potrà mai resistere il governo provvisorio, ma solo il potere dei Soviet. E allora prospetta a questi, in cui i bolscevichi erano minoranza, l’ultima possibilità di evitare lo scontro tra i partiti dei compromessisti con la borghesia, ed i bolscevichi, assumendo (senza partiti borghesi) il potere.

Una tale decisione è dunque indirettamente rimessa ai due partiti di maggioranza: menscevichi e socialrivoluzionari. Ma che significava, secondo la «proposta» di Lenin, prendere il potere da parte dei Soviet, tutto il potere?

Anzitutto, toglierlo al governo di Kerenski, il quale era un socialrivoluzionario! Già citammo «ficcare il premier in prigione»! Poi avrebbero dovuto (tra l’altro), questi «democratici» per la pelle, chiudere le tipografie dei giornali controrivoluzionari borghesi, confiscarle, riservare la stampa e la pubblicità allo Stato.

Per quindi dimostrare che al potere dei Soviet, in Russia, nessuna forza avrebbe potuto resistere, Lenin ne spiega il compito con queste altre parole:
«Per vincere la resistenza dei capitalisti al programma dei Soviet basterà far sorvegliare gli sfruttatori dagli operai e dai contadini, e punire i recalcitranti con la confisca totale dei loro beni e con un po’ di prigione»[135].
Un po’, s’intende, in caso di capitolazione! Insomma quello che Lenin propone ai Soviet, e solo in senso polemico agli opportunisti che ancora (ma per poco) li controllano, è di applicare in sostanza le forme della dittatura, cui erano pronti i soli bolscevichi, anzi, come i fatti mostrarono, non tutti questi, e neppure i più del Comitato Centrale!

Questa estrema diffida di Lenin non conteneva menomamente l’ipotesi storica di un governo comune ai partiti presenti nel Soviet, ed aveva dialettico sapore di derisione l’offa mostrata ai socialdemocratici di assicurare l’elezione della Costituente (era fin dalle «Tesi di Aprile» che Lenin l’aveva, contro le incredibili deflessioni di Stalin e compagni, condannata per sempre!) pagando il prezzo di sposare la tesi comunista: tutto il potere ai Soviet! Ed infatti Lenin parla più oltre dell’eventuale «passaggio pacifico del potere da un partito all’altro» e di «lotta pacifica», ma in seno ai Soviet!

Subito dopo egli leva la dichiarazione, prima riportata, della ineluttabilità della guerra civile. Ha dovuto parlare come ha parlato solo per dare l’ultima spinta ai partiti dei traditori, e sconfiggerli nei Soviet; solo per stabilire che ai marxisti rivoluzionari la guerra sociale serve non per sete di sterminio, ma per la dimostrata fatalità che i partiti borghesi e piccolo-borghesi alleati, prima di cedere il potere, sia pure alla «volontà del popolo», ricorrano sempre al bagno di sangue.

12 – Teoria della guerra civile

Per liquidare questo osceno tentativo di spezzare con documenti falsi la gloriosa linea di Lenin, serrata nelle linee indefettibili della dottrina e della manovra politica, condotta senza pause e interruzioni tra le pagine dei libri e dei giornali e le raffiche delle mitragliatrici degli insorti, va, prima di procedere oltre, richiamato il senso dell’altro contemporaneo testo sull’insurrezione; pure avendo noi già commentato a fondo questa serie di documenti, che urgono e pungolano il Comitato Centrale per lo scatenamento dell’assalto, nella precedente trattazione.

Allora non avevamo davanti questa nefandezza ulteriore, che oggi si perpetra al Cremlino, di prospettare la via dell’insurrezione come propria, al più, della rivoluzione in Russia, ma disertabile negli altri paesi.

Quando Lenin comincia giustamente a preoccuparsi che la Centrale del partito bolscevico, scottata dalla sconfitta del luglio, e anche deviata dall’euforia della vittoria strappata su Kornilov con la tattica (rapidamente transitoria) del fronte unico con tutti i partiti operai-contadini, esitasse a dare l’ordine di far ricorso alle armi per abbattere il governo, egli teme che le obiezioni si riferiscano non a ragioni contingenti della situazione russa, ma ad un’esitazione di principio a proposito del metodo dell’insurrezione, alla tema dell’accusa di «blanquismo» e di «non marxismo»[136].

Nella possente sua indignazione egli vede già levarsi davanti a sé la bestia oscena dell’opportunismo, vede levarsi gli argomenti dei Kautsky, dei social-sciovinisti del 1914 che, con indescrivibile rabbia di ogni rivoluzionario marxista, al fine di avviare milioni di proletari ad essere sgozzati al servizio delle borghesie patrie, avevano osato sostenere che i dettami di Marx vietassero al proletariato di abbattere con la forza e col sangue un potere che per avventura fosse suffragato tuttora dalle menzogne dei mandati parlamentari.

In poche pagine irruenti Lenin sventra la questione come questione di principio, come questione europea e non russa, con dati che Marx ed Engels hanno stabilito fin dal 1848 per tutti i paesi del mondo capitalista, respingendo con ciò la versione di tanti insensati, di allora e degli anni successivi, che solo nel 1917 e nel quadro russo fosse stata costruita la dottrina formidabile della presa violenta del potere, dell’insurrezione guerreggiata, della dittatura e del terrore.

Con quella lettera indimenticata e indimenticabile Lenin discute del «passaggio al socialismo» non per l’Ottobre 1917 e per la Rivoluzione di Russia, di cui sono evidenti tutte le «particolarità» a chi come noi la studi, ma ai fini della vittoria di tutti i proletari, in tutti i paesi capitalistici.

Egli uccide l’ipotesi velenosa che pur in un solo paese possa levarsi un partito marxista, che cancelli dalle sue tavole programmatiche l’arte della forza.

Ed oggi sarebbe ritorno a lui – e a Marx, che qui e in mille altri luoghi difende dalle secolari offese – stabilire, dopo aver chiesto lurida scusa della immortale gloria di Ottobre, che vi sono altre vie, e vie di pacifica strisciata ai piedi della classe sfruttatrice, per passare al socialismo; vie buone nell’altra Europa, negli altri continenti; prescrivendo a questa umanità presa dal delirium tremens e dalla follia del suicidio di specie, rispetto a cui quella del 1914 aveva volti da Campi Elisi, l’anestesia storica, la Rivoluzione indolore!

Né ci occorrerà molto citare, sul volto impunito dei rivendicatori di marxismo-leninismo, dei ringentilitori della ferocia di Stalin, degli «anestetizzatori» dei lavoratori in rivolta a Poznan, delle rivolte scoperte ed annunziate come «già liquidate» in nome delle vie pacifiche (e perché poi non lasciare campare in un gabbiotto, per mostrarcelo a tutti e stabilire da quale pianeta è calato, almeno uno degli «agenti dell’imperialismo»… emulativo?).

13 – Marxismo internazionale

«La menzogna opportunista secondo la quale la preparazione dell’insurrezione, e in generale il considerare l’insurrezione come un’arte, è ‹blanquismo› è una delle peggiori deformazioni del marxismo e forse la più diffusa nei partiti ‹socialisti› dominanti».

Periodo che non parla dunque di Russia, ma di Francia, Germania, Austria, Italia, ecc.

«Il capo dell’opportunismo, Bernstein, si è già guadagnato una trista celebrità accusando il marxismo di blanquismo, e gli opportunisti attuali che gridano al blanquismo in fondo non rinnovano e non ‹arricchiscono [ah come sta bene al suo posto questo verbo, che Stalin insegnò a coniugare ai suoi scolarini: io arricchisco, tu Chruščëv arricchisci, egli Mikojan arricchisce, noi moscoviti arricchiamo, voi italo-francesi arricchite – e questi signori presi assieme appestano tutti quanti] di una jota le già povere ‹idee› di Bernstein.
Accusare i marxisti di blanquismo perché considerano l’insurrezione come un’arte! Si può forse deformare la verità in modo più disgustoso [si può dunque, Roma, Parigi, Mosca?] quando nessun marxista può negare che Marx stesso si è pronunciato nel modo più netto, preciso, categorico sulla questione, definendo appunto l’insurrezione un’arte, dicendo che bisogna trattarla come un’arte, che bisogna conquistare un primo successo, e proseguire di successo in successo, senza interrompere l’offensiva contro il nemico, approfittando del suo smarrimento, ecc.?«
[137].

Nella scottante vigilia Lenin non aveva tempo per erudire le citazioni. Le parole che qui cita, e le altre che si riferiscono a Danton citate nella lettera ancora più accesa dell’8/21 ottobre: de l’audace, encore de l’audace, toujours de l’audace!, come quella: «la difensiva è la morte di ogni insurrezione armata», e quella che citiamo ora noi: «creare un potere esecutivo forte, attivo, senza timori [corsivo nel testo]!» stanno nella serie di lettere che Engels scrisse, in collaborazione con Marx, per la «New York Tribune», e precisamente in quella pubblicata il 18 settembre 1852. Le lettere[138], tutti lo sanno, riguardano la Germania e l’Austria. Se servivano a schiaffeggiare i traditori (nel testo Marx-Engels: In una rivoluzione, chi occupa una posizione decisiva e la abbandona, invece di costringere il nemico a prenderla d’assalto, immancabilmente merita di essere trattato come un traditore – 17 aprile 1852) dopo ben 65 anni di storia, lo servano anche oggi, per i rinculatori spregevoli del XX congresso, dopo 104 anni. Le regole della Rivoluzione sono secolari: questa gente di sterco ogni sei mesi blatera di stare aprendo un nuovo corso. Ma è sempre lo stesso corso, è la cloaca massima della controrivoluzione.

Indubbiamente Stalin, pur macchiato di sangue di compagni, sta uno scalino meno in fondo di questo abisso. Crepò mentre diceva ancora all’imperialismo di Occidente: Ci volete? prendeteci d’assalto!

Lenin nel seguito chiarisce la distinzione tra blanquismo e marxismo, e compie un ciclopico sforzo per fare entrare nella testa dei membri del Comitato Centrale il senso della manovra di fronte unico: dov’è quello che, dopo di lui, l’ha capita? Noi soli, forse, che la rifiutammo sempre in Europa, anche sulla fede di lui.

L’offerta di compromesso, egli grida, non ci lega affatto!
«Sarebbe il più grave degli errori credere che la nostra proposta di compromesso non sia stata ancora respinta, che la ‹Conferenza democratica› possa ancora accettarla. [Dopo poco, da questa conferenza-commedia, per fortuna, e per merito di Trotsky, i bolscevichi uscivano sbattendo violentemente la porta, sebbene alcuni reprimessero i brontolii: vedi nostra Prima Parte]. Il compromesso è stato proposto da partito a partito, non poteva essere proposto altrimenti […] Considerare la Conferenza democratica come un parlamento sarebbe, da parte nostra, errore gravissimo, cretinismo parlamentare della peggior specie, perché anche se la Conferenza si proclamasse parlamento, e parlamento sovrano della rivoluzione, non potrebbe egualmente decidere nulla: la decisione sta fuori della Conferenza, nei quartieri operai di Pietrogrado e di Mosca. Abbiamo davanti a noi tutte le premesse obiettive per un’insurrezione coronata dal successo […] La crisi è matura. Tutto l’avvenire della rivoluzione è in gioco. Tutto l’onore del partito bolscevico è in gioco. Tutto l’avvenire della rivoluzione operaia internazionale per il socialismo è in gioco […] Attendere è un crimine verso la rivoluzione»[139].

In possesso della storia di Ottobre 1917 e della lotta terribile che allo stesso Lenin toccò condurre contro i migliori capi marxisti, in presenza di tutta la successiva rovina per quarant’anni, in tema di marxismo europeo e mondiale, noi siamo decisi a sostenere che nel marxismo-leninismo deve rimanere integrale e universale la dottrina dell’arte dell’insurrezione, che nacque con esso. Vogliamo inoltre, dopo avere fieramente rivendicato il valore della vigorosissima linea di Lenin in Russia, impoverirlo per il mondo occidentale della manovra dell’«offerta di compromesso».

Nell’odierna offerta di emulazione non vi è la certezza della ripulsa, e la ferma decisione di organizzare la lotta che ha per programma e per punto di arrivo la guerra di classe. Vi è, già consumato verso tutti i punti cardinali, il naufragio nel cretinismo parlamentare bollato da Marx, e da Lenin con lui, nel liquame che corre nel fondo della cloaca capitalista.

Morto Stalin, disonorato Stalin, si ha l’ultima prova che tutto è colato a fondo. Quanto meno, per quelli che l’attendevano ancora.

14 – La bussola al socialismo

La catastrofe economica, la disintegrazione della struttura produttiva, che Lenin denunziava nell’agosto del 1917, malgrado la vittoria della finalmente scatenata insurrezione rivoluzionaria, si presentarono con intensità ancor più grave man mano che i mesi e gli anni trascorrevano, davanti al nuovo potere costituito in Ottobre.

Mentre i quartieri operai di Pietrogrado e di Mosca prendono la cosa nelle loro mani, e dietro di loro quelli di tante altre città della Russia (e con ondate non immediatamente ripercosse le stesse campagne) il Congresso Panrusso dei Soviet, come abbiamo descritto, attribuisce la maggioranza dei mandati al partito bolscevico, e sotto la presidenza di Trotsky, che dirige il Comitato Rivoluzionario, riceve ed acclama Lenin, e adotta i primi decreti in cui si compendiano gli atti della Seconda Rivoluzione.

Abbiamo detto abbastanza in quanto precede di quelli «politici». Il Governo provvisorio è deposto, i membri che sono fuggiti, arrestati. Tutto il potere centrale e locale passa ai Soviet. Il nuovo governo russo propone l’immediata pace a tutti i belligeranti, con armistizio di tre mesi. Il partito bolscevico delinea la sua politica al riguardo: se gli Stati dell’Intesa rifiutano, offrirà la pace separata agli imperi tedeschi. Abbiamo già detto quali crisi seguirono a questo orientamento storico, che Lenin sentì per il primo, nel seno del partito e nei rapporti coi socialisti rivoluzionari, che anelavano ad una «guerra santa rivoluzionaria» contro la prepotenza e l’invasione tedesca. Ancora una volta Lenin vide più lontano di tutti, e solo i più decisi marxisti in Europa seguirono chiaramente tale tremendo svolto.

E va ora detto come il Secondo Congresso Panrusso, Primo della Rivoluzione proletaria, considerò le storiche misure sociali.

Siamo in presenza di due gruppi di decisioni. Gli uni riguardano la questione dell’economia manifatturiera, urbana, commerciale – gli altri la questione della terra.

I secondi sono molto più espressivi dei primi per la descrizione dei rapporti propri della società russa, e della loro palingenesi. E perciò si potrà parlarne dopo.

Due avversari sono stati prostrati con le spalle a terra, e si tratterà solo di domare con la forza ogni loro riscossa: la classe dei proprietari feudali e borghesi della terra – e la borghesia industriale e commerciale. Quindi nell’economia dei manufatti non si ripresenta il problema di una lotta tra forze opposte. Ma nell’economia delle campagne tutto è ancora incandescente, perché sotto il governo provvisorio, e con la complicità degli opportunisti, si è tenuta in sospeso per quanto possibile la lotta per la terra, con la pretesa che dovesse in materia legiferare l’assemblea costituente. Una pleiade di forze sociali in contrasto, e tutt’altro che in equilibrio, si muove qui ora.

Diremo dunque delle misure industriali e commerciali. Sebbene qui si tratti delle città, in cui la vigorosa gente «dei quartieri operai» è lì pronta a «sventare» qualunque cattivo giochetto, pure le misure sono, in coerenza a quanto da gran pezza abbiamo tentato di prospettare, limitatissime e si può ben dire timide. Vinta ogni timidità sul diritto ad insorgere, e sulla sicurezza di vincere, e guadagnato un sicuro controllo del campo, poco si può fare nelle operazioni di «politica economica».

Poco il partito e Lenin avevano promesso, e soprattutto mai avevano promesso, nell’economia russa, limitata e spossata dalla guerra, miracoli collettivisti.

Vanno seguite le misure di intervento dello Stato dei Soviet nel campo manifatturiero e commerciale, al solo fine di chiarire l’equivoco base della staliniana «edificazione del socialismo», per dimostrare quanto la realtà, il partito bolscevico, la visione sicura di Lenin ne fossero lontani.

Ben vero dal momento che il partito comunista ha vinto politicamente ed è al potere un governo socialista, nel giusto senso, finalmente, della parola, ogni misura che si adotta è tale da essere volta nella direzione del socialismo, da costituire uno dei quei «passi» nel senso indicato dalla bussola del socialismo, che non solo i borghesi, ma i social-opportunisti soprattutto, non volevano assolutamente fossero compiuti, ritenendo, in forza dei legami che li avvincevano, che fosse dovere «democratico» rispettare gli interessi «legali» anche dei borghesi dell’industria, del commercio, della banca.

15 – Controllo e socializzazione

Abbiamo un progetto di regolamento sul controllo operaio del i 6 novembre 1917[140] (seguiamo il nuovo stile d’ora in poi) e un progetto di decreto sulla socializzazione dell’economia nazionale, del dicembre, opera di Lenin.

Il primo provvedimento di Stato ha la data del 14 novembre, il secondo del 28 dicembre: ma esso riguarda solo le banche.

Il Consiglio Superiore dell’Economia nazionale è istituito con decreto del 18 dicembre. Esso ha in teoria il diritto di «costringere i diversi rami di industria e commercio a sindacarsi» e anche di «requisire e confiscare», ma soprattutto di controllare tutta l’economia del paese[141].

Un primo decreto di confisca a favore della Repubblica viene emesso il 18 dicembre contro la Società Elettrica 1886, col motivo che «si era rifiutata di sottomettersi al decreto sul controllo operaio». Ne seguono molti altri per ragioni isolate: disorganizzazione, debito verso lo Stato, ecc.. È del 20 giugno 1918 il primo decreto di nazionalizzazione di portata generale che riguarda molti settori di base dell’industria, e molti grandi stabilimenti. Il 3 marzo 1918 viene emesso un primo decreto sulla gestione delle officine nazionalizzate. Sarebbe lungo citare per ora la serie di misure sulla disciplina del lavoro: salari; orari; assistenza; vertenze; lavoro delle donne e dei minori, ecc.

Esaminiamo il contenuto delle prime misure che Lenin e il governo studiarono.

Il controllo operaio venne stabilito pochi giorni dopo la rivoluzione, per tutte le aziende con più di 5 operai e 10 mila rubli di giro di affari. I rappresentanti degli operai devono essere immediatamente eletti. I loro poteri sono di vietare ogni sospensione del lavoro nelle industrie di importanza nazionale, di ispezionare tutti i carteggi e i magazzini. Proprietari e delegati operai sono responsabili verso lo Stato dell’ordine e della disciplina nella produzione. I Soviet e le conferenze generali di comitati di operai e di impiegati possono emanare più dettagliate norme sul controllo.

Il 13 dicembre 1917 il governo adotta più precise istruzioni sul controllo e i suoi limiti. In sostanza il controllo consiste nel diritto di sapere tutto sull’andamento dell’impresa, con la facoltà di richiamare l’attenzione del pubblico potere su ciò che si ritenga pregiudizievole alla classe operaia o all’economia generale. Ma dice l’art. 7: il diritto di dare ordini nella gestione dell’impresa, il suo andamento e funzionamento, resta di spettanza del proprietario. La commissione di controllo non partecipa alla gestione dell’azienda e non ha alcuna responsabilità nel suo andamento e funzionamento. Tale responsabilità continua ad incombere al proprietario. E l’art. 8: La commissione di controllo non si occupa delle questioni finanziarie dell’impresa. Ove tali questioni siano sollevate, esse sono trasmesse alle istituzioni direttive del governo.

Queste disposizioni, coerenti alle ben note vedute dei marxisti non deviati in aziendisti-sindacalisti, e a quelle di Lenin, trovarono note resistenze in dati strati della classe operaia e del partito, che inclinavano alla soluzione dell’autonomia delle aziende, in un primo tempo controllate soltanto dal loro personale, e in un secondo, eliminato il proprietario, addirittura condotte non solo tecnicamente ma anche finanziariamente dal personale stesso.

Non svolgiamo ancora a fondo una tale questione, ma è bene dire che essa non corrisponde affatto ad un «modello» di società socialista, e nemmeno alla prima fase economica in cui ci troviamo, nella quale si tratta di un controllo di stato sull’industria tuttora privata, termine di passaggio alla misura, più avanzata ma non certamente ancora «socialista» nel senso economico (in quello politico può ben esserlo anche il semplice controllo operaio o statale), della gestione di un’azienda industriale o altra da parte dello Stato.

16 – Il progetto di Lenin

Il decreto sulla socializzazione dell’economia nazionale è più importante nella redazione che gli dette Lenin, ma non lo si trova tradotto negli stessi termini nelle raccolte di legislazione sovietica. Le proposte di Lenin furono attuate con altre misure. La nazionalizzazione delle Banche fu sancita col breve decreto del 28 dicembre che istituiva la «Banca del Popolo», e dichiarava tutte le operazioni bancarie monopolio di stato. Del 29 dicembre è il decreto che sospende il pagamento dei dividendi sulle azioni di società anonime, e del 21 gennaio 1918 quello che annulla tutti i prestiti dello Stato, interni ed esteri. Varie misure successive salvano i diritti dei piccoli sottoscrittori.

Il decreto sul lavoro obbligatorio, per il territorio di Pietrogrado, è dell’8 ottobre 1918.

Lo schema di Lenin, pure apparendo molto più radicale, non assurge ad una statizzazione generale dell’economia, e si basa sulla motivazione della critica situazione economica, dell’imminente carestia, del sabotaggio borghese, del generale sfacelo,
«che rendono necessari provvedimenti rivoluzionari straordinari per lottare contro queste calamità»[142].

Le misure contenute sono queste. Tutte le società per azioni sono proprietà dello Stato. I membri delle amministrazioni e delle direzioni hanno obbligo di restare al loro posto con determinati stipendi, e sotto il controllo.

Segue l’annullamento dei debiti dello Stato, interni ed esteri.

Altra misura garantisce gli interessi dei piccoli possessori di obbligazioni e azioni. Viene istituito l’obbligo generale del lavoro (sancito come vedremo dalla Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato, ossia dalla Costituzione del 1918). Sono limitati i prelievi periodici di persone che hanno fondi in banca; è vietato detenere denaro liquido, è prevista una sostituzione della moneta per punire i trasgressori.

Per quanto riguarda la distribuzione, questo schema di Lenin abbozza un sistema di società di consumo, cui ogni cittadino dovrebbe appartenere, per
«un giusto inventano e una giusta distribuzione sia delle derrate alimentari che degli altri prodotti necessari»[143].

Ma in effetti il meccanismo distributivo nei primi tempi rimase nelle mani del commercio privato, frazionatosi in mille speculatori, che, anche volendoli reprimere spietatamente, risultavano, in tempi di guerra nazionale e civile, inafferrabili. Sul commercio con l’estero lo Stato rivoluzionario poté subito influire: tuttavia solo del 24 aprile 1918 è il decreto che ne stabilisce il monopolio di Stato. Col decreto dell’8 febbraio lo Stato requisisce tutta la flotta mercantile, salvo i piccoli battelli fluviali e pescherecci.

Tutto questo insieme di misure, in un periodo di assoluta emergenza economica, in sostanza limitava il proposito del potere rivoluzionario a rendersi padrone di un completo censimento delle attività economiche, in modo da potere con misure di eccezione fronteggiare la crisi, la carestia e la miseria, e soprattutto assicurare il vettovagliamento dell’esercito ed il funzionamento dei fondamentali servizi generali e pubblici. Ma anche tale compito, fino a che per gli eventi militari i fronti sono instabili e l’estensione dei territori non è definita, costituisce un problema pressoché insolubile.

Non si trattò dunque di attuare con decreti di Stato il «socialismo»; e se si parlò di periodo di comunismo di guerra fu nel senso di un sistema di provvedimenti di imperio, a cui anche gli Stati capitalistici e tradizionali avevano in molti casi e tempi storici ricorso, con confische, requisizioni, sistemi di controllo, obblighi di denunzie e di consegne di merci, titoli e valute, e così via.

In nessuno di questi decreti, o nella loro presentazione politica al partito e al paese, troviamo in questa fase la dichiarata decisione di «edificare il socialismo» nella produzione dei manufatti o nella loro distribuzione. E del resto gli stessi termini della Costituzione della Repubblica, pur avente il carattere di una formidabile dichiarazione di agitazione rivoluzionaria, non hanno un simile carattere[144].

17 – Le misure rurali

Passiamo ad un campo dove il materiale è molto più espressivo nel senso storico e in quello sociale.

Al secondo Congresso Panrusso dei Soviet lo stesso Lenin presenta la relazione sulla terra, che contiene l’ossatura del relativo decreto, e si riporta ad un testo, già concordato con gli alleati socialisti rivoluzionari di sinistra, partecipi coi bolscevichi al governo, per il «Mandato contadino sulla terra» già pubblicato fin dall’agosto 1917 sulla base di 242 «mandati» dei contadini delle più varie località della Russia. Lenin lesse questo testo l’8 novembre, e il congresso lo approvò insieme alla dichiarazione costituzionale della repubblica.

La relazione di Lenin è integrata da una lettera di lui alla redazione della «Pravda» in data 2 dicembre 1917[145].

Qui noi abbiamo l’incontro di due programmi storicamente diversi ed opposti: quello dei marxisti bolscevichi e quello dei socialisti rivoluzionari. Gran parte dei contadini seguono i secondi, e sono suggestionati dalla loro formula: il godimento egualitario della terra.

Questa formula rispecchia l’ideale della piccola coltura familiare, e confonde col socialismo nel senso completo della parola un semplice egualitarismo, che vuole evitare che una famiglia abbia più terra di un’altra, un contadino più di un altro. La partizione presume che la terra sia ovunque della stessa fertilità; altrimenti gli appezzamenti dovrebbero essere non di pari estensione, ma di pari potenza produttiva. In effetti la campagna russa era quasi tutta di ridottissima fertilità, e malamente popolata e coltivata. Sotto il servaggio o il semi-servaggio colonico al signore o al padrone fondiario, praticamente già ogni famiglia si distendeva su un pezzetto di terra adeguato alla sua forza di lavoro, solo che del poco prodotto ne doveva tale parte al signore e padrone, che col resto riusciva a scarsamente, vilmente, alimentarsi.

La rivoluzione agraria concepita dai «populisti» consisteva nel liberare il contadino, restato fermo sulla piccola terra, dal tributo al nobile, al terriero borghese, all’ordine religioso, o anche allo Stato, lasciandogli tutto il prodotto del suo campo e delle sue braccia, il che avrebbe costituito un enorme vantaggio. A questo postulato si legava, come è chiaro, un’enorme pressione delle masse agrarie, che abbracciavano nello stesso inestinguibile odio la nobiltà feudale, la borghesia di campagna, lo Stato e il clero monastico.

La rivoluzione di febbraio non aveva sgombrato il campo da tutte queste classi e forme sociali; la lotta fremeva nelle campagne, e i contadini ogni tanto insorgevano, mentre il governo provvisorio si andava mostrando sempre più proclive ad adottare i mezzi di repressione poliziesca del regime autocratico.

Questo programma della partizione in pezzi uguali non poteva venire accettato dai marxisti rivoluzionari. Esso avrebbe in sostanza legato la Russia alla secolare eterna miseria, che la stessa emancipazione dei servi nel 1861 aveva aggravato, tanto che le cifre di resa produttiva e di tenore di vita del contadino erano orribilmente basse rispetto a qualunque altro paese.

I marxisti non potevano non propugnare la formazione di più ampie unità di produzione, ove avesse potuto aver gioco il vantaggio del lavoro associato, e a base di una simile formazione della grande coltura ponevano la formula dell’espulsione dalla terra di signori, proprietari e altri enti parassiti, con il passaggio alla proprietà dello Stato: alla partizione (ed anche alla municipalizzazione sostenuta da altre correnti) opponevano la socializzazione della terra, la nazionalizzazione – senza indennizzo – di tutta la proprietà fondiaria.

Mentre per gli esserre il contadino ridotto a bracciante, ossia privo di terra e di anche minima scorta di attrezzi, è un aspirante al «godimento» del suo frammento «ugualitario», per i bolscevichi marxisti egli è proletario puro affratellato nel lavoro ai compagni in una progredita unità, che non deve aspirare a spezzarla ma a strapparla al padronato fondiario e al capitalista rurale per darne la gestione al proletariato vincitore delle città e delle campagne.

18 – Lenin sapeva bene

Esisteva già allora per tutto il mondo una banda di idioti che attribuivano a Lenin il programma della spartizione ai contadini del latifondo, e il trasporto, su questo storico urto tra forze produttive e forme di proprietà, del baricentro della dinamica rivoluzionaria mondiale, subordinandogli quello tra il salariato senza riserva ed il capitalismo della grande impresa. Questa specie di disgraziati non è ancora estinta dopo quarant’anni, ed è dedita a tutt'uomo a spezzettar latifondi con la formula, che prima di ogni altro frega il contadino lavoratore, del godimento egualitario.

Lenin seguiva anche in quel momento la sua magnifica traiettoria storica a cavallo di decenni e decenni, che lo collegava alla teoria agraria di Marx ed alla futura rivoluzione comunista mondiale, senza rotture e storture.

Lenin sapeva che senza muovere i contadini russi la rivoluzione non sarebbe passata, e che mancavano le premesse tecnico-economiche per dare ad essi, a determinarne il moto, alcunché che andasse oltre il «godimento» e lo «sfasamento».

Egli sapeva che diverso era il caso per l’altra base della dittatura rivoluzionaria, il proletariato urbano. I lavoratori dei «quartieri operai di Pietrogrado e di Mosca» non si sollevavano per ottenere godimenti immediati e palpabili. Erano ben più oltre della capacità cui si limita l’energia rivoluzionaria per classi di piccola borghesia povera. Il grado di capitalismo e di imperialismo che in Russia da alcuni decenni aveva fortemente allignato aveva dato loro, come ai loro fratelli di oltre frontiera, quel tanto di pane e di copechi e di istruzione elementare che aveva loro consentito di comprare la stampa del partito, il giornale di classe. Avevano la tradizione e l’esperienza di anni di lotte tremende, dagli anni lontani del 1905 e dai mesi del Luglio e del Settembre, in cui li aveva imbevuti la tradizione bolscevica di partito.

Essi sapevano bene che le «misure» (prima da noi trattate) anche più risolute, nel campo dell’economia manifatturiera urbana, non avrebbero dato loro un etto di pane in più, ma solo provveduto a far reggere l’esercito sui fronti di classe, e le loro squadre armate, a far camminare i treni e funzionare lo Stato della dittatura rivoluzionaria. Il loro partito, e Lenin che per esso parlava, poteva contare su essi e rispondere di essi: non chiedevano godimenti eguali né ineguali, ma sapevano di dover ulteriormente soffrire per la liberazione della loro classe dalla schiavitù capitalistica internazionale.

La base dualista dell’originale potere rivoluzionario che in quel giorno trionfava stava davanti agli occhi dei marxisti e di Lenin: tutto bisognava dare per la stretta alleanza delle due classi, ma non dimenticare mai che la dottrina la mostra passeggera nella storia; passeggera come le meteore che lasciano tutto immutato sul loro passaggio.

Il socialismo era ben più lontano: all’alleato contadino russo doveva presto succedere quello proletario europeo: al massimo (vedi resoconto della riunione di Torino) «venti anni di buoni rapporti coi contadini…» preveduti da Lenin, come la più sfavorevole delle ipotesi.

19 – Linguaggio aperto e sicuro

Lenin ha appena finito di leggere al congresso il «Decreto sulla Terra» ed il «Mandato Contadino». Leva gli occhi sulla fremente assemblea.

«Si sentono qui voci le quali affermano che il Decreto stesso ed il Mandato sono stati elaborati dai socialisti-rivoluzionari. Sia pure. Che importa chi li ha elaborati? Come governo democratico, non potremmo trascurare una decisione delle masse del popolo, anche se non fossimo d’accordo con essa. All’atto pratico, con l’applicazione del decreto, con la sua attuazione nelle varie località, i contadini stessi comprenderanno dov’è la verità. Ed anche se i contadini continueranno a seguire i socialisti-rivoluzionari, e anche se daranno nell’Assemblea Costituente la maggioranza a questo partito, diremo anche qui: sia. La vita è la migliore maestra e mostrerà chi ha ragione. I contadini partano pure da un estremo e noi dall’altro [udite, udite, diciamo noi, non il congresso] per risolvere la questione […]. I contadini hanno imparato qualche cosa durante gli otto mesi della nostra rivoluzione. Essi stessi vogliono risolvere tutte le questioni della terra […]. Le risolvano essi secondo il nostro programma o secondo quello dei socialisti rivoluzionari – non è questo l’essenziale. L’essenziale è che i contadini abbiano la ferma convinzione che i grandi proprietari fondiari non esistono più nelle campagne, che i contadini risolvano essi stessi tutti i loro problemi: che essi stessi organizzino la loro vita». (Fragorosi applausi)[146].

Quali erano i termini dell’incontro, partendo dai due estremi opposti? Il decreto comincia: «La grande proprietà fondiaria è immediatamente abolita senza alcun indennizzo». Qui hanno capitolato gli esserre. Un loro decreto avrebbe detto: la proprietà, anche del demanio statale, passa ai contadini che lavorano la terra – oppure anche: alle municipalità rurali che la attribuiranno egualitariamente alle famiglie contadine. Vittoria solo teorica: d’accordo.

Il secondo articolo dice che le tenute tutte e le loro scorte passano
«a disposizione dei comitati agricoli mandamentali e dei Soviet distrettuali dei delegati contadini fino alla convocazione dell’Assemblea Costituente».

Di qui il richiamo nel discorso di Lenin alla fine. Ma poco dopo Lenin avrebbe vergato il decreto di scioglimento di quell’assemblea, in cui bolscevichi e socialrivoluzionari di sinistra sarebbero stati battuti nel voto. Poco ancora più oltre, con la questione di Brest Litovsk, i socialrivoluzionari avrebbero rotto l’accordo di governo e preso le armi, restando battuti.

Lenin sapeva tutto, e quindi giocò ascoltatori ed alleati? Oh quale miseria! Il partito era condotto in modo da superare tutte quelle alternanti eventualità, e fare a meno a breve scadenza dell’appoggio del partito politico degli esserre, a scadenza storica dell’alleanza contadina. Ben preparato a non consumare la scempiaggine di lasciare il potere per il voto di una Costituente, e magari di un Congresso dei Soviet, senza il saggio della fisica forza.

Il terzo articolo contiene misure radicali contro i possibili danneggiamenti di colture e attrezzi utili in una precipitosa invasione delle terre confiscate, sotto la responsabilità dei locali Soviet. Il quarto richiama il Mandato. Il quinto (successo degli esserre) esclude da confisca le terre «dei semplici contadini e dei semplici cosacchi».

Nel «Mandato» è ripetuto il rinvio alla Costituente. È contenuto il principio della nazionalizzazione di tutta la terra che diventa «patrimonio di tutto il popolo e passa in godimento [o usufrutto] di coloro che la lavorano». È il principio esserre del godimento, che sopprime decime e affitti in natura o denaro. È sancito che il grande capitale scorte passa allo Stato, il medio alle comunità, il minimo ai contadini «che hanno poca terra». Formula di compromesso: dalla spartizione della terra si passa a quella del capitale. Ma la prima è eterna, il secondo no.…

È vietato il lavoro salariato, prevista la gestione di famiglia, e anche quella cooperativa. La terra confiscata è divisa dalle comuni locali col principio del godimento uguale «in base alla norma del lavoro e del consumo», ma la tecnica di gestione è dichiarata libera: sono previste le ripartizioni periodiche. Qui vediamo tornare un’istituzione che è pre-borghese, propria del mir agricolo, e superstite fino al secolo XX tra comunità asiatiche e germaniche: la ricomposizione dei possessi – l’ideale che i populisti scambiano grossolanamente col socialismo, seguiti da cento partiti, dai cattolici ai repubblicani e ai fascisti.…

20 – Coerenza totale al marxismo

La lettera alla «Pravda» del 2 dicembre rispose evidentemente alle perplessità di non pochi bolscevichi: non abbiamo fatto concessioni di principio?

Lenin spiega di avere rassicurato i presenti al Congresso Contadino sulla possibilità di un’alleanza «onesta» tra bolscevichi ed esserre, tra operai salariati e contadini – mentre tale possibilità manca in ogni alleanza tra classi sfruttate e borghesia.

Lenin cita Kautsky «quando era ancora marxista». I provvedimenti di transizione verso il socialismo non possono essere gli stessi nei paesi di grande e di piccola agricoltura.

E Lenin ricorda quali provvedimenti del genere interessano gli operai salariati:
«controllo operaio sulle fabbriche, seguito dalla loro espropriazione; nazionalizzazione delle banche; creazione di un Consiglio superiore che regoli tutta la vita economica del paese».
Assicurate queste condizioni
«perché vinca il socialismo» gli operai «debbono consentire alle misure transitorie proposte dai piccoli contadini lavoratori e sfruttati»[147].

Un esserre di sinistra chiese a Lenin: che farete, se dipenderà da voi la maggioranza dell’Assemblea, quando la borghesia si opporrà alla spartizione del godimento della terra? Lenin ebbe la pazienza enorme di non dirgli: Aspetta un poco, e non vedrai né frazione borghese, né Assemblea; e rispose, dal poderoso dialettico che era: Ebbene, voteremo per la vostra proposta, dopo aver fatto una dichiarazione secondo la nostra dottrina agraria marxista. «Esprimeremo il nostro disaccordo teorico dal godimento egualitario della terra», la cui esistenza non nuocerà alla causa del socialismo, se il potere è nelle mani di un governo operaio e contadino.

21 – Il compromesso quanto duró?

Evidentemente nel «piano» di Lenin la tolleranza dei piccoli godimenti avrebbe trovato un rapido superamento se una vittoria dei comunisti europei avesse posto nelle mani del proletariato vincitore forti capitali pronti all’esercizione agricolo, da rovesciare anche nelle campagne russe. In mancanza di questo egli pose in venti anni il limite per disporre in Russia di un simile capitale industriale statizzato, e far prevalere la grande coltura, che nello stesso mandato contadino era stata fatta salva per le terre ad alta coltura che passavano – oltre che in proprietà – anche in godimento dello Stato.

Come la forma attuale ha risolto il compromesso del 1917? Ecco il risultato che deve uscire dall’esame della struttura russa. La gestione statale (sovcos) è oggi gravemente minoritaria. Ha forse una gestione cooperativa prevalso su quella familiare? Esse si sono «ibridate» nell’istituzione dei colcos, in cui terra e capitale, in quanto non di godimento dello Stato (e, quanto al capitale e alle case, nemmeno di proprietà di esso), si suddividono tra i grandi lotti collettivi del colcos, in cui praticamente i colcosiani lavorano da salariati, e la somma dei piccoli lotti delle unità familiari nelle quali vive e trionfa la formula del «godimento egualitario». Fu questa subita da Lenin, ma non con la visione di ben quarant’anni, e non col proposito di «consolidarla» anziché assoggettarla ad una progressiva eliminazione; non alla moda di una repubblica fascista, o clericale, o laico-popolare.

Ai congressi di Mosca raccontano molte storie dell’economia russa, ma non forniscono i dati per misurare, relativamente tra gestione statale, cooperativo, e familiare le grandezze: della terra goduta, in superficie e valore fertile, del capitale che vi è dedicato, della forza lavoro che vi si applica.

Noi possiamo tentare questa misura, e quel che più importa indagare la curva della sua presumibile variazione. Ma fin da ora una cosa per noi è certa, morto Lenin, morti i nemici di Stalin, e Stalin: nessuna delle tre è forma socialista!

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XVIII)

22 – Mentitori silenzi nel «Breve Corso»

Ricordano certo i presenti alle riunioni, ed anche tutti i lettori del resoconto sintetico pubblicato dopo Genova in due puntate[148], che abbiamo tratto validi argomenti per la nostra tesi dal paragone tra la Costituzione russa del 1918 e quella del 1936, oggi vigente.

La tesi è che tale costituzione fu un passo indietro clamoroso, e noi la leghiamo dialetticamente al fatto che la seconda pretende di reggere una società socialista, mentre la prima, che dichiara la lotta della dittatura proletaria in un mondo economico pre-socialista (termine con cui indichiamo l’incontro di elementi capitalisti e precapitalisti), è la sola rivoluzionaria e dottrinalmente marxista.

Di quella prima Costituzione il «Breve Corso di Storia del Partito comunista (b)», che ormai citiamo non più per demolirlo, ma per dedurne la verità partendo dalla confessata sua natura di «giardino delle bugie», tace totalmente. Tutto ciò che vagamente vi si riferisce sono due sole frasi, messe lì tanto per imbonire sui «contributi» di Stalin, inconcusso autore del nuovo testo 1936.

E valga il vero. A pag. 183 dell’edizione italiana si dice:
«In una speciale decisione del governo sovietico, nota sotto il nome di ‹Dichiarazione dei Diritti dei Popoli della Russia›, si stabilisce che il libero sviluppo dei popoli della Russia e la loro piena eguaglianza sono consacrati dalla legge».
Si tratta in effetti di un decreto del 17 novembre 1917 firmato da Stalin come Commissario alle Nazionalità e da Lenin, e non si aggiunge che il suo contenuto fu poi compreso nella Dichiarazione, che divenne la prima Costituzione della Repubblica. Quindi non vi è qui nemmeno un vero cenno di questa. Tutto si riduce a queste altre parole (pag. 190):
«Al V Congresso dei Soviet fu approvata la Costituzione della R.S.F.S.R., la prima Costituzione sovietica».
Il «Breve Corso» quindi tace addirittura dell’origine della Costituzione del 1918, tace del III congresso, tutto occupato in quel capitolo ad «edificare» la menzogna del complotto di Trotsky e Bucharin coi tedeschi, citando col solito metodo Lenin che avrebbe detto che quei due
«avevano di fatto aiutato gli imperialisti tedeschi e ostacolato il progresso e lo sviluppo della rivoluzione in Germania».

Questa frase anzitutto riguarda Bucharin e non Trotsky, e poi ha il senso che Bucharin – che accusava di essere stati deboli coi tedeschi i compagni del Comitato Centrale che avevano condannata la sua tesi della guerra rivoluzionaria, e firmata la pace – aveva involontariamente agito lui nel senso che attribuiva agli altri, ossia favorendo il gioco tedesco.

Si tratta dell’articolo «Una lezione seria e una seria responsabilità» pubblicato il 6 marzo 1918 nella «Pravda», che si legge nelle «Opere Scelte», edizione italiana, vol. II, pagg. 260–273[149].

La polemica è contro il «Kommunist», che fecero uscire a Pietrogrado tra il 5 e il 19 marzo 1918 i «comunisti di sinistra» costituiti in frazione, tra cui non era Trotsky. Il passo di Lenin è questo:
«N. Bucharin cerca oggi perfino di negare che egli e i suoi amici sostenevano l’impossibilità che i tedeschi attaccassero. Molti, moltissimi sanno che Bucharin e i suoi amici sostenevano ciò e, diffondendo una tale illusione, hanno aiutato l’imperialismo e ostacolato i progressi [corsivi del testo] della rivoluzione tedesca, che ora è indebolita perché alla Repubblica sovietica grande-russa sono stati strappati, allorché l’esercito contadino fuggì in preda al panico, migliaia e migliaia di cannoni, e ricchezze per centinaia e centinaia di milioni»[150].

La ritorsione polemica è quanto si vuole amara ed aspra, e meritata, ma non è nemmeno per sogno accusa di tradimento!

Dobbiamo chiedere scusa. Abbiamo dimenticato che è inutile dimostrare che una affermazione di testi stalinisti sia bugia. Ma non già perché Stalin sia stato sbugiardato dagli altri collaboratori del «Breve Corso»! Questi hanno conservato il metodo Stalin dell’edificazione della bugia, perfino quando a Stalin stesso oggi lo applicano. La «Stella Rossa» dice di lui per la guerra 1942 quello che nel 1918 si dovette dire di Bucharin: Stalin per i suoi gravi errori (di preparazione strategica) facilitò l’avanzata tedesca. Ma quando storiograferanno che Stalin era pagato da Hitler, non lo crederemo.

23 – Dichiarazione dei diritti

La storia del documento messo da Stalin e soci in ombra è questa. Il progetto è di Lenin, e il titolo che gli dette è «Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato». Fu redatto in fine dicembre 1917 ed apparve sulla «Pravda» del 17 gennaio 1918, essendo stato adottato dal Comitato Esecutivo Centrale dei Soviet, eletto dal II congresso panrusso dei primi di novembre, nei giorni della Rivoluzione, e formato da bolscevichi e socialrivoluzionari di sinistra.

Fu reso pubblico alla vigilia della convocazione della Costituente fissata per il 18 gennaio. Infatti il testo è compilato come se lo dovesse adottare la Costituente, che tra il 18 e il 19 gennaio fu liquidata come sappiamo.

Come mai Lenin lo redasse in tale forma? È facile intenderlo se si tiene presente la tesi di Lenin sull’argomento appunto dell’Assemblea Costituente, che già era stata pubblicata sulla «Pravda» fin dal 25 dicembre 1917. Essa, coerente alla dottrina ed alla visione storica che risalgono (ripetiamolo) alle «Tesi di Aprile» 1917, finisce con due ipotesi sole: o l’Assemblea riconosce il potere sovietico, e si scioglie trasmettendo i poteri al C.E.C. uscito dal Congresso dei Soviet; ovvero
«la crisi può essere risolta soltanto per via rivoluzionaria, soltanto con l’applicazione delle misure rivoluzionarie più energiche, rapide, ferme e risolute […] indipendentemente dalle parole d’ordine e dalle istituzioni dietro le quali la controrivoluzione può nascondersi, inclusa l’appartenenza all’Assemblea Costituente»[151].

Questo è parlar chiaro. L’ultima frase dice:
«Ogni tentativo di legare le mani al potere sovietico in questa lotta sarebbe un aiuto alla controrivoluzione».

Se fossimo dediti all’alcool, e in un momento di ebbrezza scrivessimo che Lenin fu un artista della storia, diremmo che questo, della dispersione della Costituente, resta per noi il Capolavoro.

Il progetto dunque era scritto in modo che la maggioranza dell’Assemblea dovesse votarlo. Ma tale maggioranza, lungi dal votarlo, rifiutò di prenderlo in considerazione. Qui ci sia consentito, sebbene abbiamo bevuto acqua pura, di citare ancora il grande materialista storico Caio Duilio. Quando muoveva incontro alla poderosa flotta di Cartagine, gli àuguri compunti gli portarono i sacri polli: Non dare battaglia, ammiraglio, i polli non hanno voluto mangiare; cattivo presagio! Vadano dunque a bere, disse Duilio, lanciandole nelle cerulee acque tirrene e ordinando di porre le prore rostrate sul nemico.

Era evidente che quella presuntuosa assemblea, in cui figuravano, in bel mazzo, tutti i social-traditori, non avrebbe mai approvato il progetto di Lenin. Costituite in fretta, e sgombrate, voleva dire Vladimiro.

Diceva infatti il testo alla fine, e prima del capoverso sulle nazionalità proposto come si dice da Stalin, così:
«Il potere deve appartenere interamente ed esclusivamente alle masse lavoratrici e alla loro rappresentanza plenipotenziaria – ai Soviet dei delegati operai, soldati e contadini. L’Assemblea Costituente, appoggiando il potere sovietico ed i decreti del Consiglio dei Commissari del Popolo, ritiene di esaurire i propri compiti stabilendo le basi fondamentali della trasformazione socialista della società»[152].

La sera del 19 la commedia era finita. Gli onorevoli costituenti furono mandati a bere. Non ci fu il bagno di sangue, si trattò di poche pedate del reparto dei marinai rossi inviato a proteggere l’Assemblea.

Dal 23 al 31 si aduna il III Congresso Panrusso dei Soviet. Come primo suo atto ratifica con entusiasmo la livragazione della Costituente. Poi ratifica, il 24 gennaio 1918, la «Dichiarazione dei Diritti del popolo» proposta da Lenin: dobbiamo ritenere che non ci fu nemmeno il tempo di correggere la forma iniziale di ogni accapo. Vi era altro all’orizzonte; il nembo di Brest Litovsk.

Il «Breve Corso» ignora questo III Congresso dei Soviet, ed anche il IV. Solo il V Congresso nella seduta del 10 luglio adotta la Costituzione completa, elaborata da una speciale commissione presieduta da Sverdlov, di cui la prima parte è formata dalla «Dichiarazione» adottata dal Terzo.

Data quindi della Prima Costituzione: 10 luglio 1918. Data della «Dichiarazione», come adottata al III Congresso ed inserita nella Costituzione dal V: 24 gennaio 1918.

Messa così a posto la storia del documento, su cui si fa qualche confusione, va considerato il testo definitivo della Costituzione di Luglio, liberandosi dal parlamentare puzzo del termine Assemblea Costituente.

24 – Rivoluzioni e costituzioni borghesi

Tutta l’impostazione della storica questione sta a mostrare come il partito comunista, che aveva fatto una rivoluzione proletaria nella forma dittatoriale più decisa, e con l’aperta proclamazione del programma socialista, costruisca una macchina legale atta a funzionare nell’interesse e nelle mani della classe lavoratrice, ma sa che funzionerà su di una materia sociale, un terreno sociale, che deve ancora finire di diventare borghese e deve impiegarvi un lungo periodo. Ossia eredita un compito storico parallelo, se pure diverso, a quello delle rivoluzioni borghesi di altri paesi del mondo.

Dopo la caduta dello zar e del feudalesimo, dal febbraio 1917, la Russia non si era tracciata una costituzione simile a quella degli altri paesi che avevano rotto le pastoie e i vincoli del sistema feudale e dispotico.

Da questo punto di vista la costituzione che i bolscevichi preparano per la Russia è simile a quelle delle rivoluzioni americana e francese, che le poggiarono su «Dichiarazioni di diritti» dell’Uomo, e poi dell’Uomo e del Cittadino. Ma è tra le prime parole del marxismo la critica storica di questa posizione ideologica, per cui la borghesia mostrò di credere che il suo sistema fosse quello stesso della natura, e che bastasse tagliare certi legami per riconoscere quei principi di diritto su cui l’umanità futura si sarebbe senza sforzo adagiata in una generale pacifica uguaglianza. Marx giovane afferma e prova come quell’Uomo e quel Cittadino, di cui si sanciscono i diritti, sia l’uomo della Società borghese, il Cittadino dello Stato borghese, ossia il membro della classe borghese sotto il riflesso prima economico e poi politico, detentore di ricchezza e di potere.

Ove questo trapasso storico è un fatto compiuto, la rivoluzione socialista non avrà da copiare Costituenti e Costituzioni, e tanto meno di carattere stabile, statico; pretese copie di un raggiunto e finora falsato modello «naturale». Non stabilirà la scrittura di nuovi e diversi diritti personali, ma svolgerà la forza di una nuova classe, che avrà bisogno di un’ultima macchina-stato, e con essa di un attrezzo-costituzione, e di un ingranaggio positivo di diritto, al solo fine di assicurare la capovolta dominazione di classe, sapendo che tutto ciò si esaurirà nella misura e nel tempo in cui le differenze di classe verranno in un corso non breve eliminate.

Programmaticamente anche in Russia la Rivoluzione ha questo compito, ma non è un suo compito «territoriale», bensì un settore del compito mondiale della classe proletaria, altrove ancora giacente sotto la Dittatura del Capitale.

Territorialmente, per non dire nazionalmente, deve avere un diritto e una Carta fondamentale di esso, come Inghilterra, America, Francia e tutti gli altri paesi moderni. Questo è un suo compito borghese.

Si poteva e si seppe pagare questo debito storico senza rinnegare la perfetta posizione dottrinale. La «Dichiarazione» non ignora, come quelle di oltre un secolo prima, la dinamica sociale delle classi, e d’altro lato non ammette che il contenuto della Rivoluzione sia soltanto politico e giuridico. Essa traduce la formula, che non è quella delle rivoluzioni liberali antiche, e nemmeno quella delle rivoluzioni socialiste future, della dittatura democratica degli operai e dei contadini, in una proclamazione che ha un sapore giuridico, ma non si ferma al diritto individuale di ogni individuo abitante nel territorio e suddito dello stato, bensì afferma le rivendicazioni storiche di due classi sociali con la formula, ibrida storicamente quanto socialmente impeccabile, dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato.

Per le Carte borghesi, Società Popolo e Stato hanno gli stessi confini, e le stesse classi debellate, come la nobiltà, distrutti gli Ordini cadono nel popolo, e nel suo diritto personale.

Perciò Marx fin dal 1844 indica come tra questi diritti di tutti, oltre alla libertà e all’eguaglianza, siano nella Costituzione del 1793 indicate la sicurezza e la proprietà, che interessano solo la minoranza abbiente, e la interessano contro la restante maggioranza[153].

La rivoluzione russa storicamente ibrida deve portare per ancora una generazione almeno il fardello del popolo, almeno come fardello terminologico, ma prima di caricarselo lo ha frantumato in due: caccia proprietari e borghesi fuori della Costituzione, e ne fa salvaguardia dei diritti solo dei «lavoratori» e degli «sfruttati»: deve con questo secondo termine piuttosto ambiguo abbracciare tanto i salariati, quanto i piccoli contadini, i contadini «poveri» ma non nullatenenti e senza-riserva come gli operai.

25 – La «Dichiarazione» del 1918

Ammesso che, senza nessun carattere di «eternità» anche nel senso giuridico, il proletariato giunto al potere di un paese capitalista a pieno sviluppo debba promulgare una Carta, essa non potrà parlare di Popolo, ma parlerà di Classe.

Forse parlerà anche di Diritti nel senso, sempre passeggero, in cui Marx li prevede per il periodo inferiore del socialismo, in cui saranno copia del diritto borghese, come puro espediente di gestione sociale. Ma saranno diritti di classe, legati alla presenza nello Stato di una sola classe, ossia di quella dei proletari senza riserva di lembi di proprietà e di capitale, e quindi escludendo i piccoli possessori e produttori, anche se possono cadere sotto le espressioni generiche di lavoratori e di sfruttati, in quanto nella società capitalistica ogni piccolo gestore economico è sfruttato dagli strati sovrastanti, ed anche il piccolo dal grande capitalista; e permangono nell’agricoltura quanto nella manifattura forme miste di lavoro, capitale e proprietà, in cui in non pochi casi lo sfruttamento è più intenso che per il salariato puro, e per grandi strati di salariati puri.

Se in questo caso occorrerà una «Dichiarazione» dei diritti del salariato, sarà nella misura in cui, dopo la rivoluzione politica, dovrà persistere la forma salario legata con lo scambio mercantile.

Nella Costituzione del 1918 non solo è dato atto del sopravvivere in un lungo futuro di tale forma non socialista, ma altresì di forme ancora più basse storicamente ed economicamente. La prova sta nel suo testo.

Ma la Costituzione non cessò per questo di essere in Russia e fuori di Russia un potente strumento di agitazione, in quanto confrontata con quelle dei più progrediti Stati borghesi, nessuna delle quali aveva Osato arrivare a vietare lo sfruttamento, per insufficiente che sia una tale espressione sulla linea della dottrina marxista. Fecero il giro del mondo le formule, che riempivano i giovani proletari e rivoluzionari del tempo di irrefrenabili entusiasmi: soppressione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo – chi non lavora non mangia – chi non lavora non vota. Nessuno rinnega quegli entusiasmi generosi, ma i militanti di un partito marxista devono sapere che mai si potrà chiudere in una dichiarazione di diritti e di principi giuridici (concetto diverso da quello dei principi teorici di partito, che sono principi scientifici) il contenuto della Rivoluzione Comunista distruttrice della forma capitalista moderna.

Qualche Costituzione borghese ha posteriormente fatto qualche pallido passo in avanti, come quella dell’italica Repubblica fondata sul lavoro. Che vuol dire ciò? Diritto per diritto, si può leggere che è fondata sul lavoro sfruttato, sul lavoro degli altri.

Prima di andare avanti, indichiamo che già il II congresso dei Soviet con la data 30 novembre 1917 aveva votato una breve «Costituzione» limitata a pochi accapi che potrebbero dirsi di «organizzazione dello Stato».

Il Consiglio dei Commissari del Popolo (che prendono il posto dei ministri borghesi) risponde al Comitato Esecutivo Centrale dei Soviet. Tutti gli atti importanti sono sottomessi all’approvazione del C.E.C.

Le misure di lotta alla controrivoluzione sono prese dal Consiglio dei Commissari, sotto riserva della sua responsabilità verso il C.E.C. Quindici membri di questo possono avere diritto di interpellanza al governo dei Commissari, che deve dare immediata risposta.

Il testo completo del 1918, 10 luglio, infine stabilisce che unica legge fondamentale della R.S.F.S.R. è costituita dalla Dichiarazione ratificata dal II congresso e dalla Costituzione che la segue.

26 – Conquiste, scopi e mezzi

Il I Capitolo del I Titolo della Dichiarazione, nella sua forma definitiva[154], riguarda due risultati di fatto, e di natura politica, che segnano traguardi raggiunti e non comportano commento.

Art. 1 – La Russia è proclamata Repubblica dei Soviet dei deputati degli operai, soldati e contadini. Tutto il potere, centrale e locale, appartiene ai Soviet.

Art. 2 – La Repubblica sovietica russa viene costituita, sulla base di una libera unione di libere nazioni, come Federazione di repubbliche nazionali dei Soviet.

Il II Capitolo stabilisce gli scopi sociali della Repubblica rivoluzionaria, che nel corso futuro dovranno essere raggiunti. L’art. 3 ne dà il primo elenco, con la formula:
«Allo scopo fondamentale… il II congresso panrusso dei Soviet decreta, ecc.».

Esaminiamo partitamente la natura storica degli scopi elencati.

Soppressione di ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Senza tornare sul valore scientifico di una tale espressione, essa è una presa di atto che nella società russa lo sfruttamento esiste, e si deve lottare per eliminarlo.

Completa eliminazione della divisione della società in classi. Questo scopo contiene il totale programma socialista. Allorché esso sarà raggiunto, giusta la nostra dottrina, non vi saranno né Stato, né Costituzione. Va ricordato che l’estensore del testo è Lenin, e che in primo tempo il testo dovette avere anche l’adesione degli esserre. Questi erano alleati dei bolscevichi al II congresso; al III uscirono dal governo; al IV tentarono la via della forza restando schiacciati.

Repressione senza pietà della resistenza degli sfruttatori. Prendiamo la formula del progetto di Lenin al posto di quella della raccolta francese di legislazione comunista del Labry, che qui ci pare tradotta male: spietato sterminio degli sfruttatori. Il senso è quello della dittatura di classe. Gli sfruttatori vi sono, come lo sfruttamento. Se si opporranno, non tanto alle misure sociali, quanto alla loro estromissione da ogni diritto politico e dal potere, la repressione di ogni tentativo di violare le decisioni del potere proletario o di rovesciarlo sarà inesorabile. Quindi la Costituzione non ci racconta, come quella del 1936, che non vi sono più sfruttamento e sfruttatori, ma prevede come trattare questi, fino a che ci saranno ancora.

Instaurazione dell’organizzazione socialista della società e vittoria del socialismo in tutti i paesi. L’edizione di Lenin in italiano a Mosca dice creazione; il testo francese, che stavolta preferiamo: établissement. Nessuna virgola separa i due concetti, che leggiamo insieme, ossia ponendo come scopo la società socialista non nella sola Russia, ma in tutti i paesi.

In ogni modo a parte sottigliezze grammaticali il senso è che lo scopo è il formarsi dell’economia socialista in Russia, come in ogni altro paese, e che questo avverrà con la vittoria in tutti i paesi. Per vittoria del socialismo intendiamo la presa del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario. Il concetto ricorre così in tutti i testi di Lenin, che all’epoca vedeva imminente la vittoria in Europa.

Quindi non socialismo constatato, né socialismo promesso nel territorio russo isolato.

27 – Le misure decretate

Alla premessa, che descrive gli scopi storici della rivoluzione, seguono, da a) a g), sette provvedimenti nel testo francese, che si atteggia ad ufficiale o tratto da fonti ufficiali, e 5 in quello di Lenin. Trascureremo le differenze minori, in quanto alcuni degli accapi contenuti nella Dichiarazione sono gli stessi del già illustrato «Mandato contadino» del II congresso.

a) Al fine di attuare la socializzazione del suolo, la proprietà privata di esso è abolita, e tutti i terreni vengono dichiarati proprietà nazionale, e trasferiti ai lavoratori, senza indennità e in base al principio dell’eguaglianza di godimento.

b) Le foreste, le ricchezze del sottosuolo e le acque d’interesse nazionale, così come i beni immobili e mobili delle fattorie modello e delle grandi aziende agricole moderne, sono dichiarati proprietà pubblica.

Come già sappiamo questa misura di nazionalizzazione della terra è concreta ed immediata ma non è di contenuto socialista, e nemmeno di capitalismo statale, finché vige la formula del godimento per aziende frazionate.

c) Come primo passo verso il definitivo possesso, da parte della Repubblica operaia e contadina dei Soviet, di tutte le fabbriche, officine, miniere, ferrovie ed altri mezzi di produzione e di trasporto, è ratificata la legge promulgata dai Soviet sul controllo operaio e sul Consiglio Superiore dell’Economia nazionale, al fine di garantire il potere dei lavoratori sui datori di lavoro.

Non occorre notare l’estrema modestia economico-sociale di questa misura pratica. In sostanza non sarà incostituzionale in avvenire l’esistenza di gestioni industriali capitaliste private.

d) La legge sull’annullamento dei prestiti contratti dal governo degli zar, dei proprietari fondiari e della borghesia, è il primo colpo portato al capitale finanziario internazionale. La vittoria completa della rivolta del proletariato internazionale contro il giogo del capitale non potrà essere ottenuta che se i Soviet continuano a seguire la via tracciata dalla detta legge.

e) Il trasferimento delle banche nelle mani dello Stato operaio e contadino è una delle condizioni per l’emancipazione delle masse lavoratrici dal giogo del capitale.

f) Per annientare le classi parassitarie della società è decretato il lavoro generale obbligatorio.

g) Per assicurare la pienezza del potere alle masse lavoratrici ed eliminare definitivamente la possibilità che sia ristabilito il potere degli sfruttatori, sono decretati l’armamento degli operai e dei contadini, la formazione dell’armata rossa socialista, e il completo disarmo delle classi possidenti.

Questa parte finale è la più importante. Dichiarare che le classi privilegiate non esistono più è uno scherzo facile, che sarà fatto dal 1936. Ma la posizione rivoluzionaria è lo scontarne la sopravvivenza, e predisporne il rigoroso disarmo da parte del proletariato armato.

28 – Politica internazionale

Il III Capitolo della Dichiarazione riguarda le questioni mondiali. La guerra che è ancora in corso è definita «la più criminale che ci sia mai stata». Sono ribadite la rivendicazione di abolire i trattati segreti, l’organizzazione della fraternizzazione ai fronti, e la realizzazione «con misure rivoluzionarie» del diritto dei popoli a disporre di se stessi. Ciò nell’art. 4. Il 5 contiene la condanna dell’imperialismo e della barbarie coloniale con l’asservimento al capitalismo di interi popoli di colore. L’art. 6 ratifica le decisioni di lasciar libere la Finlandia e l’Armenia, ed evacuare militarmente la Persia.

Il Capitolo IV riguarda la questione interna delle nazionalità, dopo aver ribadito il principio della dittatura, ossia l’assoluta esclusione degli sfruttatori di lavoro altrui da ogni minimo diritto politico.

L’art. 8 definisce la questione nazionale (le cui violazioni da parte di Stalin tanto dovevano nel seguito indignare Lenin[155] mentre Stalin non fa che vantarsi autore di queste parti del testo). Mirando a realizzare una unione libera, volontaria e completa, e perciò tanto più solida e duratura, dei lavoratori di tutta la Russia, il Congresso si limita a formulare i principi su cui si basa la Federazione delle Repubbliche Socialiste dei Soviet, riconoscendo agli operai e contadini di ogni nazione il diritto di decidere liberamente, nei loro congressi dei Soviet [qui il progetto Lenin dice «investiti di pieni poteri»; il testo francese citato dice invece «autorizzati», che sarebbe altra cosa: da chi, si direbbe?] se desiderano partecipare, e su quali basi, al governo e alle altre istituzioni federative di Russia.

Qui siamo al termine della «Dichiarazione». Ne risulta che non vi era allora nessuna impazienza di dichiarare che in breve tempo si sarebbe avuto il socialismo come struttura produttiva, ma erano invece in primo piano problemi politici affrontati e risolti con spirito di classe e rivoluzionario, e soprattutto con rigida coerenza alla dottrina marxista.

Il primo punto è la severa applicazione della dittatura, e se del caso del terrore, alle classi spossessate dal potere, anche quando per lungo tempo conserveranno funzioni e quindi privilegi economici.

Altro punto è la previsione della controrivoluzione e le misure per fronteggiarla. Combattere e non «costruire» è la consegna della storia. Combattere vuol dire soprattutto distruggere: lo sarà tanto più in quanto si subirà una guerra di assedio; stretti in cerchio sempre più piccolo attorno alle due grandi città, che possono produrre armi, ma non vettovaglie per la popolazione e i combattenti. Istituire la guardia armata interna e l’esercito per i fronti esterni, armarli, nutrirli, ecco il primo problema.

Terzo punto. Al luglio con la pace di Brest la Russia è libera dalla guerra internazionale: ma continua lo stesso l’esigenza di stroncarla, di lanciare nel mondo l’invito al proletariato di ogni lingua a gettare le armi, a sabotare l’imperialismo, ad attaccare alla base il mostro della forma capitalista. Questa la via per alleggerire la Russia dallo sforzo militare contro gli assalti bianchi alimentati dalle potenze estere, e per risolvere il problema del passaggio al socialismo che è problema ultra-nazionale, per la Russia soprattutto.

29 – Aspri itinerari della rivoluzione

La «Dichiarazione» è un altro documento che mostra menzognera la tesi degli stalinisti che Lenin vedesse addossato al solo proletariato russo, oltre la guerra di classe, il compito assurdo di «costruire il socialismo».

Questo termine equivoco, con altri che dialetticamente si introdussero nell’agitazione per storica necessità, ma da uomini che avevano la forza di farlo senza menomamente intaccare il «sancta sanctorum» della teoria, che è la vita del partito rivoluzionario – come ad esempio il famoso abolire lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo –, si lega in fondo al transitorio «blocco» con gli esserre, stretto per la conta dei voti e sulla carta, rapidamente sciolto con le fucilate – essi presero i fucili: una prima volta nella storia i proletari non fecero la fine di Francia 1831, 1848, 1871, Germania 1918, Ungheria 1919, ecc., ma caddero i traditori della rivoluzione.

Chiudere la storia millenaria degli sfruttamenti sociali ed elevare il regno egualitario è nella prospettiva populista e socialista rivoluzionaria, che non solo in Russia ed allora, ma ovunque e sempre alligna, un gioco da bambini. Si prende tutta la terra, o si prende tutto il capitale, e se ne fanno tanti uguali pezzetti, ove ognuno lavora il suo. Costruita questa società contadina nella campagna, e nelle città, se non proprio artigiana come mille anni fa, sia pure di «azionariato sociale», ecco di un solo colpo abolito lo sfruttamento, e costruito il socialismo.

Non si potrà mai dimostrare che questa formula utopistica della società possa storicamente attuarsi e tanto meno che dopo attuata possa mantenersi, ma quello che per i marxisti è evidente è che una tale forma storicamente assurda, atta a nascere nelle teste dei piccoli borghesi e a sposare le teorie di tipo libertario, non solo non contiene nessun elemento della forma socialista, ma sarebbe inferiore a quella capitalista, per rendimento, impulso alla produttività del lavoro, e alla stessa oggi idolatrata volumetrica della produzione.

Essa non va al di là, con minore forza ed eloquenza, delle vecchie posizioni mistiche ed etiche, che parlarono di far scendere sulla terra il regno divino della giustizia e della fraternità. Nel seno del mondo moderno non ne uscirono che aborti innumeri: il fabianismo, l’esercito della salvezza: un ultimo risibile esempio nel giustizialismo di Perón e di Evita, che cadde nel ridicolo dopo avere illuso masse di sfruttati, si sentì chiamare fascismo del tipo di quello della repubblica di Salò; il che non toglie che poche settimane fa una repressione feroce e sanguinaria lo abbia stroncato, degnamente bagnando in un lago di sangue i loschi «ideali del mondo libero», tra i quali alligna l’analoga formula idiota: la libertà dal bisogno, la libertà dalla paura.

Quanto, marxisti russi ed europei, eravamo in quegli anni splendenti elevati su questa paccottiglia sociale, sicuri incrollabilmente che nella lotta dottrinaria avevamo spazzato via tutto questo lattemiele irrancidito per scrivere al suo posto la reale dinamica della storia e del socialismo che in essa sorge, senza che vi siano su esso borghesi «diritti di autore»!

Oggi affoghiamo in quelle muffe ammorbanti e schifose, da tutte le parti.

Abbiamo perciò voluto dire che Lenin stesso ha dovuto, in piena, e oggi riconosciuta dai veri marxisti, decisione, usare di quelle formule di agitazione e di composizione politica. Sicché anche quando avesse scritto di volere in Russia edificare o costruire il socialismo, l’uso di tali verbi nulla toglierebbe alla sua integrale linea. Tuttavia in recenti polemiche gli stessi borghesi, che spesso leggono la storia meglio del cretinismo populista o popolare (è lo stesso) che dilaga, hanno potuto agli stalinisti e krusciovisti dimostrare documentalmente che Lenin stabilì, proclamò e scrisse innumeri volte il contrario; che, analogamente, mai gli sfuggì l’altra frase, della stessa risma, della pacifica coesistenza tra Stati socialisti e Stati capitalisti.

30 – Principi della Costituzione

La «Dichiarazione» di Lenin forma il Titolo primo della Costituzione del luglio e del V congresso panrusso. Il secondo, intitolato: Normativa generale della costituzione della R.S.F.S.R. (sostituiamo, non possedendo testi russi, la parola Normativa alla francese Règlement, troppo pedestre) contiene però ancora enunciazioni di principio, che si devono rilevare.

Si potrebbe dire che la Dichiarazione ben poteva avere per oggetto una fase di rapido passaggio, ma le costituzioni hanno per oggetto il lungo avvenire; quelle americana e francese sono vive (e scioccamente incensate) dopo più di un secolo e mezzo.

L’art. 9 del Capitolo V dice che appunto per il periodo transitorio attuale il dovere della Repubblica (frase che in teoria Lenin non avrebbe scritta per non scivolare nell’antimarxista «Stato etico») consiste nello stabilire la dittatura del proletariato delle città e delle campagne sotto la forma di un forte governo sovietico panrusso. Il centralismo qui passa però, a bandiere piegate, dalla dottrina nella legislazione positiva.

Sono quindi spiegate le finalità di questo Governo. La formula è più netta: un Governo per noi non ha doveri, ma ha finalità storiche, e di classe. Questo Governo (centrale) ha
«per scopo di schiacciare la borghesia, di abolire lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e di instaurare il socialismo, nel quale non esisteranno né divisioni di classe, né potere statale.»

Gli scopi sono storicamente gradati. Schiacciare la borghesia significa toglierle ogni potere politico: la sua fisica distruzione verrà alla fine col terzo termine: abolizione delle classi. Segue l’abolizione dello sfruttamento dell’uomo: ripetiamo che questo termine non dovrebbe essere più vicino del socialismo totale, che è al terzo punto (quando con la borghesia sparisce il proletariato stesso), e, se qui sussiste, è il residuo del rospo storico dovuto ingoiare, che è quello contadino, più duro a morire di quello esserre. Il godimento eguale non è socialismo, né è nel programma agrario dei comunisti (Lenin, mille volte citato) ma tuttavia è una non nostra ricetta in cui il nobile, il landlord, il kulak non possono più papparsi il prodotto del sudore di chi vanga. Cosa bella e pulita, ma marxisticamente insufficiente, quanto pericolosa – come la storia ha mostrato – per il lavoratore della fabbrica e per quello della terra.

Lo scopo di arrivare al «vero» socialismo, al socialismo superiore, al comunismo senz'altro aggettivo, è quello finale, come dicono le parole che lo definiscono: non solo inesistenza di divisioni di classe (aspetto sociale) ma sparizione di ogni potere statale (aspetto politico, estinzione storica dello Stato). Questo scopo figura nella costituzione, ma va oltre la repubblica storica dittatoriale dei proletari e dei contadini. Prima di giungere alla sparizione delle classi, il binomio dovrà divenire un monomio: tutti operai salariati; e nello scalino seguente nemmeno salariati. Solo quando sarà morta la forma salario, e da molto tempo morta la forma «godimento eguale della terra» (che seguita a vivere nel colcos) si presenterà all’orizzonte storico la sparizione dello Stato. Esso dovrà prima liquidare la transizione dalla forma binomia, operai-contadini, a quella monomia: soli operai, e con una lotta di classe.

Se quindi tra gli «scopi» del potente governo operaio-contadino di Russia sta questo, estremo, è in riferimento non alle tappe della società russa ma a quelle di tutte le moderne società capitaliste. Questo passo della prima Costituzione, «socialista» politicamente perché uscita dalla vittoria di un partito comunista internazionalista, si volge a tutta l’Europa, e agli altri paesi sviluppati, e afferma per il mondo intero i cardini marxisti: dittatura, potere statale centrale, abolizione delle divisioni di classe e delle classi (proletariato ultimo, ma incluso), società comunista senza potere di Stato. Si tratta della dottrina del partito vincitore, il solo che, oltre a mirare al programma socialista totale, potesse condurre la lotta del binomio russo sotto la forma di potere operaio-contadino nei Soviet.

31 – Indirizzi politici della dittatura sovietica

Le tre norme che seguono questo articolo, che diremmo teorico, ribadiscono che il potere della Repubblica è uno e centrale, che la gerarchia dei Soviet periferici culmina nel supremo Congresso Nazionale dei Soviet, e (quando questo non siede) nel Comitato Esecutivo Centrale, dallo stesso eletto.

La Repubblica è federativa quanto alle nazionalità di varia razza e lingua che vanno storicamente sciolte dal giogo del dispotismo imperiale (tappa borghese-democratica, quanto inderogabile, della Rivoluzione), ma non accorda autonomie regionali provinciali o comunali nell’azione dello Stato e nella sua amministrazione, in cui i momenti decisivi risalgono dichiaratamente al potere del Centro.

Segue la disciplina di alcuni problemi, a cavallo tra quelli che si posero le classiche rivoluzioni borghesi e quelli propri di una repubblica la cui ideologia e la cui politica tendono dichiaratamente alla società socialista.

Art. 13. Libertà di coscienza: che deve essere garantita «ai lavoratori» in modo effettivo. A tale scopo la Chiesa è separata dallo Stato, e la scuola dalla Chiesa: tutti i cittadini possono fare propaganda religiosa o antireligiosa. Formula di passaggio che nella parte positiva una repubblica borghese può accettare, rompendo le tradizioni feudalistiche. In una repubblica operaia comunista si rimetterebbe al partito la trattazione della questione religiosa e si vieterebbe la propaganda dei culti, e il loro esercizio.

Art. 14. Libertà di pensiero, effettiva (classiche formule teoriche di Lenin nella polemica coi demo-socialisti, che gloriosamente entrano nella pratica). La Repubblica sopprime la dipendenza della stampa dal capitale e trasmette nelle mani degli operai e contadini poveri tutto l’apparato tecnico necessario per pubblicare giornali, opuscoli, libri, ecc., e ne garantisce la libera circolazione nel paese. Ciò non deve leggersi nel senso che gruppi autonomi possano stampare e diffondere quanto a loro piace, ma è criterio di classe: la discriminazione delle due classi governanti si fa al vertice dello Stato. Ma é piena la fedeltà alla critica marxista della balorda esigenza della «libertà di stampa» che è libertà per milionari.

Art. 15. Libertà di riunione, al solito, effettiva. I locali e gli stabili atti alle riunioni pubbliche sono dalla Repubblica messi a disposizione delle suddette due classi sociali, col loro arredamento, ecc. Ogni cittadino ha diritto a organizzare riunioni, comizi, ecc. Si ricade per un momento nel diritto del cittadino individuale, che in pratica non è norma rivoluzionaria, ma si resta sulla linea della superba dottrina che deride la concessione di diritti platonici, senza quella dei mezzi per goderli.

Art. 16. Libertà di associazione. La Repubblica, distruggendo il potere economico e politico delle classi possidenti, ha di fatto eliminato gli ostacoli all’organizzazione delle masse proletarie e contadine, e le aiuta in tutti i modi a riunirsi e organizzarsi liberamente. Ciò non significa certo che «qualunque» organizzazione sia tollerata, anche quando abbia programmi in contrasto con la Costituzione della Repubblica. Da notare che non troviamo scritto che non si possano fondare partiti politici diversi da quello al potere.

Questa carta gloriosa lo è in tanto maggior misura, in quanto, dettata da un partito in possesso di un «allenamento» teoretico senza precedenti storici, si erge al vertice di una rivoluzione duplice, di una rivoluzione fra tre regimi, in cui le forme del regime borghese intermedio bisogna aiutarle a nascere, e nel termine più vicino possibile avviarle a morire.

32 – Altri compiti dello svolto rivoluzionario

L’istruzione è dichiarata completa e gratuita, ma qui (egregiamente) non per ogni abitante del territorio, bensì per gli operai e i contadini più poveri (art. 17).

L’art. 18 ripete che il lavoro è obbligatorio, e, qui esattamente, per tutti i cittadini. Resteranno i ricchi, ma si faranno lavorare anche prima di poterli depauperare.

L’art. 19 rende obbligatorio il dovere di difendere non la patria ma «la società socialista». Ma solo i proletari stanno nell’esercito combattente, gli altri saranno sottomessi ad altri obblighi di milizia. Vera formula, non di società senza classi ma di società «a classe rivoluzionaria dominante».

L’art. 20 rende cittadino dello Stato ogni straniero della classe lavoratrice, che si trovi nel territorio, senza formalità o domanda. Formula che sottolinea la superiorità della comunanza di classe su quella di nazione.

L’art. 22 abolisce ogni privilegio razziale o nazionale. Una repubblica borghese può ammettere, teoricamente, la norma.

L’art. 23 (non meno che ciascuno dei prima detti) può servire a provare che la Repubblica bolscevica sa di non porsi sulla soglia di una società socialista, quanto a struttura economica. «Sono annullati tutti i diritti di persone private e gruppi sociali…». E qui l’articolo finirebbe se fossimo «nell’anticamera del socialismo». Ma non finisce; continua così: «il cui esercizio danneggi gli interessi della rivoluzione socialista».

Voglia il lettore riflettere sulla poderosa costruzione dialettica di questo documento, in cui nulla di mistico né di demagogico è rimasto, e che da un lato guarda la realtà arretrata e sconquassata di Russia nei suoi caratteri positivi senza nessuno celarne, dall’altro, con le sue proclamazioni, alimenta la fiamma mondiale dello sforzo della classe rivoluzionaria, del suo presentimento possente della futura verità socialista, dell’immancabile realizzarsi del programma che i comunisti, da un secolo quasi, hanno nel mondo levato, annunciando alla forma capitalista la sua fine di morte violenta.

La Costituzione di Lenin, dei bolscevichi marxisti, dei Soviet del 1918, che nulla di comune hanno con gli scalzacani russi di ieri e di oggi, dà atto che si accinge ad amministrare per decenni rapporti di produzione non socialisti, ma borghesi e preborghesi; ma pretende con orgoglio gigante di andarlo a fare con mezzi e per strade che, senza abolizioni da palcoscenico e colpi di bacchetta magica, ignoti al marxismo scientifico, uno per uno faranno partire colpi diretti al cuore del nemico internazionale, della società capitalistica, dei poteri imperialistici.

La consegna fu capita e raccolta nel mondo intero, e sferrata la dura battaglia, in cui lo stesso contenuto socialista e rivoluzionario della Carta del Luglio 1918 era, senza speranza di alternative, in gioco totale.

La nuova Carta borghese del 1936 suggellò la sconfitta dei rivoluzionari nella tremenda prova. Sconfitta totale, ma che può essere riscattata se non si aggiunge ad essa il baratto dello splendido realismo dottrinale, che nel 1918 sostenne e vinse una prova suprema; ma mai cancellabile.

Va a tale scopo riscattata l’infamia che la resa del 1936 osò presentarsi come bilancio di vittoria, e mascherare da socialista una struttura sociale che si era elevata a caratteri più borghesi, ma ad essi si era bassamente legata.

La Costituzione 1918 deve però dirci altro: il II Titolo, che descrive l’ingranaggio sovietico della nuova Russia, mostra che il binomio tra le due classi dittanti non è binomio di termini uguali; ma contiene la superiorità e l’egemonia di una delle due classi: il proletariato industriale, sul minore seppur necessario alleato: la classe contadina. Gloriosa cadetta, ma cadetta, di quella grande Rivoluzione. E che nella storia doveva trarsi da parte; anzi lo ha fatto già.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XIX)

33 – Lo scandalo del voto plurimo

Le caratteristiche storiche del nuovo sistema elettorale sovietico apparso in Russia, che suscitarono le più violente polemiche contemporanee, ed a tante riprese nel futuro, sono essenzialmente due.

L’esclusione di una parte dei «cittadini» russi dal diritto di voto, che è l’espressione della «dittatura», su cui Stalin nel 1936 sfoggerà grandi speculazioni su date citazioni atte a travisare il pensiero di Lenin – ed il diversissimo peso attribuito al voto del componenti delle due classi vittoriose: gli operai e i contadini poveri.

Iniziamo a trattare questi punti di base passando in rassegna le misure del testo della nuova Costituzione, alla quale, come Lenin dovrà in appresso ricordare a derisione dei «democratici puri» russi ed esteri, forse più che i bolscevichi avevano lavorato i socialisti rivoluzionari e perfino i menscevichi, tracciando gli Statuti dell’ingranaggio dei Soviet così come essi si erano spontaneamente costituiti nelle lotte rivoluzionarie del 1917, e fino a certi casi dal 1905. Il prevalere del compito operaio su quello contadino fu un dato di origine storica, più che di origine dottrinale.

Il III Titolo della Costituzione del 1918 si intitola «Struttura del Potere sovietico». La sezione A tratta dell’Organizzazione del potere centrale, e comincia col capitolo VI: Congresso panrusso dei Soviet dei delegati operai, contadini, cosacchi e soldati dell’esercito rosso.

L’art. 24 stabilisce che tale Congresso è il potere supremo della Repubblica Socialista Federale Sovietica Russa.

Il testo del fondamentale articolo 25 è questo:
«Il Congresso pan-russo dei Soviet è composto dei rappresentanti dei Soviet di città in ragione di un delegato ogni 25 mila elettori, e dei rappresentanti dei congressi dei Soviet provinciali (rurali) in ragione di un delegato ogni 125 mila abitanti».

Salvo a discutere più oltre della differenza tra le espressioni: elettori, usata per le città, e abitanti, usata per i governatorati, resta fin da questo punto ben chiaro che nello Stato russo, ed in quanto il potere derivi, nella costruzione ufficiale e costituzionale, dalla base della popolazione (nel che per i marxisti non è affatto un principio fondamentale) il voto di un operaio ha un’efficacia quintupla di quello di un contadino.

Fermo restando il numero dei delegati di ogni Governatorato, ci sono due vie per designarli: o dai Congressi di Governatorato, o, se questi non sono riuniti prima del Congresso Nazionale, direttamente a questo dai Congressi di Distretto (il Governatorato si divide in Distretti).

Gli articoli successivi stabiliscono quanto è già noto: tra un Congresso Panrusso dei Soviet e il successivo, il potere centrale è nelle mani del Comitato esecutivo centrale panrusso, eletto dal Congresso nel numero massimo di 200 membri. Il C.E.C. ha l’obbligo di convocare il Congresso panrusso dei Soviet non meno di due volte all’anno. Il capitolo VII fissa i compiti del C.E.C. tra cui è l’approvazione delle leggi e decreti e la formazione del Consiglio dei Commissari del Popolo, che costituisce il Governo. Per pura analogia si è sempre detto che il C.E.C. sarebbe il Parlamento degli Stati tradizionali. Ma allora questi non hanno un organo comparabile al Congresso dei Soviet, cui il C.E.C. risponde di ogni suo operato.

Il capitolo VIII regola le funzioni del Consiglio dei Commissari del Popolo, il cui primo elenco era di 18. Ad ognuno di essi era aggiunto un Collegio confermato dal Consiglio dei Commissari, con poteri di controllo e di appello al Consiglio stesso o al C.E.C. (È stato oggi ripristinato questo tipo di Collegio, sparito nella Costituzione di Stalin?).

34 – Ingranaggio dei soviet

I capitoli XI e XII riguardano tutto il sistema dei Consigli dalla sommità alla base, ma è forse meglio descriverlo in ordine inverso.

Nelle città il Soviet ha un delegato ogni 1000 abitanti, ma il numero totale dei delegati è compreso tra un minimo di 50 e un massimo di 100.

Negli «agglomerati rurali» (villaggi e molte altre denominazioni tipiche russe del Caucaso, delle terre cosacche, delle steppe, ecc.): 1 delegato ogni 100 abitanti.

Prima di risalire la scala gerarchica sarà bene dire che giusta il successivo capitolo XIV le elezioni si fanno «secondo gli usi e costumi stabiliti» e «nei giorni fissati dai Soviet locali». In generale si trattava di grandi adunate popolari senza la beffa borghese del voto segreto.

Per le piccole località delibera anche l’assemblea generale degli elettori.

Ogni Soviet elegge nel suo seno un Esecutivo di 5 membri al massimo nelle località rurali, di 3 a 15 membri nelle città, di non oltre 40 membri per Pietrogrado e Mosca.

I congressi di cantone [o mandamento] sono esclusivamente rurali, ed ogni soviet di località vi invia un delegato per ogni 10 dei suoi membri, o frazione. Circa un delegato al Soviet di cantone per ogni 1000 abitanti.

I congressi di distretto sono rurali e urbani. I delegati rurali devono essere 1 per 1000 abitanti, e quindi le località di popolazione minore di 1000 eleggono insieme il loro inviato al distretto. Le città inferiori a 10 mila abitanti inviano anche delegati al congresso di distretto.

I congressi di governatorato devono avere rappresentanti dei Soviet municipali e rappresentanti dei congressi di cantone in ragione di 1 delegato ogni 2000 elettori: numero massimo 300 delegati.

I congressi di regione sono formati da rappresentanti dei Soviet municipali in ragione di un delegato ogni 5000 elettori, e da rappresentanti dei congressi di distretto in ragione di 1 delegato per 25 mila abitanti. Ovvero da delegati indicati dai congressi di governatorato, se riuniti prima, nelle stesse proporzioni. Non oltre 500 delegati per l’intera regione.

Nel congresso di regione, che è lo stadio immediatamente precedente il Congresso panrusso, ritorna il rapporto di 5 rurali per ogni urbano. Abbiamo ogni volta trascritta con cura la parola abitanti o elettori. Prima di trarne deduzioni, si esamini il IV capitolo, o Parte, sul Diritto Elettorale.

35 – Il «diritto al voto»

Art. 64. Sono elettori ed eleggibili ai Soviet, indipendentemente dalla nazionalità, dalla religione, dalla residenza, dal sesso, tutti i cittadini dai 18 anni in poi, appartenenti alle seguenti categorie:

a) Quelli che si guadagnano la vita con un lavoro produttivo o socialmente utile, o che si occupano delle necessità domestiche dei primi, e quindi: Operai ed impiegati di ogni specie e categoria nell’industria, commercio, agricoltura, ecc.; contadini e cosacchi; agricoltori che non impiegano manodopera al fine di ottenere un profitto; b) soldati dell’esercito e della marina; c) cittadini delle dette categorie che abbiano perduta la capacità lavorativa.

I soviet locali possono abbassare l’età minima. Come dall’articolo 20, sono elettori ed eleggibili gli stranieri di origine proletaria.

L’art. 65 stabilisce chi sono gli esclusi dal diritto di voto:

a) Chi impiega salariati per ottenere un profitto; b) chi vive di redditi non provenienti da lavoro: rendite immobiliari, profitti di intraprese, e simili; c) i commercianti privati e i rappresentanti di commercio; d) i frati, gli addetti ai culti e alle chiese; e) gli impiegati e agenti degli antichi corpi polizieschi, pubblici e segreti, e i membri della deposta casa regnante; f) gli alienati e interdetti; g) i condannati per furti e delitti infamanti nel termine di legge o di sentenza.

Possiamo ora riesaminare, sia pure qui sotto il profilo quantitativo, il rapporto tra la «dose di sovranità» che la Costituzione attribuisce al contadino e all’operaio delle città. Siccome nel primo caso si parla di un posto nel supremo organo statale (il Congresso panrusso) ogni 25 mila elettori e nel secondo di uno ogni 125 mila abitanti, si tratta di sapere il rapporto medio tra gli elettori e gli abitanti.

La distinzione tra città e campagne rimane fedelmente la stessa nella composizione dei congressi di regione. Nei gradi inferiori spesso il riferimento si fa nei due casi agli elettori con parità di proporzione al numero dei delegati (governatorato) o con parità, ma agli abitanti (distretto). Negli ultimi gradi (cantone, città, aggregato rurale) non si parla più di elettori, bensì di abitanti sempre. Alla base, per ragioni evidenti, la proporzione è sempre agli abitanti, molto piccola rispetto a quella del livello «politico» e anche invertita: un delegato su mille abitanti in città, mentre nelle località minime perfino uno su uno (assemblea generale diretta).

Ora il rapporto degli elettori agli abitanti con l’indicata estensione del diritto di voto è molto alto: gli esclusi sono pochi nelle città e quasi nessuno nelle località rurali, ove d’altra parte i soviet possono far votare anche i ragazzi che lavorano da età molto inferiore ai 18 anni. Di qui la scarsa importanza data al riferirsi agli elettori in campagna: tutta la famiglia contadina lavora, ed è contata nel voto al Soviet: quindi restano fuori solo i bambini più piccoli. Più semplice dunque prendere la cifra degli abitanti.

36 – Rapporto tra i due alleati

Dato che, specie nella società russa, tutti gli esclusi dal diritto di voto, o quasi, stanno nelle città, fu un motivo di principio quello che fece stabilire che i delegati, poniamo di Mosca, derivavano il potere dai lavoratori e non dagli sfruttatori di Mosca; e non perché si volesse mitigare l’inferiorità contadina rispetto alla città proletaria. Conserva quindi tutto il suo peso il rapporto di 1 a 5 e l’ulteriore ricerca ha valore di pura curiosità. Coloro che vivono di rendita e di profitto industriale non possono superare che una bassa percentuale, non più del dieci per cento e, in quella storica contingenza, in cui i ricchi erano già fuggiti dalle città e dalla parte del paese controllata dai Soviet, non più del 5 per cento. Resta quindi da detrarre la sola popolazione sotto i 18 anni. Secondo tabelle italiane, che possono essere comparabili alle russe, i minori di 18 anni sono circa il terzo degli abitanti. Se ne può dedurre che gli elettori rispetto agli abitanti sono 60 per cento, considerati anche gli esclusi.

Allora un delegato ogni 25 mila elettori vuol dire uno ogni 40 mila abitanti in città, che contro i 125 mila della campagna dà sempre un rapporto di circa tre. Dunque la forza politica data al proletariato, in teoria quintupla, diviene in pratica tripla, cosa sempre notevole; e distrutta nel 1936.

Tali rapporti riguardano però gli aventi diritto al voto, non i partecipanti ad esso. Considerata la difficoltà di raccogliere i voti nelle campagne in quella ardente situazione, è chiaro che basta questo fatto a rialzare il rapporto di forza a favore degli operai, ben più di quanto lo abbiamo ora disceso!

La ragione, di politica classista, era soprattutto che i contadini sono in Russia ben più numerosi dei proletari. Secondo cifre che Lenin riporta nel 1919, relative a 26 soli governatorati della Russia già «controllata», contro 42,4 milioni di popolazione delle campagne stanno 10,3 milioni delle città: un quarto circa. Il comunismo rivoluzionario ha la sua radice nelle città industriali e trae da esse la sua potenza dirigente: il transitorio alleato russo, che qualitativamente ne sta di un’intera epoca storica al di sotto, fu dalla dottrina e dalla forza del partito guida riportato anche quantitativamente al di sotto della classe proletaria, egemone della Rivoluzione Sociale.

Questo dato fondamentale, questa pietra angolare della Rivoluzione, fu sotto Stalin abbattuto, e allora vantata, e oggi più ancora, come merito agli occhi dei nuovi alleati, i capitalisti di occidente, la «ortodossia» democratica pura!

37 – La «dittatura democratica»

Urgendoci il tema dei rapporti di produzione, non possiamo abbandonare l’ordine cronologico dei fatti economici, e non ora svolgiamo la critica della costituzione del 1936, che verrà più oltre.

Tuttavia la forma storica uscita dalle lotte, più che dal volere dei partiti e degli uomini politici, costituì luminosa conferma della previsione teorica di Lenin e della sua interpretazione del divenire russo, anticipata due decenni prima, e soprattutto costituisce una riprova della efficacia dell’applicazione del metodo marxista alla storia che si svolge dopo averlo fondato su quella che già si è volta.

Prima che il fatto storico la confermasse, la formula poteva sembrare incomprensibile, e perfino, come avvenne allo stesso Trotsky, poco rivoluzionaria; pure essendo ben chiaro che non era una formula della rivoluzione europea, per cui valeva fin dal 1871, e fu agitata nel 1917 e anni seguenti, quella della «dittatura del proletariato» su tutte le altre classi superstiti. La formula di Lenin valeva dichiaratamente solo per la Russia e la sua uscita dal feudalesimo, nella previsione che doveva servire di punto d’appoggio non alla società socialista in Russia, ma ad una politica socialista del potere russo nella direzione della rivoluzione e della dittatura proletaria europea.

Tra il 1917 e il 1921 tutti i documenti della Rivoluzione stanno a provare quanto fosse ardua la dirigenza di questa politica dell’alleanza e del trattamento dell’alleato-pericolo. Il comportamento verso i vari strati contadini dovette fondarsi sul fatto che solo la loro forza combattente permise di non soccombere a quelle della controrivoluzione zarista e capitalista nelle dure lotte di anni ed anni, e in una serie di difficili tappe nello scambio tra i prodotti industriali e quelli agrari, che consentirono alle forze rivoluzionarie, prima ancora di vincere, di materialmente vivere, con sacrifici tremendi per l’avanguardia operaia delle città.

I difficili movimenti di questa perigliosa traversata storica sono ad ogni passo stati invocati dal dilagante opportunismo, quando ogni pericolo di controrivoluzione era stato eliminato, per obliterare la tesi dottrinale marxista e leninista circa la futura funzione reazionaria dei contadini proprietari di terra, o goditori di terra, che è lo stesso, e circa la necessità di una lotta ulteriore contro di essi dei salariati delle città e delle campagne.

38 – Quale termine doveva cadere?

Per il filisteo la formula di Lenin era contraddizione in termini, in quanto si ha la dittatura se si nega la democrazia, e la democrazia se si nega la dittatura; il che non toglie che il filisteo borghese opti sempre per la propria dittatura, e contro la democrazia «generale», quando non ha storicamente altra via per non essere fregato. Se questa situazione russa è transitoria, dissero i filistei, che cosa verrà dopo di essa? Dovrà buttarsi via il sostantivo dittatura, o l’aggettivo democratica?

Lo stalinismo del 1936 pretese che Lenin, fin dal 1919, avesse previsto che si sarebbe dovuti passare, ferma restando l’alleanza con i contadini, ad un’eliminazione della dittatura e ad una «democratica convivenza» di proletari e contadini.

Obliterò fin d’allora, e fin dalla promulgazione della controrivoluzionaria (in quanto appunto, come torneremo a spiegare in dettaglio a suo tempo, instaurava la menzogna del dichiarato avvento socialista) Costituzione del 1936, la teoria di Marx e di Lenin sul rapporto tra proletari e contadini, teoria chiaramente stabilita in tutti i testi dottrinali (per Lenin, tra gli altri, «Stato e rivoluzione» e «Il rinnegato Kautsky»). Estorse, Stalin, con le solite citazioni, la tesi che i caratteri salienti della rivoluzione del 1917, e perfino tra essi l’esclusione dal diritto di voto delle classi non operaie né contadine povere (senza di cui si sarebbe avuta una democrazia operaio-contadina, storicamente pensabile come una democrazia totale e borghese soltanto, e non una «dittatura» fruente dell’ora analizzato ingranaggio democratico), fossero una norma soltanto russa, e non uno storico saggio della molto più severa norma che nelle rivoluzioni dei paesi capitalisti avanzati avrebbe buttato fuori dallo Stato Rivoluzionario tutti i godenti di proventi estranei al lavoro.

Secondo la retta accezione non è il termine dittatura, ma quello democratica, che dovrà cadere (e che sarebbe caduto se la rivoluzione avesse vinto in Europa) per dar luogo alla dittatura proletaria, dopo la quale muore lo Stato, e con esso e per sempre la democrazia.

Per stabilire questo ci serviremo del testo di Lenin, su cui la speculazione staliniana venne fondata per compiere il voltafaccia, e lo riferiremo al quadro della situazione in cui fu dettato: e a tutta la sua costruzione.

39 – Dittatura e democrazia proletaria

L’ordine cronologico, anche interponendo altra pausa alle questioni di stretta economia, ci riporta ad uno scritto che Lenin stese nell’aprile 1918, dal titolo: «I compiti immediati del potere sovietico».

Caratterizza l’impostazione storica di questo scritto la sua successione immediata alla Pace di Brest Litovsk. In aprile 1918 appare che il più grande sforzo militare della rivoluzione per difendere il conquistato potere sia già passato. Sebbene in queste stesse pagine Lenin ribatta la necessità di un potere di ferro e non perda di vista l’eventualità della guerra civile, egli considera che si sia passati ad una terza tappa; dopo la prima tappa della conquista del potere di ottobre 1917, e la successiva della sua salvezza dall’agguato dell’imperialismo tedesco, e dello schiacciamento di una prima serie di assalti reazionari, di cui Lenin elenca quelli di Kerenski, Krasnov, Savinkov, Goz, Dutov e Bogaevskij, che allora si era arreso nel Don. Cita infatti il solo Gegechkori come una forza ancora resistente in armi. Non sembra prevedere che ulteriori lotte saranno aizzate dagli imperialisti del campo opposto ai tedeschi, che la «seconda tappa» dovrà ancora fare i conti con Kolčak, Denikin, Judenič, Wrangel e tutti gli altri che ben conosciamo; sicché dal 1919 al principio del 1921 si ricadrà in questa seconda tappa. La terza, che Lenin studia in quell’aprile 1918, è quella di «amministrare la Russia», e tutto il contesto mostra come sarebbe una fortuna riuscire a farlo pur conservando molte e molte forme borghesi e capitaliste.

Tuttavia il criterio della struttura del potere è qui pienamente rivendicato e contrasta alquanto con le citazioni sfruttate da Stalin, che risalgono al tempo dell’VIII congresso del partito bolscevico, marzo 1919, in un momento in cui la difesa armata era tuttora il compito primario della rivoluzione bolscevica. La differenza delle due situazioni può spiegare il diverso tono delle enunciazioni, dato che quelle che fece comodo a Stalin usare nel 1936 non fossero state deformate, come è lecito credere.

Le parole dello scritto del 1918 sono queste:
«Il carattere socialista della democrazia sovietica, cioè proletaria [corsivo del testo], nella sua applicazione concreta, attuale, consiste in primo luogo [corsivo nostro] nel fatto che gli elettori sono le masse lavoratrici sfruttate, e che la borghesia è esclusa; in secondo luogo tutte le formalità burocratiche e le restrizioni elettorali sono cessate: le masse fissano esse stesse il sistema e la data delle elezioni, ed hanno piena libertà di revocare gli eletti».

Lenin in terzo luogo sottolinea quella che chiama coincidenza tra il potere legislativo e quello esecutivo, e si riporta al
«compito di far sì che tutta la popolazione impari a governare e cominci a governare».

Aggiunge questa formulazione:
«Tali sono i principali contrassegni del democratismo messo in atto in Russia, democratismo di tipo superiore, che rompe con la contraffazione borghese del democratismo e segna il passaggio al democratismo socialista, a condizioni che permettono allo Stato di estinguersi»[156].
Abbiamo sottolineato questo per collegarci ad un passo solo di Lenin in «Stato e rivoluzione», anzi al fondamentale passo di Engels, che Lenin cita:
«… per un partito il cui programma economico non è solo socialista in generale, ma veramente comunista, per un partito il cui scopo politico finale è la soppressione di ogni Stato e, quindi, di ogni democrazia«[157]. Engels parla del nostro, ossia del suo partito, allora ammorbato dal nome di socialdemocrazia. La citazione è nel cap. IV, n. 6, dal titolo: «Engels sul superamento della democrazia». E Lenin fa sua l’idea nel contesto più volte:
«infinitamente più importante della questione del nome del partito è l’atteggiamento del proletariato verso lo Stato […]. Si cade abitualmente nell’errore contro il quale Engels mette in guardia […] cioè si dimentica che la soppressione dello Stato è anche la soppressione della democrazia, e che l’estinzione dello Stato è l’estinzione della democrazia».

40 – Decisione nella dittatura

Nello stesso scritto di aprile 1918 il concetto di democrazia estrema, proletaria, di governo della popolazione – capolavoro della rivoluzione russa – non toglie non solo che la Dittatura sia richiesta sempre più inesorabile, ma – contro mille ideologi piccolo-borghesi ed anarcoidi del tempo – sia nella più netta maniera giustificata marxisticamente la forma unipersonale del suo esercizio. Questo, al tempo del «ritorno al marxismo-leninismo» nello sconcio XX congresso, non lo possiamo saltare. Né un Carlo Marx né un Vladimiro Lenin hanno mai applicato alla Dittatura l’oggi favoleggiato preservativo collegiale, o altro lubrificante.

Lenin parte dalle resistenze incontrate dalla decisione del III congresso dei Soviet su una «organizzazione ben congegnata» o «funzionale», e sul rafforzamento della disciplina. È uno dei tanti atti della lotta contro l’autonomismo anarcoide nelle fabbriche e nelle aziende, sulla loro autodirezione di massa, fesseria gigante di cui ci liberammo in dottrina ai primi passi marxisti, in pratica in quel torno del 1919, e che oggi c’è chi tira fuori come nuova formula della società proletaria, in correzione di Marx! Lenin qui staffila quelle posizioni piccolo-borghesi e pseudo-estremiste (a suo tempo egli apprese esserne stata la Sinistra italiana sempre spietata nemica), e quanto scrive può valere per i «ritornatori» a lui nelle sbevazzate sulla democrazia popolare e le direzioni collegiali.

«Sarebbe una grossissima sciocchezza e un ridicolissimo utopismo ritenere che senza costrizione e senza dittatura si possa passare dal capitalismo al socialismo»[158].

«In ogni transizione del genere la dittatura è indispensabile per due ragioni essenziali».
La prima è la resistenza degli sfruttatori, la seconda è che, anche senza la guerra esterna, è inevitabile l’interna guerra civile.

«Di questo insegnamento di tutte le rivoluzioni Marx ha dato una formula breve, netta, precisa ed incisiva: dittatura del proletariato.»

«Ma dittatura è una grande parola. E le grandi parole non vanno gettate al vento. La dittatura è un potere ferreo, rivoluzionariamente audace e rapido, implacabile nel reprimere sia gli sfruttatori che i criminali. Il nostro potere invece è eccessivamente mite; addirittura più simile alla gelatina che al ferro!».

«[…] Questo elemento [la controrivoluzione] agisce dall’interno, sfruttando ogni fattore di disgregazione, ogni debolezza, per corrompere, per aggravare l’indisciplina, la rilassatezza, il caos. Quanto più ci avviciniamo alla definitiva repressione armata della borghesia, tanto più questo elemento anarchico piccolo-borghese diventa per noi pericoloso […] La lotta contro di esso va condotta […] anche con la costrizione.»

«La lotta si è accesa su questo terreno intorno all’ultimo decreto sull’amministrazione delle ferrovie, che conferisce pieni poteri dittatoriali (o ‹poteri illimitati›) a singoli dirigenti […] Tra i socialisti-rivoluzionari si è sviluppata contro il decreto un’agitazione veramente da banditi».

41 – È marxista l’autorità individuale

Quei da Mosca, pigliate su:
«La questione ha assunto veramente un’enorme importanza: in primo luogo in linea di principio la nomina di singoli individui, investiti di poteri dittatoriali, illimitati, è o no compatibile con i principi fondamentali del potere sovietico?».

«Che assai spesso, nella storia dei movimenti rivoluzionari, la dittatura di singoli individui sia stata espressione, veicolo, strumento della dittatura delle classi rivoluzionarie, lo dimostra l’inconfutabile esperienza della storia. La dittatura di singoli è stata indubbiamente compatibile con la democrazia borghese».
Quante volte non abbiamo ricordato al filisteismo sinistroide italico il Generale Garibaldi, dittatore a Napoli, che fessamente la consegnò ad un re parlamentare?

Voi, dice Lenin ai filistei di Europa 1918, volete da noi una democrazia superiore a quella borghese, e poi ci dite: Con la vostra democrazia sovietica, ossia socialista, la dittatura personale è assolutamente incompatibile!

«Questi ragionamenti non stanno in piedi. Se non siamo anarchici, dobbiamo ammettere la necessità di uno Stato, cioè della coercizione, per il passaggio dal capitalismo al socialismo».
La forma di quella coercizione è determinata, Lenin spiega, da una serie di circostanze: sviluppo della classe rivoluzionaria, effetti della guerra, grado di resistenza degli sfruttatori.
«Non v’è quindi assolutamente nessuna contraddizione di principio tra la democrazia sovietica e l’uso del potere dittatoriale di singoli individui».
La contraddizione di principio non sta tra mollezza democratica e dittatura individuale, ma tra dittatura condotta dalla borghesia contro il proletariato, e dittatura del proletariato per schiacciare la borghesia. Purché passi la seconda e non la prima, ben venga la direzione suprema individuale, nelle adatte circostanze; esempio preclaro: Lenin stesso in aprile ed ottobre, contro tutti i «collegi» infessiti.

Chiarita la questione della dittatura politica suprema, Lenin passa a quella nei singoli servizi ed istituti dello Stato rivoluzionario, e ne fa una altrettanto serrata e risoluta difesa. Le formule sono tali da far l’effetto del panno rosso davanti al toro sui soliti piccolo-borghesi e libertari.
«Qualsiasi grande industria meccanica esige un’assoluta e rigorosissima unità di volontà, che diriga il lavoro comune di centinaia, migliaia e decine di migliaia di uomini».
«Come assicurare la più rigorosa unità di volontà? Con la sottomissione della volontà di migliaia di persone alla volontà di uno solo».
Più cruda di così non vi si poteva somministrare, patiti della dignità della persona!

«La rivoluzione ha appena spezzato le più antiche, solide e pesanti catene imposte alle masse dal regime del bastone. Così accadeva ieri; ma oggi la rivoluzione stessa esige, e proprio nell’interesse del socialismo, la sottomissione senza riserve delle masse alla volontà unica di chi dirige il processo lavorativo […] una disciplina ferrea durante il lavoro, una sottomissione senza riserve alla volontà di una sola persona, del dirigente sovietico».

42 – Conclusioni al 1918

Ripetiamo che non abbiamo aggiunto nessun corsivo a quelle parole e frasi incisive, di cui si potrebbe compiere un florilegio per i rapporti sui crimini… di Stalin, da dare da bere ai fessi.

Il quadro della situazione dato da Lenin cominciava con lo stabilire la precarietà della tregua che la Russia aveva ottenuto nel persistere della conflagrazione mondiale. Non si trattava affatto di «costruire socialismo». Si dovevano
«tendere al massimo tutte le forze per sfruttare la tregua concessaci da un concorso di circostanze per curare le più gravi ferite inferte dalla guerra a tutto l’organismo sociale della Russia e per risollevare economicamente il paese, senza di che non si può nemmeno parlare di un aumento più o meno serio delle sue capacità di difesa».

E Lenin aggiunge:
«È chiaro altresì che potremo recare un serio contributo alla rivoluzione socialista in occidente – che ritarda per una serie di circostanze – solo se sapremo risolvere il problema organizzativo che ci sta dinanzi»[159].

Interessano lo sviluppo dei rapporti produttivi i temi che seguono: Nuova fase della lotta contro la borghesia, che impone di «rallentare», sia pure non politicamente, l’offensiva contro il capitale. Importanza della lotta per il censimento (o inventario) economico e il controllo popolare. Aumento della produttività del lavoro, difettosa in Russia. Organizzazione dell’«emulazione». Organizzazione ben congegnata e dittatura (cui abbiamo sopra attinto) – Sviluppo dell’organizzazione sovietica. Per dimostrare la necessità del censimento economico Lenin scrive queste rilevanti parole, nelle quali si legge il futuro superamento del mercantilismo, da cui ancora la Russia di oggi è ben lontana:
«Lo Stato socialista può sorgere soltanto come una rete di comuni di produzione e di consumo che calcolino coscienziosamente la loro produzione e i loro consumi, economizzino il lavoro, ne elevino costantemente la produttività, riuscendo così a ridurre la giornata lavorativa a sette, a sei ore e anche meno»[160].
L’analisi economica ci renderà del tutto evidente che la società russa «di Stalin» è andata in direzioni opposte su tutti questi punti, uno per uno.

Nella conclusione finale del suo scritto Lenin torna ad additare come il più grave pericolo «il minaccioso elemento della rilassatezza e dell’anarchismo piccolo-borghese» e come il più importante compito dell’ora la lotta contro di esso.

Al puntò di dire:
«Questo è l’anello della catena degli avvenimenti storici a cui ora dobbiamo afferrarci con tutte le nostre forze per dimostrarci all’altezza del nostro compito, fino a quando passeremo all’anello seguente».

Era forse l’anello seguente «l’edificazione del socialismo» in Russia?! Lenin lo dice subito:
«L’anello che ci attrae con particolare splendore, con lo splendore delle vittorie della rivoluzione proletaria internazionale»[161].

E stavolta le maiuscole ci devono andare!

Egli torna a bollare il rivoluzionario chiacchierone ed impaziente.
«L’origine sociale di tipi siffatti è il piccolo proprietario esasperato dalla guerra, dall’improvvisa rovina […] che si dibatte istericamente […] oscillando tra la fiducia nel proletariato e gli accessi di disperazione…».
«Bisogna capire bene e fissarsi bene in mente che su questa base sociale non si può edificare nessun socialismo»[162].
Zac!

43 – Democrazia, eredità contadina

Per intendere che la linea storica, prima teorizzata e poi attuata, della rivoluzione bolscevica non contiene MAI l’edificazione del socialismo nella Russia isolata – che le sue tappe sono: conquista del potere politico da parte del partito operaio; completamento della rivoluzione democratica borghese; rivoluzione socialista politica, ossia dirigenza sociale anche nelle campagne da parte dello Stato operaio – basta ricorrere alla polemica di Lenin (e di Trotsky) contro i traditori del marxismo in occidente.

Le tappe della rivoluzione russa nelle campagne sono anzitutto determinate dalle condizioni di fatto: agricoltura estensiva, limitatissimo numero di salariati rispetto al contadiname totale, ignoranza tecnica e culturale nelle campagne.

(In Italia dovremmo essere in prima linea per la forza gloriosa del bracciantato rurale, prima fila del comunismo, e del capitalismo intraprenditore agrario: Lenin rinfaccia agli opportunisti che in Inghilterra vi sono ben pochi piccoli contadini, ma ciò è compensato dall’imborghesimento dei proletari di un’industria che allora succhiava da tutto il mondo. Tra noi, in combutta lurida, partito dei preti e partito degli stalinisti lavorano ad imborghesire il proletariato rurale quanto le aristocrazie urbane tipo FIAT ove bene hanno allignato).

Da una situazione come quella russa ad una gestione collettivista dell’agricoltura non si passa che traverso molte e lunghe fasi di transizione. Una sola forza storica le poteva abbreviare: la rivoluzione in Europa.

Dai testi di Lenin più volte risulta che la democrazia nello Stato operaio, nella formula di democrazia contadino-operaia, o in quella di democrazia proletaria, ci è rimasta nelle costole a causa della situazione delle campagne: non si poteva fare diversamente. Ma tutta la lotta è stata parimenti condotta nelle forme non parlamentari, ma dittatoriali, dal partito rivoluzionario: conquista gigante soprattutto per la rivoluzione occidentale, che ancora attendiamo.

Nel marzo del 1919 Lenin da un lato parla ad ogni passo della rivoluzione ungherese che vince le sue battaglie – dall’altro vede le nuvole nere della guerra civile che ha riconquistato territori alle truppe bianche, le quali tendono a trovare base oltre che nei ricchi kulak (che non è difficile liquidare nelle ritirate dei rossi) nella massa oscillante (Lenin) dei contadini medi. Lenin lotta disperatamente perché non si commetta l’errore di farseli nemici, e rivendica concessioni per essi, senza nascondere che sono di tipo borghese.

Prendiamo da un testo di allora un passo importante:
«La nostra opera di edificazione nelle campagne [né del socialismo, né delle sue basi] ha già superato il periodo nel quale tutto era subordinato all’esigenza fondamentale: la lotta per il potere».
E così Lenin scolpisce il trapasso di Ottobre:
«Questa opera di edificazione ha attraversato due fasi principali. Nell’Ottobre 1917 abbiamo preso il potere insieme ai contadini nel loro complesso [corsivo di Lenin]. Era una rivoluzione borghese, in quanto la lotta di classe [Lenin intende non tra contadini e feudatari, ma tra contadini semi-proletari e contadini ricchi, borghesi] nelle campagne non si era ancora sviluppata. Come ho già detto, la vera rivoluzione proletaria nelle campagne ebbe inizio soltanto nell’estate del 1918. Se non avessimo saputo suscitare questa rivoluzione, la nostra opera non sarebbe stata completa».
Lenin, sempre superbo di esattezza e chiarezza (e pure tanto falsato!), insiste ancora:
«La prima tappa fu la conquista del potere nelle città e l’instaurazione della forma sovietica di governo. La seconda tappa fu ciò che è essenziale per tutti i socialisti, senza di che i socialisti non sono tali: la differenziazione, nelle campagne, degli elementi proletari e semi-proletari [contadini costretti a prestare opera parziale di salariati] e la loro unione con il proletariato delle città per la lotta contro la borghesia rurale. Anche questa tappa nelle sue grandi linee è terminata»[163].
E qui Lenin ricorda i Comitati dei contadini poveri, e la possibilità ottenuta di «sostituirli con Soviet regolarmente eletti», organi dello stesso potere proletario nelle campagne.

Nella risposta a Kautsky egli annota che nel VI congresso dei Soviet del settembre 1918 i delegati bolscevichi, tra città e campagne, erano il 97 per cento[164]. Spulciate pure le concessioni di Lenin alla parola democrazia: non resterete che con un pugno… di pulci in mano.

44 – Lezione ai rinnegati

La formula di avere seguito i contadini, nella prima tappa, nel loro insieme, non è un modo di dire, ma un teorema della dottrina. La troviamo nell’«Anti-Kautsky» (scritto in fine del 1918).

«Tutti sanno che soltanto nell’estate e nell’autunno del 1918 i nostri villaggi hanno compiuto la ‹Rivoluzione d’Ottobre› (cioè la rivoluzione proletaria [parentesi nel testo])… A un anno dalla rivoluzione proletaria nelle capitali [sic!] è scoppiata, sotto l’influenza e con l’aiuto di questa, la rivoluzione proletaria nei villaggi più sperduti».

«Dopo aver portato a termine, assieme ai contadini nella loro [udite] totalità, la rivoluzione [udite] democratica borghese, il proletariato di Russia, appena è riuscito a scindere le campagne, a unire a sé i proletari e i semi-proletari rurali, a raggrupparli nella lotta contro i kulak e la borghesia, compresa la borghesia contadina, è passato definitivamente alla rivoluzione socialista».
E noi aggiungiamo: politica.

In mancanza di questo, Lenin segue, si sarebbe visto che il proletariato russo non era maturo per la rivoluzione socialista, i contadini sarebbero rimasti
«un tutto unico»«e la rivoluzione non avrebbe varcato i confini della rivoluzione democratica borghese».

Anche in questo casoLenin dice, badate – non sarebbe dimostrato che il proletariato non dovesse prendere il potere! E adesso ascoltate bene – siamo in fase, per quei cialtroni, di ritorno a Marx-Lenin!
«Giacché solo il proletariato ha condotto realmente a termine la rivoluzione democratica borghese, soltanto il proletariato [lasciateci anche qui enfatizzare!] ha fatto qualcosa di serio per avvicinare la rivoluzione proletaria mondiale, soltanto il proletariato ha creato lo Stato sovietico, compiendo il secondo passo – dopo la Comune – verso lo Stato Socialista»[165].

In principio marxista, rivoluzione socialista vuol dire creazione dello Stato socialista. Che può essere fondato in un paese solo, anche arretrato.

La creazione della società socialista in Russia è un granchio, che dalla penna marxista di Lenin non è mai uscito, signori falsari.

Egli ripete (lo fa sempre):
«La rivoluzione dei contadini nel loro insieme è ancora una rivoluzione borghese, e in un paese arretrato è impossibile trasformarla in rivoluzione socialista senza una serie di trapassi e stadi di transizione».

Si parla sempre di rivoluzione di classe, non di struttura economico-sociale. Uno di quegli stadi erano i venti anni, dopo i quali, anche tardando la rivoluzione in occidente, si poteva passare non al socialismo, ma dalla democrazia operaio-contadina nella forma sovietica alla pura dittatura proletaria, senza democrazia comunque aggettivata.

Dobbiamo ancora vedere come lo stalinismo ha sostenuto – e il preteso anti-stalinismo ripete – che proprio in quelle date Lenin prevedeva che si sarebbe passati dalla dittatura al suffragio universale! Nessun interesse hanno, i venticongressisti, a dirci dove si trova il falso editoriale.

Nella polemica con Kautsky, Lenin, dopo aver ricordato che «in Russia vi sono operai agricoli [salariati] ma il loro numero è limitato», e dopo avere ammesso che in forza della democrazia operaio-contadina si dovette, malgrado la dittatura delle bolsceviche capitali, subire la formula socialrivoluzionaria del godimento egualitario, cioè della non marxista pratica spartizione, deride la soluzione di Kautsky, che ormai «sente» una democrazia sola: quella borghese.

«Egli non tocca affatto il problema posto dal potere sovietico del modo come passare alla coltivazione della terra mediante le comuni e le associazioni. Ma la cosa più curiosa è che Kautsky vuol vedere ‹qualcosa di socialista› nella cessione in affitto dei piccoli appezzamenti. In realtà, questa è una parola d’ordine piccolo-borghese in cui non vi è l’ombra di ‹socialismo›. Se lo ‹Stato› che dà in affitto la terra non è uno Stato del tipo della Comune, ma una repubblica parlamentare borghese (tale l’eterna ipotesi di Kautsky) la cessione della terra in piccoli lotti sarà una tipica riforma liberale»[166].

Proveremo che la formula del colcos non è leniniana, ma sotto-kautskiana.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XX)

45 – Lenin e il «suffragio universale»

La relazione di Stalin sulla nuova costituzione del 1936 parte dalla decisione 6 febbraio 1935 del VII Congresso dei Soviet dell’URSS. Questa, prima ancora di dichiarare che si trattava di mettere la nuova Costituzione d’accordo con i rapporti tra le forze di classe allora esistenti in Russia, proclama che si tratta di
«democratizzare del tutto il sistema elettorale, di passare dal suffragio ristretto al suffragio universale, dal suffragio non del tutto eguale al suffragio eguale, dalle elezioni a più gradi al suffragio diretto, dallo scrutinio pubblico allo scrutinio segreto»[167].

Queste direttive sono vantate come un passo verso un sistema «completamente democratico», ed erano infatti una totale imitazione delle costituzioni democratiche borghesi, con il loro canone di suffragio universale, diretto, uguale e segreto; ed il mondo è invitato a considerarle come un abbandono della dittatura per il ritorno alla piena democrazia. Il mondo borghese non volle crederlo, suggestionato dal fatto che restava sempre permesso ed ammesso alle elezioni in Russia un solo partito, quello di governo; credette così di essere furbo; mentre teoricamente e storicamente si trattava appunto di volgere le terga alla dittatura di classe e alla rivoluzione.

Come abbiamo accennato, Stalin, nel difendere dalle critiche vicine e lontane il progetto che la Commissione allora nominata elaborò sotto la sua presidenza, sostiene che l’abolizione dei criteri storicamente essenziali del voto non uguale (da noi illustrato: operai cinque, contadini uno, borghesi zero) era stata «promessa» da Lenin nella sua relazione all’VIII congresso del Partito comunista bolscevico, nel marzo del 1919.

Bisogna distinguere tra due documenti. Quello che cita Stalin è il «Progetto di programma del partito c.b.» che figura (fedeltà a parte) nelle «Opere», al vol. XXIX, pagg. 85–124. Si tratta dunque di un testo scritto prima del Congresso. Ma la questione è anche trattata in altro scritto, che consiste nel «Rapporto sul programma del Partito» svolto da Lenin nel congresso il 19 marzo 1919, in parziale dissenso dal rapporto di Bucharin, relatore sullo stesso tema. Questo nelle «Opere» è allo stesso volume, pagg. 147–166. I testi, a parte la fedeltà dell’uno e dell’altro, sono diversi nella forma, e vanno brevemente considerati entrambi, in relazione alla loro data.

La data numerica significa poco, ma quello che, come sempre ricordiamo, risulta essenziale quando si adopera una citazione è il quadro della situazione generale in cui essa fu scritta, e il gioco delle forze storiche che allora dominavano la scena.

Il testo dato da Stalin nel 1936 è dunque di qualche tempo precedente al 19 marzo 1919, epoca del congresso, in cui la questione è affrontata da Lenin.

46 – La guerra civile al marzo 1919

L’VIII congresso fu preparato e si svolse nel momento cruciale della difesa del potere bolscevico, stabilito da un anno e mezzo, contro gli assalti controrivoluzionari che abbiamo ampiamente trattati in fine della Parte Prima di questa esposizione, considerando tale periodo come facente ancora parte di quelli in cui è al centro il problema politico-militare, con preminenza su quello economico-sociale.

Il 6 marzo Kolčak aveva traversato gli Urali, e il 15 era ai sobborghi di Ufa. Solo in fine di aprile doveva iniziarsi la controffensiva dell’esercito rosso. Il 21 marzo i francesi avanzavano da sud su Cherson, da Odessa, che solo in aprile dovevano evacuare. In maggio si delineavano gli attacchi ancora più gravi di Denikin al sud e Judenič al nord, che dovevano serrare su Leningrado e Mosca, liberate dalla pressione minacciosa solo nell’avanzato autunno. Alle spalle di tutti questi eserciti poderosi erano le potenze imperialiste della vittoriosa Intesa, che avevano ereditata la funzione stessa delle forze germaniche, turche, ecc.

Nella primavera del 1920 Denikin avrebbe dal sud di nuovo tentato, poi sostituito dal più possente esercito di Wrangel; solo dopo l’estate e la guerra polacca finita male davanti Varsavia, si sarebbe potuto parlare di pace.

Nel 1919 gli operai delle città malgrado ogni eroismo e maturità politica erano allo stremo delle forze, l’industria era precipitata al più basso scalino di tutta la sua storia, la carestia imperversava ad ondate, e lo Stato sovietico poteva calcolare di vincere dopo la dura resistenza solo grazie alle forze di validi alleati armati in tutte le province. Tali forze non potevano essere le sole dei contadini poveri e semipoveri: sarebbero state insufficienti. Si dovette sperare di ottenere e si ottenne l’appoggio dei contadini medi, e perfino tentare di evitare che parte dei contadini ricchi seguisse i bianchi e desse loro appoggio di uomini e di mezzi. Tale il problema che domina l’VIII congresso, e che come sempre Lenin non dissimula minimamente, anche quando i meno provveduti suoi compagni vorrebbero mascherare le dure esigenze sotto frasi dottrinali poco esatte, come avviene nel caso di Bucharin, proprio come era avvenuto nella precedente grave crisi del 1918: Brest Litovsk.

Dovevamo ricordare tutto questo per intendere il senso delle dichiarazioni di Lenin, e spiegare il loro obliquo sfruttamento tanti anni dopo.

Non si deve omettere per completare il quadro che, mentre i governi delle potenze democratiche borghesi alimentano la controrivoluzione, giunge agli estremi la feroce incanata della socialdemocrazia e della II Internazionale, che infama e diffama la rivoluzione comunista, e a cui poderosamente contrastano gli scritti teorici di Lenin e di Trotsky e tutta la polemica dei comunisti fuori di Russia.

Non si può trascurare la gravità delle conseguenze di questo lavoro assassino dei menscevichi russi e non russi, che fanno sì che strati incerti ma numerosissimi della popolazione russa fanno aperta lega coi reazionari e i bianchi zaristi nell’intento di rovesciare il potere dei bolscevichi.

47 – Un Lenin «suffragetto»?!

Pareva nel 1936 indiscusso che Stalin fosse mandato da Dio a compiere le promesse di Lenin, e veniva trattato da pazzo chi sosteneva quanto ha oggi ipocritamente ammesso il XX congresso, ossia che Stalin su tutti i punti aveva marciato in controsenso alle consegne di Lenin.

Il primo quindi, con assoluta sicumera e coi soliti interrogativi da «quiz», liquida la faccenda del suffragio:
«Non è tempo, compagni, di applicare questa indicazione di Lenin. «Penso che è tempo». «Mi pare chiaro». «Così stanno le cose».
E la tesi è questa:
«Lenin fin dal 1919 diceva che non era lontano il tempo in cui il potere sovietico avrebbe ritenuto utile introdurre il suffragio universale senza alcune limitazione. Fate attenzione. [sì, facciamola!], senza nessuna limitazione. Questo egli diceva quando l’intervento straniero non era stato ancora liquidato e la nostra industria e l’agricoltura si trovavano in una situazione disperata».

Stalin trae appunto al rovescio le conclusioni di una situazione veramente critica se non disperata per le sorti della rivoluzione socialista. Se le disfatte fossero continuate, e altrettanto per quelle fuori di Russia (Spartaco era già stato sgozzato dalla socialdemocrazia: i bolscevichi seguivano ansiosi Ungheria e Baviera, come in quegli stessi testi leniniani) la storia e un suo lettore del tipo di Lenin avrebbero posto il problema concreto se non era il caso di salvare la sola rivoluzione demoborghese, contro il pieno ritorno dello zarismo feudale. Allora si sarebbe a tal fine ingoiato anche il fetentissimo rospo del suffragio universale! Voglia chi ci segue riguardare il precedente paragrafo 44 e relativa citazione di Lenin.

Quindi, per grave che sia il dirlo, dialetticamente nel marzo 1919, se veramente facciamo rivivere nella nostra memoria e nel nostro studio quella situazione spietata, si imponeva l’ipotesi di ripiegare su una repubblica «borghese» in cui se non ammessi nel governo sarebbero stati tollerati, nel quadro delle forze, socialmente i contadini ricchi e politicamente quei menscevichi e socialrivoluzionari che si mostrarono poi tali canaglie da doverli disperdere a mitragliate, unica alternativa al farsi fare lo stesso servizio da loro. Proveremo ciò col testo stesso del rapporto di Lenin.

Ecco il passo, che non siamo in grado di confrontare in un più lungo testo adoperato da Stalin e, come abbiamo dedotto, da riferire a non oltre il febbraio 1919.
«Il P.C.R. deve spiegare alle masse lavoratrici, per evitare false generalizzazioni di necessità storiche transitorie, che la privazione di una parte dei cittadini del diritto di voto non riguarda affatto, nella Repubblica Sovietica, come invece accadeva nella maggioranza delle repubbliche democratiche borghesi, una categoria determinata di cittadini dichiarati senza diritti a vita, ma concerne soltanto gli sfruttatori, coloro che, in contrasto con le leggi fondamentali della R.S.S. si ostinano a difendere la loro situazione di sfruttatori, a mantenere rapporti capitalistici»[168].

Questo primo periodo anche testualmente non può essere teoricamente rifiutato. L’esclusione dal diritto di voto non deriva da qualità morali, legali, o razziali di una persona ma da un rapporto economico-sociale in cui contingentemente si trova il cittadino: chi è datore di lavoro non vota. Ma se, per espropriazione o per altro processo, si trasforma in salariato, senz'altro ridiviene elettore.

Proseguiamo nel testo che Stalin propina (dobbiamo in genere lavorare sempre su testi propinati dalla stessa fonte, ieri ineccepibile, oggi diffamata).
«Nella Repubblica Sovietica, da una parte, rafforzandosi di giorno in giorno il socialismo e riducendosi il numero di coloro che hanno oggettivamente la possibilità di restare sfruttatori o di mantenere rapporti capitalistici, diminuisce automaticamente la percentuale di coloro che sono privati del diritto del voto. Oggi in Russia questa percentuale non deve superare il 2–3 per cento. D’altra parte, nel più prossimo futuro, la fine dell’invasione straniera e il completamento dell’espropriazione degli espropriatori potranno, in determinate condizioni, creare una situazione in cui il potere statale proletario scelga altri metodi per reprimere la resistenza degli sfruttatori e istituisca il suffragio universale, senza nessuna limitazione».

Questo brano non solo è preso isolato, ma pare manipolato. Come è possibile che Lenin scriva che dopo il fatto (futuro) che sia stata condotta a termine l’espropriazione degli espropriatori vi sia ancora da porsi il problema di «reprimere la resistenza degli sfruttatori»?

È questa la ragione per cui tutta la deduzione si segue meglio in un testo completo come quello del rapporto che Lenin svolse al Congresso, e che considera un quadro di insieme di questioni: russe ed estere, di guerra civile e di rapporti sociali, ed a questo ci riporteremo.

48 – Il Congresso russo del 1919

Tale rapporto di Lenin si inizia con una parte molto importante, di cui ci siamo già bene avvalsi, ed in polemica con Bucharin. Questi aveva fondato la parte economica del programma sulla sola descrizione di un capitalismo di tipo monopolista ed imperialista. Lenin dimostra che è inseparabile la trattazione del capitalismo a concorrenza libera, e ciò tanto per motivi dottrinali marxisti, quanto in rapporto alle forme sociali russe del momento, in cui non solo è ben presente la concorrenza capitalista, ma insieme ad essa esistono forme sociali ancora più arretrate.

Questo grave tema si collega in pieno al testo sull’imposta in natura, e al famoso opuscolo del 1918 che Lenin in esso ampiamente riporta.

Una seconda parte è ancora di critica a Bucharin, ed è non meno importante. Sempre in relazione al quadro storico dello sviluppo russo nelle varie regioni, molte delle quali arretratissime, vengono respinte le esitazioni di Bucharin-Pjatakov sulla autodecisione nazionale dei popoli, e la sua sostituzione con la formula falsamente sinistra dell’«autodecisione del proletariato» (argomento che il nostro movimento ha trattato a Trieste e che sarà oggetto di ulteriori studi).

Tutto questo quadro viene sempre a sottolineare quanta zavorra borghese sia legata allo sviluppo russo, e come solo l’Europa possa rimorchiare la Russia al socialismo e non il contrario, tesi che, dura ad accettare in anni di gloriosa battaglia rivoluzionaria, è stata imposta – oltre che prima dalla sana dottrina – dalla forza inconfutabile della storia.

Lenin passa quindi alla questione del comportamento verso i piccoli proprietari e i contadini medi. Qui egli non riprende solo Bucharin ma anche gli organi dello Stato e del partito che svillaneggiano il contadino medio. Nello stesso congresso Lenin fa anche un rapporto sul lavoro nelle campagne, e sviscera questa questione anche sulle tracce di Marx ed Engels. Sempre in questo discorso Lenin ribatte il tema centrale dell’antitesi alternante: dittatura della borghesia o del proletariato, sole forze attive della storia moderna, e la conduce dal «Capitale» di Marx alla «verifica» della Rivoluzione Russa. Nessuna concessione adunque di natura dottrinale.

Tuttavia, quando si viene al contadino medio, Lenin ne dà una difesa impressionante, e spiega che anche a dire di Engels quella violenza che il proletariato rivoluzionario rivolge contro i fondiari e i capitalisti non può essere con la stessa intensità usata verso il medio contadino. Dice di più; e la citazione non stupisca:
«Persino nei confronti dei contadini ricchi, noi non diciamo con tanta risolutezza come per la borghesia: espropriazione totale dei contadini ricchi e dei kulak. Questa distinzione è fissata nel nostro programma. Noi diciamo: repressione della resistenza dei contadini ricchi, repressione delle loro velleità controrivoluzionarie. Ciò non è l’espropriazione totale»[169].

Voglia il lettore seguire il nostro sforzo di dare i termini dialettici delle successioni storiche. Siamo al solito: Stalin passò nel 1928 a sinistra di Lenin, abolì la NEP e sterminò i kulak, con metodi peggiori di ogni altra fase. Per ora, nel 1919, senza scapitare di un millimetro dalle posizioni del marxismo rivoluzionario, Lenin dice chiaramente: Siamo in una situazione tale da non poter «provocare» nemmeno il contadino ricco. Gli diremo: Se vai con Kolčak ti ridurremo alla fame e, se potremo, ti fucileremo; ma, se respingi l’invito di Kolčak, fa pur conto che faremo una certa differenza fra il tuo trattamento e quello usato al feudatario e al grande capitalista.

Tutto questo discorso non può intendersi senza stretto riferimento al momento che lo Stato e il partito sovietico attraversano. La coerenza teorica rigorosa non impedisce che si prendano le posizioni più utili tra le forze in gioco, soprattutto evitando di millantare di avere già scavalcato ostacoli, con i quali sono tuttora da fare conti scabrosi e sanguinosi.

In tutto questo discorso sui contadini Lenin dice che non si è ancora imparato come trattarli politicamente, ripete ad ogni passo tutti i pericolosi difetti di tali strati (abbiamo già citato vari brani in quel che precede) e soprattutto mette in piena luce la questione economica: la produzione industriale al 1919 è a zero, non si sa che cosa offrire ai contadini in cambio dei loro prodotti, il rapporto è ancora tale che resta al di sotto di una piena società borghese.

Date queste realtà, il partito deve procedere, senza nessuna rinunzia ai suoi principi e scopi rivoluzionari. Ed altro elemento da tener presente è la scarsissima cultura del contadino russo, come del resto ancora scarsa era quella stessa dell’operaio.

Lenin stabilisce che in quella fase, fra le tante di transizione che gli abbiamo sentito ricordare, tra proletari urbani e contadini vi è un patto di unità da rispettare, che non può assurgere ad una dittatura dello Stato operaio nelle campagne, ma deve lasciar passare verso i rurali i mezzi persuasivi di una comune democrazia interna (una specie di patto di non dittatura) che indiscutibilmente in teoria è una eredità democratico-borghese, di cui sarà lungo liberarsi. I 20 anni che Stalin snocciola al rovescio, quando dice che dopo 17 anni si possono costituzionalmente portare le due classi in piena parità![170].

49 – La privazione del diritto elettorale

Ed infine troviamo qui una esposizione di questo problema più coordinata di quella che sta nel passo dato da Stalin nel 1936. Essa è in funzione di un fatto evidente: i bianchi lavorano nelle campagne per superare l’odio di tutti i contadini contro il recente ricordo della servitù baronale e zarista aizzandoli contro i «capi bolscevichi di Pietrogrado e di Mosca». Vedete – essi dicono al contadino, che meno è povero meno di essi diffida – avete trovato dei nuovi padroni, sfruttatori, saccheggiatori. Nelle elezioni le città contano cinque volte di più di voi. Ciò vuol dire che, quando si tratta di darvi i pochi prodotti manufatti che vi servono, vi porteranno via cinque volte più grano del giusto. Il contadino miserrimo ci crederà per ignoranza enorme, il ricco e medio in parte anche per interesse. E Lenin, mentre dice che la dittatura deve essere di ferro e non di gelatina, ha il coraggio di affermare al congresso plaudente: Dobbiamo sì fare i decreti, ma non dobbiamo comandare al contadino medio di rispettarli!

E veniamo finalmente al punto che, non certo inutilmente, ha provocato questa esposizione e discussione di tesi di partito e di fatti di storia.

La prima affermazione di Lenin é:
«L’ultimo punto che mi spetta di esaminare è la funzione dirigente del proletariato e la privazione del diritto di voto».
Sottolineando, l’autore mette questo punto di principio fuori discussione.

Ricorda che tale fatto è sancito dalla Costituzione; ricorda gli attacchi feroci degli opportunisti esteri, e le risposte vigorose loro date a proposito di dittatura, democrazia borghese, e democrazia proletaria.

Aggiunge tuttavia:
«La questione della privazione della borghesia del diritto di voto non è da noi considerata come un criterio assoluto, perché teoricamente si può benissimo ammettere che la dittatura del proletariato reprima ad ogni passo la borghesia, senza tuttavia privarla dei diritti elettorali. Teoricamente ciò è perfettamente possibile e noi non presentiamo quindi la nostra Costituzione come un modello per gli altri paesi. Diciamo unicamente [scusate se è poco, aggiungiamo noi] che chi si immagina di poter passare al socialismo senza reprimere la borghesia non è un socialista»[171].

Ad una critica superficiale può sembrare che questo passo – e il successivo ricordo che la Costituzione non l’hanno fabbricata ed imposta i bolscevichi, ma, come già ricordammo, l’hanno formata i fatti storici reali, e l’hanno stesa materialmente i menscevichi e socialrivoluzionari prima di essere sbattuti fuori anche dai Soviet («Nessuno ha cacciato la borghesia dai Soviet, né prima né dopo la Rivoluzione di Ottobre. La borghesia stessa se ne è esclusa», ossia ha lasciato condurre dai Soviet, formatisi tra le masse, la Rivoluzione contro lo zar che avrebbe dovuto far lei!) – che questi passi parafrasino più o meno quello che insinuiamo sia stato «arrangiato» da Peppe Stalin.

Bisogna andare più a fondo, anche riferendo che Lenin dice (ed è la chiusa del rapporto):
«della ineguaglianza [elettorale] non facciamo un ideale, pure avendo dovuto la nostra Costituzione registrarla, perché il livello culturale è basso, perché l’organizzazione da noi è debole».

Per il marxismo una Costituzione non è infatti un ideale. Noi riteniamo che le Costituzioni siano passeggeri risultati della storia, e non pilastri fondamentali della storia futura di un popolo. Le Costituzioni sono una forma del dominio di classe, e sono caratteristiche delle rivoluzioni borghesi. Un’integrale Rivoluzione socialista farà a meno di carte costituzionali.

Essa farà anche a meno di diritti elettorali. La rivoluzione russa si è dovuta porre un problema di diritti elettorali, perché il problema storico della nascita della democrazia in Russia era ancora in piedi, e, non avendolo maneggiato la imbelle borghesia, ha fatto parte del carico che si sono dovuti addossare i proletari comunisti. Questi come loro compito storico specifico hanno l’estinzione della democrazia, e dello Stato, traverso l’abolizione delle classi (Engels, Lenin). Preso per volere della storia nelle mani quell’altro compito, lo hanno risolto in modo originale, in modo ben diverso da quello dei democratici borghesi e da quello dei socialdemocratici (vedere, dice Lenin, la Repubblica, che si pretende operaia, di Weimar!). Non hanno ideali costituzionali propri, hanno solo il compito dialettico di forzare i passi nelle inevitabili fasi di transizione.

In queste il problema fondamentale è di non perdere il potere. Quello che per Lenin è questione di principio è che bisogna reprimere la borghesia. Il male è non reprimerla, non debellarla, non conculcarla. A questa condizione potrebbe pure succedere che la facessimo votare. L’argomento è beffardo più che polemico e vale quello usato per il kulak: Se si mette contro di noi lo abbatteremo, ma non gli annunziamo di farlo nel caso che resti almeno neutrale nella guerra civile.

Una diversa posizione del problema potrebbe condurre a questo errore: per far vincere il socialismo non occorre schiacciare ed espropriare la borghesia, basta scrivere su una «carta» che non può votare.

La rivoluzione proletaria pura ha per sua via, come da cento passi riportati qui ed altrove, la guerra di classe, e non la conta dei voti. La rivoluzione russa era «doppia» e non pura, ha dovuto passare per guerre di classe e guerre di voti: l’importanza del suo modo di votare è stata di far intendere nella dottrina e nella politica ai proletari del mondo la tesi basilare della dittatura, senza il possesso della quale anche il ricorso alle armi resta privo di rivoluzionario efficiente vigore[172].

50 – Finale sulla democrazia elettiva

Possiamo ora concludere sulla questione dell’ineguale diritto elettivo in Russia, che sollevò allora e solleverà sempre enorme scalpore. Mai i comunisti fecero concessioni in questo sui principi, che nella discussione dottrinale furono dimostrati essere quelli di Marx e di Engels. Uno degli aspetti essenziali del comunismo è la critica della democrazia. Compito della rivoluzione comunista è la liquidazione della democrazia. Questa è un momento storico della serie delle dominazioni di classe ed una facciata della moderna società divisa in classi. In dottrina ne distruggiamo ogni pretesa a elevarsi a «valore» universale ed eterno, come la distruggiamo per il potere statale, altro aspetto di tutte le società di classe antiche e moderne. Il marxismo stabilisce il tendere storico alla società senza classi, che è senza Stato e senza democrazia elettiva: l’estinzione dell’uno e dell’altra.

La coerenza a queste posizioni di principio basta a condannare le attuali farneticazioni sulla «via» al comunismo «attraverso» la democrazia. E le degenerazioni dell’opportunismo di allora e di oggi, che eleva la democrazia a «valore limite», dalle cui linee il cammino al socialismo non può sortire. Nel 1919 ciò era giunto alla citata formula ubriaca: dittatura della democrazia!

Resta il problema del cammino traverso il quale si arriverà a liquidare storicamente lo Stato elettorale. Ed è su questa difficile dottrina, rimessa in alto dal marxista Lenin, che tutti gli avversari hanno speculato.

Appunto perché non siamo seguaci di Ideali, di Utopie, e quindi di Modelli costituzionali su cui si disegni lo Stato nuovo (che per noi è il non-Stato) sappiamo che dialetticamente, come lo stesso capitalismo, la democrazia quale forma storica deve descrivere una certa orbita, per giungere a tramontare. Quindi nelle opere teoriche di Marx, di Engels, di Lenin, di Trotsky troviamo dialetticamente connessi i «rami ascendenti» e i «rami discendenti» di tale orbita. La dialettica ci consente di intendere come si arrivi alla morte della democrazia traverso il suo stesso sviluppo, il suo perfezionamento, la sua spinta all’intrinseco estremo. La Russia era il paese in cui tale ramo doveva ancora essere percorso, anzi cominciato a percorrere, mancando una storia di libertà democratiche ed essendo le prime Dume pallide caricature dei Parlamenti occidentali già in atto da secoli. Decaduta la borghesia locale da tale suo compito di esaltazione democratica, il proletariato e il contadiname lo fanno proprio, e salgono a tappe giganti il ramo ascendente.

Lenin deve sbugiardare Kautsky nella tesi che in Marx si legga il concetto della democrazia come forma limite della rivoluzione proletaria. Ma lo deve anche confutare nella menzogna che la liberazione della Russia dal dispotismo preborghese sia stata svolta dal potere dei Soviet in modo deteriore rispetto ai liberalismi borghesi classici. Ed egli gli contesta che nella rivoluzione dei Soviet lo svincolamento, la spontaneità delle masse in moto hanno raggiunti limiti ignoti anche alle più gloriose rivoluzioni liberali.

Possiamo esprimere questo concetto dicendo che in Occidente le masse lavoratrici si erano non solo dissetate, ma ormai disgustate della linfa scorrente dalla fonte elettorale, che dapprima appare delizia, infine veleno. In Russia la sete di democrazia elettiva era un fatto storico, che non si poteva spegnere con l’astinenza. Questa immagine non deve far pensare ad elementi di ordine psicologico o morale, ma al problema materiale dei rapporti di forze. Da esso dipende che i contadini rovescino o meno milioni di combattenti nell’esercito nemico e non nel nostro. Dalle canagliate dei Kautsky dipende un’influenza che frena le masse europee dal legare le mani dei loro governi nell’azione di manutengolismo delle bande bianche.

In questo senso Lenin in dottrina deve non escludere che il complesso procedere della rivoluzione russa abbia per un momento a bere l’acqua o l’elisir della scheda per tutti.

Altro dice Stalin nel 1936, altro i suoi figli, addirittura degeneri, di oggi. Essi non dicono che il suffragio universale può essere un fiume che ci tocchi di traversare a nuoto, come tanti altri. Essi cadono nella posizione reazionaria che ne fa un oceano i cui limiti non saranno mai varcati.

Un giorno il proletariato di Occidente, che può con un passo solo salire sull’opposta sponda di questo torbido fiume e delle sue melme letali, ritroverà in tutto il suo vigore la tradizione storica della dittatura russa, che gli insegnò per sempre il diritto di stracciare il suffragio popolare universale, anche quando si era dovuto prima traversarlo, in fase borghese del processo.

La lezione è quella che non si va al socialismo senza reprimere la borghesia. Ed è anche permesso toglierle il sacro diritto al suffragio. Potrebbe per avventura il borghese avere in una data contingenza il permesso di accedere all’urna. Ma la rivoluzione rivendica quello, all’andata o al ritorno, di annullarlo come figura economico-sociale, sopprimerlo come figura fisica.

51 – I rapporti di produzione

La grandezza storica ed internazionale della Rivoluzione Russa, come risultato che nulla ha distrutto, né le sconfitte, né le paurose degenerazioni, sta nell’aver preso – nella fase in cui tutto permetteva di attendersi che si sarebbe sviluppata in una rivoluzione europea e mondiale – il massimo ritmo di svolgimento delle forme dello Stato, fino ad una dittatura totale nei confronti delle classi possidenti, malgrado l’interna caratteristica di una tolleranza democratica per ceti piccolo-borghesi agrari, mentre era minimo il passo di evoluzione dei rapporti produttivi e dell’economia sociale.

Dopo aver quindi trattato delle prime misure dello Stato sovietico e del governo comunista, e delle originali vicende attraverso cui furono inquadrate le forme dello Stato eretto in Ottobre, sulle rovine di quello zarista e delle sue propaggini borghesi e social-opportuniste di febbraio-ottobre, possiamo ora tornare al quadro dell’economia del paese sovietico nei primi anni dopo la conquista, durante e dopo la fase di difesa del potere rivoluzionario, di guerreggiata guerra civile.

Come non era possibile e tanto meno utile evitare, abbiamo già toccato in tutto il corso della trattazione, per le ripetute svolte storiche, il quadro di questi rapporti, e tra l’altro descritto il totale disordine, la grave paralisi in cui erano caduti per effetto della guerra mondiale e nel periodo della prima rivoluzione che depose lo zar.

Abbiamo tra l’altro a sufficienza attinto alla fonte data dallo scritto di Lenin che precede Ottobre (a noi soprattutto importa, oltre che seguire le vicende dei fatti economici, assodare che il grandioso moto del comunismo bolscevico ne ebbe chiara e completa visione tappa per tappa, fino a quando un’ondata controrivoluzionaria non apparve, levando la traditrice bandiera del socialismo costruibile e costruito entro l’isola russa): «La catastrofe imminente e come lottare contro di essa» – 10–14 settembre 1917.

Nella fase successiva i compiti economici devono cedere il passo a quelli politici: insurrezione armata – presa del potere centrale – dispersione dell’assemblea parlamentare – liquidazione della guerra imperialista – resistenza agli attacchi armati della controrivoluzione.

Subito dopo Brest Litovsk e la conseguente rottura coi socialisti rivoluzionari, per pochi mesi alleati nel governo, ed anche dopo la non lieve crisi interna del partito bolscevico a proposito dell’accettazione del terribile trattato dettato dai tedeschi, in una situazione economica sfavorevolissima e di fame, ma quando ancora non è salita la pressione delle guerre civili, lo scritto dell’aprile 1918 sui «Compiti immediati del potere sovietico» riassume ad opera di Lenin la prospettiva economica, e più volte vi abbiamo attinto al fine di chiarire che non si parlava menomamente di un’applicazione, come risorsa concreta, di sistemi e produzione e di consumo socialisti, ma di indirizzo rivoluzionario e politicamente socialista nello stabilire le misure del governo e le attività del partito che lo gestiva.

In questo scritto è chiaramente stabilito che si tratta di condurre la gestione dell’economia, anche recisamente definita come borghese e meno che borghese, attraverso una buona «amministrazione» ed «organizzazione». L’avvento della società socialista è cosa ben più alta che l’introdurre una buona organizzazione e una buona amministrazione; si tratterà di cosa radicalmente diversa dalla moralizzazione, pulizia, riordinamento della vita economica, dalla ingenua «révolte contre tous le coquins» della canzone!

In Russia, nell’aprile del 1918, Lenin non dice: facciamo il socialismo; e nemmeno: ora mi rimbocco le maniche e lo faccio! Dice appunto agli operai, avanguardia della rivoluzione sacrificata ed affamata dalla carestia: Addosso ai farabutti, ladri, speculatori, contrabbandieri e banditi, per ottenere una gestione meno rovinosa delle risorse vitali, sia pure nelle antiche forme borghesi mercantili e primitive.

52 – Non fretta demagogica

Lenin comincia col dire che si è già avuta troppa precipitazione nell’espropriare il capitale (ossia nella semplice statizzazione di aziende e gruppi di aziende).
«Finora si ponevano in primo piano i provvedimenti di immediata espropriazione degli espropriatori [bella vecchia frase di Marx, ma frase di agitazione più che di programma, notiamo noi]. Ora passa in primo piano l’organizzazione del censimento e del controllo nelle aziende i cui capitalisti sono già stati espropriati, così come in tutte le altre»[173].
Si tratta di una poderosa messa a punto marxista. Condurre aziende non è socialismo; socialismo è pervenire a produzione non aziendale, compito lontano e mondiale.

Non è qui il caso di corroborare tale tesi con le innumeri citazioni di Marx, da cui risulta che egli diede, ad ogni passo, i caratteri distintivi essenziali tra l’economia socialista e l’economia capitalista.

Interessa seguire ancora un poco il testo di Lenin:
«Se volessimo ora continuare ad espropriare il capitale con lo stesso ritmo di prima certamente subiremmo una sconfitta, giacché è chiaro, evidente per ogni uomo pensante, che il nostro lavoro di organizzazione di un censimento e di un controllo proletario è in ritardo in confronto a quello di immediata ‹espropriazione degli espropriatori›. Se ci accingeremo ora con tutte le forze al lavoro di organizzazione del censimento [o inventano] e del controllo, potremo risolvere questo problema, guadagnare il tempo perduto e portare vittoriosamente a termine la nostra campagna contro il capitale»[174].

Una parte importante di questo lavoro è quella che, come avverrà per vari anni, si riferisce alla necessità di assumere «specialisti» dall’estero.

«Il passaggio al socialismo è impossibile senza specialisti che dirigano i diversi settori della scienza, della tecnica e della ricerca, giacché il socialismo esige un’avanzata cosciente delle masse verso una produttività del lavoro maggiore rispetto a quella del capitalismo, e che parta dai risultati da questo raggiunti».
Lenin dichiara che la poca importanza data al lavoro di censimento e di controllo spiega le perplessità di molti operai e compagni nell’affidare posti direttivi a specialisti «borghesi». E conclude che gli specialisti ci vogliono per imparare dai paesi capitalistici, e che lo Stato sovietico dovrà decidersi a pagarli secondo le loro pretese.

53 – Un’abusata parola

Nella sua campagna per il censimento e il controllo e per l’aumento della produttività del lavoro – questo è un indice che interessa il socialismo (e non quello dell’aumento della produzione) in quanto significa castigamento del tempo di lavoroLenin ricorda che il russo è un cattivo lavoratore, rispetto ai paesi borghesi, e arriva a propugnare l’insegnamento in Russia del famoso sistema Taylor, per la razionalizzazione dei processi di lavoro. Solo che la borghesia lo vede come mezzo per un «maggior prodotto», e il socialismo come mezzo «per un minore sforzo e tempo di lavoro».

A questo punto ci incontriamo con una tesi di Lenin, grandemente sviluppata nell’epoca staliniana e gonfiata fino alle esagerate forme di premi, onorificenze, esaltazioni a quei lavoratori e a quelle comunità locali di lavoratori che raggiungevano il massimo prodotto, o che superavano i compiti loro attribuiti nei vari e multipli piani e programmi di lavoro e di produzione.

Si tratta della tesi sulla «emulazione», parola che doveva avere in verità un triste destino. Lenin parte dal rifiuto della banale tesi con cui i borghesi di tutti i tempi hanno scioccamente dichiarata impossibile la produzione socialista. Sopprimete, essi dissero fin dalle prime polemiche, l’interesse individuale, lo stimolo del guadagno, la spinta a migliorare rispetto al proprio simile, e la produzione si fermerà, nessuno vorrà lavorare. La società vive grazie alla gara, all’emulazione, tra l’uno e l’altro dei suoi membri, che i socialisti vogliono sopprimere.

In verità la risposta è che nella società attuale il 95 per cento degli uomini si assogetta a sforzi di lavoro non per il sogno di migliorare, ma per il fatto reale che, se non lo fa, peggiora, scende altri scalini economici, fino a crepar di fame.

La spinta è data dal bisogno e dalla paura, non dall’invidia per il vicino e dalla gara con lui; in ogni caso è gara a fregarlo, e non a far meglio di lui, a fini sociali.

Lenin rispose allora che la rivoluzione sovietica, destando le masse da un secolare letargo confinante con la completa ignavia, e portandole nel fuoco delle esigenze sociali, agiva come uno stimolante e non come un narcotico dell’attività di lavoro. In effetti non si trattava di passare da un’economia spiccatamente privatistica e individuale all’economia associata, lontana ancora, ma di qualche cosa di opposto: di introdurre, salendo da un’economia naturale patriarcale ad uno scambio nazionale di prodotti, nuove esigenze ed appetiti economici.

Lenin paragona il mezzo borghese di spingere all’emulazione e ai miglioramenti, la pubblicità, con il ben diverso metodo con cui egli sospinge il sistema sovietico ad organizzare una emulazione «di massa». Egli richiede che al controllo e alla formazione di quadri statistici e di censimento economico si accompagni la diffusione dei risultati, mettendo in evidenza nella stampa, tolta di mano ai borghesi, i migliori risultati. Ma le leve cui Lenin accenna non sono compensi in denaro dati dallo Stato, o altri vantaggi e solleticanti onori, bensì lo svolgersi di una maggiore maturità culturale e sensibilità sociale e politica, per cui le notizie degli esempi migliori dovrebbero servire a spronare la generale attività produttiva, in un comune interesse e scopo di classe.

L’imperativo del momento è in effetti un aumento della produzione, che deve venir rialzata dai minimi paurosi, meno che vitali, cui è piombata. L’appello al supremo sforzo della classe che lavora infatti si appoggia da un lato sull’emulazione tra gli strati più efficienti e quelli che la crisi generale ha intorpiditi fino all’estremo, ma si poggia anche sull’impiego, da noi largamente già trattato, di una stretta gerarchia di autorità nella produzione, e delle facoltà dittatoriali anche personali attribuite ai capi gerarchici di essa.

Agli effetti nefasti di questa economia dissestata venne presto ad aggiungersi l’uragano della guerra civile su tutti i fronti; e le sue fiamme e il fumo degli incendi nascosero i veri connotati dell’inquadratura sociale russa, che Lenin era impaziente di sottoporre ad una precisa anatomia e ad una presentazione estimativa e valutativa completa.

54 – Vecchio e nuovo capitalismo

Interessa a noi come fu tratteggiato allora questo quadro, potendo solo da tale punto di partenza chiarificare quali furono le modifiche che sopravvennero nella successione di fasi storiche: consolidamento del potere sovietico, distruzione dell’opposizione di sinistra, progresso economico dal 1926 al 1939, seconda guerra mondiale, spartizione del mondo con gli alleati, rivalità, guerra fredda, ciclo contemporaneo della coesistenza pacifica.

Per far tanto dobbiamo, ancora una volta, e prima di passare alla politica economica dello Stato bolscevico a guerra civile chiusa, servirci dei dibattiti dell’VIII congresso del partito, nella primavera dell’agitatissimo 1919.

Si trattava di un programma da partito giunto al potere, in cui le questioni di principio e di teoria si consideravano ormai sistemate, e si doveva venire al problema effettivo della politica economica del nuovo governo. Non si discuteva più che il partito comunista lotta per attuare politicamente la dittatura proletaria, ma si stabiliva, nel quadro della società russa del tempo, quale impiego il partito dovesse fare di questa conquistata dittatura.

La dottrina aveva già risposto che la dittatura proletaria è una fase di transizione durante la quale devono essere superate le forme capitalistiche.

Bucharin, incaricato di stendere il progetto di programma, imbevuto della vittoria di queste posizioni: necessità della dittatura rivoluzionaria; sua prima attuazione storica in Russia; stretto legame (doveva di lì a poco fondarsi a Mosca la Terza Internazionale) col movimento proletario dei paesi borghesi; e della tesi allora a tutti comune che il passaggio al socialismo era questione da porsi non per la sola Russia, ma come effetto di una rivoluzione internazionale, aveva formulato la parte descrittiva del programma in riferimento alla tappa imperialista del capitalismo mondiale – e in un giusto senso anche russo.

La costruzione poteva sembrare ovvia. Lenin aveva classicamente stabilito la dottrina, conseguentemente e strettamente marxista, dell’imperialismo, legando a questo grandioso fatto storico l’origine della guerra mondiale. Questa aveva coinvolto la Russia e provocato la rivoluzione sociale in questo paese immenso; da tale rivoluzione era sorta la storica concretezza della dittatura. Tutto poggiava su questi due perni: imperialismo capitalista – dittatura proletaria.

È notevole che proprio Lenin (lo dicemmo nel «Dialogato coi Morti»)[175], teorico della fase mondiale imperialista, rettifica questa posizione di Bucharin, per quanto attiene alla Russia. Bucharin aveva tolto dal vecchio programma tutta la parte che descriveva il primo capitalismo concorrentista e liberale, in cui le imprese di produzione si muovevano ognuna in modo autonomo, senza legami di cartelli e trust, e legislazioni di politica dirigista statale.

Ma in Russia, e non solo in Russia, non vi è contrapposizione tra due tipi e tempi di capitalismo: quello liberale e quello monopolista. Si tratta di due facce della stessa forma, come è chiaro fin dai primi saggi di Marx e di Engels sull’economia borghese, anche prima del 1850. Lenin ha descritto i fenomeni dell’imperialismo del novecento, quale conferma delle previsioni stabilite dai marxisti in presenza dei fenomeni dell’economia di capitalismo privato e delle sue apologie liberiste, concorrentiste, benthamiane e così via.

Bucharin era caduto in una contrapposizione scolastica, e la maggioranza della commissione, seguendo Lenin, volle ripristinare tutta la descrizione critica del primo capitalismo.

E Lenin tiene nel suo rapporto al congresso a stabilire che non si trattò di riguardi storiografici o di tradizionalismo, ma di stretto legame con l’attuale realtà del tempo.

«L’imperialismo puro, senza la base fondamentale del capitalismo, non è mai esistito; non esiste in nessun luogo, e non potrà mai esistere. È stata una generalizzazione errata di tutto ciò che è stato detto sui consorzi, i cartelli, i trust, il capitalismo finanziario, quando si è voluto presentare quest’ultimo come se esso non poggiasse affatto sulle basi del vecchio capitalismo»[176].

Lenin dichiara ciò falso. E lo dimostra col rifarsi in modo estremamente interessante alle tesi di Engels che la futura guerra (che venne poi nel 1914), assai più tremenda di tutte le antiche, avrebbe fatto talmente rinculare l’umanità da compromettere le stesse conquiste del capitalismo moderno, accettate come base del marxismo.

Questa posizione di Engels non è «pacifista», nel senso che inciti borghesi e proletari ad agire insieme per evitare la guerra. Essa è rivoluzionaria, perché spiega quello che noi da vario tempo andiamo ripetendo: la lunga guerra ci caccia indietro come condizioni oggettive e soggettive per la rivoluzione socialista: lungi dall’accettarla come nel 1914, i socialisti devono «fermarla con la rivoluzione». Se no, il capitalismo ha fiato per «cominciare tutto da capo».

Anche la seconda guerra non è stata fermata, e la rivoluzione si è ancora allontanata di ventenni: se la terza passerà, preparerà al capitalismo un altro mezzo secolo-cuscinetto, come l’attuale. O gli riproporrà addirittura il problema di rivivere tutta la vita, trasformandolo da vecchio fetente in roseo neonato!

Lenin ricorda le vanterie dei socialisti di guerra che, dinanzi alla sanguinosa rampogna delle masse che avevano spinto nel macello delle nazioni, tiravano il fiato constatando che l’impalcatura economica capitalista non era caduta in uno stato di barbarie
«e deridevano i fanatici o semi-anarchici [come, dice Lenin, essi ci chiamavano] le cui nere previsioni non si sono avverate»[177].

Lenin afferma che, e non solo in Russia, il capitalismo dopo la prima guerra ha regredito su forme antiche, e dà questa definizione della struttura sociale russa in quel tempo, che consideriamo della più alta importanza critica:

«Oggi in Russia subiamo le conseguenze della guerra imperialistica e viviamo all’inizio della dittatura del proletariato. E in pari tempo, in parecchie regioni della Russia che si sono trovate più di prima staccate le une dalle altre, assistiamo in molti luoghi al risorgere del capitalismo e allo sviluppo del suo primo stadio».

Parlava il medesimo Maestro che aveva dato negli anni 1890 la prima analisi del sorgere del capitalismo in Russia, e nel 1915 la prima del sorgere dell’imperialismo mondiale. L’una e l’altra volta mostrando che nulla aggiungeva a Marx.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXI)

55 – Nel 1919 il capitalismo rinacque

Dal dibattito di Lenin con Bucharin nell’VIII congresso del partito bolscevico abbiamo tratto una citazione che concludeva: assistiamo al risorgere del capitalismo e allo sviluppo del suo primo stadio.

Lenin deduceva tale limpida verità di fatto dalle conseguenze della guerra imperialista che aveva devastato parte della Russia, seguita dalle altre non meno gravi devastazioni della guerra civile.

Ci sembra utile ricollegare tale constatazione e lo sviluppo dottrinale che le dà Lenin alla formula da noi usata sia nel «Dialogato coi Morti», che nella riunione di Cosenza.

Tutti i dati russi, ed anche quelli che sono nel famoso «Breve corso» e nel «Manuale di economia politica», di stretta marca staliniana, concordano nel ritenere che al suo minimo la produzione industriale russa, proprio in quell’anno 1919, toccò il fondo di un settimo della produzione antebellica. Ciò conferma quanto abbiamo dato nel nostro «Quadro» e nei diagrammi illustrati a Cosenza[178] ed in via di più esatta elaborazione circa la caduta tra il 1913 e il 1920, che è dell’87 per cento del livello di partenza. Esempi storici di discese di questa gravità non ne abbiamo trovati: il massimo effetto delle discese da «crisi economica» è dato dagli Stati Uniti nel 1929–32, ed è del 46 per cento; ossia la metà del disastro industriale russo, il quarto quanto a punto di arrivo. Inoltre si scende da un livello di alto potenziale industriale, assai più del massimo russo di anteguerra, che sarebbe facile far risaltare con gli indici pro-capite. La Russia del 1920 non produsse che 116 300 tonnellate di ghisa: il 2,8 % del 1913 in cui ne produceva 4,2 milioni di tonnellate! Di acciaio nel 1913 («Manuale») produsse 4,3 milioni di tonnellate (circa 30 chili per abitante). Nel fondo della crisi non restava che 1 chilo circa (uno) per abitante! Oggi sono 200 chili contro i 660 americani. Rifacendo il conto per 200 anziché 220 milioni di abitanti, sono 225 chili.

Ora l’America, al fondo della crisaccia 1932, produceva sempre una trentina di milioni di tonnellate di acciaio e dunque circa 200 chili per abitante, quanto la vantatissima Russia siderurgica di oggi, 1955! Nessun paragone tra l’incidenza delle due crisi. Se guardiamo le cadute industriali da guerra, i massimi sono dati dalla Germania, due volte: 45 e 69 per cento, e dal Giappone, una volta: 70 per cento. Si potrebbe rifare il confronto e sarebbero sempre fenomeni diversi dalla caduta russa dell’87, ossia al 13 per cento, al noto settimo, mentre per quei due paesi dalla ben più potente attrezzatura, rispetto alla Russia 1913, si cade al terzo circa (31 e 30), sopravvivendo almeno tanto potenziale industriale quanto se ne era ottenuto in Russia prima del precipizio (circa 30 chili di acciaio per abitante).

Dialetticamente la quantità compare come qualità: un capitalismo ridotto ad un chilo di acciaio per persona, che basta per i chiodi, le pennine e gli spilli in un anno, non è più capitalismo. Non risale, come «quantitativamente» parrebbe, ma rinasce, da un fondo sociale precapitalista. Quindi la Russia ha avuto due capitalismi, e non un capitalismo sostituito da socialismo.

È quindi per noi importante che questo stesso teorema venisse da Lenin spiegato al pur valoroso Bucharin, chiamato volta a volta – nelle frequenti svolte dialettiche prese al rovescio, ma riscattate alla fine cadendo da rivoluzionario di razza – profondo conoscitore di Marx (anche in questo testo) e non abile all’impiego della dialettica.

56 – Vie della rinascita

Lenin vede venire questo nuovo industrialismo capitalista, senza indulgere a nessun pietoso velo, in tutta la potenza dinamica del marxismo. Ne vede tutte le possibili soluzioni, e questa impostazione data in partenza, nel momento della spaventosa pausa vitale, contiene già tutta l’alternativa che pesò sul partito bolscevico russo negli anni che seguirono, e riempì di sé i violenti scontri con le opposizioni che è fatica titanica svincolare dal peso dell’ammasso di falsità che vi ha sovrapposto per oltre trent’anni lo stalinismo – mentre è vano sperare che la macchina dirigente dello Stato russo, vedova di ogni forza teoretica di partito, e parimenti impotente a digerire la dottrina di Marx e di Lenin, faccia qualcosa per ridare luce alla verità, tutta dedita come è a governare il timone secondo l’opportunità di fatto delle ultime svolte.

Siamo sempre lì. Il dibattito che studiamo riguarda un programma di partito, ed anzi quel suo primo capitolo che è descrittivo della situazione sociale. Può sembrare un lusso dottrinale quello di correggere l’omissione del primo formarsi della produzione capitalistica iniziale, in ambiente di libera concorrenza, passando subito alle caratteristiche del capitalismo del tempo imperialista. Invece la correzione non è solo di natura scientifica, ma di attualità storica e politica di quel momento. Le rettifiche di principio sono tutte preziose e fondamentali in quanto, come di norma, valgono ad evitare «sbandate» di tutti i luoghi e di tutti i tempi: ma insieme ad esse è sul tappeto l’ardente decisione sulle prospettive dello sviluppo russo.

Poniamo di primo abbordo la questione così: il partito crede, e preferisce, che l’industrializzazione della Russia (da tutti ritenuta indispensabile, in quanto o la si attua, quale che sia la trama dei rapporti produttivi, o si cadrà sotto l’invasione delle armate borghesi prima che la rivoluzione internazionale divampi) nasca nelle forme di un capitalismo secondario, di tipo imperialista?

Ci pare evidente che è la seconda forma che storicamente si è realizzata. Che significa che per Lenin nel 1919 questo non era né sicuro, né – per chi legge da dialettico – soddisfacente? Significa che Lenin sbagliava? Per noi significa che Lenin avvertiva il pericolo controrivoluzionario. Da allora sono passati trentasette anni. Noi assumiamo, e ciò corona quanto sotto tanti aspetti abbiamo detto in tutto lo studio, che il risultato ottenuto, per il comunismo rivoluzionario, non è solo un risultato fermato a mezzo sulla china della storia, ma è deteriore – soprattutto in riflesso all’economia agraria – rispetto a quello dell’edificazione (qui la parola va a posto) di un capitalismo di tipo primario. E diciamo di più: non solo nell’ipotesi, per noi ammissibile (si veda l’esegesi del dibattito 1926), un controllo statale comunista e internazionalista su tale sviluppo, ma anche nell’ipotesi della sua caduta sotto un potere dichiaratamente borghese, e della formazione aperta di nuove condizioni di rivoluzione classista, in parallelo a quelle mondiali.

Bucharin più tardi doveva proprio lui sviluppare tale teoria, ma al solito si buttava tutto su una deduzione dottrinale sviluppata unilateralmente e metafisicamente. Ciò si prestò a farlo apparire, da parte dei veri luridi traditori, come difensore dei capitalisti liberi agrari, dei kulak, che Stalin ebbe, nelle versioni ufficiali, il merito di fisicamente sterminare nel 1928.

Anticipiamo un momento la conclusione: essa sta nel confronto tra una campagna ove i proletari rurali senza terra conducano la lotta di classe, e quella attuale ove l’enorme maggioranza non è nemmeno – come nelle industrie urbane – di salariati di Stato, ma di esercenti e di goditori privati e familiari; in una parte, di minor peso economico e ancor minore peso sociale, associati in gestioni cooperative. Il socialismo non si rinviene né nell’uno né nell’altro sistema, come non si rinverrebbe nemmeno in un totale statalismo terriero di gestione o di esercizio. Chiamiamo duramente i tre tipi: kulak, colcos, sovcos. Quello attuale (che si presta allo stupido vanto: i capitalisti nella campagna non ci sono più) è per noi un punto di arrivo disfattista. Al suo posto Lenin avrebbe optato per il terzo, o per il primo, ben vero tutti e due non come traguardi finali, ma come strade per traversare il periodo di «buoni rapporti» coi contadini, e mantenere la rotta verso il socialismo, e verso il suo termine inseparabile: rivoluzione all’ovest.

Torniamo ora a seguire la dimostrazione di Lenin all’VIII congresso, dopo aver ricordato la sua valutazione dell’effetto della rivoluzione di Ottobre fuori delle due capitali e delle grandi città industriali: trasporto della lotta di classe nelle campagne. Lotta di classe vuol dire presenza dei kulak, e dei milioni di contadini loro salariati appoggiati dallo Stato operaio. Far sparire i kulak è il naturale obiettivo di questa lotta, ma pagano con la degradazione dei proletari di campagna da lavoratori associati a lavoratori parcellari, significa aver liquidato la lotta di classe ma dato vittoria alla controrivoluzione, imprimendo alla pur utile e rispettabile rivoluzione borghese di Russia una tonalità arretrata, e non avanzata, in quanto tale, in quanto borghese. Tu vedi, o Bucharin, che la lotta tra forma secondaria e primaria del capitalismo è già vinta; non vedi che siamo ancora al passaggio da forme precapitaliste rurali ad un capitalismo di sviluppo infantile e primario?

57 – Il capitalismo è uno

Lenin aveva detto che siamo nel 1919 in Russia dinanzi al risorgere di forme capitaliste del primo stadio. Aggiunge due cose importanti. Una è che questo stesso avviene fuori di Russia. L’altra è che passerà molto tempo prima che si possa fare un programma alla Bucharin, più elegante perché non affianca due partiti eterogenei, e si riduce a porre così la questione: abbiamo il potere e la dittatura, definiamo il nostro futuro passaggio dal capitalismo imperialista al socialismo totale. Elegante, ma falso semplicemente, Lenin dice; e quando ha meno voglia di complimenti a Bucharin scrive duramente: Bucharin lo capisce e dice che il programma deve essere concreto.
«La concretezza di Bucharin consiste nella descrizione libresca del capitalismo finanziario»[179].

Lenin è sempre rivoluzionario quando fa fare i «passi indietro». Egli dice dunque quanto al tempo:
«Da questa disparità, da questa costruzione fatta con materiale difforme – per quanto spiacevole e poco armonico possa parere – non usciremo per un ben lungo periodo. Quando ne usciremo, tracceremo un altro programma. Ma allora vivremo nella società socialista. Sarebbe ridicolo pretendere che allora le cose vadano come vanno oggi»[180].

Leggendo con gli occhi che ci vogliono, questo vuol dire: il capitalismo è uno, nei due tempi primario e secondario. È uno in tutti i luoghi al di sopra di ogni ineguale sviluppo, che possiamo constatare e studiare.

Questo nemico unico deve cadere sotto i colpi della rivoluzione internazionale, livellatrice delle condizioni della società socialista.

Quanto al luogo già Lenin aveva detto:
«E oggi non soltanto in Russia, non soltanto in Germania, ma anche nei paesi vincitori, incomincia appunto un’immensa distruzione del capitalismo contemporaneo, che elimina ovunque questo apparato artificioso [udite! Lenin allude alle forme monopolistiche] e risuscita il vecchio capitalismo».

Questo concetto del regredire delle forme dirigiste e monopoliste dopo le guerre non è di lieve conto. Per la Russia Lenin lo ribadisce con prove che trae dal «caos dei trasporti» e dal rinascere della mala pianta dei «mesciotniki», o venditori ambulanti neri, che noi diremmo «intrallazzisti». Egli cita la testimonianza di compagni tedeschi e anche svizzeri. Chi ha vissuto due dopoguerra ponderi questo formidabile rilievo, che sembra di passaggio, di Lenin. Chi di noi dopo la seconda guerra non ha qualche giorno potuto mangiare solo in quanto un tipo col sacco in ispalla ha bussato alla porta con un sorriso ruffiano? Era un «accumulatore primitivo di capitale»; ci riempiva la pancia svuotando il proletario borsellino. Se fossimo fisionomisti lo vedremmo passare ogni tanto in una fuoriserie. In qualche nostra città i più orrorizzanti grattacieli sono elevati da un ex stracciarolo, divenuto grazie al democratico sterco, se non il primo, il secondo cittadino.

Lenin continua, dopo la citazione della più che neutrale Svizzera:
«Questa categoria non la farete rientrare in nessuna definizione della dittatura del proletariato: dovrete ritornare indietro, ai primordi della società capitalista e della produzione mercantile».

Poi ritorna alla Russia e si rifà al suo antico programma, smentendo l’insinuazione del vivace Bucharin che si trattasse di vecchie viscere paterne.
«Il capitalismo da noi descritto nel 1903 continua ad esistere ancora nel 1919, nella repubblica proletaria sovietica, appunto in forza della decomposizione dell’imperialismo, del suo fallimento. Tale capitalismo si può trovare per esempio sia nel governatorato di Samara, sia in quello di Viatka, non troppo lontano da Mosca. In una epoca in cui la guerra civile smembra il paese, non usciremo tanto presto da questa situazione, da questa economia da mesciotniki».

Non se ne è usciti ancora, nella pianificatissima ma capitalistissima economia del 1955. Non sono membri di una classe nuova, ma rigurgito di forme vecchissime, i burocrati privilegiati della macchina statale, parassiti di un caos produttivo dai rendimenti pietosi a petto dei vecchi e nuovi capitalismi esteri. E i vari oratori dei congressi politici ventesimi e più che ventesimi, non sono che mesciotniki di un surrogato pestifero della dottrina dei giganti Marx e Lenin, che intrallazzano per il mondo.

58 – Alla luce dei grandi principi

Lenin si diffonderà in altri testi, che abbiamo studiato e studieremo ancora, sulla descrizione della struttura russa e del suo evolversi. Qui assurge a stabilire alcuni essenziali capisaldi, decisamente respingendo ogni contrapposizione alternante tra le due forme e tappe, liberistica e monopolistica, del capitalismo. Lenin ci pare esclamare: se un Bucharin che «mi sono cresciuto io» piglia di questi granchi sulla base del mio libro sull’imperialismo, e mi va fuori dai binari di papà Marx sui quali credevo avergli insegnato a correre senza la più piccola incertezza, che faranno gli altri, dopo, altrove, quando io sarò morto e quando sarà morta la Grande Rivoluzione?! Egli sembra avvertire le poderose sbronze dottrinarie per cui lontani pretesi marxisti di sinistra, inforcando quella sua pretesa alternativa, voltati dalla parte del deretano, partiranno per future crociate, e diranno che quel poverello di Marx conosceva solo un capitalismo oggi «superato», che oggi non va più: sono loro che, per evitare fiaschi del genere di quello capitato a Lenin, devono tutto riscoprire e rifare. Danno quindi di sprone al destriero della nuova dottrina, e gli allentano del tutto la coda, che tengono in pugno, pieni di sé.

Lenin ha ripetuto: In ogni governatorato agricolo vediamo, accanto all’industria monopolizzata, la libera concorrenza. Ma qui si ferma e sembra aver pensato: una volta ancora bisogna ritornare da capo, ricominciare ab ovo. Che Samara e che Viatka!
«In nessun luogo del mondo [passo da noi già citato] il capitalismo monopolistico non è esistito, né esisterà mai [nessuno-mai: la questione di dottrina per i marxisti precede sempre la valutazione particolare, di contingenza] senza che, in parecchi settori, sussista la libera concorrenza. Descrivere tale sistema significherebbe descrivere un sistema staccato dalla vita, falso, fittizio»[181].

Prima di proseguire su altre citazioni già, per la loro essenzialità, richiamate (vi fummo condotti perché il nostro illustre partner Stalin, che ignorava noi in modo totalitario, sta bene, ma ignorava altrettanto che fine avrebbe fatto la sua notorietà di immortale, si compiacque di battere l’eterodosso Jarošenko paragonandolo al Bucharin del 1919 battuto da Lenin, mentre egli aveva fondato tutto sulla difesa di Bucharin fino a quasi dieci anni dopo!) vogliamo fare un’ovvia dialettica integrazione. Bastano pochi passaggi algebrici (frase, citata da Marx, di Hegel su Keplero-Newton). Non esiste in nessun luogo e tempo la concorrenza pura, senza monopolio. Lo sviluppo è già in Engels, pre 1848 (la concorrenza genera il monopolio e il monopolio genera la concorrenza) e si potrebbero addurre diecine di passi di Marx. Se il capitalismo sviluppa al massimo il mercantilismo e dilata i mercati, grazie alla concorrenza, a limiti geografici prima ignoti, esso lo fa in quanto rompe preesistenti sfere di monopolio dovute al limitato giro delle merci. Se il capitalismo storicamente richiama la categoria concorrenza, la precedente proprietà signorile richiama la categoria monopolio. Da monopoli spesso sorse la prima accumulazione del capitale monetario, e i primi capitali dei re e degli Stati che dettero slancio alle grandi manifatture, alle grandi compagnie estrattive, di navigazione, ecc.[182].

Che le deduzioni di Marx si basassero tutte sulla descrizione di una società integralmente di concorrenza, è annosa buaggine. I capitalisti sostennero sempre che il loro sistema avrebbe girato a perfezione appena eliminatine gli inconvenienti, che facevano risalire alla presenza di avanzi e scorie feudali, e Marx provò come anche ammessa tale ipotesi le tesi rivoluzionarie erano pienamente dimostrate: la prima era quella della ricaduta nel monopolio e nel totalitarismo economico.

Inoltre Marx, nella teoria della rendita di natura borghese, dette tutte le equazioni che spiegano il moto del capitale monopolistico, e parassitario, che Lenin verificò per i periodi di espansione mercantile che preparano le guerre e le dittature imperiali.

Quando Marx dice che la democrazia è una dittatura della borghesia, egli dice, in lingua economica, che la produzione capitalistica mercantile esprime un monopolio di classe della produzione e dei prodotti.

Quindi la «libresca» contrapposizione di Bucharin non era solo un errore di fatto alla data 1919 in Russia, ma nasceva da errori di principio, storici e dottrinali, che Lenin elimina.

59 – Essenza costante del capitalismo

«Se Marx diceva della manifattura che essa è una sovrastruttura della piccola produzione di massa, l’imperialismo e il capitalismo finanziario sono una sovrastruttura del vecchio capitalismo».

Questo passo importante sta a dimostrare che durante la tappa imperialista il capitalismo resta lo stesso nella sua «struttura» essenziale, la quale non viene sostituita da una diversa struttura, ma genera una sovrastruttura sociale. Questa consiste nelle coalizioni tra imprenditori capitalisti, nella coalizione tra capitalisti finanziari, tra banchieri, nella più stretta unione tra queste forze unitarie di classe e lo Stato politico, o meglio nella più evidente unione, che si evolve verso il militarismo, l’occupazione delle colonie (fatti già storicamente dati all’inizio del primo capitalismo), verso più strette forme del potere politico, e la più palese, ma non nuova, dittatura politica del capitale. L’imperialismo non è un nuovo sistema economico al posto di un altro, ma una nuova sovrastruttura dello stesso sistema capitalistico a base di lavoro associato, di salariato, di rovesciamento dei piccoli produttori autonomi nel proletariato.

La citazione di Marx va così chiarita. Quando sorge la più semplice forma di manifattura capitalistica, la cooperazione semplice, non si ha che il riavvicinamento di tanti lavoratori parcellari che seguitano a fare l’antico mestiere, ossia producono un manufatto finito. Il mutamento non sta nella tecnica di lavoro, che resta la stessa; ma in un fatto economico-sociale, in un rapporto di proprietà: utensili, materie impiegate, manufatto finito non appartengono più al lavoratore parcellare, ma ad un unico capitalista che ha potuto anticipare gli acquisti di materia prima e salari. Tecnicamente nulla è cambiato, e nemmeno come rendimento della forza di lavoro (salvo, come Marx indica – Libro I, Cap. XII, Divisione del lavoro e manifattura – una economia sui tempi di trasporto ai singoli e dai singoli operatori). Quindi alla stessa struttura produttiva tecnica, ossia alla stessa piccola produzione artigiana, ma applicata ad una grande massa di prodotti, si è sovrapposta la forma capitalistica del padrone di manifattura. Quando la manifattura diventa organica, riunisce mestieri diversi da un lato, e poi con la divisione tecnica interna del lavoro li spezza in varie operazioni elementari, ad una mutata struttura tecnica e impiego della forza lavoro, di potenziato rendimento, si applica la stessa sovrastruttura sociale, e lo stesso rapporto di produzione tra salariato e capitalista, di prima.

Il «vecchio» capitalismo ha già svolto tutta la sua corsa di miglioramento del rendimento sociale del lavoro, quando è giunto alla grande industria meccanica.

Il monopolismo non fa fare a questa struttura tecnica nessun passo nuovo, ma vi sovrappone una nuova forma sociale-politica: il cartello padronale di classe, il peso dello Stato politico nella gestione della produzione, il prevalere della produzione, il prevalere sul capitale industriale del capitale finanziario. La nuova sovrastruttura consiste in queste forme parassite: la struttura-base resta la stessa, e la teoria della sua condanna era già perfezionata.

Ma se tutto ad un momento si sfascia e si ricade nelle forme di basso rendimento dell’economia di minutaglia, il «vecchio» capitalismo ha ragione utile di risorgere: in sostanza ha riguadagnato un diritto alla vita.

Dobbiamo ripetere quanto è forcaiolo e coglione chi lotta perché si torni indietro dalla fase dei grandi monopoli?

60 – Caratteri dello sviluppo russo

Questa chiara ricostruzione si riconferma nelle classiche frasi di Lenin, che abbiamo nel «Dialogato coi Morti» a pag. 72 in parte citate, riservando un maggior svolgimento del basilare tema.

«Sostenere [Bucharin] che esista un imperialismo integrale senza il vecchio capitalismo, significa prendere i propri desideri per realtà».
E noi diciamo: erano desideri rispettabili, e se vogliamo rivoluzionari. Ma il sostenere che possa esistere il vecchio capitalismo libero senza monopolismo e imperialismo, non solo è parimenti illusorio, ma mostra che si hanno desideri da forca.

«Se ci trovassimo di fronte ad un imperialismo integrale, che avesse trasformato da cima a fondo il capitalismo, il nostro compito sarebbe centomila volte più facile [animali, qui sta da oltre cent’anni il centro di tutto!]. Avremmo un sistema nel quale tutto sarebbe sottomesso al solo capitale finanziario. Non ci resterebbe allora che sopprimere la cima e rimettere il resto nelle mani del proletariato. Sarebbe cosa infinitamente piacevole, ma che non esiste nella realtà. In realtà lo sviluppo è tale che si deve agire in tutt’altro modo».

Lenin ripete e sottolinea il suo teorema:
«L’imperialismo è una sovrastruttura del capitalismo».
Così prosegue:
«Quando esso crolla ci si trova di fronte alla cima distrutta e alla base messa a nudo [la base, la sottostruttura, la vera struttura intima]. Ecco perché il nostro programma, se vuol essere veramente corretto, deve dire quello che è. C’è il vecchio capitalismo, che in diversi campi si è sviluppato fino all’imperialismo».

Lenin è ritornato, in questo rapporto fieramente polemico, da cui ci preme trarre ora quanto trascende lo stesso vitale contenuto di quella polemica, al decorso russo sociale, che è poi il nostro tema di ricerca.
«Le sue tendenze [notate] sono esclusivamente imperialistiche. I problemi essenziali possono essere esaminati unicamente dal punto di vista dell’imperialismo. Nessun problema importante della politica interna ed estera può essere risolto altrimenti che dal punto di vista di questa tendenza. Non è di questo che parla oggi il programma.
In realtà, esiste l’immenso sottosuolo del vecchio capitalismo. Vi è una sovrastruttura, l’imperialismo [udite!] che ha condotto alla guerra; e questa guerra è divenuta il punto di partenza della dittatura del proletariato. [Lenin dice punto di partenza, perché la dittatura è mista con i contadini, ed è solo nazionale]. Non si può saltare questa fase [sic!]. Questo fatto [udite!] caratterizza lo sviluppo stesso della rivoluzione in tutto il mondo [udite!] e rimarrà un fatto per lunghi anni«
[183].

Il modo in cui Lenin, a dispetto delle incessanti ed incessate menzogne, vede lo sviluppo della rivoluzione in Russia, è quello che lo salda allo sviluppo di essa in Occidente. Nell’ipotesi che la seconda ritardi, diviene assurdo tratteggiare voli, come quelli che Bucharin sosteneva in buona fede, da una tappa finale del capitalismo russo ad una società socialista nazionale.

Notiamo che il «Manuale» staliniano di economia politica descrive prima il modo di produzione socialista, e lo divide in varie parti:
A) Il periodo di transizione dal capitalismo al socialismo.
B) Il sistema socialista di economia nazionale. Quanto alla sezione
C) che chiude il trattato, si tratta solo dell’edificazione del socialismo nei paesi di democrazia popolare.

Ad un sistema di economia socialista internazionale, non ci si pensa nemmeno. E qui sarebbe già provato che il «modo di produzione» descritto come socialista non è che un’ulteriore, leniniana «sovrastruttura del solito e infamato capitalismo». Come dall’analisi emerge.

61 – Lo sviluppo internazionale

«Nell’Europa occidentale le rivoluzioni si faranno forse con meno scosse. Tuttavia la riorganizzazione del mondo intero, la riorganizzazione della maggioranza dei paesi [pensate alle colonie, ai popoli di colore] richiederà anni e anni. E questo vuol dire che nel periodo di transizione in cui viviamo ci sarà impossibile uscire da questa realtà a mosaico. Questa realtà, composta di parti eterogenee, non si può respingere, per quanto inelegante essa sia […] Un programma compilato altrimenti sarebbe errato».

Lenin qui svolge punti di vista che abbiamo già sviluppato in vari tempi. Spiega che si è imbrigliati nelle forme mercantili di un capitalismo iniziale. Svolge la questione già da noi esposta, utilizzando il parallelo rapporto sul lavoro nella campagna, del contadino medio. Donde sarebbe potuto venire, egli esclama, il contadino medio nell’epoca di un capitalismo puramente imperialista? Esso già non esisteva nei paesi semplicemente capitalistici!

«Se risolveremo la questione del nostro atteggiamento nei confronti di questo fenomeno quasi medioevale ponendoci dal punto di vista dell’imperialismo e della dittatura del proletariato, non verremo a capo di nulla; sbatteremo la testa contro il muro. Se invece dobbiamo cambiare il nostro atteggiamento nei confronti del contadino medio, allora abbiate la bontà di dirci, anche nella parte teorica, donde esso è venuto, e che cosa rappresenta. È un piccolo produttore di merci. Ecco cos’è! Ecco l’abbici del capitalismo, che bisogna enunciare, perché non ne siamo ancora usciti. Non volersene curare e dire: Perché dunque occuparci dell’abbici quando abbiamo studiato già il capitalismo finanziario!, non è affatto serio»[184].

Assodato così quanto lungo vedesse Lenin lo sviluppo economico futuro della Russia, e come lo vedesse lento anche nell’ipotesi, la sola su cui puntava incessantemente nel 1919 e puntò negli anni seguenti, fino alla morte, della vittoriosa rivoluzione politica operaia in Europa, dedichiamo qualche maggiore considerazione alla tesi della «distruzione del capitalismo nelle sue forme più recenti e sviluppate» a seguito della grande guerra.

Tuttavia questa teoria riposa sulla fondamentale posizione che le forme di avanzato monopolismo imperialista, di dirigismo statale, sono la condizione più favorevole per la rivoluzione socialista, ciò che non esprime altro che la teoria dell’accumulazione progressiva e della concentrazione del capitale, nerbo del marxismo rivoluzionario.

62 – Innesti di nuova gioventù

Il processo che, alla fine di una fase di spinto imperialismo, sostituisce (per forza di determinanti storiche, non certo per abilità di partiti e di capi) alla crisi rivoluzionaria una guerra generale, si esprime in questo risultato; che alla fine della guerra le forme spinte del l’imperialismo vengono mitigate, e riappaiono forme più antiche. Se la nostra visione della storia è giusta, nello stabilire un certo decorso di vita ad ogni classica forma di produzione, il ritorno del capitalismo a fasi di età minore vale un acquisto di più lunga vita probabile, un netto successo anti-rivoluzionario.

Di grande peso è dunque l’accertamento, alla fine della prima guerra mondiale fatto da Lenin, del riapparire di forme del vecchio capitalismo. L’espressione, in buona dialettica, significa capitalismo più antico di quello che si conosceva alla vigilia della guerra, nella fase classica imperialistica 1900–1913, in cui il bisogno intenso di sbocchi si traduceva in una compressa accumulazione e in un ridotto dinamismo negli incrementi della produzione industriale: i vecchi capitalismi segnavano il passo su circa il 3 per cento annuo. L’esito della guerra aprì il passo ad una convulsa fase di ripresa, meno che in Inghilterra, e i fenomeni di riemersione di forme di capitalismo meno massicce furono quelli da Lenin indicati. Alla grande crisi del 1929–32, seguì, dato che non vi fu guerra, la ripresa fino alla nuova guerra, che scoppiò in quanto le forme imperialiste avevano di nuovo preso rigoglioso sviluppo: New Deal in America; Nazismo in Germania; Fascismo in Italia; corrispondenti fenomeni in altri paesi che possono essere letti nelle statistiche economiche (vedi anche i Complementi di Varga all’«Imperialismo»).

Ma lo Stato russo, ormai sfuggito alla politica rivoluzionaria di classe, non dedusse dalla seconda ondata di «invecchiamento» capitalista la conclusione che era giunto il momento di attaccarlo ovunque. Con la sua azione demolitrice del potenziale rivoluzionario russo ed estero permise al capitalismo, specie in America, di convertire la nuova crisi economica apparsa nel 1937–38 in una ripresa fondata sullo scoppio della guerra europea, alla quale la Russia collaborò; prima con Hitler, poi nel campo opposto, due volte ed in contrario senso convitando ancora al social-patriottismo il proletariato di tutti i paesi.

La fine della guerra determinò un’altra volta la distensione imperialista, diagnosticata da Lenin, e il ricomparire del vecchio capitalismo sotto la sua sovrastruttura. Le prove non stanno solo nel pullulare di forme economiche spurie e inferiori negli anni di guerra ed immediato dopoguerra, ma in fatti economici di ben più alta sfera, come il nuovo indirizzo «antitrust» in America che ancora oggi assume la forma di legali incriminazioni, con la trama a fondo libero-concorrenziale che sottostà alla ripresa impressionante in Germania, e non solo in Germania, come altri fenomeni che ora è il caso di accennare soltanto.

Non fa eccezione l’Inghilterra malgrado la fase delle sue «nazionalizzazioni» industriali, perché essa si va ormai adeguando alla consegna di liberalizzazione internazionale dei mercati e dei fondi monetari, per quanto ciò non possa condurre che alle medesime crisi generali.

Una strana eccezione è proprio l’Italia che ha conservato tutto il suo meccanismo di statalismo dirigente ed interveniente in economia, e mostra anzi di accentuare le tendenze pianificatrici. Non vi è affare in Italia in cui non ruotino i contributi dello Stato, e questo non concorre che a rendere più parassitaria la forma del capitalismo privato, che sotto la pesante e soffocante sovrastruttura resta, come Lenin insegna, bene la stessa.

A ciò nulla muta l’impotente posizione dei partiti della sinistra socialcomunistoide. Essi fanno molto esteriore chiasso contro i monopoli; ma la voce grossa la fanno solo nella risibile materia agraria, col noto dispregio di ogni avanzo di retta dottrina. Per il resto appoggiano i piani statali di investimento e il sostegno dello Stato azionista o finanziatore alle imprese industriali.

Se tuttavia fosse proponibile quello che per sola demagogia si invoca, ossia una fase di capitalismo «alla Giolitti», presentata come ideale per la società italiana, questa non sarebbe che una richiesta di ringiovanimento dell’economia e del potere capitalistico, esprimendo la tendenza ad allontanare più che sia possibile non solo la rivoluzione, ma ogni azione autonoma della classe lavoratrice in Italia.

63 – Sequenze del film sovietico

Nel 1919 Lenin pone con mano ferrea il caposaldo della descrizione realistica del quadro economico russo. Nel 1921 esso ci sarà dato completo nel classico scritto sull’Imposta in Natura, sulla Nuova Politica Economica.

Sarà allora chiaro che al settore del capitalismo di «primo tipo» – espressione più chiara di quella di «vecchio capitalismo» – si affiancano molti altri settori ancora inferiori, e soprattutto circa l’economia agraria, tema che va a fondo sviluppato, sebbene non ci sia certo nuovo.

Senza comprendere tale quadro non si possono decifrare i movimenti delle forze sociali e gli svolgimenti che, con i noti riflessi di lotte politiche e crisi nel partito e del partito, condussero alla presente lamentabile rovina.

Ma la serie incessante dei falsi che le note fonti sovietiche di propaganda, sotto Stalin e dopo, hanno lanciato in circolazione costringe a ricostruire l’unità di visione di Lenin attingendo ad altre sue manifestazioni in tema sociale, pure nel periodo che, ricordiamolo ancora, vedeva in primo piano i compiti politico-militari della difesa del potere.

Non sarà inutile, al fine di mettere in evidenza l’abisso che separa l’idea che Lenin, con ogni marxista, ha dei rapporti economici, ed umani nel più ampio senso, propri di una società socialista, e le blasfeme definizioni dei russi d’oggi circa le loro forme di attività urbana e rurale, ricordare una iniziativa presa nel pieno della guerra civile e della disgregazione industriale e ferroviaria, quella dei «sabati comunisti». Essa partì da una circolare di Lenin sul lavoro alla maniera rivoluzionaria. Si chiedevano ore di lavoro straordinario e non retribuito nelle fabbriche, per il pomeriggio dei sabati, che ebbero il destino, per la semivacanza, di essere chiamati inglesi, comunisti, e poi col solito spirito di imitazione anche fascisti.

Il sabato comunista era però in tal modo non di maggior riposo, ma di maggior lavoro, senza maggior salario. Non si trattava di una misura economica risolvente, ma di una misura di propaganda politica; ad essa non erano tenuti tutti i lavoratori, della fabbrica o estranei, ma i soli membri del partito, anche addetti a funzioni «intellettuali».

Con un entusiasmo riboccante di semplice freschezza Lenin riporta alcune cronache fedeli ed ingenue dei sabati: la riparazione di gruppi di vagoni merci e di altro materiale rotabile, il quasi romanzato racconto dello spostamento di una pesante caldaia rimasta in luogo che la rendeva inutilizzata…

Lenin paragona l’eroismo di questi volontari lavoratori che per motivi di principio vincono la stanchezza dei muscoli per lo sforzo, e la generale denutrizione di quei tempi, a quella dei reparti in armi che tengono incrollabili i fronti della guerra civile.

Lenin muove da considerazioni generali. I filistei della II Internazionale ostentano di ammettere la lotta di classe come via alla soppressione delle classi. Ma questa non significa solo sopprimere la proprietà dei fondiari e dei capitalisti; ben anche ogni proprietà, ogni differenza tra città e compagna, ogni differenza tra le persone che compiono opera manuale ed intellettuale.

I «sabati» sono per Lenin non solo un simbolo ma un inizio del comunismo. E solo i comunisti del partito possono arrivare a tanto. Perché
«il comunismo significa una produttività del lavoro superiore a quella capitalistica, una produttività di operai liberi, coscienti e uniti, che si servono della tecnica più progredita […] perché ci troviamo in uno stadio in cui, come è detto in modo assolutamente giusto nel programma del nostro partito, si compiono soltanto i primi passi verso la transizione dal capitalismo al comunismo»[185].

Dunque, come sempre, primi passi e nemmeno verso il comunismo, ma verso la transizione ad esso. Altro che vantare, come conquistato socialismo, lavoro salariato o lavoro parcellare di famiglia rurale che mangia i suoi conigli!

«Il comunismo comincia là dove semplici operai si preoccupano con abnegazione, a costo di un duro lavoro, dell’aumento della produttività […], di prodotti che non sono destinati ai lavoratori stessi, e alle persone a loro prossime, ma a quelle lontane, cioè alla società nel suo complesso…».

E stabilito questo concetto che identifica il comunismo come una spontanea «offerta di sopralavoro alla società», in cambio della liberazione di classe dalla schiavitù del salario e dell’orario, Lenin una volta ancora si riporta a Marx. E noi ad entrambi.

«Carlo Marx deride nel Capitale la pomposità e la magniloquenza della Magna Charta democratico-borghese sulla libertà e i diritti dell’uomo, tutta la retorica sulla libertà, sull’eguaglianza e sulla fraternità in generale, che abbaglia i piccoli borghesi ed i filistei di tutti i paesi, inclusi i vili eroi contemporanei della vile Internazionale di Berna [la futura «due e mezzo»; ben degna delle attuali puttanesche manovre che saldano in Italia i tre partiti, nel cui foro interiore ben si centra il centrista tipo, Nenni]. Marx oppone a queste pompose proclamazioni di diritti la semplice, modesta, fattiva, quotidiana impostazione del problema da parte del proletariato: limitazione della giornata lavorativa!»[186].

Siamo dunque ben sicuri di non averla scoperta noi, la formula drastica che riassume tanto scientificamente quanto drammaticamente la rivendicazione proletaria comunista e rivoluzionaria: morte al maledetto lavoro pagato e necessario, largo al sopralavoro regalato senza nulla ricevere né chiedere, nella gioia di lottare per i fratelli della propria classe, e domani per la società senza classi, buona nutrice anche ai figli a riposo.

Sul volto ignobile dei tenitori orientali dei campi di lavoro forzato e degli ergastoli consacrati alla feroce deità della progressione geometrica nella produzione, emulatrice del parimenti negriero capitalismo dell’Ovest.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXII)

64 – L’agricoltura associata

Durante gli anni della guerra civile la situazione delle campagne resta caotica ed è ben lontana da un assestamento qualsiasi.

La parte maggiore della produzione è tuttora nelle mani dei contadini che hanno molta terra (nominalmente tutta nazionalizzata), e adeguato capitale di esercizio. A dire della solita «Storia» ufficiale (che per le ragioni che vedremo aveva interesse a mentire crescendo il peso dei kulak) ancora nel 1927, mentre le aziende associate produssero appena 35 milioni di pud di grano mercantile (6 milioni di quintali) i kulak ne producevano ben 130 milioni da mandare al mercato, contro un totale di 600. Solo nel 1929 il rapporto si capovolge, dopo la nota campagna di distruzione dei kulak «come classe».

Nel 1919 deve presumersi, ed è indubitato, che la più gran parte della gestione della terra si fa dai capitalisti agrari, che hanno ereditato la posizione che nelle campagne avevano nobili e grossi proprietari borghesi redditieri (sotto il quale regime un enorme volume di grano andava al mercato, non tanto nazionale quanto internazionale, in una cifra dell’ordine di varie centinaia di milioni di quintali).

L’organizzazione di una produzione associata era ai suoi primi passi, e non tentava ancora di invadere il campo dei kulak quanto di attirare gruppi di piccolissimi e piccoli contadini: lavoro che subito dopo la rivoluzione condussero i comitati dei contadini poveri. Invero in quei primi tempi prevaleva il programma dei populisti e socialisti rivoluzionari; ossia la divisione in piccoli lotti tra i contadini della terra tolta ai signori.

Il 4 dicembre 1919 si tenne il congresso «delle Comuni e degli Artel agricoli», al quale pronunziò un discorso Lenin.

Premettiamo la distinzione fra i termini di Artel e di Comune. L’Artel è una forma di passaggio tra il lavoro individuale, e al più familiare, su lotti minimi, e una associazione di lavoratori agricoli. Infatti nell’Artel, che è il nome storico di antichissime forme russe di conduzione agraria collettiva, residui del comunismo primitivo che andavano ormai scomparendo tanto sotto la pressione feudale quanto sotto quella borghese che successe all’abolizione della servitù della gleba nel 1861, nell’Artel sussistono la gestione familiare e quella associata. Ogni famiglia compresa nell’Artel ha la sua parte di terra che lavora isolata, facendone suoi i prodotti, in massima parte per il consumo diretto. Al lotto è annessa una certa parte di mezzi di produzione: bestiame, attrezzi, scorte, ed anche la casetta di abitazione della famiglia. Vi è poi una vasta estensione di terra non lottizzata, sulla quale lavorano insieme i membri validi delle famiglie, e questo insieme è dotato di una notevole quantità di «scorte», tra cui le prime macchine che possono usarsi su terreni di grande superficie, specie nella coltura cerealicola. La formula che useranno anche gli stalinisti tradizionali è che nell’Artel «solo i più importanti mezzi di produzione» sono usati in comune – i meno importanti sono distribuiti tra le famiglie singole.

La Comune, che anche essa si ricollega alle antiche forme, al mir, è uno svolgimento ulteriore verso il vero lavoro collettivo, in quanto non vi sono i lotti individuali (familiari); e tutte le scorte, e magari anche le case, sono di gestione collettiva.

È facile vedere che dalle Comuni agricole usciranno le grandi aziende statizzate, poi dette Sovcos, e dagli Artel la forma ibrida che oggi chiamano Colcos.

65 – La collettivizzazione al 1919

Le prime, non molto numerose e non molto vaste, Comuni, e i primi Artel, avevano l’appoggio del potere centrale bolscevico, ma avevano contro due forti ostacoli: anzitutto i kulak, che vedevano sottrarre al loro sfruttamento la mano d’opera necessaria alle loro terre, e poi gli stessi contadini medi e piccoli tradizionalmente attaccati al possesso della loro piccola azienda e alla loro autonomia domestica. Tali elementi resistono ad ogni associazione di lavoro e di esercizio, e temono di esservi affiliati con la forza perdendo così la terra, la casa e gli attrezzi di cui disponevano. Questa fobia degli Artel viene ovunque sfruttata dai bianchi e controrivoluzionari per guadagnare l’appoggio dei contadini tra i quali fanno abile propaganda contro la imminente spoliazione da parte dei bolscevichi.

Nel discorso del 1919 Lenin sottolinea la necessità di non forzare la pericolosa situazione, che può incidere sugli esiti della guerra civile.

Egli insiste su due criteri già sanciti dal partito. Il primo è l’aiuto che gli Artel e le Comuni sono tenuti per un’apposita legge del potere sovietico a dare ai contadini poveri della loro zona, aiutandoli nelle loro difficoltà economiche e nella resistenza alle sopraffazioni dei contadini ricchi. Per lo sviluppo degli Artel e delle Comuni lo Stato aveva stanziato un miliardo di rubli (somma in verità molto ridotta perché si era al tempo dell’inflazione e non vi era stata ancora la rivalutazione monetaria, operata nel 1922), ma si voleva evitare ogni speculazione politica che tendesse a svalutare i successi delle modeste gestioni collettive, attribuendoli alla passività addossata allo Stato. Il secondo criterio era di rispettare la spontaneità nell’entrata del contadino singolo, con la sua poca dotazione di scorte, nell’azienda collettiva, che in molte località era stata imposta dall’alto e di autorità, suscitando malcontenti e inconvenienti gravi.

Come sempre Lenin raccomanda prudenza nella manovra, quando la situazione è delicata e un nulla può rovesciarla; ma non ammette mai che si decampi menomamente dai principi teorici. Questo scritto è uno di quelli molto sfruttati dagli stalinisti per giustificare la posteriore fondamentale importanza data alla forma meno avanzata, e per affibbiare al sistema dei colcos la qualifica del tutto arbitraria di forma di produzione socialista, di «proprietà socialista». Per questo, come negli altri casi, è utile fermarsi sulle enunciazioni e sulla costruzione di Lenin.

«L’importanza di tutte le imprese [per la lavorazione della terra in comune] è immensa; perché se la vecchia azienda contadina povera, misera, rimanesse qual era, non si potrebbe parlare di nessuna solida edificazione della società socialista»[187].
Si tratterà in questo studio di vedere se ed in quale misura la piccola gestione è stata eliminata.

Si può ammettere che la forma mista Artel-Colcos sia un progresso rispetto alla frammentazione in aziende minime. Ma rispetto all’azienda dei kulak, ove il lavoro si conduce, sotto lo sfruttamento padronale, in forma già collettiva, il vero progresso è solo dato dalla forma Comune-Sovcos in cui si elimina l’imprenditore privato, ma si conserva in pieno la gestione collettiva integrale. Dove invece la forma Colcos sia sviluppata a danno della forma borghese ma anche a danno dello sviluppo della forma Sovcos, risorge in parte la piccola lottizzazione, ed è il gioco delle cifre quantitative che darà il bilancio della «collettivizzazione»; ferma restando la differenza di principio tra «socialismo» e semplice «statizzazione».

Tutta la speculazione dello stalinismo sta nel fare identificazione tra economia gestita dallo Stato ed economia socialista, cercando di sostenere che tale terminologia ha le sue radici nelle opere di Lenin (edite fuori di ogni possibile controllo dai governi di Stalin): dimenticando o meglio facendo dimenticare la differenza storica tra un potere ancora strettamente legato ad una dottrina ortodossa anche in materia di economia, e alla politica della rivoluzione comunista mondiale, e la loro amministrazione ordinaria ad opera dello Stato di Mosca fine a se stessa e sciolta da ogni legame con quelle origini, e quelle finalità che nella politica del tempo di Lenin sempre furono presenti.

66 – Il lungo cammino al socialismo

Lenin tiene presente l’obiezione che si traversa un periodo di paurosa crisi, di rovina generale, che rende difficile il compito delle aziende collettive. Egli risponde:
«Significa ciò forse che le Comuni non possano apportare cambiamenti nella vita dei contadini dei dintorni, e non possano dimostrar loro che le imprese agricole collettive non sono una pianta coltivata artificialmente in serra, ma un nuovo aiuto offerto dal potere operaio ai contadini lavoratori, un sostegno nella loro lotta contro i kulak?».

Lenin si riferisce ancora una volta qui alla iniziativa dei sabati comunisti, che non è un mezzo per «costruire economia», ma solo per superare resistenze politiche dovute alle nefaste tradizioni del passato. E ancora una volta questo riferimento è utile per questioni di base, di principio, mai abbastanza ribadite. I contadini vedranno
«che i comunisti ammettono nuovi membri nel partito non perché essi godano dei vantaggi derivanti dalla situazione di un partito al governo, ma perché offrano l’esempio di un lavoro veramente comunista, cioè di un lavoro che si compie gratuitamente. Il comunismo è lo stadio supremo dello sviluppo del socialismo, in cui gli uomini lavorano perché sono coscienti della necessità di lavorare a vantaggio di tutti. Sappiamo che non possiamo instaurare subito il regime socialista. Voglia Iddio [non sappiamo perché le edizioni stampate in Russia delle «Opere scelte» hanno sempre tale banale formula di traduzione – la famosa Ponomareva, che non professa esportazione di marxismo teorico, è arrivata a dire che sulla Bibbia non giurava non professando religione alcuna.…] che i nostri figli, o fors’anche i nostri nipoti, lo vedano da noi instaurato. Ma diciamo che i membri del partito comunista al potere si assumono, nella lotta contro il capitalismo, la maggior parte delle difficoltà mobilitando i migliori comunisti per il fronte, ed esigendo da coloro i quali non possono essere utilizzati nel campo militare, che essi lavorino nei sabati comunisti», senza remunerazione.

Come queste parole dell’«ingenuo» Lenin sulla portata dell’appartenere al partito vincitore combinano con le presenti balle dei «ritornatori» a Lenin e Marx, sulle nuove vie elettorali per passare al socialismo? E come la psicologia dell’elettore occidentale – la sola, forse, disciplina in cui Lenin si mostrò non ferrato – permette di illudersi che si ottengano voti promettendo invii al fronte di combattimento e lavoro da forzati, ma volontario, e non pagato uno sporco rublo o lira che sia?

Lenin grida all’uditorio che si deve provare che l’azienda associata va bene non perché riceve sussidi dallo Stato, ma perché vi è dentro gente che si sacrifica a lavorare per nulla
«Su questo punto non si ammettono pretesti, non è lecito addurre la mancanza di merci, di sementi o la moria del bestiame».

E questi figuri di nostra conoscenza non fanno che promettere a destra e a manca a chiunque ha da accampare una piccola querimonia, che se vincono loro saranno più larghi di «soldi del governo» anche ai più disutili fannulloni! Non esclusi, tra gli ammorbanti pletorici statali, birri, carcerieri e preti al soldo della società borghese.

Stalin non aspettò i nipoti e annunziò che il socialismo lo aveva già tutto fabbricato. Noi aspettiamo i nipoti dei suoi degradatori da tutti i titoli, anche di babbo e di nonno.

67 – Contro la sconfitta e la miseria

Il lavoro di risanamento dell’economia procede ancora in maniera informe al tempo del IX congresso del Partito Comunista, che si tiene dal 29 marzo al 5 aprile del 1920. La situazione della guerra civile è molto migliore, come ben sappiamo, ma quella della produzione e del vettovagliamento è ancora più disastrosa: in molte province avanza la carestia, che farà nel giugno lungo le sponde del Volga centinaia di migliaia di vittime.

Lenin svolge il rapporto del Comitato Centrale, e come sempre nel fare il punto gradua le diverse questioni. Vediamo qui trattati solo indirettamente i problemi dell’economia industriale ed agricola: sono in primo piano i rapporti delle forze politiche, e soprattutto alla scala internazionale.

Non significa interrompere la nostra esposizione dell’evolvere dei rapporti di produzione il riferire alcune tesi di fondo, anche in quanto ribadiscono dettami di tempi precedenti, che noi consideriamo a distanza di tanti anni validi anche attualmente, e tali da sbugiardare il vantato leninismo dei capi russi di oggi.

Lenin stesso svolge la ripartizione del lavoro, a quel frangente. Esso
«si divide in due grandi rami: quello che si ricollega ai compiti militari e a quelli che determinano la situazione internazionale della Repubblica, e il pacifico lavoro interno di edificazione economica, che ha cominciato a passare in primo piano forse soltanto dallo scorso anno (1919) e dall’inizio di quest’anno, quando è apparso con perfetta chiarezza che avevamo riportato la vittoria definitiva sui fronti decisivi della guerra civile».
Ricordato che nella primavera del 1919 la situazione era estremamente difficile, Lenin giustifica la consegna:
«Tutto per la guerra, tutto per la vittoria!».

Ricordata l’enorme sproporzione delle forze Lenin attribuisce il grandioso successo alla forza dell’inesorabile disciplina e centralizzazione, e assesta alcuni dei suoi tremendi colpi alle spregevoli lamentele democratiche.

«Milioni di lavoratori hanno potuto, nel paese meno colto, giungere a questa organizzazione, a questa disciplina, a questa centralizzazione, soltanto perché gli operai, passati per la scuola del capitalismo, erano stati uniti dal capitalismo stesso, e perché il proletariato in tutti i paesi avanzati si era unito [altro che puteolenti vie nazionali!], e in proporzioni tanto più vaste quanto più il paese era avanzato; dall’altro lato perché la proprietà, la proprietà capitalistica, la piccola proprietà nella produzione mercantile, divide gli uomini [correggiamo la papera del traduttore: gli operai].
La proprietà divide e noi uniamo, uniamo in numero sempre maggiore, milioni di lavoratori in tutto il mondo […] Più si andava avanti, più i nostri nemici si dividevano. Essi erano divisi dalla proprietà capitalistica, dalla proprietà privata nella produzione mercantile, fossero essi dei piccoli proprietari che speculavano vendendo le eccedenze di grano e si arricchivano a danno degli operai affamati, fossero essi capitalisti di diversi paesi, benché in possesso della potenza militare…«.

Lenin tratteggia a grandi pennellate il quadro internazionale:
«Tutto questo ci permette di dire che quando avremo realizzato completamente nel nostro paese la dittatura del proletariato, la massima unione di quest’ultimo per mezzo della sua avanguardia, del suo partito di avanguardia, potremo attendere… [attendere che cosa? il socialismo in Russia? Mai, no!] la rivoluzione mondiale. Ed è questa in realtà l’espressione della volontà, della decisione del proletariato di unire milioni e decine di milioni di proletari di tutti i paesi».
E conclude: noi abbiamo una base mondiale più larga di quanto l’ebbe qualunque rivoluzione precedente![188]

A questa data Lenin già sconta le sconfitte: terrore bianco ungherese, tedesco, finlandese. Malgrado ciò insiste sul bolscevismo fenomeno mondiale, e seguita a dedicare la maggior parte del rapporto alla situazione internazionale, sempre vibrando stoccate alle frasi dei gialli sulla libertà e la democrazia.
«Le frasi sulla minoranza e la maggioranza, la democrazia e la libertà non decidono nulla: quel che decide è la coscienza e la fermezza della classe operaia»[189].

«Da questa vittoria, da questa certezza, passiamo e siamo giunti [udite la voce di Lenin che abbassa il tono?] ai compiti dell’edificazione economica pacifica, la cui soluzione è il tema di questo congresso».
Giuriamo che questo discorso nessuno ha pensato di cucinarlo. Non ci si trova il riempitivo della costruzione, edificazione del socialismo. Le formule sono impeccabili.
«Sì, si tratta ora di consacrare ai compiti pacifici dell’edificazione economica, ai compiti della ricostruzione dell’industria distrutta, tutto ciò che il proletariato e la sua unità assoluta può concentrare»[190].

68 – Ancora contro la gestione «collegiale»

A questo punto il rapporto mette in primo piano una questione «che pare di dettaglio» ma nella quale Lenin denunzia una grave «confusione teorica» di cui non si potrebbe tollerare «nemmeno la decima parte». È la questione di sostituire la direzione collegiale alla direzione personale, che abbiamo visto già trattata nel 1918, in senso nettamente opposto a quello dei leninisti che al XX congresso hanno abolita la direzione personale… da parte di cadaveri.

Dobbiamo raccomandare al lettore lo studio di tutto il testo. E vedere come Lenin svolge la premessa:
«Permettetemi, compagni, di fare un po’ di teoria, di indicare come governa una classe, in che cosa si manifesta il dominio di una classe».
Il possente squarcio storico e marxista mostra quanto sia coglione chi si ferma a vedere se il dominio fa bene a manifestarsi in un collegio, in un individuo, nella massa e simili. Lenin infatti trova la grossa cantonata teorica nella frase solita:
«La gestione collegiale è una delle forme di partecipazione delle grandi masse all’amministrazione»[191].
Frase pestifera, nennifera, e se altri ha di peggio lo dica.

Partendo dalle lotte tra feudalismo e borghesia Lenin dimostra che la manifestazione essenziale è lo stritolamento delle forme sociali difese dalla classe rovesciata. Il resto è fregnaccia.

E ritorna un’altra tesi che sulla scorta di Lenin abbiamo in quanto precede molto tenuto a ricostruire, contro uno dei marchiani falsi di Stalin, circa la promessa di Lenin di… ridare il suffragio universale.

«Quando la Costituzione ha fissato sulla carta ciò che la vita aveva deciso – l’abolizione della proprietà capitalistica e fondiaria – ed ha aggiunto: la classe operaia ha, secondo la Costituzione, più diritti che i contadini e gli sfruttatori non hanno nessun diritto, con ciò si è consacrato che noi avevamo realizzato il dominio della nostra classe ed avevamo unito a noi i lavoratori di tutti gli strati e di tutti i gruppi minori».

E tutto ciò – abbiamo dunque ben ragione noi – è stato sotto Stalin, lacerando la Costituzione del 1918, spudoratamente sconsacrato.

Lenin viene a bomba:
«Chi collega la questione del modo in cui si esprime il dominio di classe con la questione del ‹centralismo democratico›, come spesso accade, crea una tale confusione da rendere impossibile ogni lavoro efficace».
La borghesia non fu tanto scema da confondere l’amministrazione con lo Stato (tradotto meglio: col Potere) e utilizzò gli elementi capaci usciti dalla classe feudale.
«Le considerazioni sulla direzione collegiale sono molto spesso imbevute della più crassa ignoranza [fregatevi dunque gli occhi: aveva già letto Nenni?], di uno spirito di ostilità verso gli specialisti»[192].

69 – Rigurgiti sindacalisti

Lenin nella confutazione dello sciocco «operaismo» bruto che dice: gli operai bastano soli a tutto, affronta la grave questione dei sindacati dopo la rivoluzione:
«I sindacati dovranno superare difficoltà enormi. Bisogna fare in modo che essi comprendano il loro compito [qui Lenin più che mai parla duro e senza falsi riguardi], il compito di lottare contro le vestigia del famigerato democratismo. [E rincara la dose; filistei di Russia e di fuori, di allora e di oggi: le mani in alto!]. Tutte queste grida sulle nomine dall’alto, tutto questo ciarpame dannoso, che si trova in varie risoluzioni e conversazioni, deve essere spazzato via. Altrimenti non potremo vincere!»[193].

La conclusione è ancora sul sacrificio della classe operaia. E ci dice come, nell’immediato clima post-rivoluzionario, mutano originalmente i rapporti di produzione. La Russia viene divisa, negli studi economici, anche di Lenin stesso, in governatorati produttori e consumatori di grano. Nei secondi vi è una cerealicoltura inferiore al fabbisogno alimentare locale, di massima perché includono centri urbani importanti. In essi gli operai nel 1918 e 1919 non ricevettero che 7 pud di grano (115 chili) all’anno. I contadini dei governatorati produttori ne consumarono 17, mentre prima della guerra ne consumavano 16.
«Ecco due cifre che mostrano il rapporto delle classi nella lotta per gli approvvigionamenti. Il proletariato ha continuato a sopportare i maggiori sacrifici. Si grida contro la violenza! Ma il proletariato ha giustificato e legittimato questa violenza, perché è esso che ha sopportato i più grandi sacrifici!».

E la logica conclusione marxista sui sindacati (più avanti vedremo condannata la bolsa tesi «ordinovista» dell’opposizione operaia russa che voleva dare la gestione produttiva ai sindacati):
«Come tutti i sindacati [esteri] i vecchi sindacati [russi] hanno una loro storia ed un loro passato. Nel passato essi furono organi di resistenza contro coloro che opprimevano il lavoro, contro il capitalismo. Ma ora che la classe operaia è diventata la classe che detiene il potere statale, ed è costretta a sopportare grandi sacrifici, a patire la fame e a morire, la situazione è cambiata».

Ai menscevichi e socialisti rivoluzionari, che chiedono che «alla direzione personale si sostituisca quella collegiale» Lenin risponde promettendo… più rigorosa disciplina e centralismo nello Stato e nel partito.
«Dopo la guerra che abbiamo sostenuto al fronte, ci sarà il compito molto più complesso della guerra incruenta».
Fondandosi su un rapporto di Kamenev egli denunzia il piano del capitalismo dell’Intesa di sabotaggio commerciale ed economico. E la parola d’ordine resterà l’inflessibilità dell’azione proletaria.

Infine si riferisce ad un opuscolo del compagno Gusev sul primo «piano economico fondamentale della ricostruzione dell’industria e della produzione in tutto il paese». Non solo Lenin, nel 1920, non promette socialismo, ma avverte che, sebbene il piano abbracci molti anni, «noi non promettiamo di liberare di colpo il paese dalla fame»[194].

Studiosi di personaggi storici: il più prudente, o il più audace dei rivoluzionari? Non vi può rispondere una agiografia rossa, né un Plutarco novecento, ma solo la dialettica dei comunisti, che prenda pure il nome da Marx, se da questi e da Lenin hanno osato prendere nome certe forme di biografia dell’ex grande Stalin.

70 – Ancora l’anarco-sindacalismo

Nel X congresso del Partito Comunista Russo, dell’8–16 marzo del 1921 (tra il II e il III congresso dell’Internazionale Comunista) si manifestò una opposizione alla maggioranza del Comitato Centrale, che si suole assimilare ad una opposizione di «sinistra» e considerare come una prima reazione all’incipiente involuzione della rivoluzione russa e del partito.

La Storia del «Breve Corso» fa un’assoluta confusione tra gli oppositori in quel congresso, e i nomi degli oppositori nelle lotte seguite alla morte di Lenin, a partire da quella di Trotsky (1924). All’inizio il nome più noto era quello della compagna Kollontaj, fatta poi ambasciatrice a Stoccolma e che tutta la stucchevole stampa borghese di quel tempo chiamava l’amante di Lenin.

A Trotsky il «Breve Corso» attribuisce una linea del tutto opposta a quella di tale opposizione a proposito dei sindacati: la richiesta di «statalizzarli» e quasi «militarizzarli», che sarebbe in ogni caso l’opposto della tendenza di Kollontaj che ne difendeva una larga autonomia dal partito politico. Non minore confusione fa con la «sinistra» del tempo di Brest Litovsk, capitanata da Bucharin, che, come abbiamo molto ampiamente riferito, fu battuta definitivamente, dopo la firma del trattato di pace con la Germania, al VII congresso del marzo 1918.

Non sarà male rilevare ancora una volta che l’opposizione condotta dalla corrente di sinistra del Partito comunista d’Italia, e nel 1922 dal partito stesso, sulla tattica europea dell’Internazionale Comunista, non solidarizzò mai con le tendenze semi-sindacaliste di vari paesi, in quanto sminuivano il compito del partito e sopravalutavano quello dei sindacati, il che le conduceva (esempio del KAPD: Partito Comunista Operaio Tedesco) a propugnare, per ottenere sindacati «organi della rivoluzione e della nuova gestione economica», la scissione nel seno dei sindacati tradizionali dei vari paesi, il che non fu teorizzato né applicato mai, anzi fieramente combattuto in dottrina e pratica, dal Partito comunista fondato in Italia a Livorno nel gennaio 1921, per quanto ne facesse parte il gruppo di Torino (Gramsci, «Ordine Nuovo») la cui ideologia in materia risentiva profondamente di quel tipo di errori.

Nella preparazione del congresso mondiale del 1920 la sinistra italiana ebbe perfino a sostenere che non potessero essere considerate parte del congresso le delegazioni di sindacati estremisti (Scozia, Stati Uniti) perché non si potevano ammettere come sezioni dell’I.C. che i partiti politici comunisti.

Quanto alla direttiva di patriottismo rosso dell’opposizione di Brest e del 1918, l’ideologia del nostro gruppo ha tradizionalmente respinte quelle posizioni.

La reazione di Lenin all’opposizione del X congresso fu totalmente ligia alla sana linea marxista e rivoluzionaria, e ad essa si ricollegano le tesi del II congresso dell’I.C. sui Consigli di Fabbrica, che con costruzione analoga, e sia pure contrapponendoli ai vecchi sindacati, venivano in correnti di molti paesi elevati a sostituti del partito, e dello Stato della Dittatura del Proletariato.

Ma un altro evento importante si collega al X congresso, ed è la sanguinosa rivolta di Kronstadt avvenuta solo otto giorni prima della sua apertura, e dopo non lieve lotta sanguinosamente repressa dal governo bolscevico. Anche di essa la «Storia» ufficiale dà la solita presentazione esagerata e la collega con i soliti nomi dei noti oppositori e futuri processati e giustiziati. Non può però porsi in dubbio, a parte l’opera multipla di segreti provocatori, che in essa, tra i marinai e cittadini in rivolta, erano elementi anarchici e qualche loro propaggine in seno al partito bolscevico. Ma sarà bene far precedere il commento alla tesi di Lenin, del tutto fondamentale, sulla «deviazione».

71 – Produzione e rivoluzione

Alla base della stortura antimarxista di queste ideologie, di antichissima radice, che si riportano a Proudhon e a Lassalle, anche se non lo sanno, sta il concetto pomposo di «rete aderente a quella dell’economia produttiva» sulla quale graviterebbe la costruzione di un organismo proletario atto ad organizzare la lotta di classe del proletariato, a rappresentare il potere di esso nella rivoluzione (Gramsci usò bene la parola Ordine: non era uno Stato, nemmeno un semi-Stato, e se tollerava il partito era perché ne concepiva la funzione come scolastico-culturale soltanto, come una secondaria rete di propaganda e di stampa) e soprattutto a condurre la nuova economia, l’unità della quale restava, come in ambiente mercantile, l’Azienda, conquistata dai suoi già dipendenti.

La proposta base delle tesi della «Opposizione Operaia» era questa, da Lenin citata:
«L’organizzazione della gestione dell’economia nazionale spetta al Congresso dei produttori di tutta la Russia, riuniti in associazioni sindacali e di produzione, che eleggono un organo centrale che dirige tutta l’economia della Repubblica»[195].

Lenin pone una simile proposizione in contrasto con la teoria marxista e comunista, e con la stessa esperienza delle rivoluzioni e della rivoluzione russa in particolare.
«In primo luogo, nel concetto di ‹produttori› sono compresi il proletario, il semi-proletario [piccolo contadino con poca terra] e il piccolo produttore di merci [artigiano autonomo]; ci si scosta quindi radicalmente dal concetto fondamentale di lotta di classe e dall’esigenza fondamentale di distinguere nettamente le classi»[196].

La critica è chiarissima, in quanto la parola proletario indica colui che non ha alcuna particola di mezzi di produzione, che invece in misura maggiore o minore hanno il contadino lavoratore diretto e l’artigiano libero. Quindi l’espressione Stato e governo dei produttori, e peggio dittatura dei produttori, è solo uno sgorbio dottrinale, e storicamente potrebbe solo risolversi in una scolorita ed imbelle democrazia economica, conservatrice al pari delle classi di alta borghesia. L’intraprenditore capitalista non ammetterà mai di non essere anch’egli qualificato per la «rete dei produttori».

Questa sbilenca costruzione rassomiglia da vicino a quelle di tipo corporativo (ad esempio la dannunziana di Fiume), come la fascista della Carta del Lavoro e della Camera dei Fasci e delle Corporazioni; ed ha parentele col nazionalsocialismo di Hitler.

Poiché questo schema porta, nella questione sostanziale del potere, il cui aspetto base è il dominio della rete economica, tutti gli operai, oltre che alla pari degli ibridi «produttori», alla pari tra loro quale che ne sia la milizia politica e l’ideologia, esso adegua l’operaio membro del partito al senza-partito, e provoca quest’altra non meno robusta censura di Lenin:
«In secondo luogo, puntare sulle masse senza partito, o civettare con esse, come fa la tesi citata, costituisce una deviazione non meno radicale dal marxismo. Il marxismo insegna che soltanto il partito politico della classe operaia, cioè il Partito Comunista, è in grado di raggruppare, di educare, di organizzare l’avanguardia del proletariato e di tutte le masse lavoratrici; che esso è l’unica forma capace di resistere alle inevitabili oscillazioni piccolo-borghesi di queste masse, alle loro inevitabili tradizioni di grettezza [.…] e di dirigere l’azione unificata di tutto il proletariato […] Senza di ciò la dittatura del proletariato è irrealizzabile»[197].

Lenin segue polemizzando con la interpretazione che gli oppositori davano di alcuni passi del programma del partito (quello accennato dell’VIII congresso), in cui è cenno alla funzione dei sindacati nella RSFSR in cui partecipano alla direzione dell’economia. Lenin cita vari passi in cui è detto che i sindacati devono liberarsi «sempre più dalla grettezza corporativa», ed è confermata la funzione dirigente ed educatrice del partito politico verso i sindacati.

Questi, nel concetto di Lenin, possono essere utili come tramite di quella influenza del proletariato sugli strati semi-proletari e addirittura piccolo-borghesi, di cui solo nel partito il proletariato vero e proprio si rende capace. È evidente che questa elezione da parte del congresso dei produttori degli organi supremi di gestione economica lascia da parte e svuota lo Stato ed il partito proletario usciti dalla vittoria rivoluzionaria.

A giusta ragione Lenin chiama questa un’ideologia sindacalista (nel senso soreliano di azione economica che esclude quella politica) ed anarchica, in quanto apre una irreparabile breccia nel potere della classe rivoluzionaria, e facendo coro alla velenosa campagna che divampa nel mondo, rilancia le stesse insidiose calunnie disfattiste dei democratici e degli opportunisti di ogni plaga.

72 – La questione sindacale internazionale

La nostra critica dello «svolto» del recente XX congresso ha messo in luce come il punto di arrivo, in Russia e altrove, e particolarmente presso noi in Italia, sarà la svalutazione del compito del partito politico nello Stato e della teoria della sua unità non nel senso bolso di raccattare tutte le spazzature, ma nel corretto senso di «unicità» ed esclusività.

Nel 1921 Lenin si richiama alle tesi del II congresso mondiale sul compito del partito, di carattere fondamentale e accettate senza opposizioni che solo teorie antimarxiste e libertarie avrebbero potuto dettare[198].

Il concetto della preminenza del partito politico nella rivoluzione, concetto essenzialmente internazionale, non ha mai lasciato per i comunisti spazio al minimo dubbio, ed esso è inoltre ribadito nelle tesi, anche esse fondamentali (e, per quello che vale tal dettaglio, accettate in pieno dalla sinistra italiana) sul movimento sindacale e i consigli di fabbrica, in cui tutta la costruzione è che il sindacato diventa organo rivoluzionario solo in quanto viene conquistato, permeato e organizzato dal partito politico comunista.

Giusta la tesi 6, dove esiste la scissione sindacale i comunisti aiutano i sindacati di sinistra a liberarsi dai loro errori sindacalisti e a lottare contro la burocrazia sindacale socialdemocratica, ma restano a lavorare nei sindacati di destra: esempio classico la Confederazione Generale del Lavoro in Italia nel 1921. Tesi 7. Nel periodo della lotta rivoluzionaria è possibile una perfetta unione coi sindacati e i consigli «sottoponendoli all’effettiva direzione del partito come avanguardia della Rivoluzione proletaria». Nella parte II delle tesi è stabilito che i Consigli di fabbrica non solo non possono sostituirsi o eguagliarsi al partito, ma «non possono sostituire i sindacati». La loro lotta per il controllo nell’azienda e per la sua conquista non può avere altra portata che di scatenare l’antagonismo di classe e la repressione della borghesia, e condurre tutti i lavoratori, fuori da ogni particolarismo di professione e di luogo di lavoro, alla lotta unitaria per il potere centrale e la dittatura di classe. La tesi considera i sindacati più centralizzati dei Consigli, ossia meno particolaristi. È per questo che allora si sostenne che la corrente italiana «Ordine Nuovo», sebbene decisa alla lotta contro gli opportunisti italiani del parlamento, dei sindacati e del partito socialista, deviava fortemente in linea di principio dalla concezione marxista della rivoluzione. La famosa rete dei consigli non era che una copia negativa della struttura sociale borghese e non ne superava l’economia mercantile ed aziendale, come non poteva essere il punto di appoggio per abbattere il potere capitalista. La dialettica restava estranea a questa costruzione dall’apparenza seducente.

La tesi 6 di questa classica parte detta ai comunisti mondiali la consegna «di sottomettere di fatto i consigli di fabbrica e i sindacati alla direzione del Partito Comunista, creando così un organo proletario di massa come base di un possente partito centralizzato del proletariato che abbracci tutte le organizzazioni proletarie di lotta e le guidi alla vittoria della classe operaia mediante la dittatura proletaria, al comunismo». La parte III stabilisce l’attitudine internazionale: sconfessione della turpe Internazionale gialla di Amsterdam, strumento della Società delle Nazioni, e fondazione dell’Internazionale Sindacale Rossa di Mosca, fermo restando il canone del lavoro nelle sezioni nazionali di Amsterdam[199].

Questa classica dottrina fu da pochi capita, nel seguito quasi da tutti tradita, e da ciò prese le mosse la spaventosa degenerazione del comunismo mondiale e il suo naufragio in tutto il quadro delle tare piccolo-borghesi e borghesi, di stile liberale, democratico, libertario e sindacalista. Lasciamo ora il tema, notando che questa parola oggi ha due usi; uno indica chi lavora nei sindacati economici, socio o organizzatore, l’altro (oggi meno capito) si riferisce ad una dottrina che si oppone a quella di Marx, dottrina volontarista ed in sostanza idealista, a cui, per usare un nome notorio, si può applicare la designazione di sindacalismo soreliano.

Per il successo che essa ebbe tra i libertari, giurati nemici del partito politico e dello Stato rivoluzionario, Lenin la designa come anarco-sindacalismo.

73 – Il quadro della società russa

L’aver impostato il quadro del X congresso ci riconduce in pieno nel tema economico.

Lenin non si limitava al potente scardinamento dell’opportunismo sul piano della dottrina, ma lo sottoponeva all’anatomia sociale. Egli collega quella deviazione fieramente stigmatizzata all’influenza in Russia del predominante elemento piccolo-borghese, e alla sua tendenza a passare dalla parte della controrivoluzione. Noi facciamo nostra la diagnosi di Lenin dei misteriosi fatti di Kronstadt. Lenin è un testimone principe, e Trotsky concorda con lui.

«La sommossa di Kronstadt fu forse l’esempio che mostrò con la massima evidenza come i nemici del proletariato sfruttano ogni deviazione dalla linea comunista conseguente. In quella occasione la controrivoluzione borghese e le guardie bianche di tutti i paesi del mondo hanno mostrato ad un tratto di essere disposte ad adottare la parola d’ordine del regime sovietico, pur di abbattere la dittatura rivoluzionaria in Russia; i socialisti rivoluzionari, i menscevichi e la controrivoluzione borghese utilizzarono a Kronstadt le parole d’ordine dell’insurrezione in nome del potere sovietico, per così dire, contro il governo sovietico della Russia»[200]. (I Soviet, ma non i bolscevichi!, era il grido).

L’importanza del Congresso del 1921 sta nel fatto che Lenin propone la Nuova Politica Economica, capolavoro di dialettica marxista, ed altra cosa male e niente capita, dopo gli enormi sforzi fatti dai traditori per dare da bere al mondo che costruire il socialismo pieno non era che un facile scherzo.

Lenin, dopo avere denunziato la «deviazione» degli oppositori «operai» oltre che come errore di dottrina, come immediato pericolo contro il quale andavano prese misure decisive (mozione sulla unità e contro il frazionismo del partito, questione che non mancherà di risorgere aspra e difficile) dichiara (e così ci introduce allo studio del grande scritto sulla «Imposta in Natura»):
«In un paese come la Russia, l’enorme prevalenza dell’elemento piccolo borghese e la rovina, l’impoverimento, l’epidemia, la carestia – inevitabili conseguenze della guerra – l’estremo aggravamento della miseria e delle calamità nazionali, generano oscillazioni particolarmente vive nello stato d’animo delle masse piccolo-borghesi e semi-proletarie. Queste oscillano, ora verso il consolidamento dell’unione col proletariato, ora verso la restaurazione borghese; l’esperienza di tutte le rivoluzioni dei secoli XVIII, XIX, e XX mostra con assoluta chiarezza e in modo convincente che se l’unità, la forza, l’influenza dell’avanguardia rivoluzionaria del proletariato si indeboliscono anche minimamente, queste oscillazioni non possono che causare in modo inevitabile la restaurazione del potere e della proprietà dei capitalisti e dei proprietari fondiari»[201].

Era sorto il dialogo tra la Rivoluzione e il malcontento delle classi basse. Si doveva trovarne lo scioglimento marxista. Il partito di Lenin lo trovò.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXIII)

74 – Lenin e Trotsky sulla NEP

Il famoso opuscolo di Lenin sull’imposta in natura fu scritto poco dopo il X congresso del partito, al quale – prima che alla X conferenza del maggio 1921 – ne fu annunciato il contenuto; lo stesso congresso che discusse il tema della funzione dei sindacati e quello dell’unità del partito e contro le frazioni, di cui ci siamo occupati. Il congresso si svolse dall’8 al 16 marzo. La solita «Storia» staliniana del partito – afferma che i «capitolardi» come Trotsky si opposero alla saggia decisione di Lenin, e al solito furono smascherati e isolati, battuti in breccia, e via col gergaccio che ha per trent’anni imperversato, e che somiglia a tutti gli altri gerghi idioti di questa società che in tutto il mondo rimbecillisce. Come non bere?

Per non bere bisogna essere stati a Mosca nel 1922 ed aver sentito il poderoso discorso[202] col quale Leone Trotsky assolse il compito di tranquillizzare alcuni compagni dell’estero che avevano temuto che si trattasse di una rinunzia all’indirizzo rivoluzionario, e resta la più brillante spiegazione e difesa della Nuova Politica Economica e della geniale concezione di Lenin e del partito russo a quello svolto.

Ricorderemo di passaggio che a quel congresso il Partito Comunista d’Italia, la cui delegazione nell’enorme maggioranza fu su tutto il fronte alla più chiara opposizione sulla tattica in Europa, si dichiarò solidale fino all’ultimo con la politica sociale del partito russo e non ebbe la minima eccezione da fare allo svolto della NEP su cui tante sciocchezze furono scritte dai filistei di ogni risma.

Lo svolto fu detto condurre dalla fase del «comunismo di guerra» a quella della NEP e per i babbioni soliti fu un passo da sinistra a destra, sfruttando con la solita economica digestione di un paio di sole parole l’immagine della ritirata che vedremo usare da Lenin, il quale spiegava (al solito, ah, dialettica!) che vi sono ritirate che hanno come scopo ed effetto la vittoria, e talvolta se ne fanno constatando di avere troppo avanzato su posizioni non ancora sicure.

Per chiarire che cosa si debba intendere per comunismo di guerra vogliamo attingere, prima che al fondamentale scritto di Lenin, alla bella esposizione di Trotsky.

Il primo capitoletto di Trotsky tratta del corso della guerra civile, argomento del quale siamo cronologicamente già oltre, e sebbene siamo fautori di queste trattazioni lo lasceremo da parte. Egli conclude, dopo aver svergognato il sabotaggio dei partiti menscevichi: Il compito supremo del partito rivoluzionario della classe operaia in tutti i paesi è la risolutezza senza alcun riguardo, non appena si è sul terreno della guerra civile.

L’autore passa quindi alle «Condizioni della costruzione socialista». Il testo mostra subito che non si deve equivocare tra la costruzione economica condotta dal governo del proletariato vincitore, e la posteriore equivoca fase dell’edificazione del socialismo. L’espressione propria sarebbe: costruzione delle condizioni del socialismo economico.

«Dopo la conquista del potere il compito della costruzione, e prima di tutto della costruzione economica, si pone come il problema centrale e più difficile. L’adempimento di un tale compito dipende da circostanze di diverso tipo e di diversa profondità: 1) dal livello delle forze produttive e, in particolare, dai rapporti reciproci fra agricoltura ed industria; 2) dal livello culturale e organizzativo della classe operaia, che ha conquistato il potere; 3) dalla situazione politica nazionale ed internazionale: se la borghesia è definitivamente vinta o offre ancora resistenza, se hanno luogo interventi militari esterni, se i tecnici e gli intellettuali fanno sabotaggio, ecc.».

Questo non è però che un ordine logico. Praticamente i tre ordini di difficoltà si presentano tutti davanti al proletariato. Nel caso di noi russi, Trotsky dice, la terza difficoltà, ossia la reazione bianca, si pose come il più grave problema, solo in seconda linea quello della poca cultura delle masse, e al terzo posto il limitatissimo sviluppo delle forze produttive.

Non solo, dice Trotsky, ma avviene che il primo e il terzo compito non sono solo in ordine di urgenza, ma anche in netto contrasto. Il paragone è classico.
«La ragione economica non coincide sempre con la necessità politica. Se siamo minacciati in guerra dal pericolo d’essere sopraffatti dalle guardie bianche, io faccio saltare un ponte. Dal punto di vista politico è una necessità assoluta. E io sarei un pazzo e un traditore se non facessi saltare il ponte al momento opportuno».
Infatti distruggere ponti, strade e ferrovie significa fare ulteriormente scendere il livello delle forze produttive!

75 – «Il comunismo di guerra»

Trotsky spiega il senso della trasformazione sociale nei teoremi classici del marxismo. Il «salto dal regno della necessità a quello della libertà» di Engels non significa che la conquista del potere politico dia al partito proletario vincitore, da un’ora all’altra, la facoltà di stabilire il dominio della Ragione sull’economia e su tutta la vita pubblica. Un’epoca intera, alla scala mondiale, è indicata nel concetto del «salto» di Engels. Per ora la Rivoluzione non deve dimenticare che opera in un mondo in cui l’economia non è retta dalla umana ragione, né lo sarà per gran tempo.

Egli dice quindi duramente che le espropriazioni del 1917–18 sarebbero state in linea di teoria economica da rimandare, ma furono imposte da esigenze politiche e militari.
«Le possibilità organizzative dello Stato operaio restavano largamente indietro alle sommarie nazionalizzazioni».
Così parla il coraggio dei rivoluzionari marxisti. La logica economica sarebbe stata, dice Trotsky, di prendere nelle mani la gestione delle sole grandi industrie, lasciando le medie e piccole per il momento alla privata gestione, quindi saremmo passati alle medie: questa sarebbe stata la serie razionale. Ma la borghesia russa vedeva ancora in piedi il capitalismo europeo, e non voleva credere che il suo destino era segnato. Solo l’atto di forza la poteva convincere a desistere dalla lotta, dalla congiura, dal sabotaggio.
«Ogni fabbrica, ogni banca, ogni ufficio, ogni negozio, ogni studio di avvocato, costituiva una fortezza contro di noi. Essi fornivano alla controrivoluzione armata una base materiale e un legame organizzativo».
Fu necessario occupare tutto, con militanti sicuri, buoni combattenti, ma immaturi organizzatori.

«Noi perciò affrontammo la questione dal punto di vista non dell’astratta ragione economica (come i Kautsky, i Bauer, i Martov e simili politicanti impotenti) ma delle necessità della lotta rivoluzionaria. Si trattava di schiacciare il nemico, di tagliargli i viveri, a prescindere dalla misura in cui si sarebbe poi proceduto al lavoro di organizzazione dell’economia. Nel campo della costruzione economica, fummo costretti in quel periodo a concentrare i nostri sforzi sui compiti più elementari: appoggiare materialmente l’esistenza immediata dello Stato operaio e dell’armata rossa che lo difendeva al fronte; curare e rifornire la parte della classe lavoratrice rimasta in città (ma ciò in seconda linea). La primitiva economia statale che – bene o male – assolse questi compiti, ricevette più tardi la designazione di ‹Comunismo di guerra›».

Abbiamo a tal proposito detto che questa misura economico-militare, detta comunismo di guerra, non ha bisogno di essere attuata da marxisti proletari e comunisti: può essere ed è storicamente stata adottata da ogni potere militare negli estremi di emergenza, con le requisizioni anche senza indennizzo che ogni legge marziale e forza armata consente: anche da classi dominanti e controrivoluzionarie, da Stati borghesi liberali o fascisti, dagli hitleriani ad esempio in casa e fuori, e «schonungslos», con la parola di Trotsky: senza guardare in faccia a nessuno. Nulla ha che la faccia rimpiangere, anche se nella specie le città russe dall’aspetto di fortezza assediata facevano al rivoluzionario, nel loro squallore, migliore impressione di quelle odierne che scimmiottano le luminose metropoli capitaliste.

Ma vediamo in Trotsky la dimostrazione delle caratteristiche di quel comunismo di guerra dal saldo contenuto rivoluzionario.

Egli dice che le questioni principali sono: come si apprestano i generi di sussistenza; come si ripartiscono; come si regola il lavoro nell’industria di Stato.
«Il governo sovietico si trovò di fronte non un libero commercio, ma un monopolio dei cereali, poggiante sul vecchio apparato mercantile».
Rifletta il lettore su questo passo così limpido di uno dei maestri dell’economia marxista. Non si tratta di uno dei monopoli del capitalismo sviluppato, ma dell’antico monopolio con cui le dinastie assolute gestivano i granai per il popolo dei grandi centri, arrivando alla stessa gratuita distribuzione in periodo di fame.
«La guerra civile distrusse questo apparato: allo Stato operaio non restò che costituire in fretta e furia un apparato statale per la requisizione del grano dai contadini e il suo accentramento nelle proprie mani.
I generi di prima necessità vennero distribuiti quasi indipendentemente dalla produttività del lavoro: non si poteva far altro. Per mettere in qualche modo d’accordo il lavoro e il salario, si sarebbe dovuto possedere un apparato amministrativo dell’economia infinitamente più completo e maggiori risorse in mezzi di sussistenza. Nei primi anni del regime sovietico si trattava prima di tutto di assicurare alla popolazione cittadina la possibilità di vivere; e lo si ottenne anche grazie al livellatore paiok (razione)«
.

La differenza tra la razione dei tesseramenti di guerra nei paesi borghesi e il paiok medioevale è in questo: che il paiok non si paga in moneta. È una forma non mercantile, che giustamente entusiasmò i giovani comunisti europei che arrivavano in Russia in quei primi anni, ma è una forma precapitalistica malgrado possa ricordare quella del comunismo superiore. Trotsky ha ragione di dire con l’abituale e magistrale nettezza:
«La requisizione [senza moneta o con moneta svalutantesi, come Lenin dirà] delle eccedenze del contadiname [intendete con eccedenza quel tanto di cereali che resta dopo il consumo diretto del contadino e della famiglia, ed anche, come in Lenin stesso e con la stessa secca sincerità, prima che abbiano finito di sfamarsi], e la ripartizione dei paiok, erano in realtà misure da fortezza assediata, ma non di economia socialista».
E qui ritorna il punto vitale:
«In date circostanze, specialmente con una più rapida marcia in avanti della rivoluzione in Occidente, il passaggio dal regime di fortezza assediata al regime socialista sarebbe stato per noi straordinariamente facilitato e accelerato».

76 – Industrialismo di guerra

Trotsky spiega che ogni produzione manifatturiera, nelle varie economie, tende a raggiungere una certa proporzionalità tra le sussistenze e gli oggetti manifatturati, tra quelli che sono beni di consumo e la formazione e il mantenimento dei mezzi di produzione. Nel sistema capitalistico ciò avviene a mezzo del mercato, della libera concorrenza, del gioco dei prezzi, della domanda e dell’offerta, e della soluzione dei periodi di congiuntura grazie alle crisi. Noi marxisti denunziamo a ragione l’anarchia di questo sistema, ma non va disconosciuto che attraverso cicli alternanti esso giunge ad una certa proporzionalità tra i vari scopi economici e produttivi.

In Russia, dice Trotsky, questa trama era stata, ove esisteva, centralmente e localmente spezzata e distrutta dalla guerra, dalla rivoluzione e della guerra civile. Come potevamo noi tornare sulla via dello sviluppo economico? È vero che nel sistema socialista tutte quelle proporzionalità sono regolate da un sistema centrale e da una pianificazione «prima statale e poi internazionale». Ma una simile soluzione non può essere perfezionata a priori, uscire dalla pura speculazione mentale. Può solo uscire da un lungo sviluppo di tutte le risorse e delle forze di produzione. È una ben lunga strada.

Che cosa potevano fare i bolscevichi, in tale situazione? Ne venne fuori
«l’elementare esigenza di vita di mettere in piedi un apparato provvisorio sia pur rozzo per poter trarre dalla caotica eredità trasmessaci nell’industria i prodotti di prima e assoluta necessità per l’esercito in guerra e per la classe operaia. Non era un compito economico nel senso lato del termine, ma militar-industriale. Con la collaborazione dei sindacati, lo Stato prese materialmente in mano le fabbriche e creò un apparato centralizzato, in alto grado pesante e macchinoso, che tuttavia permise di rifornire l’esercito di armi e materiale bellico – in misura insufficiente, è vero, ma tale da farci uscire dalla lotta non vinti ma vincitori».

La conclusione è che la politica delle requisizioni forzate di cereali condusse al calo della produzione agricola e al suo disordine. La politica delle gestione burocratica centrale delle fabbriche impedì la razionale utilizzazione degli impianti e della capacità tecnica dei lavoratori. La politica dei salari egualitari (o in natura) paralizzò lo sviluppo della capacità lavorativa.
«Ma tutta questa politica del comunismo di guerra ci fu imposta dal regime di fortezza assediata in condizioni di dissesto economico e di esaurimento delle risorse».

Ci domanderete, esclama l’oratore, se abbiamo mai sperato di salire per una linea più diretta, senza oscillazioni e ritirate, dal comunismo di guerra al socialismo. Infatti, lo abbiamo sperato!

«In quel periodo noi credemmo fermamente che lo sviluppo rivoluzionario nell’Europa occidentale avrebbe marciato a un ritmo più veloce. Non v’è alcun dubbio: se nel 1919 il proletariato avesse preso il potere in Germania, in Francia, e in generale in Europa, è certo che il nostro sviluppo economico avrebbe assunto forme ben diverse».
Egli ricorda la previsione di Marx sugli effetti di una rivoluzione europea per la società russa, nella famosa lettera del 1883 al populista Danielson. Denunzia ancora il tradimento socialdemocratico in Europa che aveva impedito che un proletariato europeo vincitore nel 1919 potesse fornire alla Russia,
«paese arretrato in senso economico e culturale, prendendolo a rimorchio, un aiuto tecnico e organizzativo».

La conclusione di questo esame del comunismo di guerra è questa:
«Quando si dimostrò che dal punto di vista militare saremmo usciti vincitori, fu egualmente chiaro che, dal punto di vista economico, avremmo dovuto ancora a lungo contare sui soli nostri mezzi e sulle sole nostre forze»[203].

77 – Trotsky e la NEP

La sorgente della nuova politica economica, premette Trotsky, è la transizione dalle misure dettate da necessità militari a misure dettate dalla conservazione economica. Abbiamo anche noi detto che fu una ritirata, ma, dato che è facile ai tendenziosi avversari scambiare una ritirata con una «capitolazione», le cose vanno meglio considerate.

«I contadini, che nell’Ottobre 1917 avevano ricevuto dallo Stato, che l’aveva nazionalizzata, la terra, e le scorte, sono ora tenuti a versargli una data «imposta in natura», che rappresenta un essenziale contributo alla causa della costruzione socialista».

Poiché per tale via i contadini possono conservare una parte delle eccedenze, è stato loro consentito di venderle su un mercato libero, non vietato, delle derrate agrarie.

Tale fatto condusse a dire che lo sviluppo economico russo nei cinque anni dal 1917 al 1922 non si era mosso secondo una linea retta, ma a zig-zag. Se nel 1921 si era riconosciuta e consentita l’esistenza di un mercato, fino allora vietato come illegale, e poiché è chiara teoria marxista che il capitalismo si forma sul terreno mercantile, bisogna dire che la Russia si è mossa nel 1921 in una direzione che va dal socialismo al capitalismo? Ciò smentisce Trotsky con tutta energia.
«È assolutamente inesatto dire che lo sviluppo economico della Russia sovietica si muova nella linea dal comunismo al capitalismo. Noi non abbiamo finora avuto nessun comunismo. Neppure il socialismo abbiamo avuto, né potevamo averlo. Avevamo nazionalizzato una disorganizzata economia borghese, e, nel più duro periodo di lotta per la vita o per la morte, abbiamo introdotto un regime di ‹comunismo dei consumi›. Dopo aver vinto la borghesia nella politica e sui campi di battaglia, abbiamo potuto dare inizio alla costruzione economica, e qui ci siamo visti costretti a reintrodurre le forme dei rapporti di mercato fra città e campagna, fra i singoli settori industriali e fra le singole aziende».

Con realismo determinista proprio del marxismo, viene chiarito che al posto di una banale scelta arbitraria del partito al potere vi è la deterministica constatazione di una necessità economica avente forza superiore ad ogni velleità metafisica o sentimentale.

«Senza il libero mercato il contadino non trova il suo posto nell’economia, e perde la spinta al miglioramento e allargamento della produzione. Solo un’industria di Stato potentemente sviluppata, che sia in grado di sopperire a tutte le esigenze del contadino e della sua economia, preparerà il terreno all’inserimento del contadiname nel sistema generale dell’economia socialista. Sotto il profilo tecnico, un tale compito sarà espletato con l’aiuto dell’elettrificazione, che metterà fine all’arretratezza dell’economia agraria, al barbaro isolamento del contadino, all’idiotismo della vita rurale. Ma la via che a questo conduce passa per il miglioramento dell’economia del contadino odierno in quanto proprietario, e lo Stato operaio può giungere a tanto solo attraverso il mercato, che sveglia l’interessamento personale del piccolo proprietario. I primi risultati ci stanno già dinnanzi. La campagna fornisce quest’anno allo Stato dei lavoratori, sotto forma di imposta in natura, molto più grano di quanto esso riusciva ad ottenere mediante requisizione forzata ai tempi del comunismo di guerra. Il contadino è soddisfatto e, senza normali rapporti tra proletariato e contadiname, uno sviluppo socialista nel nostro paese è impossibile».

Trotsky spiega quindi come la NEP non sia solo il sistema di rapporti di scambio fra città e campagna, ma sia una necessaria tappa nello sviluppo dell’industria di Stato. Sappiamo che questa nel 1920 era piombata al basso della sua storica curva di sviluppo, ed il suo potenziale era la settima parte di quello del tempo zarista. In questa condizione non sarebbe potuta uscire dal regime di emergenza degli anni di guerra civile, se non attraversando un lungo periodo in forma di capitalismo di Stato – di cui tratta a fondo Lenin – ossia funzionando verso il mercato delle materie prime del lavoro e dei prodotti come un’azienda isolata con un proprio bilancio e un proprio profitto, che competa allo Stato industriale; e, nella fase del 1921, alle minori industrie di cui era consentita tuttora la gestione privata, o come proprietà, o come affitto di stabilimenti già nazionalizzati.

Questo passaggio ad un capitalismo mercantile e aziendale, che non è affatto forma socialista, era tuttavia un passo innanzi per un paese dal quadro economico che allora offriva la Russia e in cui il capitalismo industriale era presente solo in una forma di industria di guerra, la cui possibilità e funzione di dura emergenza era ormai finita.

78 – Capitalismo di Stato

Trotsky ricorda le raccomandazioni di prudenza di Lenin sull’impiego del termine di capitalismo di Stato, e ne fa la storia. La distinzione politica sta in quel tempo in primo piano davanti alla mente di Trotsky, il quale non introduce nemmeno, nel 1922, la lontana ipotesi che la natura politica del partito e dello Stato comunista possa degenerare o invertirsi. Dinanzi ai riformisti di prima della guerra i socialisti rivoluzionari sostenevano che una statizzazione fatta da un potere borghese era sempre capitalismo, fosse lo Stato bismarckiano di Lassalle o la Repubblica democratica di Jaurès. Ma quando in Russia il potere è nelle mani della classe operaia, e l’industria pesante è nelle mani dello Stato operaio,
«non vi è sfruttamento di classe, quindi non v’è capitalismo, sebbene ve ne siano le forme».
Queste forme sono l’azienda al di dentro e il mercato monetario al di fuori (Trotsky ricorda qui la tesi di Lenin per la rivalutazione del rublo).

Trotsky intende dire che terminologicamente non è giusto chiamare una forma economica partendo dal suo meccanismo intrinseco e senza tener conto della natura di classe dello Stato politico del tempo. Egli dice che l’industria del tempo dello zar era feudalismo e non capitalismo. Ciò può indurre ad equivoco; non descrisse Lenin lo sviluppo del capitalismo in Russia decenni prima della caduta dello zarismo? E non era anche quello in gran parte un capitalismo di Stato? Trotsky tuttavia così si esprime, e forte influenza vi ebbero le ragioni di virile propaganda in quella ancora ardente situazione del 1922:
«La produzione dello Stato operaio è per tendenza di sviluppo una produzione socialista. Ma per il suo sviluppo si serve di metodi che l’economia capitalistica ha messo in opera e che noi siamo ancora ben lungi dall’aver liquidato».

Un modo di produzione andrebbe defunto prima politicamente, poi economicamente.

Davanti allo sviluppo di forze produttive ed alla statizzazione totale dell’industria di oggi, 1956, che ha conservato in pieno, arrestando lo sviluppo verso il socialismo che allora consisteva nel «salire il gradino del capitalismo di Stato», le forme aziendali e mercantili (inevitabili allora in ragione della bassissima potenza industriale del paese), e soprattutto davanti alla degenerazione del partito al potere, di cui primo indicò il carattere controrivoluzionario, Trotsky, in coerenza all’analisi di allora, adotterebbe non solo la formula di capitalismo di Stato per l’economia russa, ma anche quella di Stato capitalista per la politica russa, abbandonando la definizione di Stato proletario degenerante che gli fu cara in anni meno luminosi. E quando egli disse Stato proletario «degenerato» disse con altre parole Stato capitalista e borghese. Se quello Stato era all’inizio di genere proletario, a degenerazione scontata era uscito dal suo genere, lo aveva cambiato in quello capitalista.

Prima di passare allo studio di Lenin, riportiamo il brillante passo di Trotsky sul capitalismo in tempo feudale.
«Che, in linea di principio, nuovi fenomeni economici possano svilupparsi entro un antico involucro, lo abbiamo visto ripetutamente nella storia, e nelle più svariate combinazioni. Quando in Russia cominciò a svilupparsi l’industria, ancora ai tempi della servitù della gleba, sotto Pietro I e successori, le fabbriche allora sorte su modello europeo poggiavano sulla base della servitù della gleba, cioè i contadini-servi erano vincolati alle fabbriche come forza lavoro coatta. I capitalisti che le possedevano, gli Stroganov, i Demidov, ecc., svilupparono il capitalismo entro l’involucro della servitù della gleba. Allo stesso modo, il socialismo è costretto a fare i primi passi in un guscio capitalista. Il passaggio a metodi integralmente socialisti non può compiersi con un salto al disopra della propria testa, soprattutto quando la testa non è particolarmente lavata e pettinata come, per dirla con licenza, non lo è la nostra testa russa. Noi dobbiamo ancora imparare ed imparare»[204].

Noi vediamo più a posto la terminologia marxista nel dire che il capitalismo si avvale di produttori salariati, come si avvalse in date circostanze storiche di produttori servi e schiavi (antichità classica) e in tutti i casi poté essere gestito da uno Stato o dai privati. Ma l’illazione che il socialismo possa iniziarsi servendosi di produttori salariati è inammissibile, perché contrasta col principio che il socialismo differisce da tutte le forme precedenti per l’abolizione delle classi sociali. In questo studio interessa ricostruire i fatti, ma preferiamo la dizione che in uno Stato politico socialista si possono ben avere forme economiche non socialiste, in via di sparizione, e tra esse il capitalismo di Stato, il capitalismo privato, la piccola produzione e così via.

79 – La costruzione di Lenin

Lo scritto di Lenin sull’imposta in natura comincia, come abbiamo visto in molti testi importanti, dalla constatazione che il dibattito sulla convenienza o meno di dati provvedimenti pratici presi dal governo sovietico «ha avuto un carattere piuttosto sconnesso». Gli argomenti arrecati per respingere e criticare la «nuova» politica erano stati tali, da rendere necessaria ancora una volta la chiarificazione di posizioni generali che si dimostravano male acquisite ed oggetto di considerevole confusione. Lenin quindi risale alle questioni di massima.
«Sarà perciò tanto più utile il tentativo di affrontare il problema non dal punto di vista della sua attualità, ma come una questione generale di principio. In altre parole dobbiamo rivolgere il nostro sguardo allo sfondo generale più importante di quel quadro, su cui tracciamo le linee di determinati provvedimenti pratici della politica d’oggi. Per fare questo tentativo, mi permetto di citare un lungo brano del mio opuscolo: il compito principale dei nostri giorni – Sull’infantilismo ‹di sinistra› e sullo spirito piccolo-borghese. Questo opuscolo, pubblicato dal Soviet dei deputati di Pietrogrado nel 1918, contiene un articolo dell’11 marzo 1918 sulla pace di Brest e una polemica col gruppo allora esistente dei comunisti di sinistra, del 5 maggio 1918. Quella polemica oggi è superflua e perciò la ometto. Lascio soltanto ciò che concerne la discussione sul Capitalismo di Stato e sugli elementi fondamentali della nostra attuale economia di transizione dal capitalismo al socialismo»[205].

Per meglio stabilire che gli argomenti generali teorici non sono chiamati in ballo per risolvere il dubbio, il contrasto di idee contingente, Lenin ricorre a materiale di tre anni prima, predisposto quando non si pensava affatto alla questione del 1921, alla NEP.

Nella prima parte di quell’opuscolo Lenin scriveva cose che ora non sta per citare, ma che sono ugualmente essenziali. Egli si riferiva alla situazione seguita alla firma di quella che si chiamò «una vera pace di Tilsit», una pace che suggellava una durissima sconfitta e incitava ad operare con decisione inflessibile per «far sì che a qualunque costo la Russia cessi di essere misera e impotente, e diventi, nel vero senso della parola, possente ed opulenta». Il passo che ora trascriviamo ribadisce due punti: che sola via di vittoria è la rivoluzione socialista fuori di Russia, che il lavoro da affrontare nel campo interno è la costruzione delle basi del socialismo, non di esso stesso socialismo, di una società socialista, di un’economia socialista, che sono traguardi internazionali. Due punti che sono i centrali di tutta la tesi che noi sosteniamo sul problema dell’evoluzione sociale russa moderna.

«La Russia potrà diventare forte e opulenta se getterà via ogni scoraggiamento ed ogni vuota frase e, stringendo i denti, raccoglierà tutte le sue forze; se tenderà ogni suo nervo, ogni suo muscolo; se comprenderà che la sola [corsivo in originale] via di salvezza possibile è quella della rivoluzione socialista internazionale, che noi abbiamo imboccato. Proseguire per questa via senza lasciarci abbattere dalle sconfitte, costruire pietra su pietra le solide fondamenta [sic!] della società socialista, lavorare senza tregua per instaurare la disciplina […] il censimento ed il controllo generale sulla produzione e la distribuzione dei prodotti: questa è la via che porta alla creazione della potenza militare e della potenza socialista»[206].

L’ultimo binomio è degno della mente di un Lenin. Il socialismo non lo crea, lo costruisce, lo edifica nessuno.

Lo generano forze non di umana volontà e coscienza, nel grembo della vecchia società, ed il partito non è per lui un architetto ma, nell’espressione drastica quanto eloquente di Marx, appena una levatrice.

Due cose può conseguire l’azione del partito rivoluzionario: la potenza militare, per vincere nella guerra di classe, e la potenza socialista, ossia il rovesciamento distruttivo di tutte le condizioni che sbarrano la via all’immenso parto della storia, che porta alla luce una società nuova.

80 – Senso della russa epopea

Veniamo ora alla dimostrazione che Lenin citò da se stesso dopo tre anni, che dopo 35 anni occorre ancora ripetute volte citare.
«…Il capitalismo di Stato rappresenterebbe un passo avanti [corsivo originale] rispetto allo stato attuale delle cose nella nostra Repubblica Sovietica. Se, per esempio, tra sei mesi si instaurasse da noi il capitalismo di Stato, ciò sarebbe un enorme successo, e la più sicura garanzia che fra un anno il socialismo sarebbe da noi definitivamente consolidato e reso invincibile»[207].

Dobbiamo interrompere per evitare un frainteso; noi sosteniamo che Lenin calcolava a lunghi decenni la trasformazione socialista dell’economia russa, e proprio noi citiamo Lenin che qui prevede un anno! Ma Lenin lo prevede in base ad un’ipotesi per assurdo, che è prova della sua tesi: ben venga il capitalismo di Stato integrale! Di anni ne sono passati trentasette, e la condizione non è data ancora colà: vige il capitalismo statale nell’industria, ma non nell’agricoltura, e non basterebbero quindi a tale stregua altri 37 anni per il socialismo pieno, che, conseguendo una generale base pronta a sorreggerlo, richiederebbe una nuova rivoluzione politica di classe. 74 anni sono più dei 50 di Trotsky nel 1926, di cui si menò tanto scalpore. È poi giusta la formula che il socialismo si consolida e diventa invincibile anziché farsi costruire da quattro fessi.

Ma altro è il filo logico della deduzione serratissima di Lenin.
«M'immagino con quale nobile sdegno qualcuno respingerà queste parole […] Come? Nella Repubblica Socialista Sovietica il passaggio al capitalismo [corsivo come sopra] di Stato sarebbe un passo avanti? […] Non è questo tradire il socialismo?
… È su questo punto che bisogna soffermarsi in modo più particolareggiato.
In primo luogo bisogna analizzare qual è esattamente la natura del passaggio dal capitalismo al socialismo che ci dà il diritto e il motivo di chiamarci Repubblica Socialista Sovietica.
In secondo luogo bisogna denunciare l’errore di coloro che non vedono le condizioni economiche piccolo-borghesi e l’elemento piccolo-borghese come il principale [corsivo come sopra] nemico del socialismo nel nostro paese.
In terzo luogo bisogna ben comprendere il significato della differenza economica tra lo Stato Sovietico [corsivo come sopra] e lo Stato borghese.
Esaminiamo questi tre punti.
Non c’è stato ancora nessuno, a quel che sembra, che, interrogato sull’economia della Russia, abbia negato il carattere transitorio di questa economia. Nessun comunista ha neppure negato – a quanto pare – che l’espressione ‹Repubblica Socialista Sovietica› significa che il potere sovietico è deciso a realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto che riconosca come socialisti gli attuali ordinamenti economici«
[208].

Qui la lapidaria classicità del testo, anche oltre ogni legittima suspicione sulla mano traduttrice, assurge a forza di scientifico rigore.

Il primo teorema è che si è in presenza di una economia evolvente, in trasformazione, non pura, che non si può al cento per cento classificare in uno dei modelli della nostra dottrina: feudalismo, capitalismo, socialismo. Dunque vi è una mescolanza, e per di più instabile, di forme tipiche. Ed allora quali e in quale misura? Lo sapremo presto.

Perché allora lo Stato politico prende il nome di «Socialista»? Tutto, quando Lenin parla, è spaventosamente semplice, lo sa chiunque lo abbia ascoltato. Ma è anche spaventosamente profondo, e lo sa chi ha seguito la schifosissima banda che da decenni lo ha bestemmiato. Lo Stato, teorema base del marxismo, non è la società. Tanto meno lo sarà il nostro Stato, perché la società nostra sarà senza Stato. Sono il giurista e l’idealista borghese che identificano l’aggettivazione dello Stato con quella della società, astraendo dalle classi.

Per i marxisti lo Stato è una forza, che esiste soprattutto nelle società in trasformazione. Noi non definiamo quella forza secondo il grado di trasformazione raggiunto, ma secondo la direzione di classe in cui lavora lo Stato, rivoluzionario o conservatore che esso sia. In questo senso si ha una monarchia feudale, una monarchia o repubblica borghese, una repubblica socialista, in linguaggio marxista. Il filisteo borghese li chiama monarchia dispotica o costituzionale, repubblica democratica e così via, e poi gli sono piovute addosso le repubbliche «totalitarie» che lo intrigano terribilmente.

Quindi la questione della struttura della società russa viene dopo quella primaria del nome dello Stato. Noi dunque non affermammo allora che si avesse la struttura economica e sociale socialista, ma ci fermammo su questo concetto di forza, che Lenin rende con le parole: potenza socialista, decisione del potere sovietico di realizzare il passaggio al socialismo. E vorremmo valutare il verbo russo tradotto con questo neologismo di moda realizzare, oggi a disposizione dei più impotenti imbonitori: noi ci permettiamo di preferire propugnare, provocare, agire, lottare per il passaggio.

E qui ancora il testo, facile e possente:
«Ma che significa la parola passaggio?».
Tre parole, un vasto concetto. Credete forse che il governo, che a pieno diritto si chiama socialista, abbia il potere di stabilire per decreto che dal giorno tale, ora tale, si passa al socialismo? Farebbe ridere i polli. La soluzione, che non sapreste trovare se fossimo a un lascia o raddoppia, vi sembrerà banale appena sentita:
«Non significa forse [la parola passaggio], quando si applichi alla economia [perché, non dimenticate il vostro abbici marxista, significa ben altro se si riferisce al potere politico; significa allora il più crudo aut-aut: o tutto il potere di qua o tutto di là] che in quel dato regime vi sono elementi, particelle, frammenti e di capitalismo e di socialismo? Ognuno riconoscerà di sì. Ma non tutti, pur riconoscendolo, si domandano sempre quali precisamente siano gli elementi delle diverse forme economico-sociali che sono presenti in Russia. E qui sta il nodo della questione».

81 – Le fasi della «reazione» storica

Poiché ci è stata impartita una lezione di scienza marxista, facciamo una parentesi prima di ascoltare l’applicazione al caso concreto, Russia 1918–21. Così nessuno potrà accusare come sbagliata l’analisi che abbiamo tra mani: Russia, 1956. Trattiamo, a fine solo didattico, una analogia scientifica.

Nei processi della fisica e della chimico-fisica si considerano delle trasformazioni di un corpo in condizioni transitorie e di passaggio. Questo corpo, che è più facile pensare liquido o gassoso, permettiamoci di trattarlo come una «società di molecole». Le molecole sono elementi, particelle, pezzetti di materia. Ma se un corpo è in trasformazione molecolare, ne segue che non è di uniforme struttura, che le molecole non sono tutte simili: alcune attendono la trasformazione, altre l’hanno già subita. E le trasformazioni possono essere multiple, in seno all’agglomerato di materia che studiamo. Esso non è isotropo; ossia in tutti i punti uguale a se stesso. Lenin dice del corpo sociale russo: Tutti convenite che si sta mutando: dunque in questo momento non ha struttura uniforme. Un corpo può ben essere (casi rari) in tutto stabile e invariante, ed essere anisotropo, ossia fatto di varie molecole di vari tipi, ma che, nel tempo, restano ciascuna come erano prima. Ma se mi concedete che è in trasformazione, in palingenesi, allora dovete ammettere che isotropo non è né può essere. È parte di un modo e parte dell’altro, come la società russa di allora. Ma in quali proporzioni? E la trasformazione a quale sistema tende, se tende ad una stabilizzazione?

La scienza chimico-fisica ha chiamato fasi i vari tipi di questo insieme misto. Non pensate alle fasi successive nel tempo. Pensate ad una frittura di pesce alla «zì Teresa»: le fasi sono le triglie, i calamaretti, i gamberi e via. La rivoluzione che la frittura subisce è una sola: si uniforma in bolo alimentare nello stomaco del ghiottone. Fate dunque un altro sforzo digestivo.

In una caldaia a vapore ci sono due fasi «fisiche», perché si tratta sempre di acqua; caso semplice: l’acqua liquida e il vapore acqueo. Ad ogni istante può un gruppo di molecole essere vaporizzato o condensato, cambiando fase.

Nel frigorifero ci sono le due fasi acqua e ghiaccio. Per fare un caso meno bruto, e vedere quanto è fesso chi ha scienza da specialista, aggiungiamo un momento un’altra fase: montante delle rate di prezzo da pagare ancora. Anch’esse fanno rabbrividire l’acquirente, membro della generosa società capitalista.

Il passaggio di fase di una schiera di molecole più o meno grande dipende da cause diverse: l’energia calorifica immessa o estratta, la energia meccanica somministrata o ritirata per variazioni della pressione.

Ad ognuno di questi agenti in mutamento, segue un mutamento delle fasi e della loro reciproca estensione nel complesso. Il caso di complessi senza fasi, o a fase unica e stabile, si definisce facilmente in dottrina, ma si trova assai difficilmente in natura: qui cade lo scienziato ferrato nel ramo, ma a corto di dialettica.

Se ad esempio prendiamo il complesso aria atmosferica, con le fasi vapore d’acqua ed aria (possiamo bene aggiungere acqua liquida e ghiaccio), vediamo che è raro imbattersi in aria perfettamente asciutta e in aria del tutto satura di vapore. Questi si chiamano casi limite, casi puri, stanno a loro agio nella nostra testa ma sono estremamente instabili nel mondo fisico.

Nella società russa sono presenti, Lenin dimostrò nel suo piano linguaggio, molte fasi rispetto alle quali si schierano e si convellono le molecole-uomo. Se essa è in fremente trasformazione, inutile cercarvi fasi pure: non è feudale né capitalista né socialista, ma contiene di tutto. Ed ora si passerà a vedere quante diverse fasi l’analista Lenin seppe individuare. Quale meraviglia, egli disse, che vi sia, e sia una delle più evolute, la fase capitalismo di Stato, se i più vasti gruppi di molecole sono ancora tanto lontani da questo elevato stato di aggregazione sociale?

Il militante politico, il partito, lo Stato, possono prendere il nome da una fase estrema, che la loro energia, la loro potenza (tanta energia in tempo breve) mira a provocare. Per la caldaia questa forza politica è il carbone. Ma il generoso combustibile è un fesso, se viene a dire:

Eccomi, e tutto sarà vapore, e il bello e orribile mostro si sferra… Se egli non sa i dati della distribuzione in fasi, ed i loro rapporti, e la temperatura e pressione della caldaia, corre il rischio di ardere inesausto, e spegnersi nella disarmante presenza di una massa di acqua fredda.

Lo aveva Lenin, il combustibile di massima energia calorifica. Era la rivoluzione mondiale: e i fuochisti da burla fummo tutti noi.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXIV)

82 – La società di «fast»

Nei paragrafi che precedono questo, abbiamo svolto il senso del passo di Lenin che per la sua straordinaria significazione vogliamo ripetere:
«L’espressione Repubblica Socialista Sovietica significa la decisione del potere sovietico di realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto il riconoscimento che siano socialisti gli attuali ordinamenti economici».
Abbiamo questa volta collocato noi i corsivi, per bene porre in evidenza la contrapposizione tra i due concetti.

In questo testo vi è la parola abusatissima passaggio (non ripetiamo la nostra critica al vocabolo usato da chi ha tradotto: realizzazione). Ma vi è anche la risposta alla domanda sul significato della parola «passaggio». Esso non è che la Repubblica Sovietica nei suoi confini potrà darci la società socialista integrale, come poi si è «smammato». Esso è ben altro:
«che in quel dato regime vi sono elementi, particelle, frammenti e di capitalismo e di socialismo».

Si tratta, come dall’espressione «in quel dato regime», di un teorema generale e non russo. Non abbiamo mancato di notare come una volta ancora, in questo classico scritto sull’«Imposta in natura» (1921), Lenin premetta che affronta il problema
«non dal punto di vista della sua «attualità», ma come una questione generale di principio».
Le virgolette alla abusata parola «attualità» sono sue, e sanno di sprezzo.

L’organismo «partito» non avrebbe ragione storica di esistere se non fosse possibile risolvere le questioni coi dati di principio. Principio è termine temporale, e significa risolvere la questione del 1956 coi dati del 1921, avendo risolta Lenin quella del 1921 coi dati del 1848–1860, e, meglio, coi dati di tutta la storia, in quegli anni ordinati a teoria di partito. E dopo ciò Lenin, sterminatore dell’opportunismo, è stato fatto passare per spregiudicato occasionista!

Nel marxismo, opportunismo non è un termine morale ma a sua volta temporale, e significa voler risolvere la questione coi dati dell’ultimo momento – il diametrale opposto della soluzione di principio. In una società fradicia e in dissoluzione dominano i pseudo partiti che campano sulle ultimissime della notte.

Il partito e lo Stato comunista o socialista si aggettivano con lo stesso criterio, ossia col criterio della decisione a lottare per il passaggio della società economica al socialismo. La «Repubblica Sovietica» ed in generale lo Stato della dittatura di classe si chiamano socialisti appunto in quanto agiscono temporaneamente (al passo storico) in una società economicamente non socialista, in una società mista di diverse «fasi» storiche. Nella società economicamente tutta socialista, e quindi comunista, non vi sono classi, non vi è lo Stato di classe, e quindi non vi è Repubblica di sorta. Meritevole di riflessione è la questione del Partito. Spentosi lo Stato, non lo potremo chiamare più partito di classe; e dal momento che lo stadio di dittatura ha abolito per sempre tutti gli altri partiti, nemmeno è esatto chiamarlo partito, perché tale vocabolo viene da parte, e una parte suppone che ve ne sia almeno un’altra.

Questo nostro abbici teoretico, cui occorre ad ogni tratto rifarsi, diventa una palinodia imbecille se lo si impianta sulla base assurda delle «vie nazionali» al socialismo. Lo Stato e il Partito di un paese, socialisti per decisione e non per strombazzata conquista di «realizzati ordinamenti», saranno forze di classe fino a che, entro altre frontiere del mondo capitalista sviluppato, vi saranno Stati e partiti nemici.

Lo Stato di classe è, per «attualità» e non per «decisione», nazionale. Il Partito di classe è internazionale o non è. Il Partito si chiama comunista, e lo Stato anche (in questo campo, socialista vale comunista) perché entrambi lo sono in funzione di principi come di finalità, ed oltre e fuori l’«attualità» dello stadio della mondiale lotta di classe.

Quando la guerra internazionale di classe sarà vinta, e gli Stati si estingueranno, non si estinguerà il Partito, che nacque con la classe proletaria e con la sua dottrina. Forse in quel lontano tempo non si chiamerà più partito ma vivrà come l’organo unico, il «cervello» di una società libera da forze di classe. In questo solo senso la nostra dottrina usa, fin da Marx e da Engels, la parola libertà; senso collettivo e sociale, non mai individuale, morale, personale, mistico, e, secondo la formula ultima di sapore clerico-scettico-ateo: dignitario. Dignità suppone indegnità, e indica una società di classe, di forza e di forca.

83 – Tre questioni di Lenin

Abbiamo prima già detto che Lenin, nel citare il suo scritto del 1918, premette di voler delucidare tre «circostanze» (qui altra piccola riserva lessicale). Abbiamo or ora chiarito il «terzo luogo», così enunciato:
«Bisogna ben comprendere il significato della differenza economica fra Stato sovietico e Stato borghese».
Crediamo di averlo messo in buoni termini. Ci rendiamo conto della difficoltà di ben leggere Lenin, dopo il gioco di due generazioni falsarie, di cui la più recente è la peggiore. Può leggerlo meglio, anche senza fare da padreterno, chi lungamente ebbe ad ascoltarlo in via diretta, e non ha ad oggi ancora tirato le cuoia.

Lo Stato borghese e quello sovietico sono entrambi organi politici.

Ma qui Lenin non chiede quale sia la loro natura, se politica od economica, ma quale sia la loro differenza. La differenza politica è abissale, perché le loro «decisioni» sono diametralmente opposte: lo Stato borghese esprime la decisione di conservare il capitalismo più a lungo possibile nella storia, lo Stato proletario quella opposta di accelerarne la distruzione. Questa differenza è totale, non frazionabile, non raggiungibile per parti, non tagliabile a fettine. Perciò siamo, e non è per noi termine di offesa, totalitari. Nella questione del potere gioca il tutto o nulla, l’aut aut più inesorabile, sempre, ovunque. Qui è il tutto Marx, rivendicato dal tutto Lenin.

Ma la differenza economica? Lenin stabilisce questo: grossa coglioneria rispondere: La differenza è che nello Stato borghese tutto è economia capitalista, nello Stato proletario tutto è economia socialista! Mai ha Lenin avuto tanta ragione di deridere i «sinistri», gli «estremisti» di cartapesta, che campano ancora, e danno una mano a frocoliare la rivoluzione.

La risposta marxista, resa un po’ cruda perché questi stomaci-cervelli malati non si curano con gli intingoli, con gli argomenti buoni per il «senso comune» o per «tutti gli onesti», è questa: La differenza è variabile, può essere grande, piccola e perfino nulla. La differenza economica; perché, specie all’inizio storico del periodo dittatoriale, per lungo tempo (Lenin citerà le «lunghe doglie del parto di una società nuova» di Marx) si è in un ambiente spartito in «fasi» evolventi, eterogenee.

Espressa la risposta matematicamente: Dallo Stato Borghese al Proletario la derivata del trapasso è infinita, politicamente; mentre economicamente è finita, e può essere in dato momento anche nulla: oseremmo dire anche negativa. Solo chi giace nello stagno dei Mollet o dei Saragat abbia la parola per dire la gran fregnaccia: Ciò contraddice al determinismo economico; se l’economia cambia goccia a goccia, sia lo stesso anche del potere. Ma che di diverso dicono dunque oggi gli incamminati, stile XX congresso, nel «ritorno al marxismo-leninismo»?

Ora il «secondo luogo». Bisogna rilevare l’errore di coloro che non vedono le
«condizioni economiche piccolo-borghesi e l’elemento piccolo-borghese, come il PRINCIPALE nemico del socialismo nel nostro paese».
Il maiuscolo è corsivo nel testo, abbiamo noi posto i corsivi didattici.

Vedremo nel seguito che la dimostrazione di Lenin tende a stabilire che il capitalismo di Stato col potere proletario è un vantaggio rispetto all’elemento piccolo-borghese, un vantaggio enorme, ma non è ancora l’elemento, la «fase» socialista.

Passiamo quindi al terzo luogo, non senza aver notato che il nostro cammino è questo (forse un poco a rilento, ma per esigenza della natura periodica della sua edizione): dopo aver utilizzato tutto il lavoro storico di Lenin quanto a sviluppo in Russia dei rapporti di produzione, esporre come nella società russa di oggi perfino la vittoria del capitalismo di Stato sulla «fase» piccolo-borghese non sia completa, soprattutto quanto a settore agricolo, settore dello scambio mercantile e monetario, e settore generale del consumo. In modo che la prova storico-politica che il potere in Russia non è proletario-socialista, ma capitalista, riposi non solo sulla dimostrazione delle differenze tra capitalismo di Stato e socialismo, ma sullo stadio inferiore che sta fra economia piccolo-borghese e capitalismo di Stato: ancor più, tra la prima e il capitalismo privato, con la sola eccezione della grande industria. E tali differenze vanno intese in linea marxista di principio così come le scolpisce Lenin nel 1921.

Più crassa è poi l’arretratezza nello schema di Lenin per le famigerate e oggi vacillanti «democrazie popolari» il cui campione codino è la Jugoslavia, a palese economia antisocialista, imitata «economicamente» tanto dalla (?) Polonia quanto dalla sospirata nel sangue nuova Ungheria.

Ben altra considerazione va fatta invece per la rivoluzionaria Cina, cui in dottrina si potrebbe concedere anche l’aggettivo comunista, perché, due gradini più sotto, sale e non scende la scala, cui siamo giunti, di Lenin, se non vantasse di «costruire» socialismo[209].

84 – «Il nodo della questione»

Il «primo luogo» era questo:
«analizzare qual è esattamente la natura del passaggio dal capitalismo al socialismo, che ci dà il diritto e il motivo di chiamarci Repubblica Socialista Sovietica».
Sappiamo che la questione è stata ridotta da metafisica a dialettica, ossia a questa:
«quali siano precisamente i diversi tipi di forme economico-sociali che sono presenti in Russia».

Lenin rizza la classica scala storica, ma prima di posarvi il piede si volge a guardarvi nel bianco degli occhi:
«E qui sta il nodo della questione».
Direte, estremisti inguaribili, senza accorgervi di arieggiare i destrissimi e i traditori: Da allora sono passati quasi quarant’anni! Ma quella che era una fesseria quarant’anni fa, lo è oggi quaranta volte di più.

Ecco la scala semplificata – non si tratta certo di analisi pedantesche! – a soli cinque scalini.
«1. L’economia patriarcale, cioè in larga misura economia naturale e contadina».
«2. La piccola produzione mercantile (comprendente la maggioranza dei contadini, che vendono il grano)». (La virgola è nostra, non del testo tradotto).
«3. Il capitalismo privato».
«4. Il capitalismo di Stato».
«5. Il socialismo»[210].

Prima di seguire la fondamentale analisi dei tipi, che al di sopra dell’applicazione alla Russia ha valore di principio e universale, sarà bene far riflettere che non vediamo tutti i tipi delle «forme di produzione» contemplate nella dottrina marxista. La cosa è notevole, e non certo fortuita.

Non vediamo qui da Lenin menzionati, ad esempio, il comunismo primitivo, né lo schiavismo, né il feudalismo-servitù. La ragione è semplice. Sono fasi non più presenti nel multiforme corpus sociale russo, fasi liquidate e ormai fuori dell’orizzonte storico. Per Marx (Prefazione 1859 alla «Critica dell’Economia politica») l’elenco comprende quattro forme: «il modo di produzione asiatico, quello antico, il feudale, ed il moderno o borghese». Si badi, tale è l’elenco delle «epoche che marcano il progresso della formazione economica della società», come è premesso, ed è quello che esaurisce «le forme antagonistiche del processo di produzione sociale» di cui la forma borghese è l’ultima e con essa «si chiude la preistoria della società umana»[211].

Per molti dei citati estremisti, si aggiunge a queste forme un’altra, preistorica e barbara anch’essa, la forma burocratica. Si tratta di anti-staliniani e perfino di anti-kruscioviani (sedicenti). Perché allora esclamano: dunque, non è permesso dopo un secolo nulla aggiungere a Marx?! La risposta è facile. Il fatto storico che oggi non si stampi pagina in cui il nome di Marx non figuri una volta almeno, è un dato fisico, meccanico di colossale portata, non riducibile al fatto che quel nostro adorato scabroso barbone abbia vinto un premio Nobel di sociologia, o inserito il suo cognome nella filza dei rivelatori di eterni vangeli. Aggiungete dunque quanto vi pare, cambiate parti essenziali della costruzione, o Pinchi Pallini, ma concedete, dopo tanto, di professare pincopallinismo e non marxismo.

La serie quaternaria di Marx esclude la forma di partenza, il comunismo primitivo e barbaro, che non aveva antagonismi (in una sua lettera alla Vera Zasulič egli scrisse: Ben vero questo primo tipo della produzione collettiva o cooperativa fu il risultato della debolezza dell’individuo isolato, e non di una socializzazione dei mezzi di produzione) come esclude la forma che esce dalla preistoria, il socialismo. I grandi tipi di «forme» possono dunque considerarsi sei. Vi sono poi misti, come le stesse grandi forme in innumeri situazioni storiche e geografiche anche durature, tipi minori, che in genere hanno per oggetto la piccola economia personale-familiare, forma numericamente vasta, ma che alligna all’ombra delle altre in cento modi, senza mai generare una propria storia, e non ha quindi l’onore dell’elenco[212].

Il «Manuale» sovietico di… marxismo dà tuttavia questo elenco:
1. Comunità primitiva; 2. Schiavitù (il modo antico di Marx); 3. Feudalismo; 4. Capitalismo; 5, Socialismo. Questa serie quinaria, che vuole comprendere gli stadi non antagonisti e quelli antagonisti, è zoppa. Manca il modo asiatico.

Dobbiamo, tornando alle cinque fasi di Lenin per la Russia 1918, mostrare come sono tre cose diverse: il comunismo primitivo, il modo di produzione asiatico, la piccola economia rurale naturale; tipo questa di secondo grado, come sono tali la piccola produzione mercantile (forma borghese di cui Lenin è fiero nemico, quanto Marx) e il capitalismo di Stato (altra forma borghese, ma evoluta, di cui Lenin è fiero amico in quello svolto). Ma la collimazione dottrinale tra la serie classica di Marx e l’analisi delle cinque fasi russe di Lenin è assoluta.

Disdegnano entrambi l’analisi pettegola, quella degli sciagurati arricchitori, sulla linea della prima prefazione al «Capitale»:
«All’analisi delle forme economiche non possono servire né il microscopio né i reagenti chimici: l’uno e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza d’astrazione»[213].

Fermatevi: la frase è grande. L’astrazione è lo strumento conteso ai Pinchi Pallini e ai Peluovisti!

85 – Fase «rurale patriarcale»

Il punto i di Lenin non è il comunismo primitivo e non è nemmeno il grande tipo asiatico. Tuttavia con piena ragione Lenin non classifica tale fase sotto il grande tipo feudale, e nemmeno, come subito farà col punto 2 (Piccola produzione mercantile), sotto il grande tipo borghese.

Nel comunismo primitivo non vi è ancora antagonismo di classe, non vi è minoranza economicamente sfruttatrice di altrui lavoro e non vi è Stato. Non vi è lavoro individuale, né familiare nel senso di famiglia individuale, perché la terra è condotta in comune dalla gens della tribù, e, nella forma che si avvicina al sorgere dello Stato militare, dall’orda nomade. Altrettanto dicasi della caccia e pesca e del primordiale allevamento. Di tale forma la Russia non aveva ormai che una tradizione, e non di comunità libere, ma soggette alla classe feudale. La prospettiva dei populisti, cui allude la frase di Marx sulla Russia (circa un legame tra il mir antico e il socialismo, condizionato dalla rivoluzione anti-capitalistica di Europa)[214] battuta dai bolscevichi teoricamente, è stata nella lotta liquidata.

Il grande tipo asiatico vede la produzione, collettiva nei limiti del piccolo villaggio rurale, soggetta a tributo verso una classe dominante di condottieri armati e signori urbani, e anche di sacerdoti, formanti un vero e proprio Stato politico. Tale forma è anche fuori di conto, per quanto in altri passi Lenin si riferisca alle sue vestigia nell’Asia centrale. Ma è facile la sua eliminazione appena vi arrivano le operazioni militari, e non abbisogna in questo le manovre economiche.

Come sono impossibili localmente e regionalmente questi due grandi tipi, così lo è il terzo che Lenin lascia fuori: il feudalismo. A parte le remota liberazione dei servi, le operazioni di guerra civile erano bastate a togliere di mezzo i loro oppressori: Stato zarista, aristocrazia terriera, chiesa.

Al posto di queste forme antichissime, estinte o uccise dalla rivoluzione, dopo la vittoria bolscevica sussiste, in primo luogo, l’economia contadina patriarcale, «in larga misura economia naturale».

Che cosa intende un marxista per economia naturale? È economia naturale quella di una società in cui i componenti tutti consumano direttamente i prodotti del proprio lavoro. Quindi il comunismo primitivo era anche una forma di economia naturale, in cui però il lavoro e il consumo erano comuni ad una associazione più vasta della piccola famiglia «patriarcale».

L’unità generativa della specie si va impicciolendo da queste forme. Tribù o gens fondata sul «matrimonio di gruppo» in cui è comunistico il rapporto di sesso e non v’è eredità né proprietà privata. Famiglia matriarcale, in cui lavorano e consumano in forma collettiva mariti e figli di una stessa Mater (alta e nobile figura, quanto scandalosa per il filisteo borghese moderno, cui il gran dialettico Fourier inflisse primo questa formulazione della serie storica: Stato selvaggio, barbarie, patriarcato, civiltà; così qualificando quest’ultima, ossia il tipo borghese: L’ordinamento civile eleva ogni vizio, che la barbarie presenta in un modo semplice, ad una forma di esistenza complessa, ambigua, ipocrita – nella civiltà la povertà scaturisce dalla stessa sovrabbondanza – come cita Engels nell’«Anti-Dühring»). Sotto il matriarcato, l’eredità e la guerra non compaiono ancora. Famiglia patriarcale con un capo poligamo cui le molte donne e i molti figli preparano la figura di capo e di padrone. Famiglia patriarcale monogama del diritto romano, in cui il Pater familias gravita sugli istituti di eredità e proprietà privata di schiavi e di terra. Con essa arriviamo allo spezzettamento in possessi familiari della terra fin allora comune[215].

La forma del punto 1 di Lenin è data dalla famiglia contadina cui il rovinare del feudalismo ha consentito di restare arbitra dell’uso del piccolo pezzo di terra, ma che, per lo stato primordiale della coltivazione del suolo e per il nullo o limitato sviluppo dei bisogni e del commercio, vive consumando il proprio raccolto di derrate, e senza nulla scambiare con prodotti altrui.

Statisticamente Lenin considera questa prima forma minoritaria e trascurabile. Essa non può vendere perché nulla le resta dopo un consumo di tipo bassissimo. Non versa più «decime» a nessuno, ma ignora il commercio che prima raggiungeva pigramente coi suoi manufatti solo i signori feudali o gli ecclesiastici.

86 – Piccola produzione mercantile

Come distinguiamo questa seconda fase dalla prima? Essa è definitivamente uscita dal campo dell’economia naturale, che in fondo restava il sostrato della macchina economica feudale. La famiglia contadina lavorava il suo lotto, e mangiava una parte dei prodotti, dopo averne recata una frazione al nobile, altra alla chiesa o al convento, e per i «servi dello Stato» al funzionario esattore governativo. Nelle zone più ricche, o meno miserabili a meglio dire, aveva già cominciato a togliere dal proprio consumo altra piccola parte da vendere, per acquistare dai mercanti che giravano il paese piccole scorte di oggetti manifatturati che trascendevano la produzione auto-artigiana, l’industria domestica. Prima il commercio russo, per i «governatorati» che producevano più grano di quel che consumassero, era condotto dai nobili, divenuti ormai grandi proprietari terrieri borghesi, e dallo Stato stesso. Ora questi contadini, piccoli agricoltori, si trovavano tra le mani per effetto della doppia rivoluzione politica un’eccedenza del prodotto sul consumo, e si erano direttamente collegati al commercio. Questa forma, così definita, cessa di avere caratteri naturali e patriarcali, ed entra, come Lenin subito illustra, nel tipo borghese.

Su questa seconda forma pesa la massima attenzione di Lenin, prima che egli si diffonda sulle ulteriori. Chiaro è il senso della forma di capitalismo privato, terza fase in Lenin, che è compiutamente borghese. Ulteriormente sarà condotta a fondo la discussione, che non ci è nuova, sulla differenza tra capitalismo privato e capitalismo di Stato, e tra questo e il socialismo, da dedursi dalla precedente.

Poiché tuttavia per Lenin il passaggio tra queste fasi alte non è ancora da attendersi sul piano generale, egli poggia tutta la sua forza sulla salita dal punto secondo in sú, ossia sulla lotta per superare la piccola produzione mercantile, per sostituirvi non il socialismo, e solo in certa misura il capitalismo di Stato, ma anche per tollerare che ne sgorghino forme di capitalismo privato, a seguito della NEP, dell’introduzione dell’imposta in natura. Ma ora è la giusta definizione marxista delle forme e dei tipi quella che ci interessa.

«La Russia è così grande e varia, che tutti questi differenti tipi di forme economico-sociali si intrecciano strettamente».
Dunque, tutti e cinque i tipi.
«Ma ci si domanda: quali sono gli elementi che predominano? È chiaro che in un paese di piccoli contadini predomina, e non può non predominare, l’elemento piccolo-borghese; la maggioranza, anzi l’enorme maggioranza degli agricoltori sono piccoli produttori di merci. L’involucro del capitalismo di Stato [si rifletta per intanto alle forme di tale involucro presenti al 1918–21] - il monopolio del grano, imprenditori e commercianti controllati, cooperatori borghesi – viene spezzato qua e là dagli speculatori, e l’oggetto principale della speculazione è il grano»[216].

Dobbiamo confessare che, pure avendo sempre lottato contro il bolso concetto che la rivoluzione bolscevica fosse una «prova» per decidere se il socialismo andava bene, o meno, nel 1920 i comunisti italiani hanno spesso riferito ad aspettanti folle operaie che in Russia il grano non si vendeva, ossia non si comprava e non si pagava. Gli operai ne ricevevano la razione (ricordate il paiok di Trotsky) dalla fabbrica – i contadini, ben s’intende, lo mangiavano sul loro proprio prodotto. Cittadini non operai, bambini, malati, ospiti, impiegati e così via lo ricevevano dallo Stato, dai Soviet, dal partito comunista secondo i casi. Questo fatto, come l’altro analogo del servizio gratuito dei tram urbani, dava la gloriosa sensazione del fenomeno rivoluzionario. Ma il marxista va in cerca di ben altro che di emozioni, di brividi, o di «gialli».

Comprendevamo fin da allora che questa era una forma rivoluzionaria della lotta e della guerra civile, non un solido stadio di un nuovo tipo di amministrazione (sebbene questo termine sia borghese, vale meglio che edificazione o costruzione economica). La gestione socialista non si andava a Mosca per vederla al cinematografo, ma si doveva avvicinarla con vittoriose lotte in tutta Europa, al che era alimento la preparazione teorica ed organizzativa che, facendo leva sulla vittoria dei compagni bolscevichi, si mirava a forgiare nell’Internazionale e nei partiti aderenti.

Questa era una delle forme del «comunismo di guerra» che Lenin nel 1918 già definiva con la più esatta formula di «capitalismo di Stato»: era il monopolio di Stato del grano. La formula pratica era: è vietato vendere pane, farina, grano. Ma il fatto che pullulassero gli «speculanti» provava che la nuova forma di distribuzione non aveva superato il rendimento delle antiche, era solo una stretta necessità soprattutto militare, per rifornire i combattenti della guerra civile, e il sistema di fucilare gli speculatori non risolveva il punto.

87 – A quale stadio si svolge la lotta?

Fin dal 1917 (testo a noi noto: «La catastrofe imminente e come lottare contro di essa») Lenin aveva sostenuto che il capitalismo di Stato sarebbe stato, nella situazione economica russa, un gran passo avanti, e lo ripete ampiamente nel 1918 e nel 1921, in quanto la difficoltà economica è stata ancora aggravata dalle guerre civili 1918–1921 e dalle carestie del 1920. Tutto ciò sempre in lotta con quelli che ponevano come programma concreto l’immediata attuazione «del socialismo» e dichiaravano disfattista ogni diversa misura economica. Stabilite le note cinque categorie, Lenin non afferma solo che sarebbe un sogno – sempre in mancanza della rivoluzione occidentale – pensare alla lotta per il socialismo contro il capitalismo di Stato, ma stabilisce senza la più piccola esitazione che la lotta va fatta contro il nemico principale: la produzione piccolo-borghese mercantile, il sabotaggio speculatore.

Quindi la lotta è per superare il punto 2, andando verso il punto 4, il capitalismo di Stato, condotto dallo Stato politico degli operai, Ma intende senza ambagi dire che anche la lotta per salire dal punto 2 al punto 3, che è né più né meno che il capitalismo privato, ossia battere la piccola borghesia passando, economicamente parlando, a forme grandi-borghesi, non sarebbe tutta la vittoria, ma sarebbe un passo in avanti contro il pericolo anti-rivoluzionario.

La controrivoluzione non è, secondo Lenin, un movimento di ritorno al feudalismo. Politicamente e militarmente è stata fino allora sostenuta dall’estero, ossia da Stati di democrazia capitalista. Internamente essa fa leva sugli strati piccolo-borghesi contadini. La categoria feudalismo, come abbiamo notato, non figura tra gli «scalini» di Lenin. Il pericolo è dipinto come vittoria dei piccoli e medi contadini, che politicamente vuol dire vittoria di menscevichi, socialisti rivoluzionari, ed anarchici, ed economicamente risorgere di una trama di piccola produzione, terreno naturale di una accumulazione capitalistica, che trionferebbe se lo Stato proletario, a seguito di errori di politica economica, fosse indebolito nella sua forza materiale e classista.

Leggiamo; ancora è necessario:
«La lotta principale si svolge appunto in questo settore. Fra chi si svolge questa lotta, se parliamo in termini di categorie economiche, come il «capitalismo di Stato»? Fra la quarta e la quinta, secondo l’ordine che abbiamo or ora indicato [fra capitalismo di Stato e socialismo]? Certamente no. Non è il capitalismo di Stato che lotta qui contro il socialismo, ma è la piccola borghesia più il capitalismo privato che lottano insieme, come una cosa sola, sia contro il capitalismo di Stato, sia contro il socialismo [fin qui, vediamo 2 e 3 che lottano contro 4 e 5]. La piccola borghesia si oppone a qualsiasi intervento, inventario e controllo statale, sia dello Stato capitalistico sia dello Stato socialista. Questo è un dato di fatto reale, assolutamente indiscutibile, nell’incomprensione del quale sta la radice di una lunga sequela di errori economici».
Questo passo richiama la norma di Marx nella rivoluzione tedesca 1848–50, e la frase del «Manifesto» che dice che il proletariato appoggia all’inizio la borghesia non solo quando questa lotta contro il feudalismo, ma anche contro la piccola borghesia. In tutto il corso socialista non si è mai incontrata l’aberrazione di oggi, di un secolo dopo, in cui si vuole trascinare il proletariato ad una illusoria alleanza con la piccola borghesia contro la borghesia. Se Lenin dice che è il punto 2, piccolo-borghese, che lotta contro anche il controllo statale capitalista, nonché socialista, egli vuol dire che il punto 3, capitalismo privato, è preferibile al 2 perché, se è ben certo che lotterà alla morte contro il punto 5, socialismo, per intanto esso non lotta tanto ferocemente quanto il punto 2, piccolo-borghese, contro il capitalismo di Stato.

«Lo speculatore, il trafficante, il sabotatore del monopolio: ecco il nostro principale nemico interno, il nemico delle iniziative economiche del potere sovietico».
Va letto che perfino il grande intraprenditore capitalista privato potrebbe accettare la direzione dello Stato rivoluzionario, e sarebbe meno pericoloso del piccolo produttore – piccolo mercante di frodo.

Lenin dunque propugna misure atte a debellare l’irraggiungibile sabotaggio della speculazione piccolo-borghese, a condizione di dover ammettere, sotto stretto controllo, forme di intrapresa privata a tipo grande-capitalista, che allora proporrà nella forma delle concessioni a capitalisti esteri.

Nel corso di questo testo Lenin mostra che sarà un pericolo ancora maggiore delle concessioni al grande capitalismo quello della coltivazione (il termine è nostro) dello sparpagliamento dei piccoli produttori. E andiamo provando che una tale perniciosa coltivazione è stata fatta coi «colcos» e le tante altre forme staliniane e post-staliniane che si incontrano subito oltre il limite dell’industria ultrapesante. Ecco le parole:
«Il capitalismo è un male in confronto al socialismo. Il capitalismo è un bene rispetto al periodo medioevale, in confronto alla piccola produzione, in confronto al burocratismo legato allo sparpagliamento dei piccoli produttori»[217].

Torneremo sulla magnifica pittura del burocratismo che diede qui Lenin. Non solo esso non è l’avvento di una nuova classe, ma è l’effetto di un tipo sociale impotente – vedi sopra i richiami di principio – ad assurgere alla generazione di una forma di classe storicamente autonoma e capace di rivoluzione propria; è l’effetto della piccola produzione mercantile, di ogni piccola economia, come quella del campicello proprio familiare del colcosiano, del piccolo commercio e delle tante forme di piccolo accantonamento e «risparmio» in Russia legalizzate oggi. Qui proviamo la tesi che Lenin vede nel 1921 lo sforzo per salire dal punto 2 al punto 3 (capitalismo privato) anche prima che al punto 4 (capitalismo di Stato), con altro passo: «Ciò può sembrare un paradosso: il capitalismo privato nella funzione di collaboratore del socialismo? Eppure non è affatto un paradosso, ma un fatto assolutamente indiscutibile dal punto di vista economico.»[218]

88 – La prospettiva futura

Questa geniale descrizione delle fasi presenti nella società russa post-rivoluzionaria conduce al quadro dello sviluppo futuro.
«Si può concepire di realizzare il passaggio immediato da queste condizioni predominanti in Russia, al socialismo? Sì, si può concepire fino ad un certo punto, ma soltanto ad una condizione che ora conosciamo esattamente, grazie all’enorme lavoro scientifico da noi compiuto. Questa condizione è la elettrificazione. Se costruiremo decine di centrali elettriche nei distretti […] se ci procureremo una quantità sufficiente di motori elettrici, ed altre macchine […] allora non vi sarà bisogno, o quasi, di fasi intermedie, di anelli transitori fra il sistema patriarcale e il socialismo. Ma noi sappiamo benissimo che questa condizione ‹da sola› [a lungo Lenin parla di tutte le altre, istruzione tecnica e generale, ecc.] ha bisogno per lo meno di dieci anni soltanto per i lavori più urgenti, e che, a sua volta, si può pensare alla riduzione di questo termine soltanto nel caso in cui la rivoluzione proletaria riporti la vittoria in paesi quali l’Inghilterra, la Germania, l’America. Nell’immediato futuro dobbiamo invece imparare a pensare agli anelli intermedi capaci di facilitare il passaggio dal sistema patriarcale, dalla piccola produzione, al socialismo»[219].

Dopo il passo che abbiamo già dato segue la dura conclusione.
«Poiché non abbiamo ancora la forza di passare immediatamente dalla piccola produzione al socialismo, il capitalismo è inevitabile, in un certo modo, come prodotto spontaneo della piccola produzione e dello scambio; e noi dobbiamo quindi utilizzare il capitalismo, incanalandolo specialmente nell’alveo del capitalismo di Stato [dunque, non esclude Lenin, una parziale utilizzazione di capitalismo privato!] come un anello intermedio tra la piccola produzione e il socialismo, come un mezzo, una via, un modo, un metodo per aumentare le forze produttive».

Ricorre ad ogni passo nella visione di Lenin il concetto della lunghezza del cammino economico, della possibilità di afferrare solo successivi anelli, della necessità di travalicare periodi transitori, misurati a decenni e decenni, di forme pre-socialiste. Da questa visione è esclusa la catastrofe della degenerazione ed involuzione totale del potere proletario e bolscevico; ed è apertamente ammessa la piena possibilità di tenerlo in pugno anche nei lunghi termini in cui si tratterà di lavorare alle fondamenta, alle basi soltanto del socialismo futuro: la concezione che sappiamo difesa, quasi in articulo mortis, nel 1926 dai Trotsky, dai Zinoviev, dai Kamenev.

La garanzia per la lunghissima opera economica, e la non meno dura difesa politica, sta sempre, per Lenin, nel fattore internazionale. Verso la fine dello scritto, che esortiamo i nostri lettori a studiare tutto sulla base di questi elementari commenti esplicativi, egli così si esprime:
«La nostra forza consiste nella completa chiarezza e nella sobrietà con la quale valutiamo tutte le forze delle classi esistenti, sia russe che internazionali […] Noi abbiamo molti nemici; ma essi sono disuniti, e non sanno quello che vogliono (come tutti i piccoli borghesi, tutti i Martov ed i Černov, tutti i senza partito, tutti gli anarchici). Noi, al contrario, siamo uniti direttamente fra di noi e indirettamente coi proletari di tutti i paesi; noi sappiamo quello che vogliamo. Perciò siamo invincibili su scala mondiale, sebbene con questo non venga ad escludersi la possibilità della sconfitta di singole rivoluzioni proletarie in questo o in quel periodo di tempo»[220].

Dobbiamo chiudere le cento citazioni che battono questo duro tasto della gradualità e dei lunghi passaggi e transizioni. Prendiamo la chiusa di una risoluzione del partito sul compito dei sindacati, del 12 gennaio 1922. Si tratta di stabilire quanto poi negarono Stalin e i post-stalinisti, cioè la continuazione della lotta di classe operaia dopo la conquista del potere politico. Finché vi è salariato, il sindacato deve difendere gli operai contro il capitale. Ciò è una contraddizione con l’esistenza del potere politico proletario? Ma la situazione è piena di tali contraddizioni.

«Queste contraddizioni non sono fortuite e non potranno essere eliminate che nel corso di varie decine di anni. [Dobbiamo qui sottolineare le parole che valgono di smentita al bagaglio colossale delle falsificazioni successive]. Infatti, finché sussistono le vestigia del capitalismo e della piccola produzione [aliunde: il dominio del mercato], le contraddizioni in tutto il regime sociale fra queste vestigia e i germogli del socialismo sono inevitabili. […] Le contraddizioni suddette provocheranno inevitabilmente conflitti, disaccordi, attriti, ecc. È necessaria un’istanza superiore abbastanza autorevole per poterli risolvere immediatamente. Una tale istanza è il Partito Comunista, e l’associazione internazionale dei partiti comunisti di tutti i paesi: l’Internazionale Comunista»[221].

Quale migliore prova che inchiodi alla gogna i proclamatori del socialismo costruibile e costruito in Russia al di fuori della rivoluzione di Occidente, i liquidatori della gloriosa Internazionale, i fornicatori schifosi con le vie nazionali odierni?

89 – Lo svolto nella questione del grano

Che cosa precisamente comportò l’attuazione del decreto sulla «Imposta in natura» per i cereali, che tecnicamente fu un deciso successo nell’approvvigionamento di Stato? Ora si può dirlo, che sono chiariti i criteri di principio, se pure una tale via doveva portare avanti molte altre grandi questioni, che andavano – e per iddio vanno ancora oggi di più – a fondo illuminate.

Proprio perché gli operai sono la parte egemonica nell’alleanza militare coi contadini, devono capire che la situazione è così tesa, da dover subito con misure pratiche di «politica annonaria» elevare il tenore di vita dei contadini, che potrebbero passare alla controrivoluzione se spinti all’estrema fame. Per migliorare le condizioni degli operai e dei soldati bisogna ottenere dalla campagna pane e combustibile. Questo è impossibile senza misure che alleggeriscano la pressione sui contadini.

Nel periodo del «comunismo di guerra» il pane per le città e l’esercito veniva assicurato con «il prelevamento delle derrate eccedenti (ed alle volte anche non eccedenti)», Lenin dice. Aggiunge: per lo più le prendevamo a credito, pagando in moneta cartacea. Dato che il valore di questa moneta tendeva a zero, il grano veniva dato non alla vista della moneta cartacea, ma a quella delle bocche dei fucili operai. Comunque, dice Lenin, così vincemmo, ed il contadino sfuggì alla schiavitù sotto Kolčak o Wrangel, e allo sterminio.

Questo sistema fu di colpo abbandonato, poiché la produzione dei cereali calava spaventosamente per la disorganizzazione nelle campagne e le offerte del contrabbando, sempre più audace. Lo Stato decise allora che il contadino avrebbe potuto tenersi una parte delle «eccedenze», ossia del grano che non mangiava lui con la sua famiglia, e venderle senza rischio «legalmente», contro il denaro che poteva servirgli a comprare oggetti e manufatti di sua occorrenza, ma dopo aver versato allo Stato una certa quantità di cereali, determinata distretto per distretto ed anno per anno con criteri ordinati ed uniformi.

Questa era un’imposta in natura, perché il contadino non pagava denaro per tasse allo Stato, ma una certa misura di derrate, che dava a fondo perduto e senza ricevere moneta cartacea più o meno buona. Aveva però il vantaggio di fare del resto quello che voleva. Questa spinta a produrre di più fece subito effetto, e di fatto salvò l’economia rivoluzionaria, sebbene fosse una spinta del tutto piccolo-borghese, e creasse l’ambiente del commercio delle derrate, che indiscutibilmente è quell’ossigeno che la forma capitalista respira.

Dopo sistemate le questioni di dottrina, è superfluo insistere sulla confutazione della censura che si era tornati indietro da una conquista comunistica. Si era quindi presa la sola via logica che si sarebbe dovuto lungamente percorrere per arrivare al socialismo, in decenni e decenni. Non si era lasciata una via più diretta, ma solo assodato marxisticamente che essa non esisteva.

Il socialismo ha due condizioni: il grado di sviluppo delle forze produttive, e il grado di sviluppo della rivoluzione nei paesi borghesi avanzati.

Le forze produttive non si alzano da un livello patriarcale o medioevale senza un meccanismo economico che porti all’industria i prodotti agricoli, e viceversa. Questo trasporto (permettiamoci di sostituire questa parola all’altra di scambio) nella situazione della Russia 1921, ed anche in una dieci volte migliore, non si può fare che nelle forme del commercio capitalista, ed anche in forme deteriori, in quanto non avviene tra grandi unità produttive ma in parte con le infelici aziende piccolo-contadine. Una forma superiore di questo «doppio trasporto» non si avrà che dopo eliminata anche nelle campagne la piccola produzione. Ove è piccola produzione ivi è scambio mercantile, ivi è capitalismo, ivi non è socialismo. Ma siccome si muore senza quel doppio trasporto, ecco che, cessando di vietarlo, si deve lasciarlo giocare nelle forme borghesi. Volgarmente: o mangiar questa minestra o saltar dalla finestra.

90 – Conclusioni di Lenin sulla NEP

Un preteso passo indietro, se questa fosse giusta definizione, nella economia russa, sarebbe largamente compensato, e lo fu, o lo sarebbe stato se l’opportunismo non avesse guadagnato, sotto Stalin e figli spergiuri, una spietata riscossa, dalla conquistata chiarezza teorica. Che per il proletariato mondiale non è perduta per sempre, purché piccoli fili la tengano collegata nel tempo.

«L’imposta in natura è il passaggio dal comunismo di guerra al regolare scambio socialista dei prodotti».
Ma ora leggeremo che lo scambio è capitalismo. Rettifichiamo allora la dizione: al trasporto dei prodotti tra città e campagna, regolato dal potere socialista.

«Lo scambio è la libertà di commercio, è il capitalismo. Questo ci è utile nella misura in cui ci aiuta a combattere lo sparpagliamento dei piccoli produttori e, fino ad un certo grado, il burocratismo […] Non vi è nulla di terribile per il potere proletario, finché il proletariato tiene saldamente nelle sue mani il potere, la grande industria e i trasporti».
Inappuntabile.

«La lotta contro la speculazione deve essere trasformata in lotta contro l’appropriazione indebita [sceglieremmo un termine meno da codice penale borghese; sperpero e sottrazione di forze produttive] e contro l’elusione dal controllo, dall’ispezione, dal computo statale [censimento]. Questo controllo ci permette di incanalare il capitalismo, inevitabile in una certa misura e a noi necessario, nell’alveo del capitalismo di Stato.»[222]

Lenin non lo aggiunge in una tesi apposita, ma emerge da tutto il testo: Non è tradimento seguire adagio e perfino al rovescio la serie degli anelli della catena, degli scalini della scala economica. Infamia e tradimento è mentire alla assoluta chiarezza marxista nell’identificare le categorie.

Trentacinque anni dopo il suo avvertimento, se si dovesse misurare col puro metro economico, alcuni scalini sono stati saliti, sono aumentate quantitativamente le forze produttive ed i mezzi di trasporto ma tuttavia non è avvenuto lo sganciamento deciso dalla insidiosa categoria del punto 2: la piccola produzione, e in genere la piccola economia.

La prova del tradimento (che col metro politico significa passaggio al nemico, il capitalismo internazionale) si evince insuperabile dalla menzogna gigante di avere qualificata come totale socialismo la presente economia russa. Un potere comunista rivoluzionario non avrebbe già salito la scala più presto: avrebbe evitato di bestemmiare il numero del gradino raggiunto. Sembra un minimo indizio: è una prova formale, e capitale.

Non bisogna, ma verrà la confessione, regina delle prove.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXV)

91 – Marxismo e sconfitta

Il grande sviluppo che abbiamo dato allo scritto di Lenin del 1921 sull’«Imposta in natura», e alla spiegazione della NEP – come riteniamo avere abbondantemente provato –, sta, più che in quello svolto storico della rivoluzione russa, nelle alte questioni di principio che in quell’occasione vengono sistemate in maniera grandiosa e con tale vigore marxistico, che forse solo oggi gli eventi storici ne hanno potuto fare intendere la potenza, ed appunto in quanto il comunismo rivoluzionario ha riportato paurosi rovesci.

La guerra di classe differisce dalla guerra degli Stati in quanto in essa talvolta la sconfitta è un passo avanti. Ciò dipende dal peso che, nell’evoluzione delle forme sociali e dell’organizzazione dei gruppi umani e degli stati storici, ha quella dotazione di capacità e di risorse della specie che comunemente si chiama tradizione, cultura, civiltà. E un tale fattore, da intendersi senza nessun errore misticistico e retorico, gioca nelle stesse guerre statali e tra popoli di diversa razza ed origine remota. Questa corrente tesi dei marxisti sentiamola esporre dalla voce dello stesso Lenin, che per altri pochi anni ci servirà come altoparlante di tutti i nostri di ieri, oggi e domani. Lenin usa l’argomento – non parla un filosofo ma un condottiero di Stato e qui sta la misura dell’immenso coraggio e devozione al bene supremo del partito: la teoria – per respingere le incertezze dei rivoluzionari del mondo, più ancora che gli attacchi degli aperti nemici, sempre a proposito della «ritirata» che si sarebbe operata nel passare, come abbiamo largamente visto, dal «comunismo di guerra» alla NEP.

«Qui è accaduto qualcosa di simile a quello che ci raccontavano nelle lezioni di storia quando eravamo bambini. Ci insegnavano talvolta: un popolo ne conquista un altro e il popolo che ha conquistato è il dominatore, quello che è stato conquistato è il vinto. Ciò è molto semplice e tutti lo comprendono. Ma che accadde della cultura di questi popoli? Se il popolo conquistatore ha un livello culturale superiore a quello del popolo vinto, impone a quest’ultimo la propria cultura; se è il contrario, avviene che il popolo vinto imponga la propria cultura al vincitore»[223].

Siamo lì sempre: si tratta di masticare o meno la dialettica. E molte volte, come Lenin in questa polemica di continuo avverte, ne mancano paurosamente proprio gli accesi «rivoluzionari». Per i marxisti la cultura di un popolo non è un bagaglio originale, che porta seco avendone avuta consegna favolosa dal suo Iddio nazionale sulla cima di un monte, ma il grado di sviluppo delle sue risorse di vita, che consistono nel soddisfare meglio e con meno sforzo i bisogni fisici; e batte i gradi meno evoluti in forza di un fatto di «rendimento», di concorrenza effettivamente economica, per volgare che paia il nostro metro agli idealisti. E siamo noi poi i soli che lottiamo per sorpassare nel campo sociale il fattore della concorrenza: dialettica!

La polemica aperta con lo scritto leniniano dell’aprile-maggio 1921 si continua in vitali stadi ed occasioni[224]. Al III congresso dell’I.C. nel giugno, all’XI congresso comunista russo del marzo 1922, al IV congresso dell’I.C. del novembre 1922. Gli echi di essa e dei suoi fondamentali problemi sono infine negli ultimi scritti di Lenin, separati dalle dure malattie che lo condussero a morte. Il contenuto di quella posizione, definitivo in linea di dottrina, è oggi dopo oltre un trentennio definitivo in linea storica. La tesi centrale è dura ma incontrovertibile. La rivoluzione russa nei suoi aspetti sociali si svolge nelle linee di una rivoluzione democratica borghese; il passaggio da questa alla rivoluzione proletaria coi suoi caratteri economici specifici non può avvenire che a seguito della rivoluzione europea. Lenin prima di morire enunciava la condizione teorica e storica; chi vive oggi enuncia il fatto. Quel passaggio non è avvenuto. Ma negli aspetti politici è avvenuta la controrivoluzione; sconfitta ben più grave che quella del ripiegamento su forme economico-sociali pre-socialiste, allora difeso da Lenin.

Ma sconfitta sempre tale che l’esperienza e la teoria dello sviluppo russo nelle sue contraddizioni dotano le lotte future del proletariato di tutto il mondo di armi potenti, e sono ossigeno vitale per la vittoria integrale del comunismo.

Il solo fatto che i filistei oggi si pascono dell’etichetta di marxismo e leninismo, ci induce a raccogliere da quelle manifestazioni della vita di Lenin alcuni altri passi cruciali.

92 – Aspirazioni al capitalismo

La classica scala a cinque gradini delle forme russe: patriarcalismo; piccola economia contadina mercantile; capitalismo privato; capitalismo di Stato; socialismo; non è una scala storica, perché forme fondamentali quali il feudalismo, lo schiavismo e il comunismo primitivo non vi figurano, ma una scala di forme conviventi all’epoca della conquista del potere da parte dei bolscevichi. La preponderanza è data quindi alla forma seconda: piccola economia contadina. Il passaggio dalla 4° alla 5° non è in discussione, in rapporto allo sviluppo delle forze produttive e al dato della «cultura delle masse», ossia della dotazione di capacità produttiva, di attitudine a condurre la produzione raggiunta dalla popolazione, e posseduta da singole classi sociali. Chiariamo ancora con frase nostra, in attesa di dare quelle di Lenin: la cultura diffusa è, nel marxismo, una delle forze di produzione che, come le macchine e gli stock e la terra, deve essere portata via alla classe dominante; ed è la meno facile e rapida a strappare ad essa, perché anche con lo sterminio non ci si arriva, né la si affretta.

Quindi conclusione dura di Lenin: il compito oggi del potere socialista e dello Stato operaio comunista è il passaggio dalla forma due, dell’economia minuta, al capitalismo, in due forme: di Stato, e anche privato. Chiudete gli occhi e mandatela giù. Vedrete che così va tutto a posto, nel solo interesse della rivoluzione e dell’abbattimento del capitalismo.

Infatti Lenin non spezza solo tutta un’armeria di lance poderose per togliere ai rivoluzionari russi e forestieri le ubbie contro il capitalismo di Stato, ma anche quelle contro il capitalismo privato, che superi e surroghi la minutaglia economica soffocante.

Ci sarà dato notare che la sinistra comunista italiana, ed in quegli anni tutto il giovane partito comunista d’Italia, dette prova che allora – ed oggi – non giurava nelle parole di Lenin per il similare errore di adorazione di un uomo ma contestò tutte le sue tesi centrali quando si trattò di governare non l’evoluzione economica russa ma la preparazione politica rivoluzionaria del proletariato mondiale, sconfessando tutta la manovra di accostamento ai partiti operai opportunisti, e sostenendo che non sarebbe valsa a disperderli. La dialettica non è a sua volta semplicismo coltivatore di formali paradossi: indietreggiare nelle misure statali in campo economico dopo la conquista del potere significò allora evitare il disastro e salvare la rivoluzione: indietreggiare prima della conquista del potere ma con alto grado delle forze produttive e di quella speciale che è l’esperienza raggiunta dalla classe proletaria, per agganciare masse controllate dalla politica opportunista, condusse al disastro della rivoluzione europea.

Ma tutta la dimostrazione di Lenin sul corso economico-sociale in Russia, che sollevò dubbi non solo tra i compagni russi, ma – guarda un poco – proprio tra gli elementi deteriori accolti con troppa larghezza nelle nostre file, fu subito non solo accettata dalla sinistra italiana, ma, in quanto anche questa derivata da antiche tradizioni marxiste, trovata evidente e per nulla nuova[225]. In tutta la stampa del tempo del partito italiano non si leggerà una riga di critica a questo concetto del lento gradualismo dello sviluppo dei rapporti di produzione in Russia, e dell’attesa che questi sostassero su forme capitaliste, e perfino facessero «passi indietro» per suscitarle.

Vogliamo chiarire che la difesa di Lenin non si limita alle forme di capitalismo di Stato, ma si estende a quello privato, con il finale ricorso ai suoi scritti incancellabili, e che nessuna manovra futura potrà trarre nell’ombra, come avviene oggi, davanti a masse dalla rinculata cultura, per quelle di Stalin.

93 – La «utile» borghesia

La stampa italiana ha in questi giorni riportato una notizia dalla Cina, al solito data come quella dell’aprirsi di un «nuovo corso» e del rimangiamento di precedenti posizioni ed attitudini, mentre in genere la contraddizione sta solo nella terrificante confusione di idee dei diffusori della «cultura» odierna ufficiale.

Si sarebbe stabilito di non distruggere più la borghesia, e di non espropriarla neppure, al più limitandosi a fondare aziende e società in cui si affianchino capitale di Stato e capitale privato. Forma che, come tutti sanno, abbiamo ovunque e specie in Italia, ma che tra noi è veramente ignobile e reazionaria, non solo per il «colore» dello Stato, che in Cina è discutibilmente rosso, ma in Italia palesemente nero-tricolore. Tra noi essa si inserisce in un diverso sviluppo storico-economico e tra gli scalini di una ben diversa «scala delle forme sociali» in cui, tecnicamente, capitalismo statale e privato fanno a gara nel far schifo. E non solo per ignoranza tecnica, ma anche per capacità ladresca.

Se fossi un marxista con tanto di codino (la sua abolizione è una scimmiottatura borghese) manderei per buonissima per la Cina, geografica e storica, la formula dell’utile borghesia non solo come persone (potrebbero divenire funzionari dello Stato senza infessire di colpo come in Italia) ma proprio come forma sociale di produzione praticamente attuabile, e migliore quantitativamente e qualitativamente di altre forme di quella società.

Un marxista a cui questo ragionare non fosse subito limpido starebbe gravemente a mal partito, non diciamo nel maneggiare partiti e Stati socialisti, ma nella stessa propaganda spicciola, nella polemica corrente che conduciamo da tre generazioni almeno. L’avversario della strada ci dice: La produzione e la viti si fermerebbero se non ci fossero i padroni industriali, i borghesi: i loro operai non aggiungerebbero al loro desco quanto i borghesi consumano, ma gli uni e gli altri morirebbero di fame. Se questo ragionare è scemo, non lo è meno quello che innumeri volte gli si contrappone, facendo un faticoso e tortuoso confronto tra una società coi padroni e una senza i padroni, in linea di pura utopia e guardando questi due modelli fuori dello spazio e del tempo. È inoltre un confronto assai scabroso e che non convincerà nessuno, per la difficoltà di capire questi ideologismi economici.

Per chi sia non volontarista ma determinista non vi sono forme economiche possibili, da discriminare da quelle impossibili. Ve ne sono di quelle constatabili nella realtà, e di quelle sicuramente prevedibili.

La risposta che dobbiamo dare deve essere come sempre storica, e riferita al corso storico. È indubitabile, va detto, che la classe borghese, dei capi e padroni d’industria, può avere una funzione storica (una ne ha sempre) che converge nell’aumento della produzione globale e, sia pure irregolarmente, di quella parte di essa su cui la classe padronale non mette le mani per il proprio diretto consumo. Ad un certo stadio i borghesi dettero alle forze produttive un’organizzazione cento volte migliore della tradizionale, e ce ne rallegriamo non solo perché si produsse meglio e di più, ma perché si travalicò una necessaria tappa verso altri «miglioramenti».

Scontati i vantaggi di questo trapasso, la società si sviluppa fino al punto che l’utilità sociale di una classe diminuisce, cessa, e si trasforma in un ostacolo da abbattere.

A quel solito argomento che il ricco fa mangiare il povero non si risponde coi banali progetti: Gli operai eleggono un capo fabbrica; riuniscono dei soldi e danno lo stipendio ad un ingegnere, o mandano uno dei loro giovani all’università; ed altre fregnacce, banali quanto quella dell’obiettore. La mentalità parlamentaristica borghese fa sì che alla fregnaccia non segua mai la verità, ma un’altra fregnaccia peggiore. E quasi tutti i nostri neofiti ci sono arrivati dalla via della parlamentare prurigine.

Si può rispondere così: Avete visto sparire la forma schiavistica? Ebbene, al tempo di essa tutti credevano che il padrone fosse indispensabile per tenere in vita gli schiavi. E vi è stata un’epoca in cui tale credenza era giusta: il padrone non era solo il mangiatore della miglior porzione, ma il solo possessore di segreti (cultura di classe) senza i quali la terra sarebbe rimasta sterile, ecc. Eppure oggi la terra produce e gli uomini mangiano senza schiavismo.

94 – Russia e Cina

In teoria ammettiamo – è salutare il metodo di far paura con le affermazioni ai compagni di fede avviatisi in direzione sgarrata, e lo copiamo, come buoni allievi, dai Marx, Engels, Lenin – che un partito comunista cinese, prima e dopo la conquista del potere, possa affermare che l’economia del paese è tale che può funzionare solo se tecnicamente e amministrativamente diretta da elementi della classe borghese, poco numerosa, giovane e intelligentissima; e di più che lo scalino da salire allo stato di quella struttura sociale sia dalla piccola economia industriale minuta ad una economia di grandi manifatture e fabbriche di proprietà di un singolo padrone; può essere uno scalino lontano anche la società anonima, tra l’altro (non qui studiamo la Cina economica) facilmente captabile dal capitalismo imperialista bianco – e di salire dalla minuta agricoltura ad una di grandi tenute gestite da imprenditori capitalisti, magari fittuari dello Stato postfeudale. Queste sono tesi marxiste ammissibili. E quindi se la borghesia cinese, che si è fatta attendere un millennio se non più, fosse sterminata in pochi decenni, o affamata o fugata, il comunismo perderebbe altra collana di secoli, e il risultato sarebbe una paralisi economica come quella da Lenin per la Russia temuta.

Inoltre questa borghesia cinese, erede di un’alta cultura anche scientifica delle precedenti classi dominanti, si è messa rapidamente al pari di quella occidentale in linea di conoscenze tecniche. Inoltre lo ha fatto, salvo una minoranza, senza aggiogarsi, sia pure per senso nazionale, al capitalismo degli imperi esteri. Ed inoltre, dal 1912 ha con molto valore lottato in armi contro il feudalismo e il dispotismo centrale e provinciale, ponendosi alla testa delle masse in rivolta, anzi scuotendone la terribile inerzia.

Non solo economicamente ma politicamente ha un compito storico che nessun’altra classe presente può addossarsi, e questo ciclo deve trascorrere, anche se non si può prevedere che in avvenire una tale classe non tenti di costruire lo Stato sulla propria dittatura. Quando vi arriverà, avrà, come il «Manifesto» disse per la vecchia Europa, passata la sua cultura al proletariato, che oggi può più rapidamente venire messo in moto dal suo schieramento internazionale e dal legame col proletariato delle metropoli bianche, se questo si salva dal viscido fango delle sue, e delle orientali, vie nazionali al socialismo.

Lenin non si propose di servirsi della borghesia russa. Se lo avesse – per assurdo – proposto, neanche noi l’avremmo mandata giù. La borghesia russa, come lo ha tante volte detto Lenin, e ripetuto (come foglia di fico delle loro inenarrabili vergogne) Stalin e tutta la figliolanza secondo e contro natura, fu o distrutta fisicamente o fisicamente rovesciata fuori delle frontiere. Ma non fu l’assenza della borghesia indigena che causò il dissesto dell’economia e il rinculo del grado della produzione industriale ed agraria, già sotto lo zarismo raggiunto.

Le differenze sono fondamentali, economiche, sociali e politiche, rispetto alla Cina, e in relazione alla distanza geografica e storica dal capitalismo sviluppato con differenze di secoli e di più migliaia di chilometri.

La borghesia russa non lottò per abbattere lo zarismo, e tanto meno pilotò in tale lotta le classi piccolo-borghesi. Essa nella controrivoluzione anti-bolscevica continuò la sua funzione di alleata del dispotismo e del feudalismo terriero, con i quali dal suo nascere condivise la funzione di guardia anti-rivoluzionaria dell’Europa. Caduto lo zarismo, e dopo avere invano tentato di trasformarlo in una monarchia parlamentare, la borghesia si strinse a filo doppio con i capitalismi esteri che avevano interesse a soffocare in Russia il germe della rivoluzione mondiale. Nella stessa sua scarsa resistenza al bolscevismo, malgrado la sfacciata alleanza con gli opportunisti dei partiti operai e contadini di destra, essa rivelò la sua totale incapacità a reggere il paese e a dirigerne l’economia sociale.

Ed in conclusione il dissesto della macchina produttiva russa nei primi duri anni dopo la rivoluzione di Ottobre aveva le sue radici non in un sonno millenario ed in uno scontro deciso tra i vecchi regimi e le forze del nuovo capitalismo, ma nelle rovine prodotte prima dalla guerra imperialista, in cui proprio la borghesia russa aveva trascinato monarchia e nobiltà, tradizionalmente legate al gruppo germanico, e poi dalla guerra civile, in cui la borghesia russa interna ed emigrata fece da agente provocatore delle forze straniere, e tradì quindi anche l’altro suo compito storico, quello nazionale.

La borghesia come fisica classe dovette essere annientata, a costo di uccidere l’economia russa fino alla rivoluzione europea. Ma ciò non significava avere escluso un ciclo evolutivo in forme economiche borghesi. La rivoluzione che aveva dovuto dare maggiore diffusione addirittura alle forme piccolo-borghesi, dovette chiedere una cultura di tipo capitalistico alle stesse borghesie estere, contro di essa in armi fino a poco prima. Lenin lo sostenne a proposito delle concessioni, degli affitti di aziende, della chiamata di specialisti, della ripresa del commercio estero. Abbiamo anche letto che nel momento tragico chiese non solo di favorire il contadino medio, ma di non aggredire il ricco, il kulak.

La forza enorme della rivoluzione bolscevica, vivo Lenin, fu che tutte tali forme furono chiamate col loro nome: capitalismo borghese. Sotto questa bandiera passa sia la piccola produzione rurale che il grande industrialismo di Stato, malgrado la severa distinzione fatta ad ogni passo tra il capitalismo statale in potere borghese, e quello sotto il potere proletario.

95 – Classe ed economia di classe

La presenza statistica di una classe è una cosa. La presenza di forme sociali di classe è un’altra. Ed è ancora un’altra la presenza di forze di classe in lotta tra loro. Per respingere ancora una volta la ribattuta idiota: Dite che la Russia è capitalista. Ma dove si trova la classe capitalista? – riportiamo la sintetica formulazione di Lenin al Terzo Congresso mondiale. Paragrafo: «Il rapporto delle forze di classe in Russia».

«La situazione politica interna della Russia sovietica è determinata dal fatto che qui vediamo per la prima volta nella storia mondiale esistere da diversi anni due sole classi: il proletariato, educato da decenni da una grande industria meccanica molto giovane, è vero, ma moderna; e i piccoli contadini che costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione»[226].

L’indicazione di queste due classi la troveremo anche nella Costituzione staliniana del 1936, ossia l’esclusione statistica delle classi dei proprietari fondiari e dei borghesi industriali e commercianti. Ma allora vedremo aggiunta una terza classe ben strana per Marx e Lenin: gli «intellettuali». E nel campo antistalinista di allora vedremo farne comparire un’altra non meno chimerica, la famosa «burocrazia».

Noi ce ne stiamo a Marx e rifiutiamo che nella categoria classe abbiano ingresso gli intellettuali e i burocrati, peste (anzi, disse Marx brutalmente, merda) di tutte le società di classe. Ce ne stiamo anche alla seguente formulazione di Lenin, che mostra agli idioti come le forze di classe si cercano nel mondo intero, ed agiscono oltre ogni frontiera giusta il nostro spesso ripetuto argomento. Poiché infatti nella Russia di oggi oltre alle «forme economiche» capitaliste noi affermiamo che anche il governo politico sia ormai capitalistico, alla domanda quale sia la classe sociale di cui questo governo è uno dei «comitati di interessi», abbiamo sempre risposto: la classe capitalistica mondiale.

«I grandi proprietari fondiari e i capitalisti in Russia non sono scomparsi, ma sono stati completamente espropriati, battuti politicamente come classe i cui resti si sono nascosti [sic!] tra gli impiegati statali del potere sovietico. Essi hanno conservato la loro organizzazione di classe all’estero, nella emigrazione, che conta, probabilmente, da un milione e mezzo a due milioni di individui, e che dispone di più di cinquanta giornali quotidiani editi da tutti i partiti borghesi e ‹socialisti› (cioè piccolo-borghesi), dei resti di un esercito, e di numerose relazioni con la borghesia internazionale. Questa emigrazione lavora con tutte le sue forze e con ogni mezzo per distruggere il potere sovietico e restaurare il capitalismo in Russia».

Queste tesi per il rapporto al III Congresso mondiale sulla tattica del partito russo contengono la giustificazione della NEP nei termini che conosciamo; ne riporteremo alcune frasi molto espressive delle tesi economiche, e la finale formidabile botta alla socialdemocrazia e alla democrazia mondiale:
«La libertà al contadino di vendere le eccedenze, in cambio delle quali lo Stato non gli può dare prodotti della fabbrica socializzata, significa libertà di sviluppo del capitalismo».
«Lo Stato operaio dà in affitto determinate miniere, lotti di foreste, pozzi petroliferi, ecc., ai capitalisti stranieri, senza procedere ad alcuna denazionalizzazione, per riceverne attrezzature complementari e macchine, che permettano di accelerare la ricostruzione della grande industria sovietica. Lasciando ai concessionari una quota di preziosi prodotti, lo Stato operaio certamente paga un tributo alla borghesia mondiale…»
[227].

Lenin chiude questo suo testo con una valutazione politica dei piani degli avversari borghesi, rendendo omaggio all’intelligenza di Miljukov, che elogia i socialrivoluzionari e menscevichi, cui spetta di fare il primo passo per espellere dal potere i bolscevichi. Questa funzione reazionaria della piccola borghesia, Lenin dice, conferma l’esperienza storica di tutte le grandi rivoluzioni europee, ed egli chiude rammemorando ai compagni russi un profetico monito di Federico Engels, in una lettera a Bebel dell’11 dicembre 1884.
«Ciò – Engels scrisse, riteniamo a proposito delle leggi eccezionali contro i socialisti tedeschi – non impedirà alla democrazia pura, al momento della rivoluzione, di acquistare per un breve momento una importanza transitoria […] come ultima àncora di salvezza di tutta l’economia borghese e persino di quella feudale [sottolineato da Lenin]. Esattamente allo stesso modo, tutta la massa feudale-burocratica nel 1848, dal marzo al settembre, ha sostenuto i liberali tedeschi per tenere a freno le masse rivoluzionarie […] Comunque, nel giorno e all’indomani della crisi, il nostro unico avversario sarà tutta la massa reazionaria, raggruppatasi attorno alla democrazia pura»[228].

Così le irrevocabili conquiste della scuola internazionale marxista passano dal 1848 al 1884 e poi al 1921: e così, dal 1926 al 1956, osando giurare fedeltà alla «grande dottrina», i demopopolari di Russia, dei paesi satelliti, di Jugoslavia, d’Italia, di Francia se le sono cacciate sotto i piedi suini, mentre noi, sia pure fuori dei grandi clamori attuali, proseguiamo su quelle direttrici la strada della rivoluzione comunista.

96 – Con il capitalismo, contro il «piccolborghesismo»

Lenin tornerà alla carica incessantemente, e con formule sempre più perspicue e coraggiose. In un articolo dell’agosto '21 dirà così:
«Facciamo un maggior numero di concessioni, nei limiti beninteso in cui il proletariato può cedere rimanendo classe dominante […] Cediamo gli stabilimenti che non ci sono strettamente necessari ad appaltatori, compresi i capitalisti privati [sic!] e i concessionari stranieri. Abbiamo bisogno di un blocco o un’alleanza dello Stato proletario con il capitalismo di Stato contro l’elemento piccolo-borghese».

Qui compare una delle formule esatte, molte in Lenin, che sono state poi vigliaccamente truccate come «costruzione del socialismo». Ad esempio:
«Nel mezzo della tremenda rovina del paese e dell’esaurimento delle forze del proletariato spossate da una serie di sforzi quasi sovrumani, noi affrontiamo l’opera più difficile: gettare le fondamenta di un’economia veramente socialista, organizzare lo scambio regolare delle merci (più esattamente: dei prodotti) fra l’industria e l’agricoltura. Il nemico è ancora molto più forte di noi; lo scambio delle merci fatto in modo anarchico, individuale, dagli speculatori scalza il nostro lavoro ad ogni passo»[229].

Questo passo, di scorcio, mostra dove sia la vera ortodossia, il vero radicalismo, la vera intransigenza sulla teoria, ben diversa da quella demagogica e roboante di certi sinistrissimi. Nello stesso momento in cui Lenin ubbidisce alle determinazioni della storia che ci obbligano ad affiancare, ferma l’arma nel pugno, il capitalismo criminale, egli avverte che è solo nella sua prassi ed ideologia che ogni prodotto diviene merce, e non vuole chiamare merci i prodotti del lavoro umano di cui lo Stato proletario deve realizzare il doppio trasferimento tra l’industria e l’agricoltura. Indica poi come merci quelle aggranfiate dal capitalista speculatore, che fa ricadere dal trasferimento sociale in quello individuale, anarchico. Stalin nel 1952 vanterà di essere da allora andato verso il traguardo del pieno socialismo con gli stivali delle sette leghe, ma prostituirà la dottrina a sostenere che l’industria socialista fabbrica merci, e le fa circolare in tutto ossequio alla «legge del valore»!

La giusta formula che vanno costruite le fondamenta del socialismo – e in altre parole l’economia grande-aziendale, il capitalismo – mentre il socialismo viene da sé, e non lo costruisce nessuno, né pensatore, né amministratore, la ritroviamo nel discorso del IV anniversario di Ottobre 1917.

«L’ultima nostra opera, la più importante, la più difficile, la più incompiuta è l’organizzazione economica, la costruzione di una base economica per il nuovo edificio socialista, in luogo dell’edificio feudale distrutto e di quello capitalista semidistrutto».

E più oltre altra definizione di sconcertante audacia.
«Lo Stato proletario deve diventare un «padrone» cauto, scrupoloso, esperto, un commerciante all’ingrosso puntuale perché altrimenti non potrà mettere economicamente sulla buona via un paese di piccoli contadini. Oggi, nelle condizioni attuali, accanto all’Occidente capitalista (ancora capitalista per il momento), non c’è altro mezzo per passare al comunismo».
La formula non saprebbe essere più stringente: la ripetuta e vigorosa riserva è che potrebbe cambiare UNA condizione: quella che l’Occidente è capitalista. Ma oggi, dopo 35 anni, quello, che Satana voglia folgorarlo presto, lo è ancora!

Lenin ripensa alla formula del mercante.
«Un commerciante all’ingrosso sembrerebbe un tipo economico lontano dal comunismo come il cielo dalla terra. Ma questa è appunto precisamente una delle contraddizioni che nella vita reale portano, attraverso il capitalismo di Stato, dalla piccola azienda contadina al socialismo».

Sarebbe oggi la Russia arrivata al termine di questa via, quando lo scrollone al punto di partenza non è nemmeno stato dato, essendo la rete colcosiana della terra null’altro che un formicaio di piccole aziende contadine mercantili?!

97 – Pace vale guerra

Ci sia consentito trarre da questo discorso di Lenin alcuni ceffoni sull’altra guancia, quella politica, dei commercialisti-pacifisti, figli-aborti di Stalin. Le parole si potrebbero scrivere oggi, novembre 1956, tali e quali.
«Il problema delle guerre imperialistiche, di quella politica internazionale del capitale finanziario che oggi predomina in tutto il mondo, che genera inevitabilmente nuove guerre imperialistiche, e che inevitabilmente inasprisce in modo inaudito l’oppressione nazionale, il saccheggio, il brigantaggio, il soffocamento delle nazioni piccole, deboli e arretrate, da parte di un pugno di potenze ‹più avanzate› […] è una questione di vita e di morte per decine di milioni di uomini. La questione sta in questi termini: nella futura guerra imperialistica saranno massacrati 20 milioni di uomini (invece dei 10 milioni uccisi nella guerra 1914–18) […] saranno mutilati 60 milioni di uomini (invece dei 30 milioni mutilati nel 1914–18) […]. I servitori della borghesia impersonati da tutta la democrazia piccolo-borghese […] schernivano la parola d’ordine della ‹trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile›. Ma questa è l’unica verità […] fra le miriadi dei più raffinati inganni sciovinisti e pacifisti. [Qui si tratta della guerra e della pace! Oggi dicono che sia scoppiata la guerra tra i fasulli «partigiani della pace»! Quale pace? diciamo noi marxisti]. Non ci si può liberare dalla guerra imperialistica, e dalla pace imperialistica che inevitabilmente la genera, non ci si può strappare da questo inferno, che con la lotta bolscevica e la rivoluzione bolscevica».

Ma oggi i superluridi che affermano di essere seguaci di Lenin virgola a virgola guazzano nel pantano dei pacifisti (ossia passano nel nobile rango che qui Lenin staffila: «la borghesia e i pacifisti, i generali e i piccoli borghesi, i capitalisti e i filistei, tutti i cristiani credenti e tutti i paladini della II Internazionale e della Internazionale II e ½») e affermano che quella lotta e quella rivoluzione usarono il «disfattismo» come peculiare, incidentale via nazionale russa al socialismo.

Ecco una pietra di paragone ancora per il loro «leninismo».

Sappiano questi signori che
«i primi cento milioni di uomini sono stati strappati alla guerra imperialistica, alla pace imperialistica, dalla prima rivoluzione bolscevica. LE RIVOLUZIONI SUCCESSIVE STRAPPERANNO A SIMILI GUERRE E A SIMILI PACI L’UMANITÀ INTERA»[230].

Quando, o carognoni che avete messo in galera Stalin morto, metterete Lenin al manicomio?

98 – Completa opera borghese

In un articolo del novembre 1921, «Sull’importanza dell’oro» (ne citammo altra volta il gustoso passo che nella società comunista si farà finalmente un’edificazione, costruendo con questo inutile metallo le pubbliche vespasiane) Lenin sconcerta non meno il lettore con la proposizione:
«Da dove si deduce che la rivoluzione «grande, vittoriosa, mondiale» può e deve applicare soltanto dei metodi rivoluzionari? Questo non si deduce da nessuna parte, è completamente ed assolutamente falso».

E spiega quello che la rivoluzione russa ha fatto.
«L’unica cosa che la nostra rivoluzione ha portato completamente a termine è la sua opera democratica borghese. E noi abbiamo il diritto più che legittimo d’esserne fieri»[231].
Dicono a Napoli: «papale papale!».

Ma noi, con Lenin, la chiamiamo rivoluzione socialista. Il perché non è meno «papale». Lo abbiamo detto cento volte, e anche al principio di questo studio, nella prima parte sulla lotta per il potere nelle due rivoluzioni russe.

«La parte proletaria e socialista della sua opera si riduce a tre aspetti principali».
Il Primo è l’uscita rivoluzionaria dalla guerra imperialistica. Il Secondo è la prima realizzazione storica, nei Soviet, della dittatura del proletariato, per cui «l’epoca del parlamentarismo democratico-borghese è finita». Il Terzo è l’«edificazione delle basi economiche [ancora e sempre le basi] del regime socialista». Qui seguono parole da meditare (meditare anche sul come tradotte):

«In questo campo, il più importante, l’essenziale, è ancora incompiuto. Ora questa è la nostra opera più sicura [come sicura, se è incompiuta in Russia, e altrove la condizione politica integratrice, il potere statale, manca del tutto? Il senso è quello dell’aggettivo: necessaria, fondamentale, basilare]; più sicura [sic! ripetuto] e dal punto di vista teorico e dal punto di vista pratico, dal punto di vista della Repubblica sovietica russa e dal punto di vista internazionale».

«Poiché il più importante non è stato ancora portato a termine nell’essenziale [ora, forma a parte, il senso corre] bisogna concentrare su di esso tutta l’attenzione».

E qui è inutile ripetere che si dimostra che l’anello da afferrare è la rianimazione del commercio interno. Se non ci aggrappiamo a questo non perverremo a creare «le fondamenta» dei rapporti socialisti economici e sociali.

E una volta ancora:
«Questo può sembrare singolare. Comunismo e commercio? Sembrano due cose assolutamente incompatibili, assurde, lontane! Ma se ci si riflette, dal punto di vista economico non sono più lontane l’una dall’altra di quanto lo sia il comunismo dalla piccola economia contadina, dall’agricoltura patriarcale [leggete: ben presenti nel nostro paese, ove il commercio è uno stadio ancora praticamente nuovo]»[232].

Non possiamo che indicare ai compagni quanto ivi segue sul rapporto marxista tra riforme e rivoluzione[233]. Altro è criticare il riformismo dello Stato borghese, altro incapricciarsi sentimentalmente a non vedere che le grandi forme economiche si sostituiscono non per scatti, ma traversando lunghe fasi di transizione, che è vano negare e deprecare, come in questo caso il vile commercio, già disprezzato dallo spirito «patriarcale, vecchio-russo, semi-aristocratico, semi-contadino».

Il compito socialista consisteva allora nell’introdurre il commercio borghese. Chiamandolo ad alta voce, per nome e cognome.

99 – Capitalismi di Stato

Lenin non era ancora toccato dalla sua prima mallatìa quando svolse la poderosa relazione politica all’XI congresso del partito russo, il 27 marzo 1922. Essa è un quadro veramente completo di tutto quanto abbiamo anche qui precedentemente riferito. Un tema preminente è ancora quello di scongiurare l’ostilità ad ammettere che non si prepara un’economia socialista, ma si facilita la strada al capitalismo di Stato. Lenin ammette che questo è «capitalismo» in senso proprio. Ma ritiene che la valutazione marxista della statizzazione del capitale sotto il potere borghese, che è senz'altro totalitariamente negativa, non resti immutata quando la statizzazione della produzione è fatta, sempre in forme «tecnicamente» (qui ci riferiamo non alla tecnologia industriale, ma al tipo di gestione amministrativa) identiche a quella delle aziende private, da uno Stato politicamente proletario. Lenin dice che non si trova in Marx questa trattazione: non ci sembra giusto. Quando fin dal 1848 si stabilisce che le prime misure dello Stato operaio dopo l’abbattimento politico della borghesia saranno, nei vari paesi, limitate, ed alcune di tipo prettamente borghese (banca di Stato, trasporti di Stato, rendita fondiaria allo Stato, forte imposta progressiva, abolizione del diritto di successione, aumento delle «fabbriche nazionali»), non si fonda forse la descrizione di un capitalismo di Stato amministrato dal proletariato, come base del pieno socialismo? Su ciò i marxisti hanno a lungo discusso, e prese non poche cantonate; non rilevando quello che decine di volte hanno Marx ed Engels avvertito, che quell’elenco di interventi nei rapporti di produzione si riferiva a paesi arretrati, e nel seguito non pochi punti avevano formato il contenuto di misure di Stati borghesi. Comunque Lenin lo dice in senso critico della molta confusione fatta da altri compagni e dallo stesso Bucharin, nella materia.

Lenin mostra tutti i lati originali del capitalismo di Stato da sviluppare in Russia. È una situazione mai vista nella storia, egli dice.
«Il nocciolo della questione sta nel comprendere che questo è il capitalismo che possiamo e dobbiamo permettere, che possiamo e dobbiamo mantenere entro certi limiti, perché questo capitalismo è [attenti] necessario alle masse contadine, e [più attenti] al capitale privato, che deve commerciare [udite!] in modo tale da soddisfare i bisogni dei contadini».

Trotsky nel memorabile discorso al IV congresso spiegò che si trattava di economia proletaria con la contabilità capitalistica, la registrazione dei rapporti tra le parti in gioco (operaio, azienda, Stato) col metodo capitalista. Noi osserviamo che la questione era non di sola «ragioneria» ma di sostanza del rapporto (salari in moneta, bilancio di entrate e spese, vendite e compere, tenuto in valuta e saldato con un beneficio attivo). Lenin esprime questo punto così:
«È necessario fare in modo che sia possibile [udite!] il decorso abituale dell’economia capitalistica e della circolazione capitalistica, perché ciò è indispensabile al popolo e senza di ciò è impossibile vivere»[234].

Lenin assicura i contraddittori col rigore delle misure di concessione: vi erano al momento solo 17 società «con capitalisti russi o stranieri».

A tale punto, in un passo interessantissimo, Lenin non discute più con i comunisti scontenti, come Bucharin, ma con i diretti aperti avversari, con un gruppo di cosiddetti «smenoveknovzi», che propongono di sostenere i bolscevichi, il cui compito storico è di costruire lo Stato russo nazionale borghese. Sbagliereste di grosso a credere che Lenin si inferocisca con costoro come con i compagni che hanno sgarrato. Dice che è utile studiarli e li gratifica quasi di complimenti. Mentre tutti dissuadono i capitalisti (ma ha il capitale avuto tante paure? sarebbe indegno dell’apologia che ne fece Marx?) dal lasciarsi circonvenire dalla tattica dei bolscevichi che li invitano ad importare in Russia loro capitali, ma dopo li confischeranno; questi tali dicono che non è una manovra ma una reale evoluzione storica che condurrà all’ordinario Stato borghese. Lenin dice che si tratta dell’aperta verità di classe, detta da un nemico di classe.

100 – Salutem ex inimicis

Conveniamo che in trenta-quarant’anni, se sono rincoglioniti i rivoluzionari, i controrivoluzionari non lo sono di meno. Abbiamo la fortuna di averne bazzicato allora ed ora. È proprio quella che ne attornia oggi tutta una società ambiente in fetore di decomposizione. Massa di furboni, ma di vigliacchi ignoranti, dai due lati; nessuno ha mai la forza di credere al suo nemico.

Lenin sembra sentire a tale distanza di tempo il morbo che si avvicina. Udite ed ammirate.
«Penso che questo Ustrjalov [un già ministro di Kolčak, uno che Lenin avrebbe fatto fucilare senza un minuto di esitazione, e che di Lenin al caso avrebbe fatto lo stesso], con questa sua franca dichiarazione, ci renda un grande servizio. Noi siamo costretti, ed io specialmente per le mie funzioni, a udire ogni giorno molte fandonie comuniste dolciastre, e talvolta ci si sente mortalmente nauseati. Ed ecco che in luogo di queste sdolcinate menzogne arriva un numero del giornale «Smena vex», il quale ci dice francamente: ‹Da voi le cose non stanno come voi credete, ciò è frutto della vostra immaginazione; in realtà state cadendo nella comune palude borghese, da dove le vostre bandierine comuniste spunteranno fuori con ogni sorta di parole d’ordine›».
E Lenin aggiunge che sono osservazioni molto utili: Non si tratta più del semplice ritornello che eternamente udiamo attorno a noi, ma «della semplice verità di classe detta dal nostro nemico di classe». Lenin vi insiste a lungo, e ride del fatto che in Russia cose simili non si possono stampare. Preferisce gli Ustrjalov a quelli che
«si atteggiano a quasi comunisti, sicché da lontano non si distingue se credono in dio o nella rivoluzione comunista»[235].

Si direbbe che Lenin da allora avesse le scatole piene delle pericolose vanterie: abbiamo fatta la rivoluzione comunista fino alla fine, abbiamo fabbricato il comunismo «de toutes piéces»[236]. Le cose di cui parla Ustrjalov (l’edificazione di uno Stato borghese di tipo corrente) egli dice,
«sono possibili, bisogna dirlo apertamente. La storia conosce mutamenti di ogni sorta: fare affidamento sulla convinzione, sulla devozione e su altre magnifiche qualità spirituali, in politica non è una cosa seria […]. Gli eventi storici sono decisi dalle grandi masse, le quali, se pochi individui non convengono loro, li trattano talvolta senza troppe cerimonie».
Lenin allude allo sfamamento dei contadini. Qui andiamo nella filosofia del marxismo. Nella storia non è protagonista l’individuo ma la massa: questa non reagisce con formulazioni letterarie, o con voti cartacei, ma le sue reazioni parallele salgono dirette dal suo bisogno e dal suo stomaco.

Tutto ciò scandalizzerà molto ogni ipocrita che tiene alle qualità spirituali da Lenin derise, in quanto è di tali qualità tanto dotato rispetto a Lui, quanto può esserlo una carota confrontata con Leonardo da Vinci.

Ma Lenin ne assesta una ancora più potente. Egli cita più oltre l’opuscolo di un compagno di Vesiegonsk, Todorsky; il quale racconta che dopo aver messo k.o. i borghesi del governatorato di Tver, li obbligò a costruirgli uno stabilimento industriale, perché lui non lo avrebbe saputo fare. Lenin se la gode a questa conclusione:
«Non è che la metà del nostro compito: non basta vincere la borghesia, ridurla al lumicino; bisogna costringerla a lavorare per noi».

Qui Vladimiro, con una superpedata nel culo, ci libera da tutti i ruffiani passati, presenti e futuri:
«L’IDEA DI COSTRUIRE IL COMUNISMO CON LE MANI DEI COMUNISTI È PUERILE, ASSOLUTAMENTE PUERILE».

Ci togliamo giù dallo stomaco questa «costruzione» che ne intacca le potenti facoltà digestive.
«POTREMO DIRIGERE L’ECONOMIA SOLTANTO SE I COMUNISTI SAPRANNO COSTRUIRE QUESTA ECONOMIA CON LE MANI ALTRUI, E NELLO STESSO TEMPO IMPARERANNO DALLA BORGHESIA E LE FARANNO SEGUIRE IL CAMMINO DA LORO VOLUTO»[237].

A farvi massaggiare i glutei, o costruttori; e non si parli più di voi! Noi, dice Lenin in questo testo, non possiamo istituire una diretta distribuzione comunista. Dobbiamo quindi rifornire la popolazione attraverso il commercio; ma non peggio dei capitalisti.

Qui viene la potente immagine del letame. Dunque, dicono gli opportunisti alla Bauer, siete dei rivoluzionari borghesi.
«Ma noi diciamo che è nostro compito portare a termine la rivoluzione borghese. Come ha detto un giornale delle guardie bianche [certo il già citato] per 400 anni il letame si è ammucchiato nei nostri uffici statali; e noi ce lo abbiamo tolto di mezzo in quattro anni, questo letame medioevale. È questo il nostro più grande merito»[238].
Anche, Lenin vuol dire, se è un’operazione borghese, che la borghesia non ha osato tentare.

101 – Commiato da Lenin

Dopo una prima incredibile guarigione Lenin parlerà al IV congresso mondiale, come sempre con chiarezza splendente.
«Il capitalismo di Stato, pur non essendo una forma socialista, sarebbe per noi e per la Russia una forma preferibile a quella attuale […]. Quantunque avessimo già compiuta la rivoluzione sociale, comprendevamo già allora [1918] che sarebbe stato meglio [sic!] se dapprima fossimo pervenuti al capitalismo di Stato, e soltanto dopo al socialismo»[239].
Lenin ripete le caratteristiche originali del capitalismo di Stato russo; giustamente ricorda quanto sia importante che lo Stato politicamente operaio sia il padrone della terra: se la godono i contadini, lo Stato operaio ne trae, sotto forma di imposta in natura, una rendita fondiaria.

Poco ancora potrà dare Lenin di contributo al colossale edificio del marxismo teorico, nato anch’esso dalle fondamenta gettate dalla storia. Ma se ulteriormente vi avesse lavorato, avrebbe come lo abbiamo veduto fare per decenni sempre riportato l’orientamento ai capisaldi antichi.

Il suo scritto «Sulla cooperazione» fu sfruttato poi per magnificare come «socialista» la forma dei colcos. Ma il senso di questo scritto del 4–16 gennaio 1923 è solo che le cooperative, sotto uno Stato socialista, non sarebbero, come nello Stato borghese, aziende private, sibbene collettive. Ciò in quanto agiscono sulla terra e sui mezzi di produzione che appartengono allo Stato, cioè alla classe operaia[240].

Lenin dunque nella sua visione pensava a cooperative agricole senza campicelli personali e capitali-scorta personali.

Infatti egli ricollega tale via al socialismo con l’attuazione di una, ancora non attuata, «rivoluzione culturale» la quale abbia il compito di superare l’arretratezza contadina, che è in funzione dell’isolamento casalingo.

«Ora a noi basta compiere questa rivoluzione culturale per diventare un paese compiutamente socialista [cosa, si noti, ancora diversa dal raggiunto socialismo economico]; ma per noi questa rivoluzione culturale comporta delle difficoltà incredibili, sia di carattere culturale (perché siamo analfabeti), sia di carattere materiale (perché per diventare colti è necessaria una certa base materiale, un certo sviluppo dei mezzi materiali di produzione)».

Al XII congresso del partito, nell’aprile 1923, Lenin non poté, di nuovo malato, che inviare proposte scritte.

L’ultimo scritto suo «Meglio meno, ma meglio», almeno l’ultimo scritto che, fra le note lotte, giunse al pubblico, è del 2 marzo 1923. Ma non siamo qui alla caccia di «testamenti», che lasciamo alla aneddotica appena più che pettegola.

Non interessa il testamento di chi abbia dimostrato di essersi saputo e potuto inserire in una linea storica senza fratture, a cavallo di quasi quattro decenni, con una continuità che non mette nessuna fase contro un’altra, e non pone il solito quesito imbelle che si debba scegliere l’ultima posizione. Non vi è mutamento di posizioni: l’uomo appartiene al partito, essere che vive oltre le generazioni biologiche. Noi ritroviamo quella linea anche nei fatti molto ulteriori alla sua morte e confidiamo sarà trovata in fatti ancora più lontani da lui e da noi.

Lenin batte ancora sulla ispezione operaia e contadina. Ispezione è una fase che precede la piena gestione, e quando si arrivi ad una gestione operaia sociale potrà esservi ancora da ispezionare, con organi operai soltanto, la nemica futura economia contadina. Perché nella visione di Lenin non è scioccamente abolita, come nello stalinismo, la lotta futura tra le due classi!

L’ultimo colpo di orizzonte di Lenin, che abbiamo, verte sul punto della rivoluzione internazionale, centro di tutta l’opera sua di dottrina e di battaglia.

«Ci è difficile reggerci sulla fiducia dei contadini fino alla vittoria della rivoluzione socialista nei paesi più progrediti».

L’ultimo giudizio di Lenin sulla congiuntura mondiale è per una crisi del capitalismo di assai diminuita tensione, malgrado il minaccioso sollevarsi dell’Oriente, i cui paesi
«hanno definitivamente adeguato il loro sviluppo a quello del capitalismo europeo».
«Ci troviamo di fronte alla domanda: saremo noi in grado di resistere con la nostra piccola e piccolissima produzione contadina, nelle nostre condizioni disastrose, fino a che i paesi capitalistici dell’Europa occidentale non avranno compiuto la loro evoluzione verso il socialismo?»
[241].

Lenin trae dallo sviluppo internazionale una serie di interrogativi sulla prossima guerra, e la possibilità della Russia di non esservi o esserne travolta.

Torna infine alla politica «interna». Insiste sul mantenimento della direzione degli operai sui contadini e, insieme, della fiducia di questi in uno Stato operaio che sappia essere poco costoso e scongiurare ogni sperpero. Lenin risponde di no alla sua stessa domanda: sarà questo il regno della grettezza contadina? Egli, con un’ultima vivida immagine, prevede che il proletariato a patto di duri sforzi riuscirà a salire dalla povera rozza contadina sul suo proprio cavallo, quello dell’industria meccanizzata ed elettrificata[242].

Si tratta ancora di una base tecnica del socialismo, che risolverà il problema della vita, non quello della società nuova. Del passaggio dalla piccola alla grande economia, che è la base appunto, ma non altro, del socialismo.

Meno di un anno dopo, Lenin moriva.

Parte terza[243]

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXVI)

La grave vicenda storica fra la morte di Lenin e noi

1 – I tempi del corso economico

La grave vicenda storica che si inserisce tra la morte di Lenin e noi, in ragione delle vibranti emozioni inflitte all’intera umanità nel tempo di un’intera generazione, è di difficile esposizione, in quanto si affollano per darne i capisaldi troppi nomi famosi, oggetto di fanatica lode ed infamia da varie sponde, e perfino, negli ultimi episodi che maggiormente hanno commosso il mondo or è poco, di alternata, dalla stessa banda, esaltazione e – altra parola non va usata – diffamazione.

Non sarà possibile tacere i nomi degli uomini caduti e vincenti, non fosse che al fine di venire rettamente intesi dai tanti che ricordano quel tempo, da una delle più possenti organizzazioni della storia umana presentato ad arte in modo distorto; ma bisogna malgrado ciò pervenire a dare, almeno negli schemi sostanziali, il corso dei rapporti di produzione reali e il gioco delle classi sociali e delle forze economiche, sollevandosi con ogni sforzo dall’abuso falsificatore fatto per tanti e tanti anni delle classiche formule della nostra dottrina.

Le fasi della trasformazione sociale si possono dividere in periodi, che sono delimitati tra loro con un relativo accordo dalle opposte sponde; come nel tristo «Breve Corso» della storia del partito ufficiale, e nelle sempre vigorose e leali, anche per chi non possa tutte accettarle in dottrina, analisi del grandissimo Trotsky. Essendo queste storiche tappe vive nella memoria di tutti, la loro trama sarà utile allo svisceramento del tremendo problema.

Le due prime vanno dall’Ottobre alla morte di Lenin e sono state in quanto precede esposte e trattate. Altre si pongono tra il 1924 e la data di quelle due nemicissime tra loro fonti, che all’incirca giungono alla vigilia della seconda guerra mondiale, nel 1937. Le altre sono di ieri e di oggi.

I. 1918–1920. Guerra civile. «Comunismo di guerra».
II. 1921–1925. Ricostituzione dell’economia interna. NEP.
III. 1926–1929. Industrializzazione. Offensiva contro i kulak. Lancio del primo piano quinquennale.
IV. 1930–1934. Sviluppo della forma «colcos» nell’agricoltura (questo processo viene definito della collettivizzazione agricola: in miglior linguaggio marxista il colcos va definito forma mista tra la produzione agraria particellare e quella cooperativa).
V. 1935–1938. Affermata «edificazione socialista» nella sola Russia. (In termine adeguato: crescita imponente del capitalismo statale nell’industria e del semi-capitalismo statale-cooperativo in agricoltura).
VI. 1939–1945. Guerra mondiale e alleanze con Stati capitalisti.
VII. 1946–1955. Lotta per il dominio del mondo e «guerra fredda» con gli alleati di Occidente.
1955… Coesistenza pacifica con l’Occidente ed emulazione economica.

Noi saremmo a proporre a tutto il grande periodo 1934–1955, ed oltre, la denominazione di periodo dell’incremento quantitativo della massa della produzione, e se fosse lecito: «quantitativismo produttivo», essendo questo un carattere costante economico, malgrado i mutamenti politici: la serie ha soprattutto rapporto alle forme economiche.

2 – Limiti della gestione economica

Tutto quanto in seguito va trattato, deve esserlo fuori del presupposto che si trattasse degli svolti di una «libera politica economica» dello Stato e del partito, che nei primi due periodi avevano consolidato il proprio potere, e che potessero, sotto il suggerimento di questa o quella «tendenza» rispecchiante diversi programmi e possibilità, prendere una o un’altra rotta nel cammino storico della società russa. Sono invece le opposte concezioni venute in lotta (tenuto anche conto della natura, sospetta quasi sempre, del materiale a noi trasmesso) che dovranno essere spiegate con la necessaria influenza del modificarsi dei rapporti economici.

Malgrado la nostra fermissima tesi teoretica, essenziale per i marxisti, che anche la persona dei meglio dotati capi della lotta non può essere considerata, nella sua opera di indirizzo teorico ed organizzativo dell’azione, come causa motrice degli accadimenti, sosteniamo di conservare il diritto ad una constatazione. Il materiale per una decisa coordinazione dei dati che portano in luce le forze del sottosuolo sociale, con la critica della contemporanea valutazione, o le contemporanee valutazioni, dei compiti dello Stato e del partito, in ordine e coerenza ininterrotta con le posizioni generali della dottrina, della scuola russa e internazionale marxista, che è unica, dopo la fine degli apporti dovuti a Lenin viene in gran parte meno, e si tratta di collegare frammenti che si reperiscono discontinui e contraddittori.

Tutti gli uomini che trattano i quesiti sul compito del partito non cessano di richiamarsi a Lenin, all’insegnamento di lui, con risultati difformi, ma non si rinverrà più la linea indiscutibile di una chiara lettura dei fatti e la dimostrazione senza un minimo esitare che essi si inquadrano nella dottrina e nelle tradizioni dell’indirizzo di lotta del partito. Scartati i falsificatori stipendiati all’uopo, ben poco resta per trovare non diciamo giudizi decisivi, ma sicuri elementi, e perfino statistici. Penetrando in quest’ombra, pochi sfuggono alla tentazione di rimpiangere che «non si sia lasciato liberamente discutere», e questo primo passo avvia a scivolare, all’indietro, nella catena delle concezioni antimarxiste e borghesi. Capo storico che si commisura con Lenin, e marxista degno di lui, nemmeno Trotsky si libera totalmente da tutte le insidie; anche ai grandissimi condottieri battuti, dopo avere attinto così luminose vittorie, è pressoché impossibile raggiungere il rigore scientifico nel fare la storia della loro infausta personale rovina: tanto più impossibile a chi nella misura di Trotsky ebbe il temperamento del gladiatore che non si sottrae a sentire lo straripamento della propria volontà nel cedere del nemico alle forze sovrapersonali ed arbitrali della storia.

Fino al più grande dibattito che ci resta integro, quello del dicembre 1926 di cui abbiamo molte volte parlato, non sembra esservi dissenso sulla unicità della strada che si era trattato di seguire, e le riluttanze ideologiche, che non mancarono certo, trovano un limite irrefutabile nelle successive sistemazioni, teoretiche e realistiche a un tempo, di Lenin.

Il dibattito del 1926 fermò storicamente il fatto che né Lenin, né altri, lui vivente, e perfino prima del 1926, aveva accantonato la tesi che il punto dell’avvenire a cui ogni altro traguardo andava subordinato era il dilagare della rivoluzione e della dittatura comunista ben oltre le frontiere della Russia, e malgrado gli insuccessi a catena scontati dai tentativi della classe operaia di avanguardia in pressoché tutti i partiti di Europa.

La politica di amministrazione della Russia bastava fosse quella di una gestione precaria, intercalare; in quanto era caposaldo delle prospettive del comunismo mondiale che l’economia russa avrebbe mosso verso il socialismo non solo al fianco, ma indubbiamente al seguito di quella di gran parte d’Europa.

La pratica economica del partito aveva una semplice consegna: attendere sulla rocca del conquistato potere; non aveva quella: trasformare; e tanto meno la stolta, che dopo prevalse: costruire.

3 – Attendere significa vivere

Appare chiaro che attendere su posizione conquistata, raggiunta, vuol dire anzitutto non recederne, ove quella sia attaccata e minacciata. Il senso della prima fase del post-Ottobre è semplice: difesa del potere rivoluzionario, contro le tremende ondate degli avversari di classe interni e stranieri. Ma anche per difendersi e resistere, obiettivo militare e politico estremo, occorre vivere, occorrono vettovaglie, munizioni da bocca e da fuoco. L’economia si riduce a questo: prendere al di fuori di ogni scambio e di ogni diritto tutto quello che fisicamente si trova, e soprattutto se lo si toglie al nemico; salvare la vita fisiologica della popolazione e dell’esercito, della città e della campagna.

Dato che la guerra internazionale, e poi quella civile, avevano ridotto le risorse del paese russo ad una bassa frazione di quello che aveva attinto sotto lo stesso zarismo e prima della guerra, la questione di trarre maggiore resa dalle forze produttive, togliendo con la forza ostacoli a loro pressioni, non aveva allora ed ancora senso alcuno. Consumare quello che si trovava, e produrre come si poteva, era la sola formula di «politica economica».

Poiché tra le risorse produttive fisicamente constatabili ed inventariabili la prima che non si può creare sillogizzando è la tradizione della capacità produttiva dei gruppi umani, era in tanto dura situazione già un successo realizzare un minimo prodotto per il ridotto consumo anche nelle forme primordiali adeguate allo stadio raggiunto dalla terra, dall’attrezzatura utensiliera, e dall’allenamento scarso delle braccia umane; e delle menti scarsissimo.

Non si può rimproverare a comunisti, la cui dottrina è presente solo in quanto ha potuto germinare sui dati e per le influenze di società ben più sviluppate e complesse, di aver desiderato il miracolo di trarre salute dall’immediata applicazione di forme, di «dispositivi» della società il cui avvento è da noi dimostrato scientificamente possibile. Lo stesso compito di proiettare la rivoluzione nella vecchia, saggia e grassa Europa, in ben altro «terreno di coltura», esige che si possa anche come simbolo, anche come insegna di combattimento, dire alle masse aspettanti che i frutti della rivoluzione si sono cominciati a raccogliere, pure invitando alla seminagione in grande stile i fratelli di oltre frontiera. Anche quelli di noi che dalla primissima ora deridemmo il metodo della presentazione del «modello» di comunismo, metodo legato alle vecchie utopie disintegrate dalla critica geniale di Marx (e lo era al non immaginato folle atteggiamento di oggi del comunismo fabbricato «dalle mani dei comunisti» e messo in un’assurda vetrina, anche noi godemmo a vedere per le monche strade di Pietrogrado e di Mosca, nel generale squallore e fra le tracce delle battaglie, l’impressione anche simbolica che le forme borghesi proprietarie, pecuniarie, avessero cominciato a dissolversi.

Tuttavia, sebbene l’abbiamo largamente citata, troviamo che la dimostrazione di Trotsky sul «comunismo militare» e l’economia da città assediata non sta alla stessa altezza di quella di Lenin, quando si tratta per entrambi di spiegare, come abbiamo riportato, che la NEP con la sua apertura delle dighe alle forme commerciali, ossia capitaliste, non conteneva affatto una decisione diversa e una rinunzia al cammino verso il socialismo, internazionale, perché solo internazionale lo conosciamo.

4 – Direzione a zig-zag?

Trotsky vuole arrivare alla conclusione che le consegne del centro statale e di partito, sotto la guida dello stesso gruppo, quello stalinista, si susseguirono sbandando e contraddicendosi. Ciò è vero, ma non basta a stabilire che cambiando il gruppo o il suo capo, o anche chiedendone designazione a quelle fonti che si denominano massa o base, ma con troppo sommaria visione dell’integrale quadro, si sarebbe andati non a zig-zag, ma diritti.

Anche Lenin, nel difendere la NEP, parla di ritirata, disposta per evitarne una peggiore, e per poter più sicuramente ripigliare il cammino. Ma questo concetto preliminare, didattico, e polemico nei confronti di chi poco aveva capito della vivente realtà e della solidamente stabilita dottrina, ancora non è quello del zig-zag. Non si tratta di un cammino che muta ad ogni tratto la sua direzione, imponendo svolte, angoli, alla rotta, ma di uno che rimane rettilineo, muta solo la sua velocità; senza mutar direzione. Nemmeno se rinculasse, muta la «direzione», bensì solo il senso del suo moto, e questo può farsi per porre il piede su uno scalino, la mano su un anello, che consentano di ripartire avanti, e meglio, senza avere smarrita la strada, mutato il traguardo finale.

La fredda metafora geometrica prende carne e luce dalla trattazione sistematica di Lenin, che egli ha la genialità di poggiare su una analisi non fabbricata nel 1921, dopo la pretesa delusione sulla velocità di trasformazione economica che si poteva tenere, ma svolta subito dopo la rivoluzione nel 1918, e strettamente coerente – reputiamo averlo provato – a tutta la scienza della particolare struttura sociale russa, che in tutta la sua vita aveva elaborato.

Trotsky sembra tenere a provare che il partito, tra la prima e la seconda fase, in effetti accostò, virò di bordo. Nella «Rivoluzione Tradita», scritta nel 1936, egli così si esprime:
«Il comunismo di guerra era in fondo una regolamentazione del consumo in una fortezza assediata. Bisogna tuttavia riconoscere che le primitive intenzioni del Governo dei Soviet furono più larghe. Esso sperò e tentò di ricavare da questa regolamentazione un’economia controllata sul piano sia del consumo che della produzione. In altri termini pensò di passare a poco a poco, senza modificazioni del sistema, dal «comunismo di guerra» al vero comunismo».

A prova di questa grandemente esagerata asserzione Trotsky cita il programma adottato dal partito bolscevico nel 1919, che diceva:
«nel campo della distribuzione, il potere dei Soviet persegue inflessibilmente la sostituzione del commercio con una distribuzione dei prodotti organizzata su scala nazionale con un piano di insieme»[244].

Se il lettore ritorna a quanto abbiamo ripetutamente detto sul congresso del 1919, ed anzi appunto sul programma, e sulle rettifiche del tutto di principio che Lenin vi apportò a correzione di Bucharin, potrà verificare che le tesi economiche sono proprio le stesse che verranno a giustificare la linea della NEP, e Lenin esprime le stesse idee del 1918, cui poi si ricollegherà nel 1921. Non l’economia del capitalismo di tipo monopolista, ma addirittura quella del pieno capitalismo privato (indubbiamente mercantile) sono per la Russia non fasi sorpassate, ma fasi che è augurabile raggiungere!

Lenin redasse ed approvò quel programma: e perché non doveva ivi dirsi che il partito persegue la soppressione del commercio? La posizione dialettica di Lenin era che anche incitando il sorgere e il gonfiarsi di un commercio libero, si persegue in realtà il migliore cammino al socialismo.

5 – La salvezza dottrinale

Quel passaggio era indispensabile perché nel programma, che vale per molti anni e congressi, è vitale la salvezza delle tesi generali; ed esso è la pietra di paragone per i richiami alla dottrina, che Lenin ritiene necessari ad ogni svolta del cammino. Quanto sarebbe stato utile il ricordare ad ogni passo che non sarà mai consentito parlare di socialismo se non si è raggiunta la fase in cui non si ha più «commercio», ma «distribuzione dei prodotti secondo un piano generale» ossia senza calcolo di equivalenza di due prodotti a valori messi di faccia, senza forma mercantile!

Sarebbe bastato questo ad impedire la peste dei futuri anni, consistente nel chiamare socialismo una distribuzione borghese!

Non meno salutare sarebbe stato l’intendere che è ammissibile dover camminare lunghi e lunghi anni sopportando la forma commerciale di distribuzione, e magari, come fu con la NEP, suscitandola ove era ancora feconda rispetto alla pesante eredità del passato sociale; ma l’essenziale era non scambiare questa tappa per una tappa socialista.

Il programma dice che il partito persegue quell’obiettivo, ma non dice che lo si possa attingere nella sola Russia, e senza la rivoluzione occidentale, che in paesi come Germania e Inghilterra potrebbe attuare rapidamente per una vasta parte della produzione una distribuzione sociale a piano unitario, solo che la classe operaia avesse il potere. Nei due casi è la stessa cosa che si persegue inflessibilmente, ma con diversissima velocità di avanzata.

L’essenziale è inchiodare la verità: dove è commercio ivi non è forma socialista, ma capitalista. La tesi programmatica di Lenin in quel passo è, sempre, quella che in Russia dovremo gestire capitalismo, ma, ogni volta che lo avremo di faccia e tra mano, lo chiameremo ad altissima voce come tale.

Trotsky concorda in tutto con la teoria della società russa nella fase della NEP e con la ineluttabilità della sua adozione, pena il decadimento dell’economia sotto il livello obbligatorio del programma economico: campare.

Egli ne dà la netta definizione in questi punti, che collimano con quelli dedotti dai testi di Lenin, e sono forse più netti per evitare l’equivoco dottrinale tra industria statizzata dal potere socialista ed economia industriale socialista. La prima è nelle mani di uno Stato che «persegue il socialismo», ma i rapporti di produzione nel suo meccanismo sono integralmente capitalistici.

6 – Formule di Trotsky

Il reale fenomeno economico sociale della NEP è così caratterizzato dalla magistrale e limpida presentazione di Trotsky, fotografia dei reali rapporti di produzione nella fase 1921–25.

L’esistenza nel paese di milioni di aziende contadine isolate creò per Lenin la necessità di ristabilire il mercato. Solo il mercato crea una saldatura tra industria ed agricoltura. La formula è molto semplice: l’industria deve fornire alla campagna le merci necessarie a prezzi tali che lo Stato possa rinunziare alla requisizione dei prodotti dell’agricoltura.

Trotsky aggiunge duramente, alla Lenin (e qui degnamente integra Lenin), che non si tratta solo di una questione di forme di produzione e distribuzione agrarie, ma anche di una diversa concezione della gestione industriale.
«La stessa industria, benché socializzata, aveva bisogno dei metodi di calcolo monetario elaborati dal capitalismo. Il piano non potrebbe basarsi sui semplici dati dell’intelligenza. [Ciò vuol dire: con una contabilità effettivamente socialista, ossia con progetti relativi a quantità fisiche di oggetti e forze materiali, non affette da cifre di equivalenti monetari: l’idea è data da un progetto di costruzioni accompagnato da un previsto «fabbisogno di materiali» e da un prospetto di numero di giornate di lavoro di una maestranza organizzata, senza «preventivo di spesa», ma con legame al piano nazionale della forza lavoro e della produzione e disponibilità di beni]. Il gioco dell’offerta e della domanda resta per il piano, e per un lungo periodo ancora, la base materiale indispensabile e il correttivo salvatore»[245].

Preferiamo la formula della base materiale a quella meno felice di un semplice «correttivo». Il rapporto è sostanziale: non si può, e lo dicemmo nel 1922 a Trotsky, adottare la contabilità capitalistica, se non riconoscendo il fatto che si resta nel campo del modo di produzione proprio del capitalismo: salario in moneta ai lavoratori secondo il tempo di lavoro, bilancio di entrate e spese, margine di guadagno aziendale.

Ciò chiarito, va solo detto che anche oggi 1956 siamo a quel tipo di esercizio dell’industria, del tutto capitalistico.

Vedremo che la formula di Trotsky è meno decisa: nega la staliniana tesi che si abbia industria socialista, ma parla di una forma «di transizione dal capitalismo al socialismo». Storicamente tutto è transizione, anche la statizzazione sovietica; economicamente sono capitalisti il metodo di calcolo e la sostanza del rapporto produttivo.

7 – Dal livello del minimo vitale

Si può enunciare in generale il teorema che un’economia che gravemente declina verso la miseria, la scarsa produzione e lo scarso consumo non può essere il teatro dell’apparire di un nuovo modo di produzione. Alla base della comune dimostrazione di Lenin stava il fatto della tremenda depressione economica seguita alle ferite della guerra imperialista e della guerra civile. Prima di avviarsi alla genesi di nuove strutture, bisognava ridestare le antiche risalendo, sotto il loro stesso regime qualitativo, a minimi quantitativi accettabili e comparabili a quelli del passato.

Più volte abbiamo dato cifre al riguardo. Nel 1921 si era nel fondo dell’abisso. La produzione industriale, nell’apprezzamento di Trotsky, era caduta al quinto di quella di anteguerra. La produzione di acciaio era caduta da 4,2 milioni di tonnellate ad appena 183 000 (la ventitreesima parte!). Il raccolto dei cereali era caduto dagli 801 milioni di quintali di anteguerra ai 503 del 1922.

Anche in totale accordo con Lenin, Trotsky dimostra che la risalita fu possibile solo grazie alle misure della NEP: mercato libero, gestione mercantile delle imprese, e infine ricostituzione di uno stabile sistema monetario, legato al rublo oro. Nel periodo del comunismo di guerra si era guardato con ottimismo alla spaventosa svalutazione del rublo. Non era un errore teorico, ma piuttosto un atteggiamento agitatorio adeguato all’epoca della rivoluzione mondiale, che si calcolava prossima.

Questa è soprattutto la tesi di Trotsky. Egli dice che se la rivoluzione avesse trionfato in Germania, sia lo sviluppo russo che quello tedesco avrebbero preso a procedere a passi da gigante. Aggiunge però:
«Si può tuttavia dire con tutta certezza, che anche in questa felice ipotesi si sarebbe dovuto rinunziare alla ripartizione dei prodotti da parte dello Stato, e ritornare ai metodi commerciali»[246].
Leggiamo questo passo nel senso che l’economia russa avrebbe dovuto parimenti battere la via della NEP riguardo ai piccoli contadini da ammettere al commercio, ma invece la Germania avrebbe potuto cominciare a pianificare la distribuzione, e prima di tutto nel senso di passare in Russia grossi quantitativi di prodotti industriali di consumo e strumentali, anche senza alcuna contropartita, per decisione dell’Internazionale degli Stati comunisti[247].

Neanche infatti con questa potente iniezione di prodotti industriali poteva in un volgere breve superarsi il fatto che le minime aziende di campagna erano, per effetto della rivoluzione di Ottobre, passate da 16 a 25 milioni in tutta la Russia.

Questa struttura produttiva poteva solo respirare in ambiente mercantile, e per effetto della NEP si realizzò il movimento dei prodotti agricoli verso le città, ed industriali verso le campagne. Nel 1922 e 1923 la produzione dell’industria raddoppiò: come sappiamo, nel 1926 raggiungerà il livello antebellico, ossia sarà quintupla del 1921. Tuttavia molto più modesto fu l’incremento della produzione rurale.

La causa era semplice: prelevando dalle campagne troppo grano senza poter dare al momento larga fornitura di oggetti manifatturati, si potevano nelle città fondare fabbriche nuove e mobilitare altre maestranze, ma il contadino, scontento, preferiva seminare poco e consumare il suo prodotto direttamente, tornando per i bisogni essenziali non alimentari alla primordiale forma dell’artigianato domestico.

8 – Discussioni economiche nel partito

Il difficilissimo problema determinò nel partito bolscevico vivaci discussioni circa la spiegazione dei fatti economici e la linea da adottare. Nella primavera del 1923 (al XII congresso, il primo da cui Lenin era assente) Trotsky svolse la sua tesi sulle «forbici economiche». I prezzi dei prodotti dell’industria russa presentavano una continua ascesa, mentre invece quelli dei prodotti agricoli discendevano.

A un certo punto le due curve si erano incrociate, ma seguitando a salire il ramo dei prezzi industriali, e a scendere quello agrario, la forbice si apriva sempre più ed esprimeva il conflitto tra i due settori della società.

Qui giova prendere da Trotsky la spiegazione veritiera dello schieramento delle valutazioni e delle proposte in materia economica.

Tutti erano d’accordo che per dare impulso alla produzione agraria era necessario «chiudere le forbici». Vedremo ora quali erano le tre vie proposte per arrivarvi.

Questo scopo comune, vogliamo premettere, si pone sulla via al lontano socialismo ed è imposto dalla stretta necessità di contenuto vitale, ma non e ancora nemmeno uno «scopo socialista». È uno scopo squisitamente capitalista e borghese. Nel marxismo classico uno degli aspetti distintivi dell’economia borghese, nella sua irrompente apparizione rivoluzionaria che squarciava la limitatezza e la molecolarità strutturale del tempo feudale, è la diminuzione brusca e progressiva del costo dei manufatti, effetto della lavorazione associata e della divisione tecnica del lavoro. Per converso, ed in rispondenza alla teoria dei fattori della produzione agraria, il prezzo dei viveri non solo non segue un moto analogo, ma sale decisamente, dovendo la popolazione contadina allargare la sua cerchia di bisogni e di consumi ai nuovi «articoli» che l’ingranaggio mercantile rovescia fino a lei; e non essendovi radicali diminuzioni dei costi di produzione, che dove esistono si convertono non in minor valore di scambio, ma in rendita differenziale a favore dei proprietari borghesi, calcolandosi i prezzi sui costi del «peggior terreno».

La deterministica esigenza inserita nel diagramma di Trotsky significa che la rivoluzione russa, nel corso dei modi di produzione, batte la fiacca anche in quanto rivoluzione capitalista suscitatrice della febbre ardente del mercato interno. Chiudere la forbice vuol dire balzare in alto lungo gli scalini di Lenin: produzione patriarcale, piccola produzione contadina, capitalismo privato.

Il passo al capitalismo di Stato, quarta fase della struttura sociale, lo si può azzardare solo nell’industria, con la statizzazione e la confisca delle fabbriche, prima delle importanti e poi delle medie e piccole, con la banca di Stato e il monopolio del commercio estero – precipitosamente sceso in quegli anni di crisi da 2900 a 30 milioni di rubli.

Quindi i problemi concreti, leniniani, prima che la bestemmia della costruzione del socialismo venisse a tutto confondere, erano al 1923 due: battere nell’industria il capitalismo privato, battere nelle campagne la minuta produzione. Questi due traguardi si chiamarono: industrializzazione e collettivizzazione dell’agricoltura.

Dinanzi a questi problemi si formarono tre gruppi: sinistra, destra e centro. Noi ne ricostruiamo la genesi e funzione sulla base di categorie economiche e modifiche ai rapporti di produzione, e sulla base delle due visioni della politica comunista mondiale: anticipare la rivoluzione politica europea segnando il passo nella trasformazione della struttura sociale russa – ovvero disinteressarsi della rivoluzione internazionale e darsi alla «edificazione socialista» nella sola Russia, la demente eresia che rovinò tutto.

I filistei di tutti i partiti da allora ad oggi ridussero tutto alla questione esosa della «successione di Lenin», come oggi riducono la crisi che traversa la Russia alla questione della «successione di Stalin».

9 – Tre vie per la struttura russa

Se apriamo le pagine (e sono queste le più ignobili, di cui hanno perfino arrossito vecchi arnesi capaci di ingoiare rospi del volume di elefanti, al XX congresso) del «Breve Corso», la soluzione sarà lineare: al centro i continuatori di Lenin e i fautori dello sviluppo della Russia verso tutti i trionfi: un nuovo sistema economico miracoloso all’interno, le più grandi vittorie nazionali all’estero, col conio di un’altra cretinesca consegna: la Patria del socialismo! Nelle opposizioni di sinistra e di destra, puri e semplici agenti prezzolati delle borghesie straniere, che erano tali dal 1917, e che nell’industria sostengono il sabotaggio e la smobilitazione che faciliti la futura aggressione dall’esterno, nell’agricoltura difendono i contadini ricchi, i kulak, che formando la base della nuova borghesia russa faranno risorgere il capitalismo, e prepareranno la controrivoluzione! Secondo un tale riferimento dei fatti, Trotsky voleva chiudere le maggiori officine dell’industria pesante e bellica, Bucharin abolire il monopolio del commercio estero, Zinoviev e i suoi mantenere alla Russia il carattere agrario e limitare all’industria tessile tradizionale la zona di Mosca e così via.

La storia scritta sotto la mano di ferro stalinista incolpa tutti gli avversari, che caddero nella lotta e nelle terribili «purghe», di opposizione retroattiva, affasciandoli fin dai primi anni, imbrogliando il mazzo delle carte, colpendo la memoria di Bucharin fino a tacere in malafede che nel dibattito del 1926 e nella campagna per stritolare Trotsky, Zinoviev e Kamenev fu Bucharin il paladino Orlando di Carlo Magno Stalin.

Messo questo pattume da parte, ricostruiamo i termini della contesa sulla testimonianza di Trotsky, ponendoli in relazione alla marxista dottrina di Lenin, sulla struttura sociale russa e le sue possibilità di sviluppo.

Trotsky indica se stesso fino al 1923 come il dirigente l’opposizione di sinistra al centro staliniano. La destra, diretta da Rykov, Tomskij e Bucharin, si confondeva col centro di Stalin e Molotov, mentre Zinoviev e Kamenev (come abbiamo più volte narrato, essi nel 1924 condussero la lotta contro Trotsky che non comparve al V congresso mondiale) nel 1926 si ricollegarono all’opposizione di sinistra del 1923.

Ma quali, al di sopra delle persone e delle traiettorie percorse dai nomi, che furono intricate e sconcertanti, in episodi che a distanza di anni si incrociano e sovrappongono confondendo ogni prospettiva, erano le diverse direttive?

La sinistra con Trotsky e Zinoviev-Kamenev, fin dalla XIV conferenza e XIV congresso del partito (1925) e dalla famosa XV conferenza del novembre 1926 che precedette l’Allargato dell’Internazionale, nel dicembre 1926, teatro della grande classica contesa sulla «edificazione isolata del socialismo», sostenne, al rovescio delle menzogne ufficiali: a) l’industrializzazione, e la proposta, avanzata da Trotsky fin dal 1923, di un piano quinquennale di sviluppo economico; b) la collettivizzazione della produzione agricola, sviluppando contro la piccola produzione e contro i kulak le aziende collettive di Stato.

La destra sostenne idee opposte alla lotta contro i kulak, e la remora dell’industrializzazione, ma quello che bisogna intendere è che nel 1925 Stalin, e quella che Trotsky chiama la frazione dirigente, sposarono il programma della destra, accettarono la politica di orientamento verso il kulak. Stalin si poggiò in tutto sulle tesi di destra nel lottare contro i «super-industrializzatori» dell’opposizione di sinistra (Trotsky, e poi Zinoviev e Kamenev).

Stalin nel 1925 accede perfino all’idea della snazionalizzazione della terra, assegnandola per dieci anni e anche più ai contadini in proprietà anche giuridica (ciò vuol dire libertà di concentrare la terra con compravendite). Nel 1925 con apposite leggi si ammise, in deroga alla costituzione, l’impiego della manodopera salariata nelle campagne e l’affitto (che vuol dire libera formazione di capitale nella campagna).
«La politica del governo, la cui parola d’ordine era: verso le campagne, si orientava in realtà verso i kulak».
Fu mentre Bucharin era il teorico ufficiale della frazione dirigente che egli lanciò, in nome di Stalin e del governo, la famosa parola d’ordine ai contadini: Arricchitevi! Ed oggi il «Breve Corso» sta ad accusarlo di tradimento, per avere sostenuto la fine della lotta di classe tra contadino povero e kulak, e il pacifico assorbimento del contadino ricco nel socialismo! Erano prima del 1926 le idee ufficiali di Stalin, combattute fieramente dall’opposizione di sinistra. Circa i piani di industrializzazione, essi furono da Stalin allora derisi. Stalin nell’aprile del 1927 affermò che la costruzione della grande centrale elettrica del Dniepr sarebbe stata come l’acquisto di un grammofono invece di una vacca per il mugico![248].

10 – La soluzione di Bucharin

Quando più oltre fu chiesto a Stalin se fosse peggiore la sinistra o la destra egli rispose che erano peggiori tutte e due e manifestò il chiaro programma di stritolarle. Intanto la tendenza «Stalin» quale era? Era quella di non avere tendenza, di non rispettare principi, di amministrare lo Stato per lo Stato, governare la Russia per la Russia, sostituire una posizione nazionale e poi imperiale alla posizione di classe ed internazionale: anche ammesso che in un primo tempo non lo sapessero né lui né i suoi seguaci.

Il fatto che appare strano a chi narra la storia «secondo le persone» è che dal 1928 la destra e la sinistra si avvicinano nell’ingaggiare una lotta impari contro la «direzione». È strano pensando che la sinistra, ingiuriando Stalin (dieci volte meno del necessario) aveva ingiuriato in lui la destra, cui egli, fulcro della politica, attinse come lo vedremo attingere poi a sinistra alle dottrine e tesi della sinistra. Non è strano se si fa storia con metodo non da Tecoppa, ma alla scuola di Marx e di Lenin. Ciò non è un dato del «carattere camorristico» di Giuseppe Stalin, ma un’altra prova che la rivoluzione si «raccorcia» storicamente da doppia rivoluzione a rivoluzione solo borghese: in questa i capi si tagliano a vicenda le teste per rubarsi idee e cervelli.

Trotsky stesso, legato dalle tradizioni di quella lotta, anche nella sue opere successive svaluta la «destra»; e non giunge alla verità che sinistra e destra erano entrambe sul terreno dei principi marxisti, e il «centro», nelle sue successive svolte nella politica sia russa che internazionale, ad ogni bordata ne andava sempre più fuori.

Trotsky ha il merito gigante di avere fin dal 1923 individuato questa manifestazione, che avrebbe ucciso il partito marxista che solo aveva raggiunto il potere: il maneggio dell’apparato di Stato, fredda e crudele macchina montata per il terrore sul nemico di classe, contro l’apparato del partito – e la derivazione di una tale patologica crisi dal cedere delle forze rivoluzionarie estere e dalla sfiducia verso di esse di una popolazione a enorme maggioranza non proletaria[249].

Fu con lui in questo la sinistra italiana – ma per motivo ben diverso da quello del successivo «trotzkismo». Non era ferita da quegli episodi di sopraffazione la non marxista esigenza del «rispetto democratico alla consultazione della base» ma la marxista dottrina che la dittatura rivoluzionaria non ha per concreto e fisico soggetto il popolo, e nemmeno la generica classe lavoratrice nazionale, ma il partito comunista internazionale e storico.

Il cammino della rivoluzione da socialista a capitalista era segnato allora dalle manovre inflitte dalla storia, e non dal capriccio del «non collegiale» Stalin, alla macchina di Stato russa – non lo era dai diffamati «capitolardi della destra». Quando destri e sinistri videro in pericolo l’essenziale della tradizione bolscevica e del comunismo mondiale, si unirono, ma tardi, dopo aver fatto la fine dei Curiazi, nell’ordine Trotsky, Zinoviev, Bucharin, nella lotta alla controrivoluzione staliniana che li uccise alla fine.

Non si stupisca dunque alcuno se riabilitiamo Bucharin, non dalla taccia di agente di borghesie straniere che le stesse sozze bocche degli sterminatori han dovuto rimangiare come i dementi consumatori del proprio sterco, ma dalle critiche vive nello stesso Trotsky al famoso «Arricchitevi!»[250].

11 – Ricorso marxista alla dialettica

Al di sopra di tutti sta l’esigenza che bisogna vivere, sia per il passo della rivoluzione mondiale, sia per il passo «esistenziale» dello Stato di Russia e del popolo di Russia, e quindi al di sopra del tremendo dilemma storico del 1926. Mostrammo a suo luogo che se Bucharin seguì Stalin in quella attitudine storica, lo fu perché concepiva questo ripiegamento nel rafforzarsi in Russia in vista solo di una guerra «rivoluzionaria» gigante contro tutti gli Stati capitalistici, che andavano conculcando le classi operaie europee. E sia detto che anche Stalin proclamava tale prospettiva fino alla vigilia del secondo conflitto imperialista, in cui genialmente sognò di fare contro gli Stati capitalistici la stessa politica che fece contro le interne «frazioni»: sterminarli in più tappe e restare solo e vittorioso, come Orazio Coclite! Perduto fuori della via del partito e della dottrina, cui manifestò congenite impotenze quando non poté più «rubare» idee ai cadaveri, Stalin ne è ripagato, lui morto, con l’essere svergognato da quelli che i mostri statali del capitale non vogliono uccidere, ma imitare in una corsa comune allo sfruttamento del mondo, la mano nella mano, sia pure con la fede dei ladri di Pisa.

Dunque il problema economico è vivere. Questo significa trovare una formula per il reale legame fra industria e terra, lo abbiamo detto – e sappiamo il senso del passaggio dalla formula comunismo di guerra alla formula NEP, dalla prima alla seconda tappa. Ora si tratta di capire lo svolto tra la seconda e la terza tappa, di cui abbiamo dato la serie.

Centro, sinistra e destra sono fermi, al 1927, sulla teoria di Lenin: l’agricoltura in piccole aziende è la morte della rivoluzione socialista. Lenin ha ben dovuto marxisticamente accettare il programma dei socialrivoluzionari, programma antimarxista – ma lo ha fatto non negandolo, e non cessando di mostrarlo radicalmente antimarxista. Solo così i bolscevichi hanno preso il potere e messo le basi alla fondazione dei partiti comunisti mondiali – Parigi valeva questa messa. Ma il sistema della piccola produzione ha così dilagato; il che vuol dire che il potenziale sia tecnico che politico delle campagne ha fatto un grosso passo indietro.

La formula della schiavizzazione dei contadini da parte dello Stato operaio, sia pur affacciata da qualche «sinistro» fuori di senno, ha fatto cilecca. Da chi non produce, prima perché non può e poi anche perché non vuole, nulla si ricava, ne per contrattazione ne per espropriazione, e nemmeno se lo si ammazza.

Eppure, o morire da fame, o uscire dalla frammentazione rurale.

La nazionalizzazione della terra, e meglio la statizzazione della proprietà fondiaria, vale solo ad impedire la formazione di una nuova «grande proprietà» agraria. Purtroppo per lo stesso motivo vale ad impedire il passaggio dalla piccola alla grande «azienda», e inchioda la terra alla limitatezza tecnica della sua cultura. Ma tutti cercano la grande azienda, che l’industria possa potenziare con attrezzature nuove – se agli operai industriali sarà dato da mangiare!

Trotsky e Zinoviev restano sul terreno di Lenin: passare, sia pure non per coercizione, dalla minutaglia contadina ad aziende a lavoro comune condotte dallo Stato (i sovcos) ossia con la terra dello Stato e il capitale di esercizio dello Stato (e quindi sono per l’intensa industrializzazione).

Stalin vuole ammettere che, denazionalizzando la terra, si riformino vasti possessi terrieri ove un grande affitto organizzi la produzione collettiva, evidentemente con salariati, e la rendita al proletariato.

12 – «Arricchitevi»

Bucharin difende, come la sinistra, la nazionalizzazione giuridica, e non è per la proprietà libera. Questa è una posizione di guardia per non ricadere nel passato e non perdere il potere. Ma intende che per la grande azienda occorre il grande capitale. Egli vede che l’industria può a stento avviarsi a produrre beni di consumo manufatti (e ciò dopo i beni di uso bellico, necessari al futuro scontro, per lui «offensivo» – il suo sogno bocciato da Lenin al tempo di Brest-Litovsk) ed al massimo beni strumentali per allargare l’industria stessa, ma non per la trasformazione agraria. La sua formula è che la terra resti allo Stato, ma il capitale agrario si formi fuori di esso.

Il commercio e la NEP hanno già dato luogo ad una accumulazione di capitale, ma nelle mani di commercianti, speculatori, che non sono legalmente più contrabbandieri, ma nepman, odiati dai contadini ma soprattutto in funzione dell’attaccamento reazionario alla gestione particellare. Questo capitale, parimenti minaccioso socialmente e politicamente, è sterile ai fini della produzione e del miglioramento del suo potenziale tecnico.

Bucharin, spesso sfottuto da Lenin suo maestro, sa il suo «Capitale» a menadito, sa che la classica accumulazione primitiva è nata dalla affittanza agraria, come in Inghilterra e altrove, e da questa origine sono sorte le «basi» del socialismo. È nutrito di altre tesi corrette: è follia pensare di avere il commercio in formidabile espansione, di trattare in forma mercantile, come Trotsky giustifica, la stessa produzione industriale, e non vedere crescere forme capitalistiche, di Stato o private, ma sempre tali. Se nell’industria significa salire l’andare da quelle private a quelle di Stato, nella campagna, se non esiste capitale né privato né di Stato, fa ridere pensare ad avere non solo socialismo ma anche statizzazione di capitale.

Bucharin non è in regola col solo Marx ma anche con Lenin. Lo scalino da salire in campagna è, come abbiamo detto, dalla forma 3 alla 4: dalla piccola produzione mercantile contadina al capitalismo privato.

La terra resta allo Stato, e il contadino ricco «di terra» sparisce (falso che Bucharin e i suoi difendano il kulak) ma compare il «colono dello Stato» che con suo capitale di esercizio e con salariati suoi (in forma non radicalmente diversa dal salariato delle fabbriche controllate, e poi statizzate) produce sulla stessa terra una massa maggiore di prodotti per la generale economia, e paga una rendita allo Stato, non più al proprietario terriero antico.

Perché la media unità aziendale cresca, occorre, è chiaro, che cresca il medio capitale aziendale e il numero dei lavoratori proletari rurali. Ciò non si ottiene se l’imprenditore agrario non accumula, e diventa più grande. Altra tesi corretta fitta nell’intelligente testa di Bucharin è che ogni Stato non ha la funzione di «costruire» e organizzare, ma solo di proibire, o cessare di proibire. Cessando di proibire l’accumulazione di capitale agrario sociale (Marx: il capitale che si accumula dai privati non è che parte del capitale sociale) lo Stato comunista prende una via più breve per salire la scala delle forme, i gradini di Lenin.

La formula non di Stalin, che fu solo un fabbricatore a posteriori di formule di demagogico effetto (nel che se non sta il genio, che ha bisogno di partiti e non di teste nella moderna storia, e forse sempre, sta una grande forza politica), la forma di struttura rurale che uscì dalla storia, il colcos, conduce meno rapidamente fuori dalla frammentazione contadina, di quella che proponevano Trotsky e Lenin, e di quella soprattutto di Bucharin – e con questa affermazione non abbiamo detto che vi fosse una triplice scelta possibile quando la polemica esplose.

Sì, il bravo Bucharin gridò: Arricchitevi! Ma Stalin fece di peggio e stette per gridare: Arricchitevi di terra! Lasciate solo lo Stato-industria, forza armata, a noi! Non pensò che chi ha la terra ha lo Stato.

La frase di Bucharin, che tutti ricordano senza ricostruire – è difficile farlo sui testi – la sua dottrina, ha questa portata: vi apriamo le porte della terra dello Stato: arricchitevi di capitale di intrapresa agraria, e verrà più presto il momento in cui vi esproprieremo di quanto avrete accumulato, passando anche nella campagna al quarto gradino, il capitalismo di Stato.

Al quinto, il socialismo, non vanno leggi o dibattiti di congresso, ma una forza sola, la Rivoluzione mondiale. Bucharin allora non vide questo, e fu grave.

Stalin si servì della tesi Bucharin per battere la sinistra marxista. Quando Bucharin vide che la storia spingeva Stalin non verso una scelta di strade al socialismo economico, ma verso la ricaduta dello Stato politico a funzioni capitalistiche interne quanto esterne, non vi fu differenza tra destri e sinistri, non vi fu più nulla a destra del centro, e tutti i marxisti rivoluzionari furono, per assorbenti ragioni di principio ben più profonde, contro Stalin, perdendo si, ma nella serie feconda di tutte le rivoluzioni schiacciate la cui riscossa verrà, e sarà soltanto di natura mondiale.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXVII)

13 – Alla terza tappa

La terza tappa dell’elenco che abbiamo premesso va dal 1926 al 1929, e segue la prima della guerra civile-comunismo di guerra (dal 1917 al 1920), e la seconda della ricostituzione economica e della NEP (dal 1921 al 1925). Tale terza tappa viene indicata come quella della «industrializzazione» e prelude alla quarta della cosiddetta «collettivizzazione dell’agricoltura». Nella terza tappa viene condotta nelle campagne la lotta contro i kulak, detta «soppressione dei kulak come classe», e viene preparata la politica economica dei piani quinquennali.

A tutto ciò si darà il nome ufficiale di «edificazione della società socialista».

Abbiamo spiegato come accettiamo tali designazioni per il loro contenuto cronologico, e per fissare le idee circa la successione storica, ma anche come di tutte esse, e delle loro gravi inesattezze, e perfino inversioni teoriche, dobbiamo dare la radicale critica.

Nel periodo che va fino alla morte di Lenin (anche questo è un dato storico e non ancora una spiegazione) i processi sociali sono chiamati coi loro rigorosi nomi marxisti. In questo periodo tuttavia, come abbiamo descritto ampiamente, non mancano le divergenze di interpretazione in seno al partito comunista. Nella terza tappa però esse prendono una tale profondità che il loro attento esame mostra il netto distaccarsi di una posizione marxista rivoluzionaria da una antimarxista che fa passi sempre più gravi verso la rinunzia al comunismo. Fin qui Trotsky ha ragione quando dice che la lotta delle tendenze esprimeva un’antitesi di classe che saliva dalla sottostruttura sociale, e spiega da par suo perché non si ebbe una lotta armata per il potere politico.
«Il significato della lotta in corso si oscurava molto per il fatto che i dirigenti delle tre tendenze: la destra, il centro e la sinistra, appartenevano a un solo stato maggiore, quello del Cremlino, l’Ufficio Politico; gli spiriti superficiali credevano a rivalità personali, alla lotta per la ‹successionedi Lenin»[251].

In altra sua opera Trotsky parla perfino di una fase di «luna di miele» nella prima «troika» che successe alla morte di Lenin. Stalin, Trotsky e Zinoviev lavoravano in uno spirito amichevole e cordiale. E in pagine memorabili Trotsky disperde la spiegazione imbecille dell’inestinguibile odio tra lui e Stalin elevato a causa storica, o della ragione antisemitica nella persecuzione a lui, a Zinoviev, a Kamenev. Ancora domina la palude del politicantismo mondiale questa dottrina che al posto del determinismo marxista pone i fermenti dell’Odio, originato immutabile dal fondo delle generazioni e dei millenni.

Noi della sinistra italiana ricordiamo, e lo abbiamo fatto più volte, il significativo episodio del sorriso incredulo di vecchi esperti compagni bolscevichi, quando nel marzo del 1926, vivo ancora il ricordo della lotta dilacerante condotta dal 1924 contro Trotsky più da Zinoviev e Kamenev che dallo stesso Stalin, dicevamo loro che le «frazioni» Trotsky e Zinoviev erano una cosa sola, fatto storico già compiuto nel successivo Allargato del dicembre 1926. Più che di nostra sagace visione storica, si trattava del semplice fatto che, in un ambiente che già puzzava di sbirresche insidie, i pestati marxisti di sinistra italiani di tutti i congressi mondiali erano i soli a cui si potevano senza pericolo confidare segreti pericolosi: tale opinione fu perfino detta all’Allargato del febbraio-marzo, sotto forma di un confronto tra esponenti dell’opposizione internazionale, dal cittadino Stalin.

Trotsky, Zinoviev, Kamenev e noi meno illustri stavamo solidamente piantati dalla parte marxista della barricata, oltre la quale erano le postazioni di Stalin e del suo seguito. Abbiamo voluto spingere l’analisi sociale marxista fino ad affermare che anche Bucharin, Rykov, Tomskij, checché ne sia della ridda sciocca dei nomi, erano sullo stesso terreno, potenzialmente. Coi nomi non si capisce nulla, e diventa un rompicapo il fatto che nella Terza tappa Bucharin viene come economista buttato a mare, con la «distruzione del kulak», adottando contro la «destra» le proposte della «sinistra» – ed intanto, defenestrato Zinoviev dalla presidenza dell’Internazionale, vi sale Bucharin stesso, fino al 1929! E Trotsky viene, Bucharin pontefice, gettato fuori dall’Internazionale e dal Partito. Riunirà tutti, e noi ignoti e vivi, la morte e la storia.

Torniamo dunque dalla contesa delle «tendenze» ai rapporti di produzione, che parlano a noi marxisti facendo tacere il rimbombo dei più altisonanti nomi.

14 – Industria e agricoltura

Lenin aveva bene stabilito che, dovendosi accettare il predominio nella campagna della piccola produzione mercantile, ed avendo con le misure della NEP lasciato libero sviluppo al commercio privato delle derrate, si lasciava per il fatto stesso inevitabilmente svolgere un’accumulazione di capitale nella campagna: questo era insito nella formula della salita al gradino successivo: capitalismo privato.

Tutto il problema riposava sullo «sfasamento» storico tra industria ed agricoltura. La moderna industria si presenta con la caratteristica della riunione di ingenti masse di strumenti di produzione (capitale) in una sola mano. È poi (dall’abbici) fatto secondario che questa sia la mano di una persona fisica, o si passi a ditte collettive, a trust, e allo Stato. Ma questa è una forma di proprietà che deriva da mutata natura di forze di produzione. Le nuove forze di produzione destatesi nel campo dei manufatti (e dormienti ancora per lungo tempo nel campo dei generi alimentari e affini) sono: a) il lavoro in parallelo di aggregati di numerosi lavoratori manifatturieri; b) la divisione tecnica del lavoro, ossia l’allenamento, l’esperienza acquisita delle maestranze a saper operare nel nuovo dispositivo, la loro cultura tecnica; c) il possesso, che è per sua natura sociale, universale, e non privato o nazionale, delle scoperte scientifiche e della loro tecnologia di applicazione. L’accumulazione del capitale nel meccanismo monetario è l’effetto e la manifestazione, non la causa sociale, di questa rivoluzione.

Nell’agricoltura russa (e in grado diverso e minore in tutti i paesi dall’avanzato sviluppo industriale) il capitale non è praticamente apparso nella campagna perché: a) il lavoratore opera entro il limite familiare e isolato dal suo simile sociale; b) tutti i contadini sanno fare tutti le stesse cose ed hanno la stessa limitata esperienza e cultura; c) la società umana non ha tratto in maniera sistematica una nuova tecnologia agraria, che sostituisca quella plurimillenaria, dal possesso di conquiste scientifiche.

Ora, dove il capitale non è mai apparso, è lontana l’apparizione del socialismo, modo di produzione superiore, basato su rapporti originali, non mercantili, non salariali.

Ora, l’esistenza nelle campagne di grossi possessi terrieri non costituisce e non sostituisce in modo alcuno l’introduzione nella campagna di capitale. La rottura rivoluzionaria di queste unità di possesso non ha creato, né lo poteva, nessuna condizione paragonabile alle tre nell’industria manifatturiera: lavoro associato, capacità degli uomini a condurlo, rivoluzione tecnologica.

15 – Lo sdoppiamento russo

In Russia prima della rivoluzione esistevano già le tre condizioni industriali ed una conseguente accumulazione capitalistica (ben mostrammo come alla partenza avesse già avuto forme di Stato). Si trattò di ricostituire il livello quantitativo del 1917, poi di andare oltre. Diciamo sempre: anche Kerenski lo avrebbe fatto, e sarebbe andato verso l’emulazione tra capitalismi.

Alcuni marxisti (Bucharin) si chiesero se mentre si faceva riaccumulare (in mano allo Stato operaio) il capitale industriale, e mentre anche Lenin aveva riscontrato necessario fare entrare in Russia capitale industriale con le concessioni (che tanto negli anni seguenti hanno ricordato con ostentato disprezzo gli stalinisti «giuratori di leninismo»; e non fu la partecipazione alla guerra 1939–45 una colossale «concessione» di forza umana al capitale mondiale?) non si sarebbe assistito all’ingresso del capitale nella campagna (e di quelle tre fisiche condizioni) con «passo di tartaruga». E domandarono se si faceva più presto ad iniettare capitale di Stato (necessario nella visione di Bucharin in primo luogo per la guerra anticapitalista) nella campagna, o a lasciarvi spontaneamente germinare capitale privato.

È logico che con un tale processo si doveva consentire che – come in ogni comparsa storica di economia capitalistica – salissero i prezzi delle derrate agrarie, sebbene questo fosse in contrasto con l’esigenza della super-industrializzazione sostenuta dalla sinistra di Trotzky-Zinoviev contro il Centro, poi da questo abbracciata in base alla tipica «mutevolezza di consegne», classica del più infame opportunismo.

Bucharin desiderava che la borghesia privata, dalla campagna, invadesse la città, come a certi passi mostrano credere sinistri e ultrasinistri? No certo, ma solo cercava la via meno lunga, in assenza della rivoluzione mondiale; e non era qui, in economia, il suo errore, ma purtroppo proprio nella valutazione politica internazionale.

Per una descrizione del quadro delle tendenze al 1927 rinviamo il lettore allo studio del compagno Vercesi, e al documento ivi riportato, con cui il C.C. staliniano caratterizzava i suoi oppositori gruppo per gruppo[252]. La successione della manovra è nota: blocco totale con la destra contro la sinistra, poi rottura con la destra e formale adesione alle proposte della sinistra: industrializzazione, schiacciamento del kulak capitalista privato agrario. Furto di idee, con rapina.

Ci mostrerà la fase ulteriore come la soluzione del centro – il colcos – rappresenti la via più retriva rispetto allo scopo socialista della lotta: superare la limitatezza contadina, di cui si può dare questa equazione marxista: saldatura dell’istituto familiare all’unità di produzione, formula sotto-borghese.

16 – Il conflitto coi kulak

La sostituzione inevitabile del sistema del commercio a quello della requisizione delle derrate, specie del grano, appare con una prima manifestazione di natura accumulatoria: l’accumulazione del grano stesso, ridivenuto fatalmente articolo di commercio. I nepman accumulano contante da una parte, grano dall’altra, comprando quello dei contadini poveri, che hanno avuto dalla rivoluzione poca terra, ma che non la possono coltivare in proprio perché non hanno denaro per un minimo di attrezzi e scorte (tragedia di tutte le riforme agrarie lottizzatrici). Lo Stato operaio ha dovuto assistere impotente al formarsi nella campagna di forme di affittanza e di salariato. Naturalmente «in diritto» non si forma la proprietà terriera, ma il fumoso «godimento uguale» dei populisti diviene un godimento disuguale: i piccoli contadini lasciano la loro terra alla gestione del capitalista rurale per un pugno di soldi o grano da consumare, e diventano poi suoi giornalieri.

Accusa di tutti a Bucharin: Vuoi tollerare il kulak, lo vuoi assorbire pacificamente nel socialismo, vuoi spegnere la lotta di classe tra il kulak e i contadini poveri di capitale. Falso, sebbene anche da sinistra si sia detto questo, ammettendo che Stalin (scusate sempre i nomi!) abbia preso una strada che Bucharin aveva primo indicata, quando sostenne che era chiusa la lotta di classe tra contadini e Stato operaio, e classe proletaria urbana.

La tesi marxista di Bucharin era altra: Nella campagna nel 1918 si è svolta una prima forma di lotta di classe, indicata da Lenin, la spogliazione dei feudali e grandi proprietari borghesi, col rovesciamento dei poteri periferici precedenti Ottobre. La nuova lotta di classe non deve ricalcare questa, ossia porre contro il kulak i contadini, ai fini di una spartizione, come già della terra, anche del capitale agrario, magari del grano e dei soldi (e questo avvenne, deprecatissimo da Trotsky e sinistri tutti, con Stalin e il colcos), ma deve far luogo alla vera, grande, moderna lotta di classe rurale, del salariato contro il capitalista imprenditore agrario, per la socializzazione del capitale agrario raggiungibile solo in una posteriore tappa (oggi 1956 si è lontani anche dalla statizzazione di esso!). Era lo stesso obiettivo dei sinistri ed ultrasinistri (Sapronov, Smirnov) che volevano giungere direttamente all’impresa di lavoro agrario in massa, all’agricoltura industriale gestita dallo Stato operaio, il che in teoria era la direttiva di Lenin, ma difettava nello studio della reale evoluzione della campagna russa.

Il famoso svolto a sinistra di Stalin, con la consegna di annientare il kulak, condusse invece proprio all’esasperazione dell’individualismo rurale, e in senso opposto a quello di uno slancio al socialismo nella campagna.

Il XV Congresso del partito nel dicembre 1927, che condannò l’opposizione di sinistra espellendo Trotsky e Zinoviev, ma non espulse affatto Bucharin, secondo il «Corso» staliniano decise
«di sviluppare l’offensiva contro i kulak e prendere una serie di provvedimenti che limitino il capitalismo nelle campagne e orientino le aziende contadine verso il socialismo».
Nello stesso tempo si decideva di elaborare il primo piano quinquennale. Tuttavia secondo il solito ignobile testo
«i kulak sapevano di avere difensori ed intercessori in Trotsky, Zinoviev, Kamenev, Bucharin, Rykov ed altri…»[253].

Quindi i kulak «rifiutavano di vendere allo Stato sovietico le forti eccedenze di grano che avevano accumulate; ricorrevano al terrore […] incendiavano i colcos [?] e i depositi pubblici di grano».

«Il partito e il governo presero una serie di provvedimenti eccezionali, confiscando il grano occultato o rifiutato. D’altra parte si accordarono ai contadini poveri alcuni vantaggi, in virtù dei quali essi potevano disporre del 25 per cento del grano confiscato ai kulak […]. I contadini medi e poveri si unirono alla lotta decisiva contro i kulak…».

A questo punto Stalin scopre che il gruppo Bucharin incita i kulak a resistere e che denuncia la «degradazione dell’agricoltura». Nel 1928 Stalin incolpa la destra come altrettanto esiziale quanto la sinistra; nel 1929, aprile, alla XVI conferenza, che approva il primo piano quinquennale «respingendo la variante minima dei capitolardi di destra» denunzia questa come «antimarxista». In tale mostruosa costruzione, dettata dallo stalinismo agli «storici», i veri disfacitori della rivoluzione bolscevica montano pezzo su pezzo un edificio, che nessuno avrebbe creduto tanto friabile, in cui accusano gli oppositori di tradimento, e presentano se stessi, e la loro incredibile serie di contorsioni, come i salvatori del socialismo!

17 – Il riferimento di Trotsky

La fase della lotta ai kulak non potrebbe essere meglio presentata che nelle parole di Trotsky, non per le sue indiscusse qualità personali anche di esatto storico, ma in quanto egli era tra coloro che, contro Bucharin e Stalin (del primo stadio della contesa), proponeva la politica della lotta al kulak.

«La popolazione apprese con stupore il 15 febbraio 1928 da un editoriale della ‹Pravda› che le campagne non avevano affatto l’aspetto, sotto cui le avevano dipinte le autorità fino a quel momento, ma rassomigliavano molto al quadro che ne aveva tracciato l’opposizione [di sinistra] espulsa dal congresso. La stampa, che il giorno prima negava letteralmente l’esistenza del kulak, oggi lo scopriva, su indicazione venuta dall’alto, non solo nei paesi, ma anche nel partito».

«Per alimentare le città, bisognava prendere urgentemente dal kulak il pane quotidiano. Non si poteva farlo che con la forza. L’espropriazione delle riserve di cereali, e non solo presso il kulak, ma anche presso il contadino medio fu qualificata «misura straordinaria» nel linguaggio ufficiale. Ma le campagne non credettero alle buone parole, e avevano ragione. La requisizione forzata del grano toglieva ai contadini ricchi qualsiasi voglia di estendere le aree seminate. Il giornaliero e il coltivatore povero si trovavano senza lavoro. L’agricoltura era ancora una volta nell’impasse…».

«Stalin e Molotov, continuando ad attribuire il primo posto alle colture particellari [come avevano fatto in polemica con la sinistra] cominciarono a sottolineare la necessità di allargare rapidamente le aziende agricole dello Stato (sovcos) e collettive dei contadini (colcos). Ma, siccome la penuria gravissima di viveri non permetteva di rinunciare alle spedizioni militari nelle campagne, il programma di sviluppo delle colture particellari si trovò sospeso nel vuoto […]. Le misure straordinarie provvisorie, adottate per prelevare il grano, diedero origine, inopinatamente, ad un programma di ‹liquidazione del kulak come classe›. Le istruzioni contraddittorie, più abbondanti delle razioni di pane, misero in evidenza l’assenza di un qualsiasi programma agrario non di cinque anni, ma di cinque mesi»[254].

Qui l’esposizione di Trotsky circa la materia agraria ci porta sulla soglia della quarta tappa, quella detta della «collettivizzazione». Da notare che Trotsky non è per la politica di tolleranza del capitalismo rurale, di cui accusa Bucharin, e nemmeno per quella di tutela dell’azienda particellare di cui accusa Stalin e Molotov.

Tuttavia è inesorabile la sua critica alla soluzione che il governo adottò e sostenne nelle campagne, che è quella cooperativa, ossia la formula del colcos. Bisogna quindi tornare su queste istituzioni, di cui ci siamo molte volte occupati con intento critico e che abbiamo trattato alle riunioni di Napoli e di Genova. Abbiamo pubblicato un riassunto della presente più ampia trattazione dopo la riunione di Genova, nei due numeri 15 e 16 del 1955. Nel secondo, al punto 23, si tratta, a proposito della costituzione del 1936, anche dello statuto del colcos e dei caratteri di questo tipo nuovo di conduzione agraria (cfr. più sopra, pagg. 43–44).

18 – La tappa di «collettivizzazione»

Trotsky rifiuta la tesi borghese che questo svolto sia stato «frutto della sola violenza», pur descrivendo i disastri cui condusse la «direzione» da parte dell’amministrazione staliniana. Egli ammette che l’apparizione di questa nuova forma, che noi chiameremo particellare-collettiva, sia stata determinata dalla struttura produttiva e da condizioni indipendenti dalla volontà e capacità di governi: la ripresa della produzione era una questione di vita e di morte per i contadini, per l’agricoltura, per l’industria delle città e per tutta la società, egli dice.

Trotsky fa la storia dei gravi errori dell’amministrazione centrale; mentre questa faceva in quel modo mostruoso la storia dei tradimenti dei suoi critici. Ad anni di distanza preme fare la storia delle forme produttive che di fatto ebbero a succedersi. La sedicente collettivizzazione fu uno svolto imposto dalla necessità, ma il suo decorso all’inizio causò la rovina, che Trotsky descrive, prima di una certa sistemazione che come ci è noto ancora oggi non ha portato la produzione delle campagne ad un livello soddisfacente, e nemmeno decisamente più alto del punto di partenza, di prima della rivoluzione.

Infatti negli anni della «collettivizzazione» si inserisce una paurosa caduta della produzione cerealicola, ed un vero sterminio della consistenza zootecnica, che costituisce negli anni 1932–33 la ben nota «fame di Stalin», carestia le cui vittime umane si indicano nella polemica trotzkista in cifre da quattro a dieci milioni di morti, a parte il diffondersi di epidemie e di malattie croniche nella popolazione russa.

I dati, che la statistica ufficiale non poté occultare, furono questi. Dicemmo che nel periodo della rivoluzione e guerra civile il raccolto cadde a soli 503 milioni di quintali di cereali, rispetto a 800 dell’anteguerra (1913). Durante la NEP si poté risalire, e così durante la terza tappa (di industrializzazione) che preparava tra le lotte interne nel partito la guerra ai kulak, lanciata in pieno nel 1929. Nel 1930 si era a 835 milioni di quintali; nei due anni seguenti (sostituzione dei colcos alle aziende private minime e ai kulak) si cadde a soli 700 milioni! Meno del tempo dello zar, con maggior popolazione. Nei primi due anni della collettivizzazione (parla sempre Trotsky) la produzione dello zucchero (era già questo un monopolio prima della rivoluzione) cadde a meno della metà. Ma la devastazione si ebbe nel bestiame, tra il 1929 e il 1934. Il numero dei cavalli cadde al 45 per cento, quello dei bovini al 60, degli ovini al 34, dei suini al 45. Vedremo che ancora oggi questa crisi spaventosa non è stata del tutto risalita.

Secondo Trotsky questo scempio di forze produttive si deve ai grossi errori della direzione centrale, ma resta salva la superiorità della forma colcosiana sulla forma particellare libera, e su quella caldeggiata da Bucharin della libera industria agraria privata. Non sarebbe, egli ritiene, altrimenti spiegabile che il solo potere straripante di un’organizzazione amministrativa di incompetenti (egli ce l’ha con la famigerata burocrazia) determinasse questa progressione: nei primi dieci anni dal 1918 solo l’uno per cento delle famiglie contadine era entrato nelle cooperative. Nel 1929 passarono dall’l,7 al 3,9; nel 1930 al 23,6; nel 1931 al 52,7; e nel 1932 al 61,5[255]. Oggi sappiamo che si dichiarano inesistenti o quasi le aziende libere.

Ma se tutto il gioco fu tra tradizionali aziende libere minime, e aggruppamenti «colcosiani», quali famiglie e quali contadini formavano la massa ridotta alle dipendenze dei kulak, da cui la collettivizzazione l’avrebbe liberata?

Indubbiamente deve pensarsi che lo smuovere il contadiname minuto fino al passaggio alla forma cooperativa (definita collettivizzazione) avvenne, in una data misura (la cui aliquota fu elevata dopo la NEP se tanta parte del grano era finita in mano ai kulak da dover fare una specie di guerra sociale per togliergliela), per effetto di una espansione del tipo 3 di Lenin: il capitalismo privato agrario.

Bucharin voleva da questo salire ad un capitalismo di Stato. A che si salì, con la forma colcos, trovata vantaggiosa da Stalin (che la quota follemente al grado 5, socialismo), ed in principio considerata anche da Trotsky superiore al tempo stesso alla minuta coltura e all’impresa agraria privata?

Prima di dirlo ricordiamo da che, secondo Trotsky, dipese il disastroso iniziale bilancio della nuova forma.

I contadini, esasperati dalle voci di confisca statale del bestiame, si dettero a macellarlo per farne carne e cuoio. Si spogliavano – da una relazione al Comitato Centrale di Andreev, stalinista -
«alla vigilia di entrare nei colcos, per brutale spirito di lucro, dei loro attrezzi, del bestiame, perfino delle sementi».
«A 25 milioni di aziende contadine isolate ed egoistiche, che ancora ieri costituivano i soli motori dell’agricoltura – deboli come la rozza del mugico, ma pur sempre motori – la burocrazia tentò di sostituire con un solo gesto il comando di duecentomila consigli di amministrazione dei colcos, sprovvisti di mezzi tecnici, di conoscenze agronomiche, e di appoggio tra i rurali stessi»[256]. La frase di Trotsky è possente: ma poteva la burocrazia, con quei dati sociali, non esistere, o essere diametralmente diversa?

19 – Travolgente afflusso ai colcos

Noi vediamo la forza che attirò nei colcos il contadino non in un superamento del suo egoismo (cosa assurda a chiedere sia a decreti statali che al senso del pericolo sociale generale – forse solo in parte all’agitazione di pericoli nazionali – e che invece dal «processo Bucharin» di trasformazione in puro bracciante si poteva aspettare) ma in un rapporto dialettico che si stabilisce tra il contadiname e ogni ceto piccolo-borghese, e lo Stato centrale potente. Il parcellare ne ha orrore fin quando lo Stato gli chiede tasse, ma ne è fortemente attratto quando si profili, con esempi concreti, l’offerta di contributi amministrativi, di arraffamento di «soldi del governo».

Il contadino già spogliato dai kulak e ridotto a quasi totale pauperismo fu attratto dalla certezza che nel colcos, oltre a pagargli il lavoro nei campi collettivi almeno quanto glielo pagava il kulak, gli avrebbero regalato un campicello e le bestie e gli attrezzi e le sementi. Si affrettò a vendersi tutto prima di aderire (giusta Stalin, come riportano «Il Breve Corso» e lo stesso Trotsky) non più a gruppi isolati, ma a villaggi, gruppi di villaggi, talvolta circondari interi.

Il determinismo genera nel produttore particellare una psicologia imitativa, logica conseguenza dell’istinto di conservazione. I rurali, stritolati da secoli dai feudali e da anni dai kulak, si gettarono nei colcos come le greggi, dopo che i primi capi erano passati. In quanto erano uomini e non pecore, e in quanto la rivoluzione aveva allargato per logica corsa di eventi il campo del mercantile scambio e dell’ambiente monetario, vendettero prima di entrare (o mangiarono) qualche pecora a quattro zampe che loro restava. Coi soldi potevano forse sperare di avere un angoletto migliore da qualche amministratore dei colcos. Non hanno altri ideali i ceti piccolo-borghesi, e Trotsky ci permetterà di dire che queste brutte cose non sono state inventate dal nefasto Giuseppe Stalin; come egli stesso con tanto altro materiale ci insegna.

Ma che cosa dunque hanno questi accoglienti colcos a che fare col collettivismo e il socialismo? Bucharin sapeva quanto Marx e noi quale evoluzione prospetta l’intrapresa capitalista rurale. Il colcos, quale evoluzione prospetta? Si trova il socialismo sulla sua strada? Lo dedurremo dallo statuto dei colcos, pure attingendo dalla grande mente di Trotsky ancora una pennellata del quadro di disordine e di improvvisazione disgustosa: «Lo statuto stesso dei colcos, che tentava di legare l’interesse individuale del contadino all’interesse collettivo, fu pubblicato solo dopo che le campagne erano state crudelmente devastate.»[257]

20 – Struttura del colcos

Il colcosiano riveste una doppia figura, ed il colcos è un’istituzione economica complessa. La terra a disposizione, che resta in teoria proprietà statale, si divide in due parti. Una più vasta forma la tenuta unitaria dell’azienda colcos, e dispone di un capitale di esercizio proprio, all’inizio non già formato da apporti dei piccoli capitali-scorte del contadino, ma dall’espropriazione di contadini ricchi o da intervento dello Stato. Inoltre il capitale macchine è dato dalle stazioni statali di motorizzazione, di diretta proprietà dello Stato, che all’inizio le offre gratuitamente insieme anche alla mano d’opera che le conduce e ai combustibili; in seguito, quando i colcos diverranno pieni di quattrini malgrado la fessaggine degli amministratori ed agronomi, ne riscuoterà un congruo affitto[258].

Tutte queste prestazioni e anticipazioni di capitale, in una economia manifatturiera salariale, sono palesemente parte del prelievo sociale-statale di plusvalore fatto a carico del proletariato industriale, e sono in relazione al basso tenore di vita nelle città, in cui nel periodo di collettivizzazione della campagna si dovette tornare al razionamento dei viveri, e in cui oggi ancora gli operai di fabbrica vivono fra dure angustie.

Avuta la terra e il capitale, e pagata allo Stato una certa rendita sotto forma di imposte per la terra, e un certo interesse per il largito capitale di gestione, il colcos prende la forza lavoro dai suoi membri, i colcosiani, e gliela paga. Se il colcos prendesse tutto il tempo di lavoro dei suoi associati, allora si passerebbe alla forma sovcos, o dell’azienda di Stato, i lavoratori sarebbero dei salariati, e l’azienda economicamente sarebbe un parallelo di una qualunque officina statizzata. Avrebbe un bilancio attivo, cellula nel bilancio statale scritto (Trotsky direbbe) in unità-moneta, e non avrebbe bisogno di pagare imposte fondiarie o di tal tipo.

Nel sovcos è tutta la terra posseduta (pare si stiano imbastardendo con orti individuali-familiari anche i sovcos, dal XX congresso in poi) gestita in modo unitario, ed in esso il lavoratore, come nelle fabbriche, è un puro nullatenente, e in rapporto all’equivoca formula del «godimento»[259] un nullagodente. Sola condizione sociale da cui si possa partire per la morte della limitatezza, la vita del socialismo, e per lasciar cadere tutte le altre scorie e scorze schiavistiche del capitalismo di Stato, industriale o agricolo: la forma aziendale, salariale, mercantile.

Nel colcos, dunque, l’altra parte di terra che non è diretta unitariamente per ricavarne alla fine prodotti che sono di proprietà del colcos stesso come azienda, è suddivisa in piccoli lotti ognuno dei quali tocca ad una famiglia colcosiana.

Qui ricompare in tutto la gestione familiare minuta, ed in sostanza la piccola proprietà contadina, salvo la non alienabilità della stessa.

Giusta la costituzione del 1936 e giusto lo statuto-tipo dell’artel, ossia del colcos, sono questi i diritti della famiglia rurale, affiliatasi al colcos, e sia pure spontaneamente. La spontaneità è del tutto «deterministicamente» spiegata. Si tratta di andare a spartirsi la pelle del proletariato rivoluzionario dell’industria. Si tratta della miserabile risorsa di cui tutte le infelici e imbelli classi medie del mondo moderno si sono ridotte a vivere: la elemosina dello Stato capitalista nelle strette di emergenza[260].

Giuridicamente la terra, anche del colcos, è proprietà statale, in godimento gratuito e perpetuo al colcos stesso.

Sono poi proprietà sociale (ossia, a dire della costituzione, socialista) del colcos l’azienda con le sue scorte vive e morte, come pure gli immobili sociali (fabbricati rurali). Dunque la proprietà spacciata per «colcosiana-socialista» ha per oggetto un capitale aziendale, e si estende, come in ogni forma capitalista classica nel senso di Marx, ai «prodotti forniti dal colcos». Se lo Stato li vuole, li deve comprare. Se li vogliono, i colcosiani li devono comprare. Il colcos è un capitalista collettivo, ma un capitalista il cui capitale appartiene ai lavoratori e impiegati. Quando vi è un premio, un profitto di azienda, o viene investito a migliorare le colture ed impianti, o se lo dividono i cooperatori. Questo «ideale» stravecchio va dagli scritti ingenui di Mazzini alle colossali corbellature della plutocrazia moderna d’America.

Quello che il colcos ha di originale e di gran lunga più reazionario è il secondo suo aspetto, quello parcellare, familiare.

Ogni famiglia appartenente a un colcos «ha in godimento personale» un piccolo appezzamento di terreno attinente alla casa, ed ha in proprietà personale l’impresa ausiliaria impiantata su tale appezzamento, la casa di abitazione, il bestiame produttivo, animali da cortile, ed un piccolo inventano agricolo.

21 – Le categorie economiche

La discussione sul colcos come forma economico-sociale ha due aspetti: uno qualitativo, uno quantitativo. Nel primo aspetto si tratta di vedere se, giusta la teoria marxista del capitale e della terra, si abbiano rapporti propri del modo di produzione socialista, o di quello borghese, o di modi ancora di questo più antichi, anche se presenti negli Stati a diritto borghese.

Diamo la precedenza alla questione qualitativa. Circa la quantitativa, accenniamo che un argomento a posteriori è il risultato produttivo che la campagna russa ha raggiunto col tipo colcosiano; problema che ormai i dati storici mostrano risolto in senso negativo. Lo Stato capitalista russo mettendo alla frusta i lavoratori dell’industria ha investito un capitale colossale nelle campagne: la resa di un tale capitale è stata inferiore a quella che avrebbe ottenuto un’economia agraria di impresa privata (Valle Padana, California, e tanti altri paesi borghesi).

Se questo fosse socialismo, che fine farebbe la nostra tesi marxista dell’impotenza del sistema capitalistico ad esaltare l’economia agraria?

Dinanzi a questo fallimento gigante, poca cosa costituisce ciò che una pletorica amministrazione pubblica consuma poltrendo, e gratta rubando qua e là, fatto di ordinaria amministrazione nel mondo moderno e in tutte le forme storiche meritatamente giunte alla fase di decomposizione.

La categoria economica in cui classifichiamo il colcos unitario è dunque di ditta capitalistica, cui appartiene il capitale investito, costante e variabile, che compra la forza lavoro salariata, ha la totale disposizione delle merci prodotte, le esita sul mercato realizzando un utile monetario quando il suo bilancio sia attivo. L’attivo non spetta ad un gruppo di privati, ma nemmeno allo Stato: esso spetta, qualitativamente parlando sempre, agli stessi soci cooperatori, ai colcosiani. Ditta dunque capitalista privata, e cooperativa.

Se il bilancio è passivo e il profitto sparisce, provvede lo Stato – ossia la classe dei lavoratori industriali, cui si riducono dal centro i salari – e in un certo senso provvedono anche i colcosiani stessi, con una delle loro anime, quella di salariati. Infatti, per ogni lavoratore colcosiano si tiene registro delle giornate ed ore prestate nell’anno, e, con una unità chiamata trudoden che l’amministrazione calcola, alla fine dell’esercizio gli si corrisponde il salario annuale, ossia un salario base, più la vera e propria quota profitto, esplicita od implicita che sia.

Ma se come lavoratore a tempo il colcosiano corre questi rischi, trova una riserva ignota al salariato dello Stato, o all’eventuale cooperatore di un’industria organizzata in cooperativa (non ve ne è esempio sistematico in Russia). Questa riserva sta nella sua seconda figura, nella sua seconda anima, nella sua azienda agraria minima personale, il cui prodotto è libero di consumare o di vendere, per provvedere ai suoi bisogni.

22 – Prospettiva agraria russa

Il piccolo contadino in paese capitalista sopporta il peso di tutta la società in quanto la sua economia reale è più sfavorevole di quella dell’operaio nullatenente e privo di ogni riserva.

Il colcosiano pareggia qualitativamente e come schieramento in categorie sociali il piccolo proprietario coltivatore dell’ovest, ma ne differisce per rapporti che sono a tutto suo vantaggio.

Il suo bilancio familiare si integra di trudoden dei vari membri della famiglia rurale, e del prodotto della coltura familiare in cui tutto il tempo di lavoro anche di vecchi e bambini viene utilizzato. Questo bilancio, non essendovi le perdite per debiti, contese di diritto, ipoteche, ecc., è per definizione attivo.

Analogamente a quanto disse Marx, che la società moderna vive a spese del proletario, mentre il proletario romano viveva a spese della società, si può dire che il moderno capitalismo statale russo vive egualmente a spese del proletariato di fabbrica, ma fa vivere a sue spese il contadino colcosiano, nella grande media sociale.

Il colcosiano russo, in questa magnifica invenzione che è costituita dalla vantata «collettivizzazione agraria», vive a spese della società, e per converso tiene allo stesso livello della piccola cultura tradizionale il potenziale sociale della produzione di derrate.

Che con lui vivano a spese della società i manutengoli del sistema, ossia i mestieranti dell’amministrazione e della politica, non è un fatto originale né nuovo e nemmeno ponderalmente decisivo, perché è un fatto proprio di tutte le società economiche della storia e del mondo. A esso si sottraggono solo le giovani forme rivoluzionarie.

Ciò prova che nella campagna russa non vive la rivoluzione socialista, non solo, ma nemmeno vi è riuscita ad allignare la rivoluzione capitalista, che nelle città e nelle industrie ha proceduto a passi da gigante.

Questo divario è di tutte le rivoluzioni borghesi, in cui il capitale si impadronisce di tutto il potere. Ma in Russia esso non è riuscito a soggiogare e battere, nemmeno politicamente, le forme della piccola produzione, e si è inchiodato, malgrado le colossali opere di industria, ad una forma incancrenita della temuta e scongiurata da Lenin limitatezza contadina.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXVIII)

23 – Il colcos per Trotsky

Abbiamo detto della struttura del colcos come aspetto qualitativo, ma prima di passare a quello quantitativo, riferiremo il parere di Trotsky sulla natura del colcos e la figura sociale della popolazione colcosiana.

Noi tendiamo a stabilire questo confronto tra: l’agricoltura russa del tempo zarista in cui vi erano forme feudali, borghesi di grande produzione, contadine di piccola produzione, e patriarcali, quella successa alla rivoluzione di ottobre, in cui vi erano forme di grande e media produzione capitalista (kulak) e le altre minori – e quella attuale, in cui vi sono forme di produzione collettiva-particellare (colcos) e di grande produzione statizzata (sovcos); di passaggio avendo confrontata questa con quella che Bucharin ipotizzava: grande impresa capitalistica affittuaria dello Stato. Da queste varie forme di produzione deriva la valutazione della scomposizione in classi della società, sulla trama dei cinque punti classici di Lenin. Nella forma Bucharin avremmo visto: Stato redditiero fondiario (gestito dal proletariato urbano) – classe di imprenditori agrari capitalisti – classe di puri salariati agrari (braccianti).

Non si tratta di idealizzare il «piano» Bucharin, del resto troppo audace in termini di determinismo economico, ma di provare che il sistema attuale non vale meglio di esso; è più di esso vicino al «privatismo» agrario; dunque più lontano dal socialismo.

Ci interessa Trotsky perché egli considera che sia più avanti di Bucharin il sistema dei colcos, uscito vincitore dalla «liquidazione» dei capitalisti agrari. In effetti questi aspiravano non solo al possesso di masse di capitale, ma anche alla proprietà terriera, che Stalin stette fino al 1927 per mollare in parte, e mai Bucharin propose di far lasciare dallo Stato, che invece, nel suo obiettivo, avrebbe confiscato il capitale accumulato dai kulak; e oggi non può confiscare quello accumulato dai colcosiani in piccole partite, ma in massa rilevante, a spese della popolazione industriale e senza ferire quella agraria.

24 – La falsa collettivizzazione

Ecco le gravi parole di Trotsky:
«Quando la politica di fronte al contadino si orientava verso il contadino ricco [Stalin-Bucharin] si supponeva che la trasformazione socialista dell’agricoltura, sulle basi della NEP, si sarebbe fatta in decine di anni tramite la cooperazione […] Abbracciando uno dopo l’altro i campi dell’accumulazione delle scorte, della vendita, del credito la cooperazione avrebbe dovuto alla fine socializzare la produzione».
(Notiamo che si tratta di traduzioni da dozzina: ristabiliamo il senso del pensiero marxista di Trotsky: realizzata nelle mani del kulak la prima accumulazione del capitale scorte, del capitale mercantile dato dal diritto ai prodotti sul mercato, del capitale monetario atto ad allargare gli investimenti, a tali capitali accumulati avrebbero acceduto col sostegno dello Stato politico socialista i gruppi di contadini portatori della forza lavoro, agendo in cooperative sulla terra unitaria non più parcellata, e si sarebbero poste le condizioni di una socializzazione di tutto il capitale agente nell’agricoltura. Per noi sono due ben distinti tempi: a) statizzazione; b) socializzazione: ma di ciò più oltre anche in rapporto all’economia di Trotsky, circa l’industria).
«Il tuttoTrotsky seguita – si chiamava piano di cooperazione di Lenin»[261].

(Questo passo merita altra nostra inclusione: la struttura bifronte del colcos, con la sua faccia parcellare e l’altra faccia unitaria, ma più padronale che associativa rispetto al lavoratore ibridato, non è stata mai prevista da Lenin, ed è uno dei mille falsi stalinisti a porne l’origine nello scritto sulla «cooperazione» del gennaio 1923, da noi prima studiato. Lenin parla della concessione di «premi dello Stato sovietico alle cooperative di contadini» e facilitazioni, crediti, privilegi, prezzi di favore per il loro prodotto, rispetto a quello dei parcellari: mai parla di dare come premi dei «godimenti» di tipo populista. Dice tra l’altro:
«La NEP a questo riguardo [la poca cultura dei contadini] rappresenta un progresso, nel senso che si adatta al livello del contadino più comune, non esige da questi niente di superiore. Ma per ottenere a mezzo della NEP che assolutamente tutta la popolazione partecipi alle cooperative, per questo è necessaria un’intera epoca storica. Se tutto va per il meglio, noi possiamo attraversare quest'epoca in uno o due decenni»[262].
Sono i venti anni di Lenin, di cui si è tanto detto, di «buoni rapporti con i contadini», semplice prologo della vera trasformazione socialista internazionale).

25 – Rivincita dell’egoismo rurale

Prosegua Trotsky, nella qualità di valoroso storico marxista.
«La realtà seguì, lo sappiamo, una via del tutto diversa, anzi opposta, quella della espropriazione forzata e della collettivizzazione integrale. Non fu più questione di socializzazione progressiva delle diverse funzioni economiche via via che le risorse materiali e culturali l’avessero resa possibile. La collettivizzazione si fece come se si trattasse di stabilire immediatamente il regime comunista nell’agricoltura. Ciò ebbe come conseguenza, oltre alla distruzione di più della metà del patrimonio di bestiame, un fatto ancor più grave: l’indifferenza completa dei lavoratori colcosiani per i beni socializzati e per i risultati del loro lavoro. Il governo operò una ritirata disordinata. I contadini ebbero di nuovo pollame, maiali, montoni, vacche a titolo privato. Ricevettero piccoli lotti di terra vicino alla loro casa. Il film della collettivizzazione venne girato a rovescio. Con questo ristabilimento delle imprese individuali il governo accettava un compromesso, pagando in qualche modo uno scotto alle tendenze individualiste del contadino. I colcos sussistevano; per conseguenza questa ritirata poteva sembrare a prima vista secondaria. In verità, sarebbe difficile sopravvalutarne la portata. Se si lascia da parte l’aristocrazia del colcos [che se la passa in modo privilegiato, vuol dire Trotsky] i bisogni quotidiani del contadino medio sono per il momento soddisfatti in una misura più grande dal suo lavoro ‹per sé›, che dalla sua partecipazione al colcos. Capita spesso che il reddito dell’appezzamento individuale sia due o tre volte più elevato del salario nell’impresa collettiva. Questo fatto, testimoniato dalla stampa sovietica, fa risaltare con vigore, da una parte, la dissipazione assolutamente barbara della forza lavoro di decine di milioni di uomini, e più ancora di donne, nelle colture nane, e dall’altra il rendimento molto basso del lavoro nei colcos»[263].

Quanto diremo a proposito dei dati quantitativi sta a provare che il rendimento complessivo resta basso in entrambe le facce del rurale Giano sovietico: e la sua faccia contadinesca bene somiglia a quella di guerra dei templi romani: la campagna è il nerbo delle fanterie imperiali.

Qualitativamente Trotsky, che aveva pure detto che la guerra al kulak era deterministicamente imposta, più che dagli ukase di Stalin, dalla necessità di cibare il ventre sociale, viene nella nostra tesi. L’anima – e lo stomaco – privati del membro dei colcos battono del doppio o del triplo quelli di cooperatore, di lavoratore associato. La sua evoluzione cammina proprio al contrario di quella vista da Lenin, che voleva, in un decorso storico, strapparlo anima e corpo dalla vile autoservitù della gleba, la peggiore di tutte, perché si riveste dello stupido istinto padronale, proprietario. Il colcosiano psicologicamente sta alla quota del nostro contadino meridionale piccolo proprietario legato alla gleba dalle tradizioni secolari – o domani dal programma, parlando con rispetto alla faccia vostra, del partito comunista italiano. Egli si ritira compiaciuto nel microregno della sua condanna a vita, e dichiara: sto ’n cima allu mio; poggio i piedi nella breve cerchia della mia parcella, di cui sono padrone e schiavo. Non arrivo a capire che cosa voglia dire che qui cambio dieci ore di schiena spezzata in un chilo di pane, mentre fuori «dallu mio», tra i miei compagni, cambierei due ore in due chili.

26 – Il peggior compromesso

Il compromesso di Stalin, di cui pensiamo avere a sufficienza disonorata la chiassosa vanteria di avere sterzato a sinistra defenestrando i kulak e sostituendo così il «socialismo» al capitalismo nelle campagne, è assai peggiore del compromesso di Bucharin coi kulak capitalisti. Il vantaggio non era solo quello, punto centrale di tutto questo nostro studio, di non mettere fuori posto i termini che non sono parole ma forze motrici della rivoluzione non tradita. Il marxista può ben dire: Questa forma che esiste nella realtà di oggi, e non è ancora al momento di sparire, è capitalismo di Stato industriale, è capitalismo anche privato agrario, e nulla ha a che vedere con la forma socialista, con l’economia socialista. Da ciò non resta il socialismo, polo magnetico positivo della rivoluzione mondiale, disonorato né pugnalato: ma lo è senza rimedio quando a quelle forme antiche si concede a ludibrio la dichiarazione di essere socialismo. La controrivoluzione russa sta tutta in ciò.

Anche Lenin fece un compromesso con i socialisti rivoluzionari, ed in un senso più largo col populismo contadino, battuto in breccia da mezzo secolo di lotta dottrinale e «terminologica». Riconobbe che il programma antimarxista degli essere era un ponte da cui si doveva passare, e li accettò nel potere! Ma dopo poco tempo la storia ne volle lo sterminio; e si poté andare oltre.

Il compromesso «alla Lenin» è plausibile quando si tratta di sbrogliare la successione storica di una rivoluzione borghese. Il suo tempo si chiude nei campi storici in cui si tratta solo di svolgere la rivoluzione anti-borghese, come nell’Europa dell’ovest. Ivi si tratta lo stesso di stritolare i partiti piccolo-borghesi opportunisti, più pericolosi di quelli grandi-borghesi e fascisti; solo che la via dell’offerta (o subita) alleanza con essi, mancando del tutto di motivi economico-sociali, non conduce a sterminarli ma ad essere, noi comunisti, sterminati da loro, ovvero a degenerare, come dopo Lenin è avvenuto, fino alla loro spregevole funzione.

Il compromesso coi kulak che Bucharin studiava, lui che molti dei compromessi geniali di Lenin non aveva capiti (pace coi tedeschi, appoggio alle nazionalità oppresse, uso degli specialisti borghesi ad alto compenso, ecc.) era un compromesso alla Lenin. Accumulato e concentrato che avesse nelle campagne lo sminuzzato capitale agrario di esercizio, di commercio e di finanza, il kulak sarebbe stato buttato via come avvenne per gli esserre, ma con un’utilità dieci volte maggiore perché lo schema storico-economico di una agricoltura ad imprese capitaliste private di largo respiro forma una base al socialismo molto più solida che lo schema di un godimento privato alla dimensione di azienda-famiglia.

Questo compromesso poteva finire come quelli di Lenin. Il compromesso di Stalin, oltre al nefasto di uccidere il potenziale della parola, e dell’aspirazione, socialista, ha l’altro di non avere prospettiva di poter distruggere, in avvenire, la forma spuria con cui si è compromesso: l’individualismo – e peggio il familiarismo – rurale che Lenin e Trotsky con noi maledicono.

Il colcos è una forma statica, non evolvente se non nel senso di un maggior prepotere delle cupidigie egoiste ed ereditarie, in cui il capitale dell’impresa cooperativa si accumula non per preparare la classica esplosione di Marx, ma per fare da formaggio sui maccheroni alla bassa, antisociale microricchezza paesana. Domani lo Stato non trova in esso un capo solo da stringere in pugno per socializzare la macchina produttiva, e magari una testa sola da far cadere; ma un invertebrato dai cento, mille gangli vitali, impossibili a raggiungere tutti.

Il compromesso coi kulak aveva un contenuto di logica marxista. Il compromesso coi colcosiani – senza bisogno di burocrazie che vi speculassero – fu la vera capitolazione della gloria bolscevica.

27 – Origine della forma colcos

La conduzione in comune della terra ha in Russia le antichissime origini di cui a suo tempo abbiamo parlato[264]. Il «mir» è una collettività di contadini servi, in quanto nel loro complesso devono tributo di lavoro o di derrate al signore feudale, al monarca, allo Stato, o a enti religiosi. Già nel mir vi è la doppia forma di conduzione: ogni famiglia ha una sua piccola usadba, appezzamento ad orto, su cui si trova l’izba, la casa del contadino con le scorte vive e morte; la terra comune viene periodicamente spartita in appezzamenti lavorati da una singola famiglia, chiamati campi, su cui poteva lavorare e raccogliere, pagando un tributo in denaro, obrok, o in lavoro servile in terra altrui, barščina. Con la riforma del 1861 fu ammesso il riscatto dei servi, tendendo fino da allora ad una stabile lottizzazione delle terre comuni. Ma i contadini pagarono ai signori prezzi enormi, che li rovinarono totalmente, e in parte si ridussero a salariati industriali o braccianti senza terra, mentre in parte sopravvissero le forme collettive antiche, e mentre si formavano i contadini ricchi. Nel 1906 la più audace riforma di Stolypin neppure riuscì a stabilire su tutta la terra agraria un regime di aziende singole, sostituendo una partizione di stabili possessi all’antica pratica del nadiel, o periodica partizione di terre collettive. Ma si ritiene che alla vigilia della grande guerra solo un quarto della forma collettiva di gestione era stata liquidata. Dopo la rivoluzione di Ottobre, malgrado l’anarchica invasione dei contadini nelle terre tolte a nobili e borghesi, restarono ancora notevoli esempi di aziende collettive derivate da quelle antichissime, e che erano le generatrici degli odierni colcos.

Prima di vedere quale è il rapporto tra la conduzione familiare e quella cooperativa nel colcos odierno, regolato da statuti promulgati nel 1925, nel 1930 e infine nel 1935, in relazione alle costituzione 1936, è bene accennare ai tre tipi di tali forme esistenti, in limitata misura, nel tempo del comunismo militare e della NEP: 1918–1925.

La «società di coltivazione collettiva» è una forma in cui un gruppo di coltivatori apporta solo una parte delle sue terre, e vi apporta la sua opera e il suo capitale scorte, conservando però la singola proprietà sul capitale apportato sia ai fini della ripartizione dei prodotti, sia a quelli di un ritiro del membro dalla società. Tale forma di lavoro in comune è temporanea e quindi è la meno collettivizzata e la più labile.

La «comune agricola» deve invece considerarsi la forma più spinta, anche rispetto al moderno colcos, che ha preso origine dalla terza forma, o «artel», nome della corporazione contadina del medioevo, col quale nome, scambiato a piacere con quello di colcos, lo statuto ufficiale designa la stessa forma attuale.

Nella «comune», pur essendo teoricamente possibile il recesso di un socio, tutto viene conferito senza lasciare residui di godimento singolo: terra, capitale, lavoro. I prodotti sono anche comuni e distribuiti in parti eguali, mentre quanto eccede il fabbisogno di consumo va ad incrementare l’azienda. Era a questo tipo che sempre si rivolsero gli sguardi di Lenin. Come nel moderno sovcos, nella comune si abita e si mangia in comune; è radicalmente vietata ogni forma non solo di proprietà ma anche di uso singolo della terra, ed ogni prestazione salariata del lavoro. Nello statuto del 1925 era detto che «la comune agricola ha lo scopo di elevare il benessere materiale e spirituale dei propri soci attraverso: a) l’organizzazione e la conduzione in comune da parte dei membri della economia agricola; b) la distribuzione fatta in misura eguale tra i membri stessi di tutti i prodotti del proprio lavoro; c) il soddisfacimento in comune dei loro bisogni». Si può dunque dire che la tramontata forma della comune agricola attua una completa economia comunista interna. Il sovcos ne differisce in quanto non solo la terra, ma tutto il capitale è proprietà non del sovcos come associazione, ma dello Stato centrale. A questo carattere avanzato ne risponde uno arretrato: i prodotti vanno allo Stato e il lavoratore riceve un salario.

28 – Diritti del colcosiano

Secondo lo statuto 1935 dell’artel-colcos, forma intermedia che ha poi assorbito le due estreme, Comune e Società di coltivazione, ricordiamo quali sono le dotazioni personali-familiari permesse al membro. Casa di abitazione (in proprietà ereditaria). Un appezzamento che varia da un quarto di ettaro ad un mezzo, e in caso di terre meno fertili al massimo di un ettaro. Secondo lo statuto modello sono anche privata proprietà «di ogni casa colcosiana» i capi seguenti:
«tre bovini tra cui una mucca, una scrofa con porcellini, fino a dieci tra pecore e montoni, una quantità illimitata di pollame e conigli, e fino a venti alveari».

Per alcune regioni le leggi allargano questi diritti, dice lo statuto. Giusta un articolo di Pavlovskij nel n. 1–2 della rivista «Cultura sovietica», 1946, si parla di una vacca con tre vitelli e di due scrofe con figli, ma per le regioni a grande sviluppo dell’allevamento si arriva a 8–10 vacche, 100–105 pecore, 10 cavalli, 8 cammelli…

Vedremo l’importanza delle cifre. Dal punto di vista giuridico vi è qualche divergenza nelle dizioni, o forse nelle traduzioni. In sostanza si tratta di un vero diritto di proprietà privata sopra: la casa, il piccolo appezzamento, il capitale scorte dato dal piccolo inventario di utensili e dagli animali. Lo statuto applica la parola proprietà a tutte queste dotazioni, talvolta riferite alla «casa colcosiana», talvolta ai «membri dell’artel». La Costituzione parla di proprietà personale per la casa e l’impresa impiantata sull’appezzamento, e per questo stesso di «godimento personale» o «usufrutto personale».

Ma come per tutto il territorio che lo Stato attribuisce ad un dato colcos si parla di «godimento gratuito», non sottoposto a termine cioè perpetuo, lo stesso va detto del «godimento» del colcosiano sul suo appezzamento. La Costituzione infatti all’articolo 10 tutela il diritto di successione ereditaria (che per definizione è perpetuo) per i seguenti beni: proprietà personale sui proventi del proprio lavoro e sui propri risparmi, sulla casa di abitazione e sull’impresa familiare ausiliaria, sugli oggetti di uso domestico e personale, ecc.

Una vecchia idea è che «il socialismo non distrugge la proprietà personale». Ma è una formula sciocca. La dottrina marxista non si inscrive nel «diritto», perché la teoria del diritto si inscrive in essa, ne è un semplice capitolo. Se tuttavia si potesse dare una formula giuridica dell’economia socialista, essa suonerebbe così: La società è immediatamente proprietaria di ogni provento del lavoro erogato da ciascun suo componente, che su esso non esercita diritto alcuno.

Ma, restando pure nei termini della scienza del giure corrente, noi affermiamo la verità di questa equazione: godimento gratuito e perpetuo uguale a proprietà piena. Questa è una verità anche dell’economia, e non è solo per noi marxisti che il diritto nasce sull’economia. La somma delle rendite future di un bene a disposizione perpetua, riportate ad oggi (col pieno rispetto della borghese teoria dell’interesse composto), è uguale all’intero valore del capitale messo a frutto. Solo il calcolo di un usufrutto a termine futuro fissato dà una cifra inferiore a quella del valore capitale del bene, e la differenza si chiama dai giuristi: nuda proprietà. Questa verità in matematica si esprime così: l’integrale degli infiniti frutti futuri di un capitale, ciascuno ridotto al suo valore attuale, è uguale al capitale stesso.

Ne sorge che tutto il valore di terra, scorte ed altro che è dato in uso senza limiti alla famiglia colcosiana, è proprietà, ed è economia privata; e tutto il suo campo, che si tratta di stabilire, è sottratto non solo al campo socialista, ma anche a quello capitalista di Stato.

È poi al di sotto del capitalismo privato, nella serie storica dei modi di produzione, perché vi gioca lavoro non associato e non salariato (tale forma il colcosiano la eroga sulla terra cooperativa) e resta all’altezza del secondo grado di Lenin: piccola economia contadina mercantile.

29 – Spettanze del colcosiano

Si tratta ora di vedere qual è il rapporto di lavoro del colcosiano come lavoratore associato, fuori del suo campicello e del tempo in cui lo accudisce. Secondo lo Statuto, al suo ingresso nel colcos, o alla formazione del colcos dal concorso di multiple aziende singole antiche, avviene l’apporto della terra, e tutti i confini tra i campi privati sono per sempre cancellati, salvo la zona che ogni elemento-famiglia (nel termine tradizionale ogni dvor) conserva attorno alla sua casa. Quanto alle scorte che ciascun aderente possedeva prima, dal 50 al 70 per cento gli sono accreditate come sua quota contributiva nei libri aziendali, mentre il resto viene a fondo perduto versato al capitale indivisibile del colcos. A tale fondo comune ciascun aderente versa una tassa di iscrizione di 20 o 40 rubli (1935). Al colcos può aderire ogni individuo atto al lavoro, uomo o donna. Non è chiaro come vi aderiscono i figli di colcosiani, se all’atto del matrimonio, o di maggiore età, e se pagano quota; e come ricevono una nuova casa e campo; risulta l’urgente richiesta di case colcosiane negli ultimi anni. Il membro del colcos ne può uscire, e ritirare il suo capitale personale, ma non l’appezzamento di terra. In casi gravi vi è la espulsione.

Per il lavoro in comune tutti i membri del colcos vengono raggruppati in brigate, adibite a dati cicli di lavoro, d’intorno a 50 persone, e con date specializzazioni tecniche.

Il lavoro da ciascuno prestato viene misurato in trudoden o giornate di lavoro il cui valore varia secondo la capacità tecnica e il rendimento generale della produzione varianti parimenti da azienda ad azienda. L’annotazione è fatta dal «brigadiere» sui libretti individuali. Naturalmente gioca, come nell’industria russa, il sistema dei premi, in percento sui trudoden dell’anno, ai più zelanti. Sono ammessi nell’anno anticipi in denaro o generi.

Prima del conto finale fra rata del colcos e dei lavoratori, si soddisfano i prelievi per terzi. Allo Stato si debbono importanti aliquote dei vari prodotti, del grano in primo luogo, pagati ad un prezzo ufficiale più basso del mercato.
«Tali consegne obbligatorie del colcos allo Stato costituiscono – dice il citato autore russo – la forma più importante di tassazione dell’azienda agricola contadina».
Fino all’anteguerra la percentuale delle consegne si valutava in anni di buona produzione tra il 12 e il 15 per cento del raccolto. Di più si versano allo Stato le anticipazioni di sementi, e i noli alle stazioni di macchine e trattori, spesso anche stimati in quote di prodotto lordo. Si provvede quindi alle trattenute per normali scorte di sementi e per fondi di assistenza e previdenza. Quindi l’assemblea del colcos stabilisce quale parte del prodotto rimasto sarà venduta sul mercato, per far fronte alle spese aziendali. Dal netto ricavo di queste vendite obbligate e libere si ricava il reddito monetario. Di questo il 20 per cento circa va a nuovo investimento in capitale. Il resto del denaro viene distribuito ai soci dell’artel in ragione dei trudoden accreditati a ciascuno. Anche la parte in natura della produzione non venduta viene spartita allo stesso modo.

Quanto dunque il colcosiano ricava dal suo lavoro associato riveste una forma che ha del salario, in quanto la misura base è il tempo di lavoro prestato per un dato tipo di attività tecnica, ed ha del dividendo su un profitto, che è quello realizzato dall’azienda cooperativa di cui ognuno è socio sotto due profili: l’apporto iniziale di un capitale scorte e di una quota sottoscritta; e l’apporto di tempo di lavoro.

30 – Rapporto tra colcos e Stato

Se quindi come parcellista della sua ussadba il colcosiano è socialmente un piccolo proprietario conduttore diretto, come socio dell’artel egli è nello stesso tempo un lavoratore salariato ed un azionista di impresa che riceve profitto.

Sotto questa seconda forma, il colcos, che è imprenditore collettivo, sarebbe anche un proprietario fondiario (uguale a goditore perpetuo) se davvero non pagasse una rendita allo Stato, padrone di tutta la terra agraria. Ma noi abbiamo visto ora come lo Stato percepisca dall’azienda colcos versamenti così notevoli, che hanno il carattere di una forte imposta. Poiché nei paesi borghesi i proprietari fondiari privati pagano un’imposta allo Stato, bisogna dire che il colcos, oltre ad essere un imprenditore capitalista collettivo, è anche un proprietario fondiario collettivo. Se l’imposta assurgesse a valori molto alti, tali da chiamarla rendita, allora si potrebbe dire che il colcos è affittuario dello Stato e gli paga una rendita per la terra di proprietà pubblica.

Ma nel rapporto tra economia contadina, in cui il colcos rappresenta una cassa della massa rurale, e apparato statale centrale (se mettiamo da parte il solito fantasma della burocrazia classe sfruttatrice), dobbiamo contrapporre agli oneri dei colcos a favore dello Stato con le consegne obbligatorie gli altri dello Stato verso i colcos per le opere pubbliche non solo ma per mille servizi, di trasporti e di energia, di stampa, scuola, biblioteche, assistenze innumerevoli statali, e così via; il sicuro risultato sarà che lo Stato in tutto il rapporto, se non è in passivo, è tutt’al più remunerato da un’imposta a molto modico tasso, che il contadino associato paga per tutta la tutela statale.

Lo Stato, che era in teoria la forza politica della classe operaia industriale, con la sua funzione presiede ad un trasporto di valore, e di plusvalore, dalla classe operaia delle città a quella contadina-proprietaria (due volte proprietaria in forma individuale ed in forma associazionistica), così come lo Stato borghese sovrintende al trasporto di plusvalore dalla classe proletaria a quella capitalistica e proprietaria-fondiaria.

Uno Stato ispirato da interessi contadini sovrastanti quelli proletari è il naturale alleato di classe degli Stati capitalistici storici di tutto mondo, anche da quando il suo capitale industriale appariva chiuso in un compartimento stagno rispetto al capitale finanziario internazionale.

Delle tre classi della società borghese-modello di Marx, quella operaia seguita ad essere la classe sfruttata, e quella capitalistica è rappresentata dallo Stato amministrativo, non come collegio dei suoi funzionari di alto rango, ma come canale emulatore per le forze del capitalismo borghese estero. La classe dei proprietari fondiari ha preso una forma non minoritaria ma «populista» ed ha la figura di un consorzio di consorzi contadini cui rifluisce un’alta rendita fondiaria tagliata sul plusvalore che eroga il proletariato dominato e sfruttato[265].

31 – Magro bilancio agrario russo

Al rumoroso iter dell’industria sovietica, che coi suoi ritmi di incremento sbalorditivi – come abbiamo dimostrato nel «Dialogato coi Morti» – ha siglato la sua natura di capitalismo manifatturiero giovane, iniziale e prorompente sulle spalle di un proletariato sottoremunerato, corrisponde un passo storico ed economico zoppicante della campagna russa. Completiamo in questa sede il quadro dato nella Terza Giornata, Basso pomeriggio del «Dialogato» a grandi tratti di insieme[266].

Consideriamo, nel ciclo che sta fra la prima guerra mondiale ed oggi, il decorso dei dati quantitativi relativi alla superficie geografica ed agraria, alla popolazione, ed infine alla produzione agricola. Ed assumiamo, nel farlo, le cifre fornite dalle fonti sovietiche durante tali anni.

Giungeremo ad una conclusione facile ed evidente: nessun progresso, né di massa, né di rendimento, nella produzione agraria. E ciò malgrado che capitali imponenti siano stati investiti nelle campagne, praticamente a fondo perduto. In tale dramma si ripete quello della moderna civiltà borghese, che mentre ha elevato la soddisfazione dei nuovi bisogni, da essa stessa suscitati, di manufatti e servizi di varietà infinita, non ha saputo e potuto smuovere in modo apprezzabile dai livelli millenari l’alimentazione in ordine alle necessità prime vitali, e ciò mentre vaste parti dell’umanità stanno ancora al di sotto dei minimi vitali, naturali, di cibo. Nel che sta la condanna centrale che Marx dettava contro di essa.

Come superficie geografica si equivalgono il 1913 e il 1957; l’impero degli zar e l’Unione Sovietica si accampano – satelliti a parte – sulle stesse frontiere, che chiudono 22,4 milioni di chilometri quadrati. Le cifre stancano, e adotteremo il modello Italia, concreto per il lettore: «settantaquattro e mezzo» Italie.

Nell’intervallo di 44 anni la superficie territoriale è scesa, poi è risalita. Tra le due guerre mondiali, per la perdita di Polonia, Stati Baltici, e qualche altra zona, aveva oltre un milione di kmq. in meno, che valeva più di tre Italie. Ma la superficie controllata era scesa di molto negli anni della guerra civile, dal 1917 al 1924, del che va tenuto conto per i confronti con quegli anni di depressione economica e carestie in serie.

In questo spazio la popolazione era nel 1913 di 159 milioni; oggi la si è censita in 200 milioni (1955) mentre tutti la ritenevano giunta a 220.

Con tale cifra ufficiale la Russia vale quattro e mezzo Italie odierne.

La densità di popolazione in Russia era nel 1913 di 7,1 abitanti per chilometro quadrato. Oggi è di 8,9. La densità di popolazione italiana è oggi di 162 abitanti per kmq., 18 volte più grande.

Ora ci preme stabilire che la popolazione russa, e con essa la densità, in 42 anni sono cresciute del 25,8 per cento. Ciò esprime un incremento medio annuo dello 0,55 per cento. Ma negli ultimi anni, a detta di Chruščëv, si sarebbe avuto un aumento di 16,3 milioni in cinque anni. Se la popolazione 1955 era di 200 milioni, quella 1950 era di 183,7: l’aumento vale l’8,9 per cento, e per ogni anno l’1,7. Tale cifra incredibile è doppia circa di quella della ben prolifica nostra Italia. Un certo mistero resta sul totale della popolazione russa, come denunziata dagli stessi sovietici. Dai 159 milioni del 1913 si scese nel 1926 a soli 147 – effetto della prima guerra e della rivoluzione. Nel 1938 si era a 171; indubbiamente la seconda guerra mondiale determinò altro decremento, e con la successiva ripresa si giunse nel 1952 a 180,5, dato che al XIX congresso del partito fu annunziato l’aumento di 9,5 milioni, dal 1938. Ma tale cifra non va d’accordo coi 183,7 del 1950, dedotti sopra!

32 – La composizione sociale

Se le alte fonti cadono in tali contrasti, ancor meno ci sarà da fidarsi sulla partizione annunciata tra popolazione urbana e rurale. Al 1913 la prima sarebbe stata di soli 28 milioni, contro 131 della campagna. Alla depressione del 1926 troviamo 26 nelle città e 121 nelle campagne. Nel 1938, gli urbani salgono a 56, i rurali scendono a 115. Infine la situazione all’aprile 1956 sarebbe di 87 milioni di popolazione urbana, contro 113 di rurale. Da qui la vantata evoluzione della società russa da agraria a industriale: ma che di meglio può vantare la genesi di una società capitalista? Col suo mostro più orrido: l’inurbamento?

Le stesse fonti sovietiche hanno dato una statistica per classi. Nel 1913 vi sarebbero stati 17 per cento di operai e impiegati, 66,7 di contadini, 16,3 di possidenti e commercianti: è una statistica di popolazione «attiva» a parte i non attivi dei nuclei familiari. Nel 1928 i borghesi sono 4,6 per cento, i contadini individuali sono 74,9 e solo 2,9 quelli in cooperative, 17,6 gli operai e impiegati. L’aumento dei contadini non sembra corrispondere a quello noto delle aziende, da 18 a 25 milioni, per effetto della rivoluzione.

Oggi la Russia avrebbe questa composizione sociale: operai e impiegati 58,3 per cento, contadini associati 41,2, ancora liberi appena mezzo (0,5) per cento.

Oggi ci sono, lo sappiamo, due sole classi! Come popolazione attiva gli operai e impiegati sono saliti dal 17 al 58 per cento, i contadini scesi dal 67 al 42 circa.

Ritenendo per un momento che queste cifre date in grandi discorsi politici e pubblicazioni di chiara propaganda siano giuste, si rilevi solo che, nel 1913, 67 contadini lavoravano al cibo di 100 abitanti ed oggi ve ne lavorano solo 42. Nel 1913 i contadini erano super-sfruttati, e i 33 non contadini, in verità molto eterogenei, mangiavano discretamente il loro prodotto; oggi i 42 contadini producono per cento abitanti, ma mangiano un’alta aliquota del prodotto, e i 58 non contadini, che sarebbe grazia considerare omogenei, mangiano poco.

Solo questa spiegazione può aderire al fatto grave che la produzione agricola non è cresciuta in misura nettamente maggiore della popolazione consumante.

Quale la composizione contadina nelle nazioni moderne borghesi? Secondo i dati dell’annuario 1955 dell’ONU sulla popolazione attiva, quella dedita all’agricoltura è in Italia il 39,4 per cento, negli Stati Uniti il 12 per cento, in Gran Bretagna il 5 per cento, in Germania il 23 per cento.

Ne deve fare della strada la Russia col suo 42 per cento attuale di contadini, per poter «emulare» l’industrializzazione occidentale, ossia per divenire tutta e veramente capitalista!

Ma ogni volta che i canterini del Cremlino sfoggiano eloquenza nel magnificare i passi che avrebbero fatto nella direzione della conquista «del socialismo», essi non fanno che portarci prove storiche possenti della natura squisitamente capitalista del loro cammino e del loro compito. Essi vogliono mostrare una vittoria nella drastica – e ben esagerata – decurtazione della popolazione contadina, che in 27 anni, dal 1928 al 1955, vantano di avere ribattuta dal 78 al 42 per cento della totale, e ciò grazie alla grande trovata della proprietà socialista colcosiana. Ma quale sintomo più chiaro del grandeggiare di una società capitalista, morbo storico dell’economia delle campagne?

Ai fini del nostro studio per le prossime riunioni sull’economia occidentale ed americana, ci pervengono i dati tratti da un lavoro di S. Kuzness, dell’Ufficio Nazionale di ricerche economiche di New York, 1946. Si tratta della variazione dell’aliquota di popolazione agraria negli Stati Uniti dal 1870 al 1940. Ecco la serie decennale della percentuale contadina americana: 51,6, 48,8, 42,5, 37,7, 30,7, 26,7, 21,3, 16,9. Oggi, lo abbiamo detto or ora, 12,5.

Nella foga di emulare il capitalismo i russi sono arrivati al grado capitalista americano, data 1890!

33 – Dotazione di terra agraria

L’enorme Russia ha poca popolazione, ma ha anche una gran parte del suo territorio non adatta a produrre cibo per essa. La superficie agraria, esclusi i boschi, è oggi (dati 1954 dell’annuario ufficiale sovietico) di soli 6 478 000 kmq. ossia del 29 per cento di quella territoriale (22,4 milioni di kmq.). Si possono aggiungere le foreste immense, per circa il 43 per cento della superficie totale, ma solo 5 850 000 kmq. di questa, ossia il 26,2 per cento, accessibili all’uomo, non diremo al coltivatore.

Sulla superficie della pur montuosissima Italia, di 301 mila kmq., quella agraria unita alla forestale raggiunge il 92,2 per cento: agraria 73,2 (22 milioni di ettari), forestale 19 (5 milioni 710 mila ettari).

La Russia è settantacinque Italie, ma semina (prati compresi) soltanto 224,7 milioni di ettari contro i 18,3 italiani; dunque, solo 12 volte di più. La superficie agraria, senza le foreste, è solo 29 volte di più. Ma in essa figurano le «terre vergini», che in Europa non ci sono più.

Sul rapporto influisce la fittezza della popolazione. Possiamo dire che un ettaro seminato deve nutrire in Italia 2,6 persone, mentre in Russia solo una persona. Evidentemente, dato che proporzione non diversa dei consumatori lavora nell’agricoltura, vi provvede il maggiore potenziale produttivo della terra.

Se prendiamo tutta la superficie agraria, ogni ettaro deve nutrire in Italia 2,2 persone, in Russia 0,37 persone; ma molto più forte è la differenza di fecondità degli alberati nei due casi, oltre quella dei terreni a scampia, minore la rata di terre a riposo e maggesi, ecc.; nullo per noi il gioco di terra vergine.

Stabilita tale ben nota bassa resa dell’agricoltura russa, vediamo il decorso storico della superficie seminata, e di quella parte che lo è a cereali.

Secondo i due estremi della serie che seguiamo, sotto lo zar nel 1913 si seminavano 105 milioni di ettari, di cui 94,4 a cereali. Oggi, ossia al 1955, anno descritto al XX congresso come di grande slancio agrario, se ne seminano 186 milioni di ettari, di cui 126,4 a cereali.

L’aumento è stato dunque del 77 per cento nella superficie a semina, e del solo 34 per cento nella superficie a cereali.

Dobbiamo ricordare che la popolazione è aumentata intanto del 25,8 per cento, se sono giusti i 200 milioni che hanno sostituito i 220. Dunque si è segnato il passo.

34 – Produzione di cereali

Sappiamo bene quale è la risposta, specie quella data da Chruščëv al XX congresso: è aumentato il rendimento del raccolto per ettaro, e quindi la produzione di cereali, e grano in ispecie, è cresciuta. Sono molto dubbi i dati relativi al piano quinquennale 1950–55 che mentre doveva dare un aumento del 60–70 per cento di tale produzione – il che si è tornato da Bulganin a ripromettere per il sesto piano – cominciò con un indietreggiamento, per riprendere dietro «misure straordinarie» negli ultimi due anni. In effetti si trattò di buone stagioni e si hanno forti dubbi sulla cifra 1956.

Messi insieme i dati ufficiali si avrebbe questa serie, dal 1950 al 1955. Milioni di quintali di cereali: 1160, 1125, 1310, 1170, 1450, 1500.

Prima di commenti, forniamo un piccolo specchio il quale riproduce solo in parte le variazioni. Di solito queste sono abilmente dissimulate per i periodi disastrosi, e specie per quello successivo alla seconda guerra, in cui la strapotente burocrazia ha perduto di mano anche i metri statistici. Noi non sappiamo che dire, per gli anni 1942, 1943, 1944, delle cifre di popolazione, di coltura e di raccolto, e, ad esempio, per la seconda rovinosa calata del patrimonio zootecnico. Ecco lo specchietto sintetico.

anni Territorio miln. kmq. Popolaz. miln. abit. Superfice seminata miln. ha. Sup. a cereali miln. ha. Raccolto cereali miln. q.li Cereali per abit q.li Incr. annuo 1913–55 95 %
1913 22,3 159 105,0 94,4 801 5,0 100
1928 21,2 154 113,0 92,2 733 4,8 94,5
1937 21,2 171 135,3 104,5 1203 7,0 139,6
1940 21,2 175 150,4 110,6 1188 6,8 134,8
1950 22,4 184 146,3 102,9 1160 6,3 125,1
1955 22,4 200 185,9 126,4 1500 7,5 148,8

Come considerazione bruta, con tali cifre il rapporto tra oggi e il tempo zarista dà bensì un incremento totale dell’87 per cento, che però tenuto conto dell’aumento di popolazione scende al 50, che darebbe il medio 1,0 per cento annuo.

Un tale passo è stato all’incirca tenuto, nello stesso spazio, anche dall’agricoltura italiana, che non può stendersi su terre vergini ed ha una tecnica diretta a colture più intensive ed evolute.

Storicamente deve notarsi che non abbiamo il dato di due abissi, anzi di tre: quelli del 1920, del 1932 e del 1945.

Dalla tabella vediamo che si è avuta una netta discesa della produzione per abitante, oltre che dopo la rivoluzione, anche per effetto della seconda guerra mondiale, sebbene nel 1950 si fosse già nella ripresa. La maggiore quota asserita per il 1954 e 1955 viene dagli stessi sovietici attribuita alla messa a coltura di nuove terre vergini, per 33 milioni di ettari (Chruščëv), mentre lo stesso ritmo si prevede per il 1956.

Dunque tutto l’aumento di superficie seminata a cereali, e quello del raccolto di cereali, va attribuito alle nuove terre conquistate alla coltura, e non ai vantaggi della riforma sociale agraria svolta, nella forma colcosiana, dal 1928 al 1955. Si tratta, come è noto, di uno sfruttamento una tantum di energia geochimica insita nella terra intatta dall’uomo.

Ma sulla storia dell’agricoltura russa vanno fatti altri rilievi.

Nel tempo zarista la popolazione consumava pochi cereali meno ricchi, segale, miglio, e si esportava il frumento. Dopo la rivoluzione i contadini hanno conquistato il grano e solo in piccola parte lo hanno ceduto alle città, prima per forza, poi a prezzi commerciali. Con la riforma colcosiana il consumo diretto di grano, e più ancora di alimenti pregiati, scompare dalla statistica perché avviene nella gestione domestica, mentre è tutto in evidenza quello consumato dagli operai delle città. Noi ne deduciamo una verifica molto semplice, ossia cerchiamo quale sia il consumo per abitante urbano e proletario, dividendo tutta la quantità di raccolto non più per la totale popolazione, ma per quella denunziata come urbana. Avremo un indice superiore al vero, è certo, ma la sua variazione nel tempo varrà ad indicare come la riforma colcosiana si rifletta sulle condizioni della classe proletaria, nella nostra tesi classe sfruttata e dominata da un potere di compromesso tra classe contadina interna e classe borghese mondiale, culminato nella II guerra.

Nel 1913 abbiamo 801 milioni di quintali e 28 milioni di popolazione cittadina con un indice di 28,5.

Nel 1928, preludio della «collettivizzazione agraria», otteniamo che 733 milioni di quintali stanno in rapporto a 29 milioni di abitanti delle città (18,8 per cento) con l’indice di 25,3.

Il rapporto città-campagna si flette di poco a favore di quest’ultima. Inizia coi piani quinquennali «la costruzione del socialismo in un solo paese».

Nel 1940 il raccolto è 1188 milioni di quintali, ma gli urbani sono 61 milioni: l’indice scende a 19,5. Rispetto al 1913, su una produzione di cereali aumentata del 50 per cento, la popolazione rurale è rimasta invariata (131,1 milioni), quella cittadina è cresciuta di 2,2 volte.

Nel 1955, la popolazione urbana ci è data di 87 milioni: l’indice cala, coi 1500 milioni di quintali del raccolto, a 17,2. Perde sul 1940 l’11,8 per cento. Rispetto al 1913, all’87 per cento in più di cereali corrispondono una popolazione rurale diminuita del 13,7 per cento e una popolazione cittadina più che triplicata.

Vuoi al 1940 come ancor più al 1955, il rapporto città-campagna quanto a cereali si altera notevolmente. «Costruzione del socialismo» nell’URSS (che altro non è se non industrializzazione capitalistica) e ricostruzione postbellica fregano con progressione costante il proletariato urbano a tutto vantaggio della classe colcosiana[267].

Fittizia dunque, per la classe operaia, la salita in tabella da 6,8 a 7,5, ossia del 10,3 per cento di aumento, vantata da Chruščëv. La soggezione del proletariato urbano è aggravata. Alla puerile concezione che tanto è dovuto ai pasti degli omenoni politici e dei grandi burocrati, sostituiamo la spiegazione marxista che il premio consumo, l’orgia del plusvalore, va alla classe colcosiana: l’egualitarismo in città o in campagna è fregnaccia amarxista che non ci interessa.

35 – Peso del sistema colcosiano

È fatto pacifico che la forma colcos prevale in Russia largamente su ogni altra, antica e moderna; e si ammetta pure sulla fede delle statistiche di governo che la conduzione individuale è sparita e quella statale è minoritaria rispetto a quella cooperativa.

Un quesito più difficile che noi siamo a porci è il peso relativo dell’economia delle particelle familiari dei colcosiani, e di quella delle terre del colcos. Lo si può solo abbordare con larghe induzioni. La partizione della terra russa prima della rivoluzione era circa la seguente. I contadini avevano in conduzione circa 150 milioni di ettari, un quarto e più, a semina o meno. 110 milioni erano possessi privati borghesi, un quinto; 160 milioni appartenevano a chiese e conventi, tre decimi; altro quinto era demanio di stato e corona.

I dvor contadini andavano da meno di 5 ettari a circa 50 ettari, formando vari scaglioni sociali. Dei totali 540 milioni di ettari, erano a semina 105, e a cereali 94,4, nel 1913.

Nel 1928 il 96,2 per cento dei primi, e il 96,7 dei secondi, sono in mano a contadini individuali. I sovcos di stato hanno solo 1,5 per cento e 1,2 per cento, le forme cooperative 2,2 e 2,1 per cento.

Nel 1955 su 185,85 mil. di ha seminati i sovcos ne hanno il 15,8 per cento e i colcos l’83,3; parti minime agli individuali (?) e agli orti di fabbrica e simili. Sui 126,4 a cereali i colcos ne hanno l’84,4 per cento e i sovcos il 15,5.

L’agricoltura russa è dunque a conduzione di Stato per un sesto e a conduzione cooperativa parcellare per cinque sesti.

Quale è il senso dello sviluppo ce lo chiedemmo nel «Dialogato coi Morti»[268], per notizie americane su una futura statizzazione dei colcos (solo una rivoluzione vi potrebbe giungere, e non una nuova «riforma» dall’alto) e in base alla notizia di Chruščëv che i sovcos in due anni erano saliti da 14,5 milioni di ha. a 24,5. Con tale notizia confrontiamo i dati dell’annuario ufficiale sovietico. Ecco i dati dei sovcos: 1940, 13,26 – 1950, 15,93 – 1954, 19,98 – 1955, 29,37. Tale serie vale quella degli indici 100, 120, 151, 221. Per i colcos la serie[269] è: 122,22 – 126,91 -144,61 – 154,85. E quindi 100, 104, 118, 127. È chiaro che i sovcos tendono a crescere più dei colcos: nel 1940 i secondi avevano nove volte la terra dei primi; oggi, come abbiamo detto sopra, cinque volte soltanto.

Il fenomeno è di maggior rilievo per le terre a cereali. Tra il '54 e il '55 quelle dei colcos sono aumentate del 5,7 per cento, quelle dei sovcos del 77,4, e invece del 10,9 per cento rispetto ai colcos sono il 18,4 per cento.

Tale fenomeno si può spiegare in un modo solo: i colcos si preoccupano di allevare i propri polli e capretti, e il malcontento delle città che chiedono pane obbliga lo Stato a intensificare, con le grandi colture estensive motorizzate in gestione diretta, le famose «fabbriche di grano»[270].

Allo stato non siamo a tanto da dire quanto grano è prodotto dai sovcos e quanto dai colcos, e così per i cereali in generale.

36 – Le due facce del colcos

Concluderemo poco se confronteremo il potenziale particellare con quello cooperativo in base alla superficie di terra. È chiaro che i pezzetti dati in dotazione familiare sono di gran lunga i più fertili e attivi di tutte le zone dei colcos condotte a seminagione estensiva e a prati e pascoli. La statistica ci direbbe che su 154,85 milioni di ettari seminati dai colcos e dalle «economie personali ausiliarie dei colcosiani», la dotazione familiare ne copre solo 5,79, il 3,9 per cento. Per la superficie a cereali abbiamo addirittura l’1,5 per cento. Infatti il grano si può avere dallo stock cooperativo, e nel campicello si semina di meglio.

Ci si potrebbe opporre che la dottrina del dominio in Russia della coltura particellare trova smentita nelle cifre: cosa sono mai quei miseri 5,79 milioni di ettari, contro 185,85 seminati, o i milioni 1,64 a cereali contro 126,4 di tutta la Russia? Ma le cifre non sono pane per i denti di tutti.

Compulsiamo anzitutto altra statistica ufficiale, il censimento della terra alla data del l° novembre 1954. Questa statistica copre tutti i 22,4 milioni di kmq. del territorio, e di essi 12,8 sono a disposizione dello Stato, boscosi, sterili, steppe e tundre non assegnate. Sul restante di 947,3 milioni di ettari, ne hanno i sovcos 136,8, e i colcos 809,2; giusto sei volte tanto. Se si passa alle terre agrarie le cifre sono 88,7 e 396,6; rapporto 4,5. Per le terre arabili, comprese quelle in dotazione di riposo, 30,5 e 188,3; rapporto sempre sei. Infine per le terre seminate in coltivazione, 28,0 e 175,9; rapporto 6,3.

Secondo queste quattro categorie discendenti il rapporto nei colcos della terra in dotazione alle famiglie risulta: 7,5 a 801,7 – 0,9 per cento; 6,9 a 389,7 – 1,8 per cento; 6,3 a 182 – 3,5 per cento; 6,3 a 169,6 -3,71 per cento (semina effettiva),

Ufficialmente dunque è ben stabilito che la terra dei colcos e dei colcosiani per il 96,1 per cento è coltivata in comune e per il 3,9 per cento parcellarmente. Possiamo essere sicuri di questo? Possiamo essere certi che nessun colcosiano oltre al campicello di suo stretto controllo e piena proprietà, più assoluta che in regime occidentale e di diritto romano (non paga tasse, non subisce ipoteca per debiti), non si avventuri fuori facendosi dare qualche altro campo da gestire lui, sia pure a titolo passeggero o stagionale, come nella tradizione del nadiel? Che non convenga all’amministrazione del colcos lasciarglielo a titolo di affitto o di mezzadria, come un dì contro l’obrok o la barščina? Riteniamo che tanto si pratichi su larghissima scala, fermo restando che nel rilievo statistico quelle restano terre sociali gestite dal colcos unitario.

Sette milioni e mezzo di ettari di ottima terra sono sempre un terzo della superficie agraria italiana, che ospita venti milioni di contadini. I colcosiani russi quanti sono? Anche qui non si è molto espliciti.

Abbiamo ricavato qualche dato utile. Nel 1938 il piano di semine dei colcos copriva 11,5 milioni di ettari. Le famiglie colcosiane erano 18 milioni e mezzo, con la media composizione di 4,8 membri, sicché la popolazione colcosiana russa risultava di 89 milioni; il 52 per cento del totale, e l’ottanta per cento della popolazione contadina.

Giusta lo Statuto, dovevano avere per famiglia da un quarto a mezzo ettaro, e in certe regioni fino ad uno. La superficie delle usadba doveva risultare di 4,625 a 9,25 milioni di ettari. E, tenendo conto delle regioni speciali, non meno di 10–12 milioni di ettari, nel 1938. La statistica prima usata per il 1940 dà solo 4,5 milioni. Quale delle due è più verosimile: che venga fregato il colcosiano a dispetto dello statuto dell’artel che ne difende l’egoismo inesausto, o che siano fatte mentire le statistiche?

Abbiamo poi i recenti dati dell’aprile 1956. 149,06 milioni di ettari a semina nei colcos; 82 milioni di popolazione[271] in 19,7 milioni di famiglie: membri per ognuna, scesi a 4,2. La statistica ci dice che le dotazioni ai colcosiani coprono 5,79 milioni di ettari e sarebbero per ogni famiglia 0,30 ettari.

La nostra induzione è questa: non si sono rilevati gli appezzamenti privati, ma la superficie totale è stata desunta dal numero di essi, immaginando che passino di ben poco il minimo costituzionale di un quarto di ettaro. Ma non possono essere meno di venti milioni di ettari, un settimo della terra dei colcos.

37 – La tragedia del bestiame

L’indice cereali che sopra abbiamo seguito è quello che meno diffama la povera agricoltura sovietica. Nel suo discorso del settembre 1953 al Comitato Centrale Chruščëv dichiara che ve ne è abbastanza da esportarne (specie nei paesi satelliti in cambio di capitale e lavoro industriale!) e le sue lagne si rivolgono alle patate e ortaggi e soprattutto al bestiame, carne, latte, uova, ecc.

È l’indice bestiame che assai più dell’indice terra ci mostrerà l’alto potenziale della funzione parcellare rispetto a quella collettiva, nel colcos e in Russia, anche se lo prendiamo coi dati 1955 e non per il rovinoso 1953.

Nel 1953 infatti i bovini, e tra questi le vacche, stavano ancora bene al di sotto del numero del 1916, e solo suini ed ovini avevano passato di poco quella cifra. Restava la rovina dei cavalli: contro 38,2 milioni del 1916 erano nel 1953 15,3 milioni, meno della metà! Restavano quindi al livello del 1934, in cui si ebbe la moria delle bestie, al tempo della «fame di Stalin».

Diamo le cifre globali del 1956 rispetto al 1916. Bovini 67,1 milioni contro 58,4, di essi vacche 29,2 contro 28,8. Suini 52,2 contro 23,0. Pecore e capre 142,6 contro 96,3. Dei cavalli dal 1953 si tace, e si preferisce porre l’accento sul numero mirabolante delle trattrici meccaniche. Ma è noto come il vero indice di un progresso agricolo sia l’allevamento zootecnico. Nella non ricca Italia tra il 1911 e il 1954 la produzione di latte è raddoppiata, quella di carne aumentata di una volta e mezza, e così per uova, burro, formaggio.

Ma per la Russia va notato che tutte le statistiche partono non, come al solito, dal 1913 zarista, ma dal 1916, quando si tratta di bestiame. Non disponiamo di altri dati e speriamo che quello mancante venga dalla collaborazione dei lettori.

Evidentemente il patrimonio zootecnico 1913 era superiore all’attuale mentre oggi la popolazione è maggiore del 25,8 per cento! Non è solo il grave deperire dell’agricoltura russa che qui interessa, in quanto distrugge ogni apologia della vantata forma colcosiana della società rurale. Interessa, ai fini della dimostrazione che essa risente del carattere parcellare della coltura più che di quello grande-aziendale, il ripartire il patrimonio zootecnico tra aziende colcos e aziendine familiari.

Ebbene, sulle date cifre 1956 dei bovini, i colcosiani privati hanno il 42,9 per cento del bestiame dei colcos, il 34,4 di tutto quello del paese. Né aggiungiamo al parcellare, come sarebbe giusto, quello delle piccole stalle di operai e impiegati, che è altro 11,4 per cento, e quello delle «economie contadine individuali» per uno 0,2 per cento, sicché le tenute grandi, tra sovcos e colcos, non ne hanno che il 54 per cento.

Sulla cifra delle vacche da latte e riproduzione solo il 43 per cento è nella grande azienda e il 57 nella parcellare. I colcosiani ne hanno il 53,1 per cento del gruppo colcos, e il 41,7 per cento del totale.

Circa i suini, i colcosiani ne hanno il 39,2 per cento sui colcos, e il 28,8 del totale. Delle pecore il 22,0 e il 18,6 per cento (ciò si deve agli allevamenti di tipo industriale che alimentano, in paese così freddo, le fabbriche di lanerie: il solo caso in cui i sovcos costituiscono il 66 per cento del totale. Lana di Stato).

Delle capre solo il 17 per cento è nelle aziende grandi, e i colcosiani ne hanno il 78,7 per cento sui colcos e il 54,7 per cento del totale.

Per conigli, pollame ed api non abbiamo statistiche ma solo le lagnanze gravi del segretario Chruščëv nel 1953. Ma è notevole che egli, mentre incita i colcos aziende a produrre molto più di carne, latte ed uova, ripete ad ogni istante che per ottenere questo bisogna incoraggiare l’interesse dei colcosiani privati, che altrimenti saboterebbero il lavoro nel colcos. Egli a tal fine cita l’espressione di Lenin nel 1921 che tra il contadiname per la sua poca cultura e maturità di classe si deve nell’epoca di transizione far leva sull’interesse economico soggettivo, e non sull’entusiasmo. Questi dunque i risultati di 35 anni di socialismo colcosiano: che siamo sempre lì, con la natura asociale del piccolo produttore? Evidentemente Chruščëv ha qui detto il vero. La differenza è che lui parla di campagna socialista, e Lenin spiegava che era ancora molto meno che capitalista! Come oggi.

Comunque noi concludiamo che se cercassimo un indice integrale di vacche, maiali, capre, pecore, polli e conigli, che – trattori a parte – è l’indice del controllo del capitale agrario di esercizio, e per conseguenza della terra, e della migliore terra, troveremmo che l’indice della gestione particellare minima, ossia ridotta alla dimensione familiare (la minima rispetto al vecchio scaglionamento tra contadini ricchi medi e poveri) ammazza l’indice della gestione cooperativa – mentre anche questa puzza di privatismo antisocialista per lo «spirito di colcos» e per il contrasto di egoismi tra l’una e l’altra azienda.

Due sono le tesi che abbiamo messe in piedi. La campagna russa non è socialista ma individualista nel senso aziendale, e meno che capitalista. In relazione a tale fatto l’agricoltura russa è misera, e procede a rinculoni, peggio di quelle reazionarie di tutti i regimi capitalistici occidentali, con l’eccezione di ben poche zone del globo. Emulazione rurale bancarottiera.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXIX)

38 – Rassegna delle cifre

I fondamentali dati svolti, relativi alla popolazione russa e alla variazione della sua composizione sociale, in quanto si riferiscono direttamente ai motivi di base della propaganda apologetica dell’URSS, meritano che vi si ritorni sopra, prima di proseguire, con una rielaborazione più attenta che risparmierà a noi e ai compagni che leggono uno dei tanti errata-corrige che valga a rimediare a qualche incongruità rimasta tra la massa delle cifre. Soprattutto ciò è necessario per mostrare quanto siano dubbi certi risultati che vengono, con una non disprezzabile pianificazione centrale, fatti avanti ad ogni momento: mentre noi non possiamo far altro – né altro sarebbe utile fare – che operare sulle risultanze della statistica russa «ufficiale», compendiate in ispecie nell’ultimo Annuario, senza fermarci a vedere quanto siano diverse le cifre date o presunte che figurano nei vari annuari non russi, statali o di enti internazionali.

La scena delle classi è in Russia cambiata in quarant’anni (è la tesi del Cremlino) così nettamente da non aver paragone nel mondo, anzi in nessun quarantennio di un grande paese del mondo. Questo scatto da gigante è quantità che diventa qualità, è vittoria rivoluzionaria, è socialismo.

Si sa che in questo lavoro noi rispondiamo: Il cambiamento c’è, una vittoria rivoluzionaria c’è: è il socialismo che abest, che non risponde presente!

Ci corre dunque almeno l’obbligo di provare che tutti gli scatti miracolosi rinnovano quelli di un fenomeno che ha già riempito mondo e storia: la rivoluzione capitalista dei grandi paesi. In dati settori vi è anzi molto di meno, di ritardatario. Quei movimenti nei numeri non sono quelli che non una nazione ma un insieme internazionale vedrà, quando la rivoluzione strutturale mostrerà in che cosa il socialismo capovolge il capitalismo, come la dottrina già conosce.

I principali salti storici di cifre che la russa apologetica avanza sono i seguenti: aumento della popolazione – aumento dell’incremento di popolazione – diminuzione drastica della mortalità – natalità più alta che negli altri paesi – aumento assoluto e relativo della classe industriale – aumento della popolazione urbana, diminuzione della rurale – diminuzione assoluta e relativa della classe agraria.

Intendiamo riguardare con una certa calma come stanno le variazioni quantitative in rapporto a quelle del passato e del presente dei paesi che – a dire di tutti: partiti borghesi, Cremlino, e… noi – è pacifico siano capitalistici. Ed in rapporto a quella che è la teoria marxista della società socialista, nella quale a fine didattico ci spingiamo a profetizzare quale dovrà essere – o noi siamo fessi forte – la meteorologia statistica:

Indici della produzione agraria e industriale sensibilmente costanti ed uguali a quelli della popolazione – indice crescente della produttività del lavoro e indice decrescente in proporzione inversa del tempo di lavoro – mortalità bassa tendente a maggiore equilibrio tra l’età giovane e l’adulta e limitata al 10 per mille annuo – natalità sul livello del 15 per mille annuo – incremento di popolazione basso e di circa il 5 per mille annuo.

Questa società immaginaria in cui fosse avvicinato il limite della vita biologica a quello della possibilità produttiva, e quindi non troppo vecchia né troppo giovane, non è tratta come un ideale dai complicati calcoli della demografia matematica, ma è fatta per dare un’idea della rinnovazione delle generazioni in un supposto flusso normale, che segua l’epoca delle catastrofi. Essa è tale che 1000 abitanti sono 1160 dopo 30 anni, 1350 dopo 60, 1570 dopo 90. Allora ne saranno nati 1740 e morti 1140, ossia non vi saranno sopravviventi troppo vecchi, di massima.

Inoltre i fenomeni migratori da una parte all’altra del globo dovranno essere di tale vastità da avvicinare la densità locale alla densità optimum, o capacità della terra di ospitare uomini viventi.

La società borghese ha bisogno di un «proletariato» perché ha bisogno di far nascere molti, di uccidere molti, di far progredire popolazione e produzione decisamente, fino a grandi intervalli di distruzione compensatrice.

39 – Curva demografica russa

Passando dunque ancora una volta in rassegna le cifre, stabiliamo le variazioni della superficie territoriale russa.

Questa era nel 1914 di 22,3 milioni di kmq. La prima guerra mondiale ebbe per effetto la formazione a spese della Russia di vari Stati indipendenti: Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia (parte già russa) e la superficie scese a 21,7 milioni di kmq. Naturalmente non teniamo conto delle transitorie occupazioni straniere dopo la rivoluzione del 1917.

I recuperi cominciarono nel 1939 con l’annessione di parte di territori della Polonia, spartiti con la Germania, e l’incorporazione delle tre repubbliche baltiche, della Bessarabia e Bucovina del nord tolte alla Romania, dell’Ucraina occidentale, di una parte della Carelia finnica: e la superficie salì a 22,2 milioni di kmq. Scoppiata la guerra con la Germania enormi territori furono invasi, ma dopo la sconfitta finale di questa nel 1945 il territorio russo divenne pressoché uguale a quello zarista, misurando 22,4 milioni di kmq.

L’aumento dipende dalla consolidata annessione ad occidente anche a carico della Germania (Prussia orientale) e della Polonia, e ad alcune minori annessioni in Estremo Oriente (Sahalin e Curili). Rispetto alla situazione prebellica la Polonia ha dato 0,19, le tre repubbliche baltiche 0,16, la Finlandia 0,05, la Romania 0,05, il Giappone 0,05. Altri vantaggi territoriali sono a carico della Turchia e dell’Asia centrale.

Difficile definire le contrazioni minime del 1919 e del 1943. Due commissariati del Reich hitleriano giunsero ad amministrare (Ostland ed Ucraina) oltre un milione di chilometri quadrati.

Tenendo presente la superficie si possono così sintetizzare le variazioni della popolazione. Al 1913 sotto lo zar 159,2 milioni. È bene notare che di tale popolazione ben 120 milioni erano nella Russia europea. Quindi la densità generale era allora come ora molto variabile; mentre risultava di 7,1 abitanti per kmq, era nella Russia europea 21,6, nell’asiatica 2,3 appena.

Il primo dato della popolazione dopo le rovine della guerra mondiale e della guerra civile si ha per il 1926:147 milioni, ma certo non fu il minimo. Contro le enormi perdite giocava un aumento di popolazione, che come vedremo è dato nel 1913 del 16,8 per mille e nel 1926 del 23,7, il che vorrebbe dire tra 2,7 e 3,5 milioni di abitanti all’anno! Ci accontenteremmo di due milioni: nel 1926 la popolazione avrebbe dovuto salire nello stesso territorio a 159 + 26 ossia 185 milioni. Ammesso che i territori perduti all’ovest avessero allora 15 milioni dì abitanti, riduciamo a 170 milioni. La perdita di vite umane risulterebbe di 23 milioni: ma si vede che la cifra è molto incerta.

Dai 147 milioni del 1926 si prende a risalire. Nel 1939 prima di ogni annessione si era, nei dati dell’annuario russo, a 170,6 con l’aumento di 23,6 milioni in 13 anni; media bruta meno di due milioni all’anno, che giustifica la deduzione di poc’anzi.

Le annessioni consentono un balzo. Sono 12 milioni in Polonia, 3 in Romania, 5 e mezzo nelle repubbliche baltiche, poco altrove: si possono accettare 21 milioni e si va a 191,7, popolazione data per l’inizio del 1940.

Questa conquista di popoli sarà pagata a caro prezzo con la terribile emorragia della seconda guerra mondiale, che viene calcolata all’estero in 17 milioni di uomini. I russi non ci danno cifre che al 21–12–1949 e la cifra risulta, dopo vari anni dalla totale rioccupazione, e in territori ulteriormente accresciuti, di 180,2 milioni. Nel decennio si sono perduti 11,5 milioni di abitanti. Ma poiché l’ulteriore annessione ad ovest rispetto al 1940 ha dato 1,4 milioni, la perdita sale a 12,9. Ammettiamo che demograficamente si dovesse crescere ancora non di due milioni ma solo di uno all’anno: sarebbero altri 10 milioni che mancano, e in tutto la guerra ne ha fatti perdere (almeno) 22,9, ben più dei 17 ritenuti in occidente.

Noi dunque ignoriamo l’altro minimo del 1945, che subito dopo la riannessione dovette essere di circa 170 milioni. I russi danno per il 1950 un incremento demografico del 16,9 per mille e dunque di 3 milioni annui; nei quattro anni e mezzo dalla fine della guerra sono 13 e mezzo che tolti dai 180 danno anzi 166 e mezzo, meno di quanto sopra dedotto.

Ricomincia la salita. Alla fine degli anni 1950–51–52–53–54–55–56 ci si danno le cifre: 183,2 – 186,4 – 189,6 – 192,6 – 196 – 199,4 milioni e infine all’aprile 1956, 200,2. Il passo è di 3,0 a 3,4 milioni annui.

40 – Natalità e popolazione

Poiché ogni confronto sugli estremi della serie di 43 anni sarebbe ingiusto per la Russia, in quanto non terrebbe conto delle due cadute di due volte 23 milioni di uomini, gettati nel rogo della gloria e dell’infamia del mondo umano, diremo solo di passaggio che la salita della popolazione in 43 anni da 159 a 200 milioni ossia del 25,8 per cento sarebbe con quei 46 milioni di morti del 54,7 per cento.

Il 25,8 per cento in 43 anni non è infatti per nulla un fenomeno nuovo. In Italia gli stessi 43 anni hanno dato (a pari territorio) circa il 35 per cento, ed i 43 precedenti, dal 1860, il 45 addirittura. In America (USA) in un quarantennio abbiamo questi sbalzi di popolazione: 1910–1950, 64,2 per cento. 1870–1910, 131,6 per cento. 1830–1970, 209,3 per cento. 1790–1830, 230,8 per cento.

Vediamo ora la stessa Russia (europea), andando a ritroso dal 1914; 1850–1910, 70 per cento; 1815–1851 (solo 36 anni), 50 per cento; 1762–1796 (34 anni), 89 per cento.

Abbiamo scelto paesi nelle più diverse condizioni, aperti all’immigrazione, all’emigrazione, e chiusi in se stessi. Il 25,8 per cento effettivo, e il 54,7 per cento molto ipotetico, non raccontano nulla di meraviglioso: tanto meno che la Russia moderna, per sbalordire i borghesi, abbia piantato in faccia a loro il socialismo. Quanto a noi, ci ha sbalorditi perché ci ha sputato sopra.

Per mettere dunque da parte gli effetti di guerre, di rivoluzioni, e di migrazioni positive e negative, guardiamo la marcia demografica, l’eccesso dei nati sui morti, e vediamo se qui vi sia il miracolo.

Dal 1913 al 1955, ci si dice, la natalità russa è diminuita, ma si tiene ad un ritmo elevato rispetto al mondo capitalista. Prendiamo i dati russi. Nel 1913 il numero dei nati ogni mille abitanti era enorme: 47. Nel 1926, 44. Per il 1940 ci viene dato il 31,7, per il 1950 il 26,5, e da allora resta stazionario: oggi è 25,6.

Confrontiamo coi dati italiani. Il 1902 ci dette 33,4. Negli anni della guerra si scese a 18. Nel 1920 si riprese col 32,2 e si riprese a scendere lentamente; 1938: 23,8. La guerra fece scendere nel 1945 a 18,3 e poi vi fu una ripresa: 23 nel 1946, ricominciando a scendere fino a 17,5 nel 1953. Nel 1954 si è avuto 18,0. Lo scarto 1913–1954 (tra 31 e 18) che in Russia è del 100 a 56, in Italia è stato del 100 al 58. Che di mirabolante in quel di Russia? La natalità scende, fatto di tutto il mondo moderno borghese.

Una discesa analoga è di tutti i paesi. L’Inghilterra, tra il 1920 e il 1954, è scesa da 21,7 a 15,6. La Francia è scesa poco, perché ci aveva pensato prima. I dati tedeschi mancano. La Spagna da 30 a 20. La Svezia da 20 a 15. Si potrà dire che in Europa oggi pochi paesi battono il 25,6 russo; infatti solo la Jugoslavia con 28,4 e… Malta con 28,1 (annuari ONU). Ma gli Stati Uniti? Qui vi è il fatto strano, e non in Russia: non ci viene certo in mente di scoprirvi socialismo!

Dal 1920–24 al 1930–34 la legge generale vige: da 22,8 a 17,6. Ma poi si sale significativamente: nel 1950–54 si è da 23,5 a 24,9. Effetto di troppa prosperità alla faccia dei fessi, e di prosperità tipicamente cafona-primitiva. Comunque la rata di natalità pareggia la vantatissima di Russia: mentre questa tra quei cinque anni scade del 3 per cento, l’americana sale del 6. Un anno o due e la «Coppa Emulazione» passa l’Atlantico. Forse l’ha già passata al 1956.

Che fanno gli asiatici? Dal 1920 ad oggi il capitalista Giappone va da 35 a 20: carte in tutta regola. E la Cina? Peccato, sappiamo solo che la feudale Formosa va da 41,8 a 44,5. Un dato da Russia zarista. L’India da 33 a 24,8 nel 1952. Il Sud America non dice nulla di nuovo. Altro esempio di bidonatore del pianeta: Venezuela, da 29,9 a 46,8. L’Australia da 24,4 a 22,5. La Nuova Zelanda, paese originale e ricco, da 18,1 a 25,8, contro la regola. Il Canada secondo la curva statunitense, e non quella britannica.

Nella rata assoluta odierna, quali Stati non selvaggi battono la Russia? Il detto Canada con 28,7, quelli dell’America centrale (di molto), il Messico, quasi tutto il Sud America (sono in genere paesi a bassa densità come la Russia), tutti gli Stati dell’Asia, Medio Oriente escluso.

41 – La morte ripiega

I dati della mortalità sono decantati come più impressionanti. Certo non è poco scendere dal 30,2 per mille del 1913 all’8,4 del 1955. In 43 anni la mortalità si riduce del 27,8 per cento. Nel 1926 la rata per mille aveva già ceduto al 20,3. Nel 1940 era 18,3, nel 1950 è già 9,6. Naturalmente sono dati di anni non di rovina.

Quali le corrispondenti rate italiane? Nel 1901 la nostra rata di mortalità era del 22 per mille. Nel 1913 del 18,7. Nel 1954 è stata dell’ordine di quella russa, ossia 9,1 per mille. La riduzione in quei 41 anni è stata del 48,7 per cento.

La diminuzione della mortalità dovuta anche ai progressi della medicina è altro fatto moderno generale, sul quale naturalmente influiscono anche il clima e la situazione economica. Altro fattore che indiscutibilmente aggrava la mortalità è l’alta densità territoriale e l’urbanesimo, quando non vi corrisponda alto tenore economico (esempi: Italia meridionale, Spagna, Cina, ecc.).

Nella Russia zarista la popolazione lottava contro un clima sfavorevole e una miseria inaudita. Ma aveva a suo vantaggio un solo dato: la bassa densità. Questa giocava nelle città e nelle campagne: nel 1913 la popolazione urbana era il 17,6 per cento del totale.

È indiscutibile che la costruzione di una struttura sociale del tipo capitalista moderno ha potuto avanzare in Russia più nel campo dei servizi generali che in quello stesso economico tecnico ed è da ritenere giusto questo vanto: il numero dei sanitari è ben dodici volte di più che nel 1913. Questo è un diretto risultato di ogni economia statizzata, del capitalismo di Stato, e altrettanto per branche analoghe. E questo fattore ha anche controbattuto gli effetti dell’urbanesimo e della carenza di alloggi, fatto comune all’Italia, che lo ha pure sormontato.

Ma che cosa è della mortalità nel resto del mondo? In Europa vari paesi hanno un tasso di mortalità più basso dell’ufficiale 8,4 russo, e non molti sono al di sopra dell’italiano 9 per mille circa, e di non assai. L’Olanda dà 7,5. La Norvegia 8,4. Il dato peggiore di grandi paesi è il 12 della Francia, sempre tuttavia migliore del 17,4 del 1920.

Dati favorevolissimi hanno le popolazioni bianche soggiornanti in Africa: fino al 4,6, 4,8, 4,7 nell’Unione Sudafricana. In America, il Canada ha meno della Russia: 8,2, e così alcuni paesi del Centro America. Una rata pari alla russa la dà l’Argentina. L’Asia ha rate basse ovunque o quasi (si ignora la Cina). Il Giappone ha 8,2, meno della Russia, e… Formosa l’8,l. Il Giappone, scendendo dal 23 del 1920–24, è andato da 100 a 35,4 in 32 anni, il che passa il 100 a 27,8 in 43 anni, accampato dai russi. Minime le rate del Medio Oriente tutto: intorno a 5. In Oceania abbiamo i principali paesi sulla rata italiana del 9, e alcune popolazioni bianche di paesi di colore a rate infime, come in Africa.

La bassa mortalità dunque, ed anche la rapida diminuzione della mortalità, che sarebbe facile avere a velocità molto più forti con indagini nelle statistiche del secolo scorso, di cui non disponiamo, non vale dunque per nulla a stabilire che in Russia si siano ottenute in quanto si sia passati ad un’originale e particolarmente feconda, redditizia forma economica. La demografia della Russia segue le leggi dei modi di produzione storici, e si viene ad adagiare su quelle note della forma capitalistica più squisita.

42 – L’incremento di popolazione

Considereremo solo l’incremento naturale, ossia l’eccedenza di nascite sulle morti, degli statistici, ben sapendo che per la Russia come complesso non hanno giocato fenomeni migratori, anche se si deve ritenere che alcune aliquote di abitanti siano state trasferite dai paesi confinanti di «democrazia popolare».

Comunque l’elaborazione ufficiale sovietica palesemente ha coordinato i tassi di incremento demografico con le cifre di popolazione totale riferite ai vari millesimi.

La rata di incremento naturale è sempre alta. Lo era già nel 1913: 16,8, e sarebbe quasi identica all’attuale: 17,2. Dunque non è con questo «pezzo» per fuochi artificiali che si può presentare la Russia di oggi cambiata dal nero al bianco!

Comunque il fenomeno interessa troppo per non parlarne. Noi intendiamo sostenere che sono gli elementi antisocialisti che in una struttura sociale tengono alto il tasso di incremento naturale. Tra questi sono la presenza di economie familiari, ed in genere di collegamento famiglia-azienda, su cui gravita tutta la campagna russa, ed il vigere dell’istituto familiare monogamo che – ma chi se ne ricorda oggi? – una volta anche un socialista da tre soldi descriveva come superato nella sua società, e il «Manifesto» dimostra come già minato nell’economia capitalistica pura. Poi vi è la pressione per «produrre produttori» che nasce dalla spinta all’accumulazione, fatale in ogni economia mercantile, e dalla conseguente corsa a superindustrializzare.

In genere ogni economia la cui struttura istiga l’interesse individuale contro quello sociale ha per effetto l’incremento di popolazione. L’istinto possessivo conduce a quello del possesso sessuale nel senso non fisiologico ma economico, agli istituti di eredità e di famiglia, che favoriscono la prolificazione; tutto ciò cammina in quel senso che con la rivoluzione socialista attendiamo di cominciare a invertire, fatti a pezzi codici di stati e di chiese. E con la razionale limitazione degli accoppiamenti fecondanti, in ragione ad età, sanità e non parodistica pianificazione delle attività; in cui la prima cosa sarà contare, non più unità-moneta, ma unità vere, prima tra esse l’unità animale-uomo.

La marcia russa è stata questa. Dal 16,8 zarista allo strano 23,7 del 1926, che nasce da natalità che resiste alta, e mortalità in ripiego. La causa può indicarsi con sicurezza nel dilagare pauroso e totale, prima della «collettivizzazione» sedicente tale, delle piccole proprietà familiari, salite nelle campagne come sappiamo da 18 a 25 milioni dopo la rivoluzione. Mancano i dati del periodo buono 1928–38, ed abbiamo solo quello dell’anno di crisi 1940 che è basso, 13,4. Non sappiamo nulla di quello che accadde durante la guerra 1939–45 e veniamo agli indici intorno a 17 per mille del 1950–55. Con la popolazione di oggi il 1956 avrebbe dovuto portare tre milioni e mezzo di aumento naturale dei russi.

Confronto con l’Italia. L’eccedenza dei nati sui morti era nel 1901 del 10,5 per mille. Un massimo di 14,2 lo toccò nel 1912. Sappiamo qui gli effetti di una vera guerra: nel 1917 eccedono i morti sui vivi del 6,5 e nel 1918 del 16,9! Si riparte nel 1919 col 2,6 e il 1920 ritorna verso i massimi del 13,2 e tutto l’effetto della campagna demografica del fascismo è di portarlo nel 1938 a 9,7 e nel 1939 a 10,2!

Ecco quel che vale, agli effetti di uno studio non destinato al palcoscenico, il fragore delle politicantesche consegne che dal fascismo l’insulsa Italia odierna ha ereditato. La natalità fu 30,7 nel 1921 e 23,6 nel 1939. Il determinismo marxista sa che la fecondazione sessuale non procede su regi o repubblicani decreti. Tutta la politica fu di chiudere di dentro la porta all’emigrazione che di fuori ci avevano battuta sul muso, come oggi ce la tengono, dopo averci regalato l’antifascismo ancor più bagolone. Se ci si perdona la digressione in aria di casa, diremo che l’eccedenza positiva (tornata nel 1939 a 10,2 come detto) non fu capovolta dalla guerra che fecero i bellicosi fascisti come lo era tragicamente stata dall’altra dei pacifici liberali. 1940, 9,9; 1941, 7,0; 1942, 6,2; 1943, 4,7; 1944, 3,0; 1945 (con quel po’ po’ di roba!) 4,7. Tutto positivo, tutto passato senza scendere sotto zero come nel 1917 e 1918 maledetti, di carneficina ad est.

E adesso tout va très bien madame la marquise. Siamo maledettamente troppi, ma nel colmare i vuoti non ci batte nessuno. La serie delle eccedenze comincia col robusto 10,9 del 1946 (416 mila matrimoni; massimo il 1947 con 438 mila; interessanti minimi il 1944 con 215 mila e il 1917 con 99 mila; andate a studiare, in tempo borghese, le funzioni della mutazione demografica e le elaborazioni delle tabelle di sopravvivenza!). Adunque eccedenza di 10,9 che poi fino al 1954 scende in questo modo: 10,8 – 11,3 – 9,9 – 10,3 – 10,0 – 9,9 – 9,1. Pare che scenda ancora.

Concludere: abbiamo il Papa, abbiamo Togliatti, Nenni e Saragat, eppure si direbbe che la costruzione socialista sta più avanti qui in Italia che in Russia!

Dunque nel confronto ci sentiamo di ammirare quel paese che ha saputo frenare il naturale incremento, più che non faccia la Russia col suo imponente 17,2.

Non vi è che tornare ai dati ONU per dedurne i bravi. Stati Uniti: 15,7. Quasi emulato l’antisocialismo russo. Giappone 11,9: rata tipo Italia. Israele: 21! Hanno inventato essi il dio unico e la famiglia monogama. Formosa: 36,4 (ammazzala!). Argentina: 15,7: dose russa di socialismo: Perón! Venezuela: 35,7. Australia: 13,4. Nuova Zelanda: 17,8: Russia, Russia! Francia: 6,8. Inghilterra: 4,2. Ecco i paesi di capitalismo industriale non ancora emulato in Russia. Germania occidentale: 5,3.

Capitalismo sviluppato più densità vicina al maximum: ecco che cosa frena il naturale incremento. Nel Nord America è alto capitalismo, ma ancora bassa densità.

La densità negli Stati Uniti è appena 21. Nell’URSS 8,9 ma nella Russia europea 28,1: l’emulazione è a posto come densità territoriale, e logicamente come incremento naturale. Socialismo ce n’è poco da ambo le parti.

Uno sguardo solo ai paesi europei progrediti ma non super-industriali, almeno per la massa: Belgio 4,8. Olanda 14,1. Norvegia 10,2. Svezia 5,0. Svizzera 7,0. Spagna 10,9 (tipo Italia). Jugoslavia 17,6. Solo paese con tanto poco socialismo quanto in Russia: tutti i prima detti stanno più avanti.

43 – Densità di popolazione

Abbiamo, per chiudere questa parte demografica pura, dovuto far presente la distinzione tra Russia europea ed asiatica. Ripetiamo i dati e il paragone con l’Italia. Superficie russa in milioni di kmq: europea 5,57; asiatica 16,83; totale 22,40. Ossia: 18 e mezzo Italie – 56 Italie – 74 e mezzo Italie.

Popolazione russa 1955, in milioni: europea 156,7; asiatica 43,5; totale: 200,2. Ossia 3,2 Italie – 0,9 Italie – 4,1 Italie.

Densità russa. Abitanti per kmq: europea 28,1; asiatica 2,6; totale 8,9. Densità italiana 160. Ossia 5,7 volte la Russia europea, 61,5 volte l’asiatica, 18 volte l’URSS.

È inoltre da notare che anche nella Russia europea le densità variano molto. Nel 1939, quando in tutta la Russia europea si era a circa 25, si ha il seguente specchio per regioni (nella divisione di Pietro il Grande): centro 89, sud-ovest 65, ovest 43, nord-ovest 30, nord 3, sud 72, sud-est 40, est 33.

Il grado di industrializzazione segue necessariamente la densità, sebbene in questo lo Stato capitalista dia risultati diversi dal capitalismo libero nella scelta dei luoghi dove realizzare i suoi impianti – con la contropartita che abbiamo qui un capitalismo unico, ma ad espansione solo nazionale interna, finora; altrove un capitalismo multiplo, ma che ha per campo d’azione il mondo intero.

Ed altra considerazione va fatta. I dati che ci vengono ammanniti per tutto quanto resta chiuso entro la cerchia delle frontiere dell’URSS legano la marcia della popolazione – e in sostanza della produzione – all’incremento naturale. Infatti secondario è lo scambio internazionale di merci, nullo quello di uomini.

Ciò spiega la sbalorditiva sconfitta su tutta la linea nel confronto con lo Stato del Nord America. Questo si è espanso con una velocità enorme, anche se la sua rata di incremento demografico era solamente pari a quella della Russia (ma verso il 1920–30 era ben inferiore) grazie alla potente immigrazione da tutti i paesi della terra. Ha quindi raggiunto e superato l’Inghilterra, strappandole il primato della produzione capitalista. Lo ha potuto fare perché ha fatto volare l’incremento della sua densità di popolazione. Essa dal 1790 al 1950 ha raggiunto una cifra quaranta volte quella iniziale. La Russia (europea) nello stesso tempo l’ha solo quadruplicata. La velocità americana è decupla di quella russa. Solo così avviene che si emula e infine si supera. Nel periodo in cui la Russia si è tagliata fuori dal mondo la sua popolazione sappiamo che non ha guadagnato che il 25,8 per cento. Quella americana, come abbiamo detto, il 64,2 per cento nel quarantennio, che vale circa il 70 in quarantatre anni. La velocità, 1,70 rispetto a quella 1,26, è 1,35 rispetto ad uno, ossia del 35 per cento maggiore. L’emulazione è irraggiungibile, ed il distacco col tempo deve necessariamente crescere.

Alla base di un tale fatto indiscutibile sta la chiusura che la rivoluzione ha imposto a se stessa (ed era imposizione mortale) da quando la dottrina solitaria di Stalin uccise quella internazionale di Trotsky-Zinoviev-Lenin.

Un altro colpo terribile al passo della Russia, e non della Russia socialista, che è espressione senza senso, ma della Russia industriale sorgente alla forma capitalista, è stato dato dalla spaventosa perdita subita affittando al capitalismo imperiale dei paesi di ovest la massa della popolazione russa militarizzata.

All’Intesa immolò lo zar 23 milioni di vite, altrettanti ne ha immolati alla stessa alleanza la politica staliniana. Questo ha tarpato le ali ad ogni speranza che la rivoluzione capitalista russa possa raggiungere quella americana. Anche ai fini della formazione delle «basi» industriali del socialismo, la Russia è condannata – se una rivoluzione non spezza e sfonda dall’esterno o dall’interno i varchi tutti della cortina, o se non li sfonda una guerra imperiale, in linea con l’imperiale pace di oggi.

46 milioni di uomini contro 200 sono un aumento di potenziale del 23 per cento. Anzi di più. I 23 perduti nel 1916, con l’incremento naturale comune ai contendenti di 17 per mille, sarebbero oggi 44. I 23 perduti nel 1943 sarebbero, dopo 12 anni, 28, in tutto 72; e su 200 il 36 per cento. Per raggiungere un tale incremento di popolazione con la rata del 17 per mille occorrono circa 18 anni.

Il fallito doppio colpo dello zar prima, e di Stalin poi, ha regalato 18 anni di vantaggio al capitalismo dell’ovest, su quello dell’est.

44 – L’inurbamento

Un altro dato sul quale tutta la stampa sovietizzante punta a tutta forza, sempre al fine di dimostrare che vi sono stati mutamenti così profondi e nuovi, da potersi solo spiegare con la comparsa del socialismo integrale sulla terra, è quello dell’aumentata popolazione urbana rispetto al totale.

Questo argomento va distinto dall’altro della mutata composizione sociale della popolazione russa, che ci porta in un campo ancora più delicato quanto ad interpretazione di statistiche di varia provenienza.

Non è facile trovare il modo di distinguere la popolazione urbana da quella della campagna, e non sempre la distinzione risponde a quella tra popolazione che si dedica all’agricoltura, e popolazione che si dedica all’industria e ai servizi generali economici e amministrativi.

Quale la minima popolazione di un centro, per considerano sede urbana? La statistica russa sembra stabilire il limite di 10 mila, anzi il limite… zero. Ma è dubbio che tutta la popolazione che vive anche in centri di più di diecimila abitanti sia dedita ad altra attività che non l’agricola. Ciò può essere vero dove tutti i contadini vivono in casette o tuguri sparsi qua e là nelle campagne, ed era così in certe zone russe. Poteva forse essere vero nella campagna francese della grande rivoluzione, costellata di piccoli villaggi. Ma ad esempio in un paese di secolare capitalismo poi arrestatosi, con grande capitale e centro statale unitario, come l’Italia meridionale, che si dispose in tal modo dal tempo di Federico di Svevia, dodicesimo secolo, già i contadini vivevano in grosse città di fabbrica da cui sciamavano ogni giorno a lavorare nelle campagne, ed è tuttora così. Con un tale criterio l’Italia meridionale, e specie la Puglia e la Sicilia, presenterebbero un’alta popolazione urbana e una bassa popolazione contadina, capovolgendo la verità.

Finora noi parliamo di popolazione effettiva, compresi donne, vecchi e bambini, e non dell’ulteriore concetto di popolazione attiva, in cui si registrano solo coloro che hanno un’attività lavoratrice, facendo subito sorgere ulteriori distinzioni, che vedremo oltre.

Restando alla partizione dell’effettiva popolazione tra rurale ed urbana, ed accettando le cifre per quelle che sono nei testi da noi consultati, ci vediamo posti di fronte a questo schema. Nel 1913 la popolazione urbana era di 28 milioni contro 131 della rurale, il che fa 17,6 e 82,4 per cento sul totale noto di 159.

Al 1938 abbiamo 56, 115, e 171 milioni in tutto: siamo passati a 32,7 e 67,3 per cento. La rata urbana si è quasi raddoppiata: 186 contro 100, in 25 anni. Nel 1940, dopo le annessioni si avrebbe 61 e 131, ossia 192. Dunque 31,8 e 68,2, con lieve passo indietro. All’aprile 1956 ci danno 87 e 113 contro i 200, ossia 43,5 e 56,5. In 43 anni la rata di urbanesimo è andata da 17,6 a 43,5, e dunque è divenuta due volte e mezza, 247 contro 100.

Sarebbe questo un fenomeno quantitativamente tanto inaudito e senza precedenti storici, da dover incomodare il socialismo per spiegarlo?

Disponiamo di una statistica americana la cui fonte è lo «Statistical Abstract U.S. 1953» dell’ufficio statale di censimento. Dal 1790 al 1830 la popolazione urbana è scarsa e cresce adagio: la colonizzazione è di pionieri agrari e non di imprenditori industriali: per cento abbiamo 5,0 – 6,0 – 7,0 – 7,2 – 8,7. Da qui prende le mosse il fenomeno, e nel 1870 il rapporto è 25. In 40 anni dunque la variazione da 8,7 a 25,0 vale quella da 100 a 287, superiore alla corsa dei 43 anni russi da 100 a 247. Naturalmente nell’ulteriore quarantennio il fenomeno continua, ma l’incremento è minore: da 25 nel 1870 a 45,1 nel 1910: da 100 a 180. Dal 1910 al 1950 andiamo da 45,1 a 61,5 ossia da 100 a 136.

D’altronde l’inurbamento americano (certamente censito con criteri più sfavorevoli del minimo di 10 mila) è oggi più alto di quello russo: 61,5 contro 43,5; a favore della città.

Dove il fenomeno mirabolante, che si spiegherebbe solo col socialismo? Con lo stesso socialismo, allora, che vi è in America?

Se scegliessimo tra queste serie un anno americano con la stessa rata urbana del 1913 russo, di 17,5, troveremmo il 1855. Dopo 43 anni abbiamo il 1898 in cui la rata era sensibilmente superiore: 38,5. La curva del fenomeno non è lontana da quella russa, non differendo troppo il 43,5 russo dal 38,5 americano. Infatti la rata odierna russa cadrebbe d’accordo con l’americana del 1906. Secondo quindi il decorso di questo aspetto sociale, su cui si mena tanto scalpore, possono in Russia passare ancora 50 anni esatti, per essere ad un punto che vale quello americano presente, di inesorabile capitalismo! Ma con le «basi» per il socialismo.

Altro disastro della «costruzione del socialismo». Disse Lenin che il comunismo non si costruisce con le mani dei comunisti. Fu grande. Con le mani dei comunisti (di un passato lontano) si possono al più costruire statistiche.

Per l’Italia abbiamo una statistica ISTAT che dà al 1951 la popolazione in tutti i comuni aventi più di 30 mila abitanti, che costituivano il 35,1 per cento della popolazione. Nel 1901 essi ne costituivano il 26,8, e lo spostamento nei 50 anni era stato da 100 a 131.

Non possiamo paragonare tale statistica con quella russa, che include i piccolissimi centri di 10 mila abitanti, anche in ragione dell’antica origine in Italia delle città «borghesi», fin dal 1000; nota al marxismo fin dal «Manifesto dei Comunisti». Abbiamo tuttavia un certo dato russo della situazione attuale, secondo cui i milioni 84,6 al gennaio 1955, che stanno nelle città da 10 mila in su, si dividono così: meno di diecimila abitanti, milioni 11,9. Da 10 a 20, milioni 9,3. Da 20 a 50 mila, milioni 13,3. Possiamo dunque togliere da 84,6 i milioni 11,9, i 9,3, e forse 5, per arrivare a 30 mila. Sono in tutto 26,2 e restano 58,4 milioni che starebbero in città di più di 30 mila abitanti. Il rapporto sarebbe uguale al 31 per cento italiano. Dunque secondo questo profilo l’avanzamento dell’urbanesimo capitalistico in Russia ha raggiunto quello della borghese Italia, dove è cominciato tanti secoli prima.

In Russia abbiamo un dato nel «Manuale» di Lino Cappuccio del 1940, dell’Istituto per gli studi di politica internazionale, del tempo fascista. La percentuale urbana nella Russia europea sarebbe stata nel 1724 il 2,5 per cento, nel 1796 il 4,1, nel 1851 il 7,8, nel 1897 il 12,8, nel 1910 il 18,1. Lo sviluppo era dunque cominciato ben prima della rivoluzione 1917, ed il fenomeno era già vistoso: in 59 anni (1851- 1910) da 100 a 232; il che in regime politico precapitalista è molto forte.

Cade così un’altra vanteria a vuoto, un altro bluff. Quando il socialismo entrerà nella struttura sociale, un sintomo base sarà quello tanto battuto da Marx e da Engels; le città si smembreranno progressivamente in minori corpi edilizi, la densità territoriale urbana andrà cedendo, e le masse agglomerate si stenderanno a soggiornare su tutto il territorio integrale oggi detto rurale: l’esatto rovescio del fenomeno dei nostri tempi, in Russia e altrove.

45 – La popolazione attiva

Un primo passo è distinguere frammezzo alla popolazione totale quella dedita alla produzione, quella attiva. Vanno eliminati i bambini, i vecchi, le donne cittadine che non attendono che a faccende domestiche, gli invalidi, i detenuti, i militari, almeno in quanto non di professione. Ciò si fa in modo assai diverso nei differenti paesi del mondo.

Censita che sia la popolazione attiva, non è facile collegarla, quando la si sia divisa in categorie, alla popolazione totale, suddividendo anche questa. La divisione in categorie si può fare in due modi: per professione, ovvero per settore di attività economica. Il primo criterio darebbe solo una statistica delle attitudini lavorative, il secondo delle effettive funzioni nell’economia. Ma il criterio per i marxisti più interessante e introdotto nelle statistiche odierne in modi insidiosi, è quello per «classi», che distingue il datore di lavoro, il lavoratore indipendente, ed il remunerato a tempo. Si aggiunge una quarta categoria, ossia quella dei lavoratori che senza speciale remunerazione sono attivi in una piccola azienda familiare produttiva.

Creati tali gruppi nella popolazione attiva, non è agevole suddividere tra essi gli inattivi, e quindi la popolazione totale. Non si può seguire la classificazione del capo famiglia, essendo ben possibile, soprattutto nelle città, che i membri della famiglia siano stati censiti in altri settori, in altre professioni, in altre figure di classe. Nel socialismo non si censirà per capifamiglia!

Qui la propaganda russa vuole arrivare, facendo una non facilmente districabile confusione, subito alla divisione di classe, allo scopo di mostrare che la società russa del 1956 si scompone in classi ben altrimenti da quella del 1916. Infatti un quadretto base della solita organizzata (egregiamente) diffusione in tutto il mondo, presenta questa suddivisione:

1913.
Proprietari, borghesi, commercianti e kulak: 16,3 %
Operai e impiegati: 17,0 %
Cooperatori e colcosiani: zero
Coltivatori e artigiani indipendenti: 66,7 %

1955.
Proprietari e simili: spariti
Operai e impiegati: 58,3 %
Colcosiani e cooperatori: 41,2 %
Contadini e artigiani indipendenti: 0,5 %

I contadini liberi si vedono nel 1928 saliti dal 66,7 al 74,9, nel 1937 già precipitati al 5,9. I colcosiani e analoghi appaiono al 1928 col 2,9, nel 1937 sono il 57,9, poi vanno decrescendo al detto odierno 41,2 per cento. Non fu la collettivizzazione, ma la «creatio ex nihilo». Abbiamo in quanto precede fatta la critica di questo sviluppo, e della sua presentazione statistica. Diamo qui qualche precisazione importante.

Noi sviluppiamo con nostri criteri la relazione delle percentuali di popolazione attiva a questi numeri di popolazione totale. Ma le tavole dell’annuario sovietico fanno questa riduzione in modo inammissibile: 117 milioni di operai e impiegati integrati dai nuclei familiari – 82 milioni di colcosiani coi familiari – 1 milione di contadini liberi. Totale popolazione rurale 83; totale generale 200 milioni.

Da questi numeri non risulta la cifra di popolazione attiva né quella della sua percentuale rispetto alla totale. Noi abbiamo sostenuto che essi danno una falsa idea dell’aggruppamento per settori economici: quello dei contadini in Russia, che copriva il 77,8 nel 1928, copre tuttora una cifra forte, non minore del 58 per cento, restando invece il 42 ai non contadini; e non l’inverso come sbandierato dall’annuario sovietico (e lo dimostreremo). Poi abbiamo mostrato come in Italia la popolazione contadina sia minore, ed enormemente minore in altri paesi, come Inghilterra ed America di alto capitalismo.

Non era infatti in evidenza, come lamentammo, la popolazione addetta ai sovcos e ad altre attività agrarie di Stato fuori dai colcos.

Si può svolgere una maggiore indagine, non per correggere i dati sovietici con altri, che mancherebbero del tutto, ma indagando meglio tra i dati dell’annuario governativo.

La percentuale sulla popolazione degli «operai ed impiegati», ossia lavoratori dipendenti degli altri paesi, anche se qui dipendenti quasi tutti dallo Stato, data nel massiccio e molto dubbio 58,3 per cento, viene poi suddivisa in sottogruppi comprendenti il 57 % degli attivi.

Il 31 per cento sono nell’industria. Il 6 nei trasporti e comunicazioni. Il 5 nel commercio. Il 9 nell’istruzione e sanità pubblica. Il 6 infine sono impiegati statali e professionisti. Ora di tale grande gruppo si trovano altre statistiche più dettagliate che ne danno anziché le percentuali i numeri effettivi. Sono in tutto 48,4 milioni, corrispondenti nell’insieme al 57 per cento, somma delle dette parti di attività economiche, il che ci permette di stabilire che il 100 della popolazione attiva, da cui si parte, è di 84,9 milioni, e pari al 42,5 della totale.

Trovato questo primo dato, che altri raffronti confermano, lo si può confrontare con altri esteri. In Italia la popolazione attiva nel 1951 è data, per il 41,3 per cento della totale, in 19 milioni 639 000. Nel 1955 la cifra diviene di 21 547 000 pari al 45 per cento, sensibilmente superiore.

Nel censimento, molto ben condotto, del 1936, la popolazione attiva era di 17 943 000 su milioni 42,9 e quindi del 41,8 per cento.

Negli Stati Uniti nel 1954 la popolazione attiva è considerata 60 milioni sopra 162,4 milioni, dunque il 37 per cento soltanto.

Da altra fonte era 60 508 000 nel 1953, e in un decennio era salita dai 55 000 000 del 1943. Nel 1950 era di 59 757 000 su abitanti 150,7 milioni, con la percentuale del 39,7.

In Europa la percentuale di popolazione attiva si aggira sul 45 per cento, e quindi nessun significato speciale si deve attribuire alla proporzione russa dedotta del 42,5 per cento. Società borghese, in regola.

46 – Settori economici

La popolazione attiva viene classificata suddividendola anzitutto tra i settori dell’economia. Nel censimento italiano del 1936 si stabilirono i gruppi: Agricoltura, caccia e pesca – Industria, trasporti e comunicazioni – Commercio, credito ed assicurazione – Attività ed arti libere – Amministrazione pubblica.

A noi interessa qui la distinzione tra agricoltura ed ogni altra attività. Nel 1936 l’agricoltura occupava 8,689 milioni degli attivi, il 48,4 per cento di essi. Nel 1954 abbiamo il 39,7 soltanto, giusta l’annuario ONU: 8,468 milioni sopra 21,342.

Se quindi si seguisse senz'altra indagine la divisione russa, si starebbe in Italia sullo stesso grado di evoluzione da nazione agraria a nazione industriale, dato che la percentuale contadina su cui i russi battono è del 43 per cento della popolazione attiva e del 41,7 della totale.

Come abbiamo però detto, in una ripartizione di tutti gli operai ed impiegati che formano il 57 per cento della popolazione attiva, e sono 48,4 milioni, risultano gli addetti ai sovcos in soli 2,8 milioni, e quelli alle stazioni di macchine e trattori in 3,1. Con tali sole aggiunte si avrebbe tra colcosiani, contadini liberi, e i due detti gruppi, un numero di attivi agricoli di 42,4 milioni su 84,9 milioni e dunque il 50 per cento quasi esatto (49,9) che supera di molto il 40 per cento italiano.

Non è infatti giusto non comprendere nella popolazione agraria attiva i lavoratori dei sovcos e delle SMT, per la sola ragione che sono degli operai o impiegati. Essi lavorano per la produzione agricola e svolgono nelle campagne la loro attività.

Se si volesse fare per l’Italia la deduzione dalla popolazione attiva agraria di quanti sono dipendenti salariati, andrebbe considerato che vi sono in rilevante numero i braccianti e giornalieri. Nel 1936 essi erano 2 178 000, ossia il 25,1 per cento della popolazione attiva agricola, che senza di essi si sarebbe ridotta al 30 per cento e non al 40 della totale attiva: e quindi sarebbe un tale numero da andare in confronto col famoso 41,7 russo.

Coi numeri del 1954 i dipendenti agricoli sono 1 957 000, che tolti dagli 8 468 000 totali li riducono a 6 511 000: 30,6 per cento della totale popolazione attiva. Malgrado la riforma, qui esaltata dai leccatori di frottole russe, il glorioso proletariato rurale è ben vivo!

Non ritorniamo poi sulla «magra» che fa il risultato di trasformazione della Russia da agraria ad industriale, se la sua popolazione agricola, nella rata alla totale attiva, si confronta con quella degli altri Stati d’Europa ed America.

Noi riteniamo però che non basti elevare la quota del 41,7 al 49,9 come abbiamo fatto, e che sia insufficiente il numero di milioni 36,5 di lavoratori colcosiani, divisi nelle statistiche russe tra 31,8 che lavorano nell’economia collettiva del colcos, e altri 4,7 che sono membri della famiglia lavoranti solo nella piccola azienda.

Nella statistica delle famiglie colcosiane il numero resta stabile (!) per gli anni 1953, 1954 e 1955 in 19,7 milioni, ridotto rispetto ai 20,5 del 1950 e aumentato rispetto ai 18,1 del 1937. Come si può spiegare che nel 1937 il numero dei colcosiani attivi è stato dato del 57,9 per cento, per diminuirlo al 41,2 nel 1955?![272].

Dovrebbero essere diminuiti i membri attivi della famiglia colcosiana per spiegare come, aumentando le famiglie dell’8,8 per cento, i lavoratori attivi sono calati del 28,8 per cento! Si vorrebbe sostenere che il rimanente lavora fuori del colcos e quindi è passato alla categoria operai ed impiegati: ma è strano ammettere che una tale massa non abiti più nelle case colcosiane e non sia computabile nella famiglia rurale del capo colcosiano.

Il computo corretto si può così impostarlo. Sappiamo che la famiglia colcosiana ha la composizione media di 4,8, e quindi gli stazionari 19,7 milioni di nuclei danno 94,6 di popolazione agricola. I contadini liberi sono valutati 1 milione; in rapporto alla rata di 0,42 di totale popolazione attiva dovrebbero essere 1,2, e secondo la composizione della famiglia contadina 2,4. Siano due milioni. Ai 5,9 milioni di attivi agrari non colcosiani (sovcos e SMT) diamo il rapporto 100 a 42,5, e avremo altri 14 milioni. Il totale risulta 94,6 + 2 + 14, ossia 110,6 milioni di popolazione addetta all’agricoltura, che viene a collimare coi noti 113 milioni non urbani. Non erravamo dunque nell’attribuire il 58, vicino al 56,6, ai rurali, e il 42 o se si vuole 43,4 agli urbani, respingendo la Russia indietro verso la sagoma agraria e non industriale.

47 – La solita biscia morde

Ammettiamo per un momento che la popolazione non rurale si debba davvero adeguare alla proporzione del 58,3 di vantati operai ed impiegati, che rispetto al 1913 si affermano saliti dall’indice 100 al 433.

Noi non andiamo alla caccia pettegola della minoranza che ha grandi stipendi di dirigente, tecnico e funzionario, per ridurre il numero dei proletarizzati, e rovesciati nell’esercito industriale. Seguiamo la nostra via del rapporto di produzione destatosi tra colcosiano e operaio urbano.

Ritorniamo allo specchio del par. 34 sulla produzione censita di cereali, e al nostro criterio di dividere la massa del raccolto per il numero dei non colcosiani che ricevono grano dalla campagna. Nel 1928 gli abitanti della città sono il 22,2 per cento degli attivi, e della popolazione saranno la stessa rata – se la nostra precedente elaborazione non era sbagliata. Vi erano nelle città 32 milioni a dividersi i 732 milioni di quintali di cereali; 23 quintali per abitante.

Nel 1937 il raccolto sale a 1203 milioni, ma gli abitanti cittadini sono il 36,2 per cento dei 171 milioni di russi, dunque 62 milioni. Ognuno aveva 19 quintali circa. Una prima calata in basso.

Nel 1955 il raccolto è salito a 1500 milioni di quintali. Ma la popolazione delle città con quel famoso 43,4 per cento sale a 87 milioni. Ognuno riceve solo 13 quintali. E se i colcosiani sono diventati tanto pochi, meglio per loro che si dividono oltre al pane i cresciuti polli, uova, latte, carne suina.

Messeri, inutile gabellare che la Russia si è proletarizzata a velocità stupefacente. Pigiando popolazione agraria nelle città e nelle fabbriche non si aumenta la gradazione di costruito socialismo, ma solo il rapporto di sfruttamento dei salariati di Stato, comunque scaglionati nelle remunerazioni, da parte della classe degli aziendali-familiari che, nel suo ibridismo, che si vorrebbe consolidare come forma avvenire definita e concreta, diventa la base di un nuovo privilegio di minoranza, su cui non gioca più il fattore risolvente della concentrazione in poche mani, tagliando ogni base alla vittoria dell’interesse sociale contro l’interesse individuale, sola via non da ciarlatani per il socialismo.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXX)

Collegamento[273]

Queste ultime puntate del resoconto diffuso sulla struttura sociale russa hanno dovuto essere interrotte per due numeri del quindicinale al fine di dare posto al resoconto preliminare e riassuntivo sul tema della riunione di Ravenna, che ha invece trattato della società di Occidente. Occorre un ricollegamento, sotto forma di inevitabile e breve ricapitolazione di quanto già esposto nella seconda parte, riguardante i rapporti di produzione nella Russia odierna ed il loro storico svolgersi a partire dal 1917.

Non per un sunto ma per un richiamo di questa parte in corso, ricordiamo che prima di addentrarsi nelle questioni di economia essa ha dovuto sviluppare a fondo ancora argomenti politici e storici, da quelli inseparabili. Si è discussa a fondo quale era la prospettiva degli sviluppi economici che il partito bolscevico presentava come prevedibile dopo la conquista del potere da parte sua, e tutto ciò era indispensabile al fine di polemiche ancora ardentissime, per stabilire che mai si era presentata possibile la formazione di una struttura sociale comunista o anche di primo socialismo. La rivoluzione, nell’opera di Lenin, che molto minutamente esponemmo dimostrando come la prospettiva di base non fu mai mutata per svolti storici, aveva un contenuto politico totalitario, ma quanto a contenuto sociale si prefiggeva trapassi di forme produttive molto anteriori a quello dal capitalismo al socialismo: la sua leva di base era il legame alla rivoluzione politica operaia europea, dalla quale soltanto poteva derivare l’avvento della società socialista in Russia. Né si poteva non ricollegare questa polemica sui fatti storici e sui testi dottrinali con l’ardente dibattito attuale contro la menzogna del costruito socialismo nella sola Russia.

Sono state quindi ad ogni tratto riferite le opinioni di Lenin, Trotsky ed altri marxisti russi, e la grande lotta che nel partito si svolse alla morte di Lenin, come si erano ampiamente trattate quelle durante la sua vita.

Base essenziale della successiva storia delle mutazioni economiche fu la teoria contenuta nell’opuscolo sull’Imposta in natura, che consente di classificare le forme sociali presenti in Russia allo scoppio della rivoluzione e di esporre la nota successione delle fasi, la cui interpretazione non si è potuta non collegare in tutta ampiezza alle polemiche di allora, di dopo e di oggi: comunismo di guerra, nuova politica economica, «collettivizzazione» e guerra ai kulak, grande sviluppo da un lato dell’industrialismo di Stato, nella nostra tesi forma capitalista – mercantile – monetaria e dunque non socialista, e dell’agricoltura colcosiana, con la sua faccia cooperativa, che è di capitalismo privato, e l’altra familiare-aziendale che nella nostra tesi è la più retriva, e rispondente a forme sociali del tutto precapitalistiche.

Trattando dei rapporti produttivi di queste due sezioni della struttura russa, esse sono state ovviamente riferite all’ordine giuridico nello Stato, con la critica alle due Costituzioni del 1918 e del 1936, radicalmente diverse, e ai conflitti politici nel partito, in cui vinse sanguinosamente la fazione fautrice dell’autarchia nazionale e dell’abbandono dell’internazionalismo comunista.

Ad ogni tratto abbiamo confutato le tesi, dei trotzkisti e di altri gruppetti di falsa sinistra antistalinisti, sull’apparizione di una forma sociale intermedia tra capitalismo e socialismo, in cui classe privilegiata sarebbe la burocrazia delle gerarchie statali e di partito, opponendo a questa tesi amarxista quella del legame tra capitalismo russo e mondiale come forza di classe, malgrado gli insanabili conflitti imperialisti, negati dalle teorie pacifiste del Cremlino; e abbiamo sviluppato alla luce della teoria marxista la relazione tra il settore agrario e quello industriale, mostrando come nell’industrialismo di Stato si alloga una protezione alle classi medie e contadine a danno del proletariato, a questo più sfavorevole che in alcuni regimi di capitalismo classico e privatistico.

Indubbio legame determinista collega quest'economia interna di privilegio verso le classi medie alla politica medioclassista dell’opportunismo mondiale filorusso.

Dopo l’ampia dimostrazione della struttura del colcos, e la dimostrazione del peso economico delle sue due facce capitalista ed ultraprivatista minimale familiare, siamo giunti al rapporto quantitativo tra popolazione e produzione delle campagne e delle città. Le gravissime contraddizioni nella materia delle cifre russe ci indussero nell’ultima puntata a riesporre tutta la statistica storica demografica dal 1914 ad oggi, mettendo in rilievo i tragici contributi alle due immani guerre del capitalismo imperiale, e la morbosità dell’inurbamento in corso, che mentre piomba il proletariato delle fabbriche nella peggiore oppressione, è vantato come aspetto della vittoria del socialismo, esagerando perfino la portata già paurosa di questo fenomeno sconvolgente.

Chiave del problema sociale non è il passaggio dei mezzi industriali di produzione nelle mani dello Stato, che non li ha tolti ad una classe borghese ma accumulati col sangue operaio (e, nelle guerre, anche contadino) bensì il quadro della società rurale, che si legge luminosamente se vi si proietta la luce grandiosa della teoria marxista sulla questione agraria, di cui fu Lenin il più formidabile ed ortodosso dei propugnatori, contro il bestiale populismo individualista, che seppe prosperare sotto i colpi spietati del partito dei nullatenenti[274].

48 – Il corso dell’industrializzazione

Innumeri volte abbiamo mostrato come l’effetto della guerra, dei rovesci dello zarismo, delle guerre civili che avevano accompagnato la sua caduta, dell’invasione tedesca che con due ondate formidabili costrinse alla pace di Brest Litovsk, delle successive non meno feroci invasioni ordite dai paesi borghesi dell’Intesa da tutti i lati dell’orizzonte geografico e politico, fu in realtà di distruggere la macchina economica. Resistette di più l’agricoltura appunto per le sue forme primitive, naturali ed immediate, pur subendo tremende falcidie; ma la produzione industriale fu ridotta praticamente a zero, e altrettanto dovette dirsi dei trasporti, dei commerci e di tutti i servizi pubblici generali. Ad un certo momento, verso il 1919, il solo problema militare conservava una trama di amministrazione, organizzata in forme materiali e coattive. Anche nella recente riunione di Ravenna[275] abbiamo ricordato gli indici russi della produzione industriale che legano i due capitalismi, quello di anteguerra e quello post-rivoluzionario. Rettifichiamo qui il materiale errore di riferire quegli indici al 1913 mentre sono quelli riferiti al 1929 (Stalin, Chruščëv ed altri). Il significato è tuttavia lo stesso: 1913: 52; 1920: 7; 1926: 56; 1955: 2049.

La rivoluzione non conquistò né ereditò nessun capitale accumulato: la guerra e la rivoluzione stessa lo avevano distrutto. Non si trattava di solo dissesto sociale ed umano, ma di dissesto delle cose fisiche: restavano le aree degli stabilimenti distrutti e abbandonati, ma non vi erano più macchine ed installazioni o almeno il loro rottame, usato a fini di emergenza da amici e nemici; non vi erano materie prime nei magazzini: il capitale costante era a zero. Il capitale lavoro era anche disperso essendo gli operai caduti, ovvero al fronte nelle formazioni rosse, mancando paurosamente la mano d’opera qualificata e avendo gli specialisti e dirigenti tecnici ed amministrativi seguita in gran parte la controrivoluzione, per cui a loro volta o erano stati uccisi o combattevano su vari fronti esterni.

Se restava un capitale finanziario e monetario, questo era fuori dalle disposizioni del potere rivoluzionario perché in parte lo aveva distrutto l’inflazione astronomica e dall’altra i crediti sull’estero erano fuggiti coi bianchi, e non restava che annullare i debiti esteri, con il che non risultava nessun attivo disponibile in Russia.

Abbiamo anche più volte dato le cifre della produzione, ad esempio, dell’acciaio, che negli anni 1918 e 1919 si ridusse a poche migliaia di tonnellate, in così immenso paese, e sebbene si trattasse della produzione base quando il primo problema è la guerra guerreggiata.

Questa situazione tante volte illustrata dal partito e negli scritti di Lenin sta a spiegare come tutto si falsi quando si mette in prima linea, quasi che nei suoi limiti fosse compreso tutto il socialismo, la presa di possesso degli impianti di produzione, che tolti ai capitalisti imprenditori privati passano allo Stato della rivoluzione. Praticamente questo trapasso mancava del suo oggetto, e non vi era nulla da prendere ai borghesi e da gestire, in forme più o meno collettive. Evidentemente la socializzazione dei mezzi di produzione è una formula del marxismo, ma rettamente intesa comporta una serie di altre condizioni, che si riassumono nella disponibilità dei prodotti di un ciclo attivo, che cessano di essere appropriabili dagli imprenditori e, tramite una nuova e ben diversa distribuzione come una ben diversa remunerazione del lavoro, divengono appropriabili dalla classe proletaria divenuta dominante nella società.

Il fatto giuridico di passare allo Stato le proprietà legali dei cantieri e degli stabilimenti vuoti e fermi, annullando il diritto dei borghesi fuggiti od uccisi, è un necessario atto rivoluzionario, ma manca del suo contenuto economico quando si tratta di una produzione a ciclo e gettito spezzato.

Lo Stato sovietico si dovette porre il problema di riaccumulare il capitale distrutto e svanito, anzitutto nella modesta misura del tempo zarista, con inadeguata partizione tra le varie industrie e le varie regioni del paese, e si trattò di creare una nuova dotazione industriale pressoché dal nulla e forse peggio che dal nulla. Partendo da mezzi di produzione efficienti e da alte scorte di prodotti di partenza e di arrivo dei cicli, con un’industria estrattiva non ferma e una rete di trasporti non bloccata, si può porre la questione di dar vita ad una nuova originale gestione dell’industria, non mercantile, aziendale e salariale; ma quando non vi è da porre la mano che su pezzi di carta, su titoli di diritto, e sulla fisica carcassa di qualche avente titolo recalcitrante e protestatario, il problema di aprire una produzione socialista non si pone nemmeno: la classe borghese vinta, dispersa ed annientata non resiste più (salvo che nei suoi velenosi legami con gli Stati capitalisti esteri) ma in ciò non è nessun pezzetto di economia socialista.

49 – Investimento e finanziamento

Riattivare l’industria era l’esigenza centrale, e prima ancora che sociale e politica fu esigenza militare, dato che gli eserciti nemici erano attrezzati e munizionati dal capitale ben vivo dell’estero, e non da quello della classe borghese russa, che lo aveva a sua volta perduto (prima che ne fosse espropriata) per fisica distruzione e disorganizzazione.

Questo problema restava difficile pur essendo la Russia un paese più che ricco di naturali risorse, nel sottosuolo e nell’energia idrica, punti che per primi attirarono l’attenzione e la fervida propaganda di Lenin; la cui frase che il socialismo significava il potere bolscevico più l’elettrificazione di tutta la Russia ancora si sfrutta, ma che quando fu detta stava a provare che per il momento la sola condizione del potere bolscevico era incompleta.

Abbiamo messo abbastanza in evidenza che Lenin riteneva indispensabile per una pronta riaccumulazione di capitale industriale andarlo a prendere dove ce n’era. Vedeva questa possibilità in due modi: il grande e classico, che mai fino alla sua morte uscì dalla sua prospettiva, era la conquista del potere da parte dei proletariati d’Europa, e in primo luogo di quello tedesco, il cui governo comunista avrebbe subito rovesciato in Russia macchine, materie prime, lavoratori qualificati e tecnici, di cui la dotazione era di molto superiore alla minima che permette, distrutta l’impresa mercantile, di far scattare una produzione sociale: come le riprese dell’industrialismo dopo le due guerre rovinose hanno dimostrato.

Il secondo mezzo era di farsi prestare questo capitale dai borghesi esteri, le concessioni su cui Lenin batté senza posa e senza timore. E siccome nelle campagne vigeva un ciclo produttivo sia pure primordiale, di far passare le forme di esso oltre il livello della produzione mercantile contadina e verso quello del capitalismo privato, scalino che precede il capitalismo di Stato. Dal che mostrammo non insensata la formula di Bucharin che preferiva nelle campagne un germogliare di capitalismo (indubbiamente pericoloso anche come nemico politico) al consolidarsi dell’ibrida forma di economia frastagliata, che si chiamò colcosiana e si spacciò per collettivizzazione rurale.

All’inizio della lotta tra stalinismo ed opposizioni e fin dal 1924, l’opposizione di sinistra che aveva a capo Trotsky e a cui tardi si riunirono Zinoviev e Kamenev, fu la prima a porre in evidenza la necessità vitale di far risorgere e di potenziare la caduta industria russa, e Stalin e i suoi vi si opponevano.

Si fecero allora calcoli su una velocità fantastica di industrializzazione, e la corrente Stalin derise i «super-industrializzatori». Eppure la corrente Trotsky era quella che non vedeva in quella corsa intensa all’industria la corsa all’economia socialista, ma stava ferma sul terreno che il socialismo russo, come nel concetto di Lenin, non poteva che seguire alla rivoluzione proletaria di Occidente.

Trotsky, nei primi capitoli della «Rivoluzione Tradita», cita queste parole di Stalin, contro l’opposizione del 1927. Egli ne deplorava «i fantastici piani industriali», e sosteneva che l’industria non doveva «anticipare troppo, staccandosi dall’agricoltura e trascurando il ritmo dell’accumulazione nel nostro paese». Al XV congresso del dicembre di quell’anno fu dato un avvertimento ai superindustrialisti contro «il pericolo di investire troppi capitali nella grande edificazione industriale»[276].

Secondo Trotsky fu proprio la sua opposizione a sostenere che si sarebbero dovuti raggiungere ritmi di incremento del 15 e 18 per cento annui «per avere, grazie all’accumulazione socialista, uno sviluppo ad un ritmo del tutto irraggiungibile per il capitalismo». Possiamo ammettere che in questo passo le parole di accumulazione socialista si riferiscono al colore politico socialista del partito che era a capo dello Stato, altrimenti sarebbe stato Trotsky a fare una concessione alla costruzione del socialismo in Russia[277]. Comunque la sua testimonianza è indubbia quando dice che quelle proposte furono derise dalla parte dirigente, tanto che il primo piano quinquennale del 1927, che l’opposizione bollò come meschino, si basò su un tasso di incremento produttivo che «doveva variare, seguendo una curva discendente, dal 9 al 4 per cento». I preparatori di questo piano furono poi processati per sabotaggio, ma l’idea della curva discendente non era in teoria economica sbagliata. Tuttavia l’Ufficio Politico stabilì poi il 9 per cento per ogni anno del quinquennio. A questo punto le posizioni, come tante altre volte, improvvisamente si invertono.

Ai primi successi del piano industriale si passa di colpo a sostenere che i ritmi devono salire dal 20 al 30 per cento; dopo sconfitta l’opposizione di Bucharin di cui abbiamo a lungo parlato, e la sua formula del passo di tartaruga, si prese la famosa decisione del «piano quinquennale realizzato in quattro anni».

Alla questione dell’accumulazione di Stato si collegò quella monetaria.

50 – Accumulazione e denaro

La dottrina di Marx sull’accumulazione del capitale ossia sulla sua riproduzione allargata, come quella sulla riproduzione semplice, tratta unicamente di un capitale che appare a cicli alterni come merce e come denaro. Questo è indiscutibile alla partenza ed all’arrivo di tutto il sistema marxista sulla produzione capitalistica: il sistema socialista ne resta dialetticamente definito e descritto, ma sono pochi i socialisti che hanno saputo fare il passo audace che dalla negazione dei caratteri del capitalismo fa emergere, al di fuori di ogni piano utopista, la definizione positiva dei caratteri del socialismo.

Se nel socialismo vi sarà un’accumulazione, essa si presenterà come accumulazione di oggetti materiali utili ai bisogni umani, che non avranno bisogno di apparire alternativamente come moneta e nemmeno di subire l’applicazione di un «monetometro» che consenta di misurarli e paragonarli secondo un «equivalente generale». Quindi tali oggetti non saranno più nemmeno merci e non saranno definiti dal loro valore (di scambio) ma solo dalla loro misura quantitativa fisica e dalla loro natura qualitativa, ciò che si esprime dagli economisti, e anche da Marx a fini espositivi, come valore d’uso.

Si può stabilire fondatamente che i ritmi dell’accumulazione nel socialismo, misurati in quantità materiali come le tonnellate di acciaio o i kilowatt di energia, saranno di aumento lento e di poco superiore a quello dell’aumento di popolazione: rispetto alle società capitaliste mature, probabilmente la pianificazione razionale dei consumi in qualità e quantità e l’abolizione dell’enorme massa dei consumi antisociali (dalla sigaretta alla portaerei) determinerà un lungo periodo di discesa degli indici produttivi, e quindi, nei termini analoghi agli antichi, di disinvestimento e di disaccumulazione.

Qui si tratta solo di esaminare l’accumulazione accelerata che fu necessaria per industrializzare la Russia. Ben presto il «centro» rubò alla sinistra – mentre si disponeva a jugularla, come sempre accade – l’idea degli alti ritmi di incremento. Sarebbe far torto grave all’opposizione russa, così bene impostata sulla questione della rivoluzione mondiale, dire che è stata rubata a lei la «originalità» del ritmo acceleratissimo come carattere di una economia ultracapitalista, o socialista addirittura, che è idea disgraziata e responsabile di immensi mali.

Quello che ci interessa in linea di fatto è che l’avvio all’accumulazione in Russia fu trovato da tutti possibile solo in una forma che si servisse di un mezzo monetario stabile nel valore.

Questa necessità fu enunciata da Lenin in molti scritti da noi studiati, ed in quello suggestivo sulla necessità dell’oro e quindi della moneta legata alla base aurea. Ma in Lenin quello che non si trova è che si tratti di introdurre una forma socialista: egli dice in cento passi che è una forma capitalista, di cui è tuttavia indispensabile provocare l’apparizione in attesa di quel momento famoso in cui si adoprerà l’oro per farne i pubblici orinatoi, dato che resiste bene ai liquidi acidi.

Trotsky accetta questa tesi, che deriva dalla dottrina della Nuova Politica Economica. Dovendo incoraggiare il formarsi del mercato per i prodotti agricoli, e un sistema equilibrato di scambio (naturalmente nascerà poi lo «scambio socialista» con tutto il resto del frasario di tal genere!) fra prodotti della campagna e dell’industria, si impone la riforma del mezzo monetario. Come sappiamo Trotsky chiama questo: impiego di una forma di contabilità capitalista. Egli non intende dire che si usa questa forma di registrazione e di controllo in un’economia già socialista; ma la sua tesi è che si tratti di uno stadio di transizione tra capitalismo e socialismo, nel quale si è costretti ad usare la moneta, legata all’oro, in quanto si tratta di lasciar sviluppare il mercato e la circolazione su scala grande dove questa, per la primitività delle forme agrarie, mancava ancora.

Tutto questo è giusto, in quanto per Trotsky non si tratta di un socialismo di primo stadio, o inferiore, ma di un periodo di trapasso ancora anteriore.

Non sono caratteri economici che gli vietano di rinunziare a parlare, fin che vive (1940), di una Russia socialista, ma il fatto politico che il potere fu conquistato dal partito comunista della classe operaia. Sennonché la situazione del partito e dello Stato sotto anche il profilo politico fu progressivamente invertita e capovolta, e lotte sanguinose, anche se note nell’aspetto unilaterale, dimostrarono un tal fatto.

La formula di Trotsky è questa:
«L’esperienza dimostrò presto che l’industria stessa, benché socializzata, aveva bisogno dei metodi di calcolo monetario elaborati dal capitalismo»[278].

Trotsky fa salva la giusta sua valutazione marxista dei traguardi del piano russo di accumulazione industriale, quando dice:
«Lo stadio inferiore del comunismo – per usare il termine di Marx – comincia al livello, a cui il capitalismo più avanzato si è avvicinato. Ora, il programma reale dei prossimi piani quinquennali delle repubbliche sovietiche consiste nel ‹raggiungere l’Europa e l’America›»[279].
Dunque nel costruire un capitalismo sviluppato. Ma per superarle il socialismo le dovrà conquistare con la forza, non con l’emulazione!

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXI)

51 – I piani della ricostruzione

Nella grande mente di Leone Trotsky la trasformazione del capitalismo in socialismo non si poteva iniziare in Russia che come fase successiva a quella della ricostruzione dell’industria distrutta, fino ad un livello che non doveva essere soltanto quello del 1913 sotto lo zar, ma uno tanto alto, da essere pari a quello dei capitalismi maturi ed avanzati. Egli calcola il potenziale industriale dei grandi paesi del mondo, e vede che a tal fine si deve procedere assai velocemente. Paragonando la produzione, poniamo di acciaio, in rapporto alla popolazione con quella tedesca o americana, si vede chiaro nel 1926 che si tratta di un mezzo secolo, salvo ritmi elevatissimi che l’opposizione trotzkista propone invano alla maggioranza staliniana per vari anni, fino a che questa non li fa suoi. Ma non è un zig-zag della politica, come a Trotsky pare quando incrimina il suo avversario, bensì un’obbedienza alle leggi proprie dell’industrialismo capitalista.

La distinzione è altrove. Stalin chiama questa corsa a diventare tanto industriali quanto i paesi borghesi «edificazione del socialismo», e chiude gli occhi alla prospettiva, che sembra spegnersi, della rivoluzione internazionale. Trotsky sa che si tratta di una costruzione di capitalismo da parte di un potere proletario, e la chiama costruzione delle condizioni del socialismo, il che deve farsi con le manovre della finanza capitalista e monetaria. Fino alla sua morte egli seguiterà a vedere la condizione per la società socialista in Russia, prima che passino i decenni, e il lungo cinquantennio del passo economico-tecnico, nella Rivoluzione d’Europa e d’America. Egli vuole che la conquista del potere politico non sia infranta; e chiede siano rispettate due condizioni: dichiarare che la costruzione del capitalismo industriale di Stato non è quella di una società socialista; mantenere l’indirizzo della politica mondiale nel lavoro alla rivoluzione interna di classe in tutti i paesi.

Trotsky non ha mai inteso che industrializzando a tempo di primato si sarebbe data una lezione ai borghesi battendoli nel potenziale costruttivo; si trattava solo di una condizione tecnica minima per mantenere il calore del focolare centrale della rivoluzione internazionale; e il socialismo egli si augurava di mostrarlo ai borghesi che funzionasse non in Russia, ma nella stessa casa loro, e prima dei cinquant’anni famosi che Stalin gli rinfacciò.

Chi non capirà mai questo sono i «trotzkisti» ufficiali, che negano all’economia russa il carattere capitalistico.

La discussione avveniva alla vigilia del primo piano quinquennale, una delle tante glorie rubate da Stalin, e abbiamo detto come nello studio gli si voleva attribuire una velocità decrescente, e poi si intese di dover partire almeno dal 9 per cento annuo. Era facile calcolare che la rincorsa all’Occidente sarebbe stata troppo lenta, anche se il ritmo avesse potuto restare costante, ed anche se in Occidente si procedeva al 5 o al 3 per cento annuo, data l’enorme distanza tra i livelli di partenza. Trotsky calcola infatti che nel 1935 gli indici russi procapite sono indietro a quelli dell’ovest di tre, cinque, otto, dieci volte.

Nel 1927, quando si discuteva, si trattava di farli salire non meno di cinquanta volte. Ammesso che nei paesi di occidente l’incremento fosse del 3 per cento, con la prima prospettiva dal 9 al 4 per cento, e la media del 6,5 annuo, la leggendaria rincorsa sarebbe avvenuta al passo del solo 3 e mezzo per cento, supposta pari influenza dell’aumento di popolazione, sfavorevole come sappiamo alla Russia. Il tempo occorrente, salvo crisi e guerre, sarebbe stato di 114 anni! Se si voleva arrivare a quel livello nel famoso cinquantennio, che Trotsky poneva come tempo per fare il socialismo nella Russia isolata, nella nota polemica storica del 1926 (ossia per il 1975 che menzioniamo ogni tanto) sarebbe occorso il ritmo dell’8 per cento. Aggiunto il 3 dei rivali, e l’1 e mezzo della popolazione, l’ascesa uniforme dell’indice di produzione totale avrebbe dovuto essere del 12,5 per cento annuo: è quello effettivo di oggi (1955, intendiamo).

Che l’indice di partenza sia decrescente fatalmente gli staliniani lo ignoravano; ma dato che ridevano dei 50 anni di Trotsky e (di «aver edificata l’industria socialista» presero a blaterare dopo 20 anni) sarebbe stato il 26 per cento[280] che loro occorreva, e dovettero mordersi la lingua per aver deriso i «super-industrializzatori»

Di qui (dopo che l’ebbero capita) gli staliniani gridarono che si doveva portare al 30 il 20 per cento fissato per il primo piano quinquennale. Ma si trattava non di edificare il socialismo, bensì appena la sua soglia economica.

52 – Parametri disponibili

Questa marcia dell’accumulazione traverso i piani quinquennali russi e le vicende storiche abbiamo due vie per seguirla: dato che tutta l’accumulazione si farà nella conversione alterna di merci in capitali, potremmo adottare l’unità rublo. Ma questa non è rimasta costante nel tempo, e già Trotsky venti anni fa dovette scartarla. Teoricamente la cosa è possibile se si conoscono i bilanci statali espressi in rubli, anche quanto ai profitti che le aziende industriali investono direttamente, e alla loro parte che versano allo Stato per gli investimenti nell’economia nazionale.

Rinviando questa indagine, fermiamoci ancora all’impiego degli indici della produzione industriale[281]. Ammettendo che siano attendibili le statistiche ufficiali sovietiche, e le dichiarazioni ai vari congressi, noi disponiamo di tale parametro, che abbiamo già largamente usato, per gli anni dal 1919 al 1955, con la sola lacuna del biennio tenebroso 1941–42, e abbiamo il riferimento noto al 1913. Questo indice della produzione industriale si trae dalle statistiche dei prodotti delle principali industrie debitamente combinati; vi sono delle incertezze e certo avremo a che fare con progressioni più ottimiste della realtà, ma vi sono due vantaggi: l’indipendenza dalle variazioni valutarie e la corrispondenza col valore reale di tutta la massa annua dei prodotti dell’industria capitalista, che è il capitale nel senso di Marx; mentre molto più vi è da dire quando si passa a misure in denaro di capitali investiti nel ciclo produttivo e nelle installazioni fisse, vecchio nodo della nostra discussione con gli apologeti dell’economia di mercato e della fecondità della ricchezza morta.

Cominciamo ab initio, ed intanto liberiamoci della panzana che la pianificazione sia stata il toccasana che ha fatto rifiorire l’industria stritolata con un passo travolgente. La travolgenza del passo iniziale, diciamolo l’ennesima volta, non è dovuta alla capacità dei governanti, si chiamino Stalin, Gladstone o Eisenhower, ma al minimizzarsi della quota di partenza.

Diamone subito la prova storica. I nostri indici sono adeguati al 100 per l’anno 1929, e abbiamo detto che cominciano dal 1919, in cui si aveva (sempre da fonti sovietiche) la quota 33: un terzo del 1929. A questa scala il 1913 aveva segnato 52,6: dunque, come ben sappiamo, nel 1919 si era ancora in discesa. Ma il punto più disastroso si ha nel successivo 1920 con l’indice 7 (sette) che fa all’amore con lo zero, sicché parliamo di capitalismo cessato, e che d’ora innanzi rinasce. Da 52,6 a 7, sappiamo bene, siamo a meno di un settimo.

Dal 1919 al 1927 non si fanno ancora piani industriali, ma si lotta armi alla mano coi nemici di classe interni ed esterni, e anche si lotta in seno al partito sulla politica generale ed esterna come su quella interna economica da adottare; come ampiamente riferito in questo studio. Il gioco degli indici economici avviene dunque fuori di ogni «dirigismo» di poteri, e della stessa dittatura rivoluzionaria, la cui prima manovra in grande nel 1921 consiste nello sciogliere ogni freno alla necessità degli scambi mercantili, ossia, come dice l’immenso Lenin senza veli, al capitalismo! E l’industria riparte da sola.

Quali i ritmi? Vediamoli di anno in anno. Dal 1919 al 1920 si è ancora precipitato paurosamente in basso: da 33 a 7; vuol dire calare al 21,2 dal 100, perdere nientemeno che il 78,8 per cento in un anno. Nel 1921 si ha il primo passo, e ci si fornisce l’indice 10. Ma da 7 a 10 vuol pure dire crescere di 3 su 7 e dunque del 44,4 per cento annuo, indice che davvero è stupefacente.

1922: si sale a 14, balzo annuo del 30,8 per cento; 1923: da 14 si va a 20, lo scatto è sbalorditivo: 47,1 per cento! Al 1924 si va a 24, col 20 per cento. Al 1925 l’indice è 39 e l’incremento annuo è stato favoloso addirittura: 63,3 per cento. Non viene ancora la pianificazione, ma l’industria risorge; 1926, indice 56; aumento 42,9 per cento. Il 1927 è anno di crisi nella società russa e nel partito, e l’aumento sarà del solo 14,3 per cento. Col 1928 si aprirà il primo piano quinquennale. Ma intanto facciamo un bilancio del periodo antepiano; partendo dal minimo di 7 del 1920 e andando al 64 del 1927, si tratta di sette anni senza piani, in cui la produzione dell’industria, si può ben dire per virtù propria, è cresciuta 9 volte, ossia dell’800 per cento. Il ritmo di incremento annuo costante che permette questo volo non è incredibile, è solo il 37 per cento annuo come si vede a occhio da quelli di anno in anno. Non crediamo che il giochetto abbia annoiato: ci caviamo comunque il gusto di dire che il nostro periodo settennale antepiani batte in partenza tutti i successivi piani, che andiamo ad esaminare, e di cui tanta gente si è stragonfiata!

53 – Piani antebellici

Il I piano quinquennale fu deliberato nel 1927. Si discusse di esso in varie riprese e durante la sua esecuzione: era l’economia che spontaneamente correva più del piano, per il rinascere del capitalismo che si avvantaggiava di essere covato nel nido staliniano e innaffiato ogni tanto col sangue dei veri bolscevichi, che passavano per essere al potere. Il 7 gennaio del 1933 Stalin si poteva gloriare del bilancio di questo primo anno. Vediamone il corso negli indici. Anni 1928, 1929, 1930,1931, 1932. Dopo l’indice 64 del 1927 questa è la progressione: 79,100, 130, 162, 185. Gli scatti annui sono alti, ma col proseguire del piano vanno rallentando: 25; 26; 29,7; 24,8; 14,1. Stalin indicò il medio incremento del 22 per cento annuo, ma il calcolo ce lo dà un poco più alto: 193,7 per cento in tutto il periodo, 24 per cento all’anno in media.

Il II piano copre gli anni dal 1933 al 1937 inclusi. Periodo di pace e di libera attività ricostruttiva; ma l’argomento forte degli staliniani è che in questo periodo dei primi due piani scoppiò la tremenda crisi mondiale 1929–1932 che non fu dall’economia sovietica in nessun modo avvertita. La cosa non contrasta con lo svolgimento che conduciamo ora, e si spiega con l’autarchia di isolamento della Russia del tempo. Deve tuttavia rilevarsi che il 1931 e il 1932 sono gli anni di minor incremento del piano, e il 1933 è il peggiore del II piano, di cui questa è la serie: Indici dopo il 185 del 1932: 202, 238, 293, 382, 424. Scatti anno per anno: 9,2; 20,1; 23,1; 30,2; 11,4. Non è male notare che il 1937 è in Occidente anno di crisi che si riapre e segnala la guerra: crisi di Stalin! Il risultato totale del piano è l’aumento del 129,2 per cento in cinque anni, che dà la media annua del 18 per cento: dunque la velocità del secondo piano è inferiore a quella del primo, sebbene entrambi abbiano avuta piena esplicazione.

Venendo al III piano quinquennale, che doveva coprire gli anni 1938, 1939, 1940, 1941 e 1942, vediamo che fu spezzato dalla guerra. Nella fine del 1939 la Russia d’accordo con la Germania attaccò e liquidò facilmente la Polonia, senza riceverne una forte scossa, e solo nel 1941 fu travolta nella guerra generale. I primi tre anni ci danno indici progressivi: partiti dal 424 (o 429 in altra fonte) per il 1937, abbiamo 477, 522, 616, e gli scatti sono: 12,5; 9,5; 18. In tre anni il 45,3 per cento totale, e la media del 13,3 per cento; dunque già siamo in ribasso rispetto ai piani precedenti. Gli altri due anni sono di indietreggiamento: da 616 del 1940 si passa a 555 del 1943, nel 1944 si risale a 641, ma nel 1945, anno in cui si metterà in cantiere il quarto piano, primo del dopoguerra, siamo ancora più giù, al minimo di 567. Inserendo i dati del 1941 e del 1942 e partendo dal massimo del 1940, si hanno due negativi del 2 e del 21,4 per cento, poi due rimonte del 16,9 e del 15,6 e infine ancora l’ultima caduta dell’11,5 per cento. Se si guarda tutto il periodo terzo piano-guerra, dal 1938 al 1945, in otto anni tutta la variazione vale il 33,7 per cento, e per anno solo il 3,7 per cento. Sappiamo che alla stessa guerra resistette validamente l’economia statunitense.

54 – Piani postbellici

Dal 1946 viene lanciato con grande scalpore il IV piano quinquennale di cui non è dato riportare qui le previsioni. Ma i suoi risultati, pur sapendo noi che il partire da una guerra fornisce sempre ritmi alti, non sono eccezionali. Infatti il 1946, primo anno del piano, è in regresso, e dopo si ha la ripresa. Si parte dall’indice del 1945 che era 567, e si cade a 464, per avere in seguito 568, 717, 865, 1076. In tutto il non regolare quinquennio l’aumento globale è l’89,8 per cento (lo stesso che darà il quinto piano) e vi corrisponde il medio 13,7.

Quanto agli scatti anno per anno essi sono: – 18,2; 22,4; 26,2; 20,7; 24,4. Volendo dare un miglior giudizio dell’esito di un tale piano, in periodo proprio di nazione invasa dal nemico e poi vittoriosa, che predispone in generale a vigorose riprese, si può abbandonare il primo anno di crisi e fare il computo sugli altri quattro, che danno un aumento globale del 132 per cento ed uno annuo medio del 23,4 per cento. Dovremmo però tenere in conto che la massima caduta dovuta alla guerra, tra il 1940 e il 1946, in sei anni, fu del 21,4 per cento negativo, e se si prendono i due anni dal 1944 al 1946 del 27,6 per cento avendo nel primo caso il ritmo negativo del – 11,5 per cento, nel secondo del – 18,2 per cento all’anno.

Rimane l’ultimo piano quinquennale 1951 – 1955 che ha dato una regolare progressione, poggiata sul 1076 del 1950, con gli indici successivi: 1259, 1413, 1590, 1808, 2038, cui corrispondono gli scatti annui del 17,0; 12,2; 12,6; 13,7; 12,7. In tutto il quinquennio si è avuto l’aumento globale dell’89,4 cui corrisponde il medio ritmo del 13,6 per cento.

Tutto ciò mostra che in Russia non si è progressivamente elaborato un metodo artificiale per frustare la corsa dell’accumulazione, ma si è avuta una fioritura di industrialismo con la regola, da noi dimostrata per tutti i paesi del mondo, della decrescenza degli indici. Questa regola si conferma se si scelgono periodi consecutivi, tali che in ciascuno non vi siano vertici intermedi più alti degli estremi (curva dei vertici superiori, trattata alla riunione di Ravenna). Lo mostrammo altra volta: dal 1919 al 1940 si va da 33 a 616 in 21 anni, l’aumento è di 18,7 volte: 15 per cento annuo. Dal 1940 al 1955: da 616 a 2038; l’aumento totale è di 3,31 volte in 15 anni, annuo medio dell’8,3 per cento, nettamente minore.

Se poi prendiamo i periodi ora detti dei piani, dobbiamo tener conto delle guerre e crisi, e avremo la serie, che riassume quanto detto:

Periodo antepiani 1920–1927:
37 per cento annuo medio (partenza da crisi distruttiva):
I piano quinquennale 1928–1932:
24 per cento;
II piano quinquennale 1933–1937:
18 per cento;
III piano quinquennale 1938–1940:
13,3 per cento (interrotto dalla guerra);
Periodo bellico 1941–1946:
- 4,6 per cento;
Quattro anni sul IV° piano quinquennale 1947–1950:
23,4 per cento (partenza da crisi bellica);
V piano quinquennale 1951–1955:
13,6 per cento (ricostruzione normale);
VI piano quinquennale 1956–1960:
per cento in previsione.

La norma della decrescenza del ritmo di accumulazione col tempo è dunque confermata dal capitalismo industriale russo come da qualunque altro, ed anche l’effetto che su questo decorso hanno le distruzioni dovute alle guerre e alle invasioni, anche quando le guerre sboccano nella vittoria finale.

Gli alti ritmi che nello specchio si rinvengono, e sui quali è stata costruita tutta la colossale opera di propaganda alla quale da gran tempo opponiamo le nostre elaborazioni, sono anche spiegati dal fatto che l’industrialismo che nasce più in ritardo organizza i suoi primi impianti, anche se quantitativamente ancora limitati, sul migliore esempio qualitativo che la tecnica internazionale e la scienza applicata, su cui nel mondo moderno non esiste più praticamente segreto e monopolio tecnologico, pone a disposizione, ed in genere forma impianti tutti nuovi e moderni e di rendimento maggiore di una forte aliquota di quelli di altri paesi, che ancora funzionano nella forma della non recente origine e con carattere di inferiorità e minore resa[282].

55 – Non vi furono miracoli

Non è dunque una verità sicura che solo grazie al sistema della pianificazione statale si sia ottenuto un alto ritmo di sviluppo industriale. Già da molti decenni Engels, quando fece la critica del progetto di programma per il congresso di Erfurt, aveva avvertito che non è carattere distintivo tra l’economia borghese ed il programma socialista l’accusa alla prima di «Planlosigkeit» ossia di assenza di piano, in quanto già dal 1890 e prima la produzione capitalista aveva preso ad esplicarsi secondo piani di insieme e vasti programmi pluriennali non meno che plurinazionali.

Il motivo quindi per il quale ogni potere proletario e comunista in Russia anche non minacciato ed intaccato da degenerazione avrebbe dovuto accedere al Piano economico non era quello che per tale via l’industrializzazione, che era necessità primordiale e fisiologica, sarebbe stata più accelerata, ma i motivi che sussistevano erano di ordine rivoluzionario e politico[283]. Fondamentale quello, da noi sempre avanzato, della difesa armata del conquistato potere in Russia e della sua tutela in attesa che la rivoluzione di classe attraesse altri paesi nel suo girone, e con le risorse di essi incomparabilmente superiori a quelle russe e sicuramente salve da una distruzione di grado comparabile alla russa passasse a piani internazionali, anzitutto, ed in seguito aventi quel carattere socialista che risiede in ben altre basi, e fra l’altro non contiene quella di una accelerazione intensa del ritmo di accumulazione.

Le basi dei futuri piani dell’economia socialista, che del resto non si assume possano andare in vigore dall’oggi al domani dopo la conquista del potere anche in paesi di sviluppatissimo industrialismo, consistono nell’essere impiantati al di fuori dell’ambiente mercantile e del mezzo dell’equivalente moneta.

Lenin chiamò tali piani «piani materiali» e si può ben dire «piani fisici», mentre in Russia era necessità inviolabile procedere per piani finanziari; e quindi prima dei piani si pensò a sistemare la questione dell’equivalente moneta, soffiata praticamente via dalla tempesta di un’inflazione senza precedenti; a parte il fatto che un tale fenomeno non arrestò mai le rivoluzioni borghesi dei secoli precedenti.

Tale necessità era riconosciuta da Lenin, in quanto egli, senza rinunziare al collegamento tra ogni atto tecnico e amministrativo del nuovo Stato e la propaganda ed agitazione dei massimi fini socialisti, lontani e mondiali, se non europei, sapeva doversi affrontare una pianificazione di tipo capitalista e non ancora di tipo, nel senso tecnico-economico, socialista.

Egli fece la distinzione a proposito di quel suo piano di elettrificazione della Russia a cui abbiamo altre volte accennato, e che viene citato a giustificazione pubblicitaria degli andamenti successivi dei piani staliniani.

Questo piano detto del Goelro (piano di Stato per l’elettrificazione della Russia) fu concepito nel 1920 per un periodo che doveva essere da 10 a 15 anni. Dobbiamo notare che la base fisica di un tale piano è la ricchezza di energia idroelettrica in Russia, che era fin dal primo momento, con tutte le acque in moto, divenuta possesso diretto dello Stato. Non bisogna dimenticare che i corsi d’acqua e il loro potenziale energetico anche in molte nazioni borghesi sono demanializzati, e del resto senza un piano unico nazionale, ed internazionale come già vige oggi tra Italia, Francia, Svizzera, ecc., non sono concepibili i moderni elettrodotti ad altissimo potenziale e la trasmissione di energia nei due sensi oltre i confini statali anche per compensare geograficamente le periodicità di piene e di magre.

L’energia elettrica è la più «socialista» di tutte, ed anche più dell’energia nucleare, che in avvenire si ridurrà ad una caldaietta trasportabile ovunque, un succedaneo della primordiale locomobile a vapore, condotta sul posto di impiego da una coppia di bravi buoi, che il mite Virgilio amava

Ecco il passo di Lenin, nel suo articolo «Sul piano economico unico». Egli considera come prova della serietà scientifica del piano di elettrificazione il fatto che esso contiene
«un bilancio materiale e finanziario (in rubli-oro) dell’elettrificazione: circa 370 milioni di giornate lavorative, tante tonnellate di cemento, tanti mattoni, pud di ferro, rame, ecc., turbogeneratori di una determinata potenza ecc…»[284].

Noi riteniamo che si vedrà il primo piano socialista quando la parte di esso espressa in unità monetaria sarà eliminata: naturalmente un tale piano deve comprendere tutti i settori dell’attività produttiva e del consumo, passando direttamente dalle tante giornate di lavoro al tanto di alimenti e simili, e dovrà nelle sue frontiere contenere almeno il massiccio centrale dell’Europa coi fiumi che ne scendono, dalla Mosa e dal Rodano al Danubio e alla Vistola.

Questo piano non urlerà di avere strafatto. I piani russi avrebbero segnato gli stessi indici quantitativi se la qualità socialista non fosse stata loro affibbiata o affibbiabile, come se la guerra civile 1918–1922 fosse stata perduta e il grande piano lo avessero eretto non i grandi capitalisti russi, ma un trust colossale di imprese occidentali, quale era il sogno della borghesia mondiale nel febbraio 1917. Si trattava del risultato deterministico di aver fatto a pezzi le pastoie medievali, non di capolavori di trust di cervelli, rossi o no.

Oggi la grande banca mondiale delle Nazioni Unite fa prestito agli Stati poveri, e ha un capitale di 9 trilioni di dollari: investe più di un piano quinquennale sovietico, tra qualche anno. È socialismo? Lo è la Cassa del Mezzogiorno coi suoi mille miliardi di pacchia?

La carta falsa giocata dallo stalinismo si può definire anche così: hanno preso la rivoluzione socialista per una bonifica di zone depresse, arena degna di vecchie beghine e di filibustieri sfrontati.

56 – Il mezzo monetario

Per assodare che è una frottola quella che la storia non abbia ancora visto nulla di simile, come scatenamento di forze produttive, alla rosa dei piani quinquennali sovietici nell’industria (sappiamo quale magra si sia avuta in agricoltura, e sappiamo quale stigmata sia questa dei modi capitalistici di economia) ci sono serviti da materiali di prova gli indici della produzione, in quanto sono di fonte sovietica, e non quindi fabbricati per il nostro assunto ma per l’opposto, e in quanto derivano solo dalla «faccia fisica» dei grandi piani, e sono un composto di tonnellate, metri cubi, kilowatt, e così via.

Ma bisogna pure confrontare la storica corsa dei piani usando altre grandezze economiche, che troviamo espresse in milioni e miliardi di rubli, e che parimenti danno misure dell’accumulazione capitalista, e degli investimenti di prodotti a nuovo capitale nei vari settori dell’economia.

Bisogna dire dunque qualcosa della moneta russa dopo il 1917.

Uno studio molto serio sui fatti della pianificazione russa, indipendentemente dall’ideologia dell’autore (Bettelheim), dice che bisogna studiare le «categorie» principali dell’economia sovietica, e le elenca così: moneta, mercato, salario, prezzo, profitto ed interesse. Dice l’autore che esse «somigliano» a quelle dell’economia capitalista, ma «hanno un contenuto profondamente diverso»[285]. Noi, convinti che si parli di «categoria» quando si ha riguardo al contenuto e non all’apparenza, alla sostanza e non alla forma, affermiamo che sono le stesse categorie del sistema capitalista.

L’autore si avvale di citazioni non solo degli economisti ufficiali russi di Stato ma anche di Lenin e Trotsky, nelle stesse fonti da noi usate. Sappiamo già che Trotsky in un famoso discorso sulla NEP del 1922 e nel suo libro sulla «Rivoluzione Tradita» afferma che l’uso del campione costituito da una solida unità di moneta è indispensabile per migliorare il rendimento del lavoro e la qualità della produzione. Ma ciò non costituisce certo un compito che esca dai limiti del capitalismo, il quale, almeno da giovane, ha in questi casi raggiunto i suoi massimi fastigi.

Comunque chi avesse pensato che «il sistema socialista è al sicuro dall’inflazione monetaria» sarebbe stato smentito dai fatti, perché il rublo ha sempre oscillato. Allora gli economisti di Stato si sono dati a raccontare che le oscillazioni della quota del rublo nel «sistema sovietico» non avevano influenza sul gioco dei prezzi e dei salari reali. È sempre la solita sbilenca tesi: Qui in Russia c’è tutto quel che c’è in Occidente, ma sotto il nostro cielo e sempre un’altra cosa.

In linea di fatto, il solo equivalente generale adottato per calcolare i piani è stato il rublo monetario. Ciò sebbene gli stessi economisti ufficiali Varga e Strumilin abbiano sostenuto che, secondo la dottrina di Marx, solo equivalente generale, ossia unità comune a prodotti differenti, è il tempo di lavoro e il solo calcolo economico reale si deve fare sulla sua base. Ragioni «tecniche» hanno scartato questa forma di elaborazione dei piani. Bucharin aveva detto – correttamente – di più:
«dal giorno in cui i mezzi di produzione sono socializzati, la forma valore cade, e la sola contabilità in natura (o fisica) è ammissibile».

57 – Storia del rublo

Dovendo d’ora innanzi avere a che fare col rublo, vediamo un poco quel che si può dire della sua natura e vicenda storica.

Il rublo sovietico è definito in rapporto ad uno standard aureo, ma non è una moneta convertibile in oro a richiesta del portatore. Non è convertibile in valute estere in quanto ne sono impedite l’esportazione e l’eventuale importazione. I regolamenti che lo Stato fa per il commercio estero, di cui ha il monopolio, sono previsti in valute straniere (oggi il dollaro). E si pretende che il cambio rublo-dollaro non abbia influenza sui prezzi interni. Ad esempio nel 1931 a Berlino si quotava il «cervonetz» (dieci rubli rivalutati) due marchi, mentre la parità ufficiale era di 21,6 marchi (in Rentenmark a loro volta rivalutati dopo l’inflazione seguita alla prima guerra).

Comunque nel 1924 quando apparve il cervonetz il suo valore venne definito con la legge istitutrice di 7,74 grammi di oro puro. Il 14 novembre 1935 il rublo fu poi svalutato (è l’inflazione deplorata da Trotsky che la deduce dal volume del circolante che nel primo piano quinquennale variò da 1,7 a 5,5 miliardi di rubli, e all’inizio del secondo arrivò a 8,4). Va tuttavia notato che nel primo periodo la massa del prodotto economico salì al triplo e quindi il circolante doveva almeno triplicarsi e giungere al 5,1, pure ammettendo che agricoltura e scambio seguissero l’industria a molta distanza.

Fu solo in seguito che si stabilì che tutti i pagamenti nei due sensi tra la cassa centrale statale e quelle delle industrie di Stato invece di effettuarsi in moneta avessero luogo contro certificati contabili, il che valeva di freno alla salita della circolazione.

Comunque nella svalutazione del 1935 i 7,74 grammi di oro puro del cervonetz scesero a soli 1,74 grammi, ossia a non molto più del quinto.

Per dare un’idea del valore rispetto alle altre monete, si può considerare l’equivalenza aurea di esse, che logicamente ha significato per l’epoca della prima emissione legale.

Prima della prima guerra l’oro costava 3,60 lire italiane, e la lira valeva quindi 0,278 grammi di oro puro. Dopo la svalutazione della prima guerra, nel 1928 fu svalutata nel rapporto 3,66 portandola a soli 0,0785 grammi. Dal 1928 al 1954 si avrebbe una svalutazione dovuta alla seconda guerra di 51 volte rispetto all’oro e di 56 rispetto all’indice dei prezzi all’ingrosso (oggi ancora, come è noto, salito). Oggi mille lire italiane corrisponderebbero in oro a circa un grammo e mezzo; e un dollaro a circa un grammo. Con relazione quindi molto grossolana si può dire che alla sua istituzione nel 1924 il rublo valeva quanto cinquecento lire italiane odierne, e il cervonetz cinquemila. Infatti quel pezzo di oro (su cui era ironicamente scritto: proletari di tutto il mondo unitevi!) era quanto il «Napoleone» buonanima, che valeva ai bei tempi del 1900 venti lire dell’epoca e come potere di acquisto reale anche più di 5000 di oggi.

In dollari di oggi il cervonetz 1924 valeva 7,74 e il rublo 0,77. Con la svalutazione del 1935 il rublo rosso scese dunque a 0,174 dollari, ossia un quinto. Oggi si afferma all’ingrosso che il rublo russo è un quarto di dollaro in quanto i ribassi generali di prezzi imposti dal centro lo avrebbero rivalutato, e questo non è affatto facile da stabilire in base al reale potere di acquisto, su cui si vedono citate le cose più contraddittorie di questo mondo da giornalisti e «turisti» ammessi in Russia. Quello che è certo è che nel seguire cifre in rubli dei piani ufficiali dal 1928 ad oggi dobbiamo ritenere che le cifre del quinto piano, per ragguagliarle a quelle del primo, andrebbero per lo meno divise per quattro; ed il lettore tenga presente questa indicazione tutt’altro che precisa e precisabile nel considerare il ritmo degli aumenti.

58 – Volume monetario dei piani

Ogni sviluppo dell’industrializzazione si fa attraverso un incremento del volume e del valore degli strumenti produttivi e quindi destinando un margine di ciascun ciclo produttivo, risparmiato su quello consumato, a nuovo investimento di capitale.

Ora secondo le statistiche ufficiali sovietiche i piani hanno determinato una progressione impressionante di investimenti nella produzione, suddivisi fra tutti i rami della stessa.

Non parliamo qui della valutazione teorica di tale impostazione, del tutto identica a quella delle economie capitaliste dichiarate; e conforme, checché si dica per la messa in scena della nuova forma sociale, alla dottrina delle scuole economiche borghesi contemporanee.

Nel periodo antepiani, ossia dal 1918 al 1928 (includendo questo per tre trimestri, in quanto in effetti l’anno fu perduto nella trasformazione del primo piano quinquennale, reso più audace) tutto l’investimento di capitali si ridusse a 15,7 miliardi di rubli. Non ci è dato sapere come si sono adeguate le cifre degli anni anteriori al cervonetz, e non sappiamo nemmeno se esistono. In ogni modo è facile osservare che fino a quando l’industria lavora molto al di sotto della possibilità dei suoi impianti originari, e quanto meno finché la sua produzione diminuisce sensibilmente di anno in anno, non avviene nessun investimento in essa di nuovo capitale. Quindi l’investimento è stato zero dal 1917 al 1920, anno minimum, e fino al 1926, anno in cui la produzione raggiunse il livello antebellico, esso si è tenuto nei limiti della ricostruzione degli impianti distrutti. Ammessi perciò i 15,7 miliardi di rubli (del massimo valore monetario, si ha diritto di ritenere) gli anni del periodo considerato devono limitarsi al periodo 1921–1928 e la media sarebbe di circa due miliardi annui. Quando saremo arrivati ai 150 miliardi indicati per il 1955 (in quali rubli?) l’investimento sarà settantacinque volte maggiore, laddove l’indice della produzione totale dell’industria del 1926 è stato di 36 volte maggiore. Un confronto teorico può caso mai farsi tra l’indice di produzione e quello di investimento nell’industria, ed allora potrebbe anche verificarsi che il valore dei prodotti (capitale per Marx) crescesse più rapidamente della spesa di impianto, perché giocano l’aumento della produttività del lavoro e la minore aliquota relativa di spese salari.

Se i rubli che la statistica usa fossero quelli svalutati del supposto quarto, l’investimento 1955 sarebbe non 75 volte, ma solo diciannove volte maggiore della cifra di partenza.

In ogni maniera, per il primo piano ci sono date le cifre seguenti: IV trimestre 1928, miliardi 1,3 e quindi annui 5,2. Per i seguenti quattro anni 7,6; 12,7; 18,4; 21,6. Gli incrementi annui dell’investimento sono per cento: 46,2; 67; 45; 17,4. In tutti i quattro anni l’aumento è da 100 a 415, il medio 43 per cento. Si delinea un’altra nettissima curva di incrementi decrescenti.

Prendiamo infatti il secondo piano. Nel 1937 saremo a 33,8 miliardi investiti; e dal 1932 l’aumento è soltanto del 56.5 % (contro il 315 per cento del primo quinquennio) e quello medio del 9,3 per cento circa. I dati annuali sono 18,0; 23,7; 27,8; 38,1; 33,8, con scatti annui non regolari.

Il terzo piano è quello spezzato dalla guerra e da considerare per i soli tre anni 1938, 1939 e 1940. Cifre di investimento realizzato 35,1; 40,8; 43,2. Scatti per cento 3,8; 16,3; 5,9. In tre anni solo il 27,8 %, medio 8,5 %.

Gli anni di guerra danno: 1941: 37,4; 1942: 23,0; 1943: 23,1; 1944: 31,7; 1945: 39,2;. Per dieci anni in pratica si è segnato il passo, ed è certo che si tratta in gran parte di investimento in ricostruzione e non in ampliamento.

59 – Investimento postbellico

I due piani postbellici formano una serie nuova di investimento di capitali. Dopo i 39,2 miliardi del 1945 la serie dei cinque anni è la seguente: 46,8; 50,8; 62,1; 76,0; 90,8. Gli scatti sono quelli di una ripresa dopo crisi generale: 19,4; 8,6; 22,2; 22,4; 19,5. In tutto il piano l’aumento è il 132 per cento e la media annua il 18,2 per cento.

Il V piano ci dà, partendo dal detto 90,8 del 1950, le cifre di investimento in miliardi di rubli di: 102,1; 113,8; 119,2; 140,3; 149,9.

La marcia è meno decisa che nel quarto piano: scatti del 12,5; 11,6; 4,8; 17,7; 6,5. L’aumento totale è del 65 per cento, metà di quello del quarto piano, quello medio annuo del 9,2 %, contro il 18,2 del quarto piano. Tutto indica che si è alla fine della ricostruzione.

Il riassunto della serie espressa in rubli, e con la detta riserva sul valore monetario, risulta così:
I piano 1928–1932. Passo del 43 per cento.
Il piano 1933–1937. Passo del 9,3 per cento.
III piano 1938–1940. Passo dell’8,5 per cento.
Periodo di guerra e distruzione 1941–1945. Diminuzione del 9,3; al 2 per cento annuo.
IV piano 1946–1950. Passo del 18,2 per cento. Sforzo ricostruttivo generale.
V piano 1951–1955. Passo del 9,2 per cento.
VI piano 1956–1960. Passo previsto del 9 per cento.

Diamo ragione di questo ultimo coefficiente, che è il minore di tutti i precedenti piani, anche se sarà realizzato, e conferma il criterio della decrescenza. Nel discorso di Bulganin si trova detto che in tutto il V piano gli investimenti per l’economia nazionale furono di 594 miliardi, ma che per il VI piano se ne prevedono 990. L’aumento nel piano sarebbe il 66,6 %. Però, dal quadro che fin qui abbiamo seguito dell’annuario sovietico ufficiale, il V piano ha dato 625,3, e lo scatto tra i due piani come totali dei quinquenni sarebbe del 58,3 %. Lo scatto fra i totali del IV e V piano nella detta serie di cifre sarebbe stato da 326,5 a 625,3 ossia da 100 a 191,5 in indici, e ciò è confermato dal discorso di Chruščëv che dichiara 100 e 194.

Rifletta però il paziente lettore che nella nostra tabella qui sopra abbiamo dato non gli scatti tra gli investimenti totali nel quinquennio, ma quelli tra i due anni finali di due piani consecutivi. Col nostro criterio tra quarto e quinto piano lo scatto sarebbe, come riferito, solo del 65 per cento; in luogo del 91,5 che si desume dal criterio globale. Quindi nella nostra tabella bisogna partire da un rapporto minore del 66,6 per cento previsto da Bulganin tra i due totali quinquennali del quinto e sesto piano.

Col 9 per cento annuo a partire da 150 miliardi del 1955 si avrebbe la serie: 164, 178, 194, 211, 231. Il totale del sesto piano risulta 978 come all’incirca promette Bulganin. Ebbene, lo scatto nel piano da 149,9 a 231 è del 54 per cento, mentre tra i due piani precedenti era stato del 65. Quindi i sovietici stessi prevedono che il «passo dell’investimento» diminuisca nel tempo. Il 54 per cento in cinque anni vale infatti la media del 9 per cento tra il 1955 e il 1960, come premesso in tabella, media minimum.

60 – Nascita e morte dell’«investimento»

Abbiamo così messa in ordine la questione dell’accumulazione a ritmo calante, forma per esprimere le note antiche leggi della società capitalistica stabilite nel marxismo, tanto in rapporto al montante fisico della produzione industriale quanto in rapporto al montante dell’investimento di denaro in capitale produttivo, col rilievo che l’uno e l’altro rallentamento sono accresciuti se le rispettive quantità si considerano relative alla popolazione crescente (montanti pro-capite) E per la seconda unità monetaria con la riserva dell’effetto delle variazioni nel potere economico della moneta, il quale tuttavia non farebbe variare di troppo i ritmi dati di anno in anno, che sono quelli che alla nostra ricerca interessano, ma toglie molto significato alle cifre totali, date nella propaganda dell’investimento globale in tutta la serie dei piani o in tutto il periodo dopo il 1917.

Mentre quindi la nostra paziente verifica della legge di decrescenza del ritmo è assodata indiscutibilmente, resta sia molto discutibile il confronto tra gli investimenti totali «nell’economia nazionale» tra un piano e l’altro, sia di dubbio significato (anche se si fosse tentata un’adeguazione delle cifre espresse in rubli) una tabella come quella dell’investimento totale che dal 1929 al 1955 ha raggiunto 1428 miliardi, mentre resta da commentare che di essi 865 sono stati investiti nell’industria, ed il resto nei trasporti, servizi generali ed agricoltura, con l’aggiunta fuori della detta cifra di 128 miliardi che le aziende colcos collettive hanno, dal loro profitto, reinvestito nella loro organizzazione.

Va anche notato che non tutto l’investimento deriva dal piano statale, ma una parte dai piani aziendali, parte che ha una decisa tendenza ad aumentare, e certo l’avrà molto più decisa dopo le nuove direttive del recente Soviet Supremo, che anche andranno considerate, per allentare la centralizzazione statale e fare larga parte a piani autonomi regionali e locali.

Ad esempio la cifra di Bulganin dei totali dei due piani V e VI in 593,7 e 990 riguarda non l’investimento fondamentale, ma solo quello statale, e dà lo scatto del 66,6 per cento come detto. Ma il totale generale del V piano è stato di 625,3, ossia gli investimenti non statali sono stati 31,6 miliardi, circa il 5 per cento. Facile profezia è quella che nel 1960 essi saranno relativamente molto più forti. Del resto non figura tutto l’investimento non statale, perché sfugge tutto quello delle micro-aziende colcosiane, che non è disprezzabile (si pensi a quello che i francesi chiamano cheptel, le scorte vive) e di altre aziende artigiane micro-industriali di commercio e di contrabbando.

La dottrina che esiste la moneta come mezzo dello scambio, ma in Russia essa non è accumulabile a capitale da parte di nessuno, è una sciocchezza allo stato chimico puro: e, se fosse la caratteristica del socialismo, non vi sarebbe una sola pagina di Carlo Marx che non meriti la più obbrobriosa delle destinazioni.

La grande accumulazione capitalista di Stato, come del resto in tutti i paesi moderni, è una grande scodella di caffelatte nazionale, ideale per immergervi le fettine imburrate del profitto privato, da tutti i settori dei suoi bordi sterminati.

61 – Parabola commestibile

Prima tuttavia di discutere la destinazione degli investimenti, è bene che sia detto qualcosa sulla loro formazione; per ribadire che essa non è dissimile da quella classica capitalista descritta da Marx e dai marxisti nella teoria dell’accumulazione progressiva.

Alla base del semplice fenomeno vi è una somma di denaro da una parte e una massa di forza lavoro vendibile dall’altra; oltre che merci di ogni genere sul mercato. Per riprendere fiato per altre corse tra i numeri, banalizziamo la cosa. Io ho alcuni milioni in denaro; da dove vengano, importa nulla; guadagnati lavorando, risparmiando, profittando, sfruttando o rubando sulla via maestra. Stanno lì. Oppure non li ho affatto e una banca me li presta, oppure anche, per spiegare perché il banchiere non investe lui facendo a meno della mia capacità di «organizzare» (di passaggio un’altra formula del socialismo: Società dove nessuno organizza: vedremo che in Russia vi sono le «organizzazioni» che investono; come in ogni paese sviluppato, i capitalisti non si chiamano più signor Pinco Pallino ma «organizzazione S.P.P.»), ne adopero una certa somma a far fare dalla macchina statale una legge speciale (o un capitolo di piano) a mio personale comodo.

Disponendo per una di queste vie della somma di denaro mi faccio il piano aziendale. Poniamo che voglia fabbricare bolle di sapone. Debbo comprare un suolo, un fabbricato, e un macchinario di soffiatrici meccaniche, per cui faccio una circolare e ricevo le offerte di cento case specialiste nel mondo. Una parte del mio denaro se ne va in capitale fisso, in impianti produttivi che compro una volta per sempre ma non vendo mai, e quindi non «realizzo» più.

Se avessi speso tutto, ecco che non farei neanche la prima bolla. Mi deve restare una somma per il capitale di esercizio: comprare sapone ed ogni tanto rabberciare la fabbrica e le soffiatrici, deperibili come ogni umano bene (meno lo Spirito, e compresa la iridescenza delle bolle di sapone). Inoltre debbo assoldare gli operai che manovrano le soffiatrici. Mi deve restare una somma per questo, che i borghesi chiamano capitale di esercizio. Non è detto che devo predisporre questa moneta in cassa per un anno, ma per un tempo minore, che Marx chiama tempo di rotazione del capitale (questo è il vero capitale, diviso in costante e variabile, e non, centesima volta, il costo o valore dei mezzi di produzione come impianti fissi). Ciò in quanto, fatta la prima rotazione, vendo le prime bolle e faccio soldi. L’investimento è misurato da tutta questa spesa: quella nell’impianto fisso, e quella nel capitale circolante dei borghesi, che devo avere in cassa in partenza.

Una differenza base tra Stato investitore, e organizzazione di filoni investitori, che facciamo a meno di chiamare privati, perché è solo lo Stato a farsi privare dei suoi quattrini, è che il capitale di Stato non ruota mai, per anni e anni, e quell’altro gira come una trottola. Ed ora torneremo con questa sapienza nostra da dozzina nella mirabolante patria del socialismo.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXII)

62 – Stato, capitale, denaro

Da trent’anni discussioni interminabili si svolgono in Russia attorno a due principali aspetti del problema economico. Il primo consiste nel capire in che cosa effettivamente consista la macchina economica che si è venuta a formare e che si è dovuto lasciar formare, l’altro nel confrontarla in cento modi con gli «schemi di Marx» per raggiungere la dimostrazione che si tratta della macchina socialista, da Marx preveduta, che si è sostituita a quella capitalista.

Se però si fossero effettivamente intesi gli schemi dati da Marx per il modello capitalista appunto, si sarebbe visto che essi proprio vanno benissimo per tutto spiegare; mentre tutte le volte che si è voluta sostenere una differenza essenziale tra l’economia russa e quella vigente nell’occidente borghese, si sono sottomessi gli «schemi di Marx» a brutali e intollerabili deformazioni.

La polemica che ad onde e contro-onde si è svolta tra economisti sovietici si riduce alla ricerca della più utile possibile storcitura dei modelli di Marx che consenta di affermare che in Russia si è usciti fuori (e quando allora vi si sarebbe stati dentro?) dai confini del capitalismo.

Abbiamo stabilito (per evitare un momento le grosse questioni di teoria) che per leggere l’economia russa reale, in modo pacifico, occorre adoperare queste grandezze e far campeggiare questi enti: la Moneta, il Capitale, e lo Stato come soggetto economico. Enti che passeggiano benissimo nello schema di Marx, ma in quello che riguarda appunto il pieno fiorire del modo capitalista di produzione.

Non potremmo seguire il corso del fenomeno russo di investimento dei capitali nella produzione, se non possedessimo la misura rublo, ossia se il capitale non si lasciasse in modo alterno valutare come massa di merci e come massa di denaro.

Non potremmo assicurarci dell’entità di questa unità di misura, se non ricorressimo al suo saggio mercantile, ossia al corso dei prezzi, e al suo inverso, o mutevole potere di acquisto del rublo stesso.

Apparentemente ci si risponde che il fatto nuovo vi è: ossia è quello che ogni investimento viene operato dallo Stato, non potendo essere fatto da altro soggetto economico, e che quindi tutte le decisioni di nuovi investimenti, di ripartizione del totale in rubli che è dato ad ogni ciclo investire, dipendono da atti centrali dello Stato.

Ora questa distinzione anzitutto non è vera nel fatto; ma quando lo fosse non potrebbe assolutamente essere assunta per quella che definisce una società socialista, ormai, come ad ogni passo si afferma, per intere generazioni stabilizzata, e con in corso i soli miglioramenti relativi che pretende di raggiungere ogni altra economia nel mondo: aumento della ricchezza e del reddito nazionale, del consumo e del tenore di vita della popolazione.

Infatti se è indispensabile il denaro e se questo per essere misurato ha bisogno del mercantile indice dei prezzi, e se unico organo per distribuire quella parte, misurata in moneta, del prodotto globale che deve andare in nuovo capitale da investire in mezzi di produzione è lo Stato, la misura moneta e il misuratore Stato diventano eterni. Lo Stato da strumento politico per reprimere i ritorni conservatori delle forze capitalistiche interne ed esterne e le forze ad esse concomitanti costituite dalla tradizione radicata in ogni strato sociale e nello stesso proletariato, diventa lo Stato operatore economico; ogni economia senza operatori, come ogni società senza Stato, diventano improponibili Marx e Lenin sono morti.

Inoltre la distinzione, sterile in dottrina, non sussiste nel fatto: in Russia (come nelle versioni e cifre ufficiali) non tutta l’economia è operata dallo Stato, e non tutto l’investimento. Nell’agricoltura sappiamo che vi sono i colcos che operano un capitale proprio isolato, parte distribuendolo ai soci e parte reinvestendolo, e vi sono poi le aziende familiari che fanno quel che vogliono del loro prodotto, sfuggendo perfino alla legge mercantile che debba tutto, almeno per un momento, figurare in rubli. Infine le aziende industriali hanno un bilancio proprio e un investimento interno, che figura nel piano, ma non figura nel bilancio di uscite e spese dello Stato imprenditore, dello Stato operatore, dello Stato investitore.

La formula potrebbe essere ridotta allora a questa: Nulla si investe senza che lo Stato lo permetta; o forse in quella ancora più modesta: Nulla si investe senza che lo Stato lo annoti in rubli. E tuttavia la sconsolante economia familiare rurale ha il diritto di sottrarsi anche a questa ultima scolorita formulazione, e con essa altre piccole economie urbane, e tutte le clandestine.

63 – L’occidente batte la stessa via

Queste formule gradate sono tanto poco audaci (e per nulla rivoluzionarie) che è facile rilevare come l’Occidente, che è pacifico non essersi affatto smosso dalla piattaforma di base dell’economia capitalistica e mercantile, le ha da gran tempo adottate.

Lo Stato operatore economico è una realtà generale, tanto ad esempio in America ove vige una pomposa e macchinosa legge anti-monopolistica, quanto in Italia ove un intero pantano di ranocchi grida al dilagare dei monopoli, ma plaude poi a gran coro alle operazioni dello Stato, e tanto più quanto più sballa. Ora che si è formato un ministero delle partecipazioni statali, ossia delle funzioni dello Stato come operatore, investitore e imprenditore, non si è protestato altro che per il fatto che non vi presiedesse un ministro socialcomunista.

In America d’altra parte le operazioni statali sono in prima linea, ad ogni passo sollecitate dalle grandi corporazioni industriali, che minacciano di non poter fare senza di quelle i loro stessi interni piani di investimento.

In realtà il capitalismo è sempre quello, come tante volte ha ribadito Lenin, e tuttavia non si verifica più il fatto dell’investimento di moneta nella produzione che sia condotto con forze di un privato e nel segreto privato, se pure mai ciò sia completamente avvenuto in passato.

Fin da quando, col primo avanzare deciso del capitalismo, le operazioni di investimento ed anche di gestione di imprese importanti non si sono più fatte senza ricorrere a società, a compagnie, ad anonime, e sono divenute impensabili senza la partecipazione e l’anticipazione delle banche, in pratica è lo Stato che ha assistito come elemento indispensabile a tutte quelle operazioni.

Le misure – Marx ed Engels lo hanno mille volte avvertito – che nel «Manifesto» del 1848 erano proposte come le prime di un potere politico operaio, sono poi state man mano attuate dagli Stati borghesi, senza che ne fosse ancora scosso il potere politico di classe. In ogni paese tutte le banche cadrebbero senza date operazioni di una Banca Centrale, nella quale operano le decisioni dello Stato Centrale. Diventano sempre più rare le operazioni di finanziamento che non assista lo Stato, o con una speciale legge, o attraverso uno dei tanti organi parastatali, che pesano sul suo bilancio direttamente (ciò vuol dire su prelievi dal lavoro di tutta la popolazione) e nelle quali una parte del capitale (o, il che è lo stesso, una parte del servizio degli interessi e quote di ammortamento) non ricada sullo Stato. Il giro del capitale, che nella dottrina marxista è per definizione originaria fatto sociale rispetto alle forme storiche di giro privato della ricchezza, diventa sempre più giro pubblico. Senza addentrarci nei particolari di questo quadro è facile concludere che anche alle economie di Occidente può applicarsi la definizione, che si pretende socialista: Non avviene investimento a meno che lo Stato o lo operi, o vi contribuisca, o lo autorizzi, o si assicuri tutti gli elementi per registrarlo ed annotarlo; e questo non ai fini innocenti delle imposte, ma ai fini di un diretto incoraggiamento, come in tutti i «piani», i «programmi» e le «prospettive» apparentemente di statistica neutra, ma in effetti di propaganda e di classe.

Il socialismo tutto è fuorché il rientro di tutta l’economia in una economia statale; comunque anche in Russia l’economia statale è un campo più piccolo di quello di tutta l’economia, che anche lì si chiama con formula equivoca economia nazionale, e che lo Stato e il partito di governo tentano di provar di controllare tutta, mentre non riescono nemmeno a tutta rilevarla.

64 – Investimenti statali e fondamentali

Le statistiche russe di cui ci siamo già serviti tendono a provare che la misura monetaria della massa investita in ogni anno e in ogni piano tende a crescere progressivamente. Le tabelle da cui siamo partiti ostentano di aver fatto un’adeguazione monetaria e parlano di rubli ridotti tutti ai prezzi dell’aprile 1955, ma noi abbiamo dovuto esprimere i nostri radicati dubbi su questo.

Abbiamo tuttavia dimostrato che, anche ammesso che si tratti di misura in denaro di capacità di acquisto costante, è falso che il grado dell’investimento, il suo passo o ritmo, vada crescendo, mentre invece anno per anno e quinquennio per quinquennio è drasticamente diminuito; e sempre più appare certo che nel piano in corso la diminuzione sarà più netta.

Prima di passare a dire quanta parte del prodotto passato ad investimento in tutto il campo dell’economia russa è oggetto di operazione di Stato, rileviamo ancora una volta il falso, il banale trucco a cui si ricorre per mettere in scena una corsa al crescere dell’investimento, che nemmeno sacrificando severamente il consumo di beni non durevoli si è potuta ottenere.

La tabella generale che ci dà le due colonne degli investimenti in miliardi di rubli: quella minore relativa agli investimenti dei piani statali, e quella maggiore che presenta tutto l’investimento nell’economia, per ciascun piano quinquennale (quattro anni e un trimestre del primo, cinque del secondo, tre e mezzo del terzo, quattro e mezzo di guerra, cinque del quarto, cinque del quinto) ci dà a destra i valori della media annuale dell’investimento.

Allora è facile mostrare che l’investimento cresce di anno in anno in valore assoluto perché si va da 14,5 miliardi annui nel primo piano, a 125,1 nel quinto, come totale investimento nell’economia, e per il piano statale da 13,7 a 118,7 all’anno, mentre per il sesto piano l’investimento preveduto da Bulganin nel piano statale raggiunge 198 miliardi annui.

Formando invece la serie degli aumenti relativi annui, calcolati sulla cifra investita nell’anno precedente, noi abbiamo mostrato come la pretesa serie crescente è invece una serie decrescente, a somiglianza di quella di ogni paese capitalistico storico.

Basta, infatti, sostituire alla serie ora data piano per piano la serie degli «scatti» da una cifra all’altra per vedere ancora una volta la solita legge di calata del ritmo:
Investimento annuo nazionale, percentuali di aumenti per piano, parte di piano, o periodo: 95,2 %; 39,9 %; meno 24,2 %; 117 %; 91,6 %.
Investimento statale: 93,4 %; 41,5 %; meno 22,1 %; 113 %; 90,8 %; previsione del 66,8 %.

Al solito è solo un periodo negativo, che dà il lancio di un successivo esaltato, e poi riprende il declino.

Se adesso ci domandiamo quanta parte del totale investimento di capitale è contenuta nel piano statale, vediamo che essa, a tenore delle cifre a nostra disposizione, è in verità molto forte. Si tratta in modo quasi regolare del solo 5 per cento che rimane fuori dai «piani statali», il che non vuole ancora dire dal bilancio dello Stato, di cui diremo poco più oltre. Tuttavia a tali investimenti «fondamentali» altra statistica aggiunge quelli operati dai colcos, con loro capitale tratto da guadagno ciclico e non da intervento statale. Tale cifra non è importante, sebbene in continuo aumento, dato che come sappiamo l’agricoltura colcosiana è andata dai primi anni della rivoluzione fortemente progredendo come numero di aziende collettive, e di terra a disposizione, e di lavoratori associati. Nel 1929 i colcos investirono solo 0,4 miliardi, e nel 1955 sono giunti a 18,8. Tale notevole cifra rappresenta sul totale del piano generale il 12,5 per cento e sul piano statale il 13,2. Il peso dunque della forma di capitalismo cooperativo-privato agrario, rispetto a quella capitalista statale (è comoda confusione chiamarle tutte e due socialiste!), non è per nulla indifferente. Possiamo anche confrontare le cifre di tutto il quinto piano quinquennale. Totale del piano miliardi 625,3, totale statale 593,7, totale quinquennale dei colcos 61,4, ossia rispettivamente il 9,8 ed il 10,3 per cento. Ciò indica che il peso relativo dell’economia cooperativa rispetto alla statale è in aumento. Infatti il quarto piano aveva dato 29 miliardi ai colcos sui totali di 326,5 e 311,1, ossia meno di oggi: 8,9 e 9,3. Più evidente è la cosa secondo i dati anno per anno, se li prendiamo a partire dal completo sviluppo del colcos, nel 1933. In tale anno l’investimento colcos era rispetto al totale generale il 6,1 per cento, nel 1938 era l’8 per cento, nel 1942 il 9,6 per cento; nel 1950 il 7,3 per cento; oggi, come detto, il 9,8 per cento. L’economia privata cooperativa guadagna più terreno di quella statale.

65 – Divisione dell’investimento

Disponiamo di un’altra suddivisione degli investimenti anno per anno. Non tutta la somma indicata come investita nell’economia nazionale va in capitale di gestione di nuove aziende istituite o di ampliamento di aziende esistenti. Una gran parte di esso è destinata a lavori «di costruzione e di montaggio», ossia comprende le opere pubbliche, a cui ogni Stato anche liberale dedica una parte ingente delle sue spese, e l’installazione prima di nuove aziende di produzione, costituente cioè creazione di capitale fisso, che, vogliano o meno i vari gruppi di economisti sovietici modificatori di Marx, può chiamarsi ricchezza e ricchezza nazionale, o patrimonio nazionale, o magari patrimonio statale, ma non è né capitale costante né capitale variabile gettato nel fiume della produzione. Non è infatti un ponte, una ferrovia, il capannone di una nuova fabbrica, la macchina che vi si alloga, né materia prima né logorio annuo (ammortamento) di impianti fissi, e non è stanziamento al fondo salari, ossia, con buona pace di questi signori e orripilamento con essi dei professori delle economie borghesi, è investimento, ma non è capitale. Per essere scientifici è «immobilizzazione» ma non «investimento in capitali di esercizio», cose diverse per lor signori e per noi marxisti.

Tutti gli Stati del mondo e della storia immobilizzano denaro raccolto tra la popolazione con mezzi adeguati alle forme economiche del tempo e con esso fanno costruzioni di uso pubblico, strade, canali, porti e così via, sin dai faraoni e dai babilonesi ed anche prima. Oggi tutto questo viene a far brodo nell’investimento socialista!

Siamo infatti in presenza di una partizione dell’investimento globale di cui è messa in evidenza una parte altissima che costituisce «investimento in lavori di costruzione e di montaggio». Consideriamo che questa voce sia più larga di quella corrente di «spesa statale per opere pubbliche», a raggiungere la quale in un paese borghese dobbiamo sommare i bilanci in opere pubbliche di Stato, province e comuni.

Ad esempio sui noti miliardi 625,3 investiti nel corso dell’ultimo piano quinquennale espletato, 1951–1955, ben 394,8, ossia il 63,1 per cento, rappresentano i «lavori di costruzione e di montaggio».

Per intendere questa divisione si dovrebbe riferirla a quella dell’investimento totale tra le varie branche dell’economia. Negli ultimi dati di Bulganin sulla previsione del VI piano quinquennale, dei 990 miliardi se ne dichiarano destinati all’industria ben 600, circa il 60 per cento, e si dice che si prevede un aumento del 70 per cento rispetto al V piano; che avrebbe dunque investito nell’industria 353 miliardi, e sul noto totale di 594 il 59,5 per cento. Un tale rapporto sarebbe più forte che nei primi piani, che da altra fonte (Bettelheim) avrebbero destinato all’industria: il 47,2 per cento il I piano (sempre quanto a realizzazione), circa il 45 il II. In detti piani l’agricoltura aveva una forte percentuale, ossia il 26,2 per cento nel I e circa il 20 per cento nel II. Nel VI piano in progetto essa avrebbe dagli investimenti statali 120 miliardi, circa il doppio che nel V piano, ma solo il 12,1 per cento sul totale. È vero che sono previsti altri 100 miliardi dei colcos, all’infuori come sappiamo del piano statale; e quindi in totale 220 contro 600 dell’industria. Nella branca trasporti e comunicazioni sappiamo che nel I piano fu investito il 19,8 per cento, e nel II tra il 20 e il 25 per cento. Mancano nei discorsi Chruščëv e Bulganin le cifre per il V e il VI piano, ma è detto che il loro rapporto è di 100 a 170.

Un’altra cifra, quella nelle costruzioni edili, in parte esorbita dai piani statali in quanto vi provvedono anche le municipalità. Questa cifra è stata di 120 miliardi nel quinto piano e la si annuncia di 200 nel sesto (tutte le ultime notizie indicano che dopo il primo anno si è molto in ritardo sul programma di questo).

Comunque l’indirizzo di tutta la politica economica sovietica al momento della formazione del sesto piano e del XX congresso era questo. Tutto l’investimento statale nell’economia nazionale dovrebbe aumentare del 66,6 per cento. La parte destinata all’industria in generale, senza dare distinzione tra la pesante e la leggera e l’alimentare, aumenterebbe del 70 per cento. Aumenterebbero nello stesso rapporto, all’incirca, l’investimento nei trasporti e comunicazioni, quello nelle costruzioni edili, nell’industria leggera ed alimentare, quello degli investimenti dei colcos, estranei al piano statale. Una sola cifra fa eccezione a questa regolare marcia di tutta l’economia, quanto a investimento, dei due terzi circa in più; ed è quella prevista per l’agricoltura cui si vuole dare nel nuovo piano statale il doppio del precedente, elevandola dall’11 al 12 per cento del totale. Infatti nel quinto piano si investì dallo Stato nell’agricoltura per 65 miliardi su 594, nel quarto per 26 su 311, ossia l’8,4 per cento. Si vuole dichiaratamente dare maggior peso all’agricoltura, ma i risultati del 1956 non sembra abbiano corrisposto al programma, per quanto dettato da esigenze pressanti.

66 – L’insuccesso agricolo

Abbiamo in varie sedi affermato che il passo agricolo della produzione russa è così deludente, che i traguardi posti al sesto piano quinquennale, che difficilmente sarà condotto con esiti brillanti, non sono in fondo che quelli già segnati per il quinto piano stesso, alla fine del quarto.

Sarà utile sostare un momento a dare la prova di questo grave fatto, ricordando come nel 1950 si erano fatte le previsioni per il quinto piano. La produzione dei cereali espressa in milioni di quintali aveva nell’anno 1950 dato la cifra 1160. Nel V piano si annunziò di volerla aumentare dal 55 al 65 per cento, e quindi la produzione 1955 avrebbe dovuto essere di 1798 a 1914 milioni di quintali. Ma il decorso del quinquennio, di cui in quanto precede abbiamo già dato le tabelle, fu disastroso nel 1951: 1125, ossia meno del 1950. Nel 1952: 1310. Nel 1953 altro indietreggiamento: 1170. Nel 1954 lieve ripresa: 1220. Si annunziò di avere nel 1955 fatto uno sforzo enorme, ma in realtà si trattò di un anno agrario dappertutto favorevole, che dette 1500 milioni di quintali, molto meno degli attesi 1798 a 1914, con un premio sul 1950 del solo 29,3 % al posto del pianificato 55–65!

Come ben sappiamo per il 1960 non si è osato prevedere di più dei 1800 milioni di quintali, che rispetto ai 1500 di partenza del piano danno solo il 20 per cento di aumento, e che ripetono senza alcuna audacia quelli promessi già per il quinto piano.

Altre previsioni in materia di produzione di derrate agrarie del V piano quinquennale vanno pure ricordate, in rapporto a quella che è stata la realizzazione annunciata al XX congresso, e per ribadire la nostra dipintura sfavorevole dell’agricoltura russa, data nel «Dialogato coi morti»[286] e nelle precedenti parti di questo studio.

Anche il cotone doveva andare da 100 a 155–165, ed è appena andato a 109. Invece il lino ha dato buoni effetti: previsione da 100 a 140–150, realizzazione 149. Non così le barbabietole da zucchero che invece di 165–170 hanno dato 147. Per le patate si promise 140–145 e Chruščëv dovette annunciare «raccolto basso»; ciò vuol dunque dire meno di 100.

Come sappiamo egli ha potuto annunciare che i semi di girasole che erano impegnati a salire da 100 a 150–160 sono andati a 207, e quell’oratore ne ha potuto fare, come si vede da tutte le sue manifestazioni, un’efficace cura.

Egli non ci ha detto che cosa sia accaduto di uva, tabacco e tè che dovevano salire da 100 a indici dell’ordine di 155–175.

Possiamo quindi chiudere questa parentesi con la conclusione, solidamente ribadita, che il sistema economico russo riesce a stento a far tenere alla produzione agraria un ritmo pari a quello della popolazione che incrementa, ma mentre la popolazione delle campagne integra il suo consumo con un’economia naturale familiare non rilevabile dalle statistiche, il consumo di cibi della popolazione urbana a dismisura crescente, e molti suoi annessi consumi di beni non durevoli di origine agraria, decrescono irreparabilmente e richiedono un intensificato sacrificio di pluslavoro e di plusvalore, conformemente allo storico effetto di ogni avvento di economie capitalistiche, giusta la dottrina base di Marx.

67 – Costruzione e «appalti»

Verrà ora sulla scena il più malfamato di tutti i personaggi delle società capitalistiche che hanno ammorbato ed ammorbano il mondo moderno: nientemeno che il volgarissimo rapporto che si chiama «appalto».

Ciò serve a continuare nel nostro studio circa la ripartizione in un’economia come la russa del valore prodotto dal lavoro e del plusvalore che si genera dal lavoro salariato nelle imprese; e come questo processo (senza rivelare con questo caratteri originali ai lumi di una critica marxista) aggravi la condizione della popolazione urbana rispetto a quella rurale, ancora eccedente alle insidiose e antisociali forme del godimento diretto molecolare, cui la società russa offre, senza elevarlo dalla millenaria impotenza, una speciale tutela, avendo reso non commerciabile come prima del capitalismo la terra goduta.

Abbiamo detto che i dati ufficiali russi ci porgono una statistica di quella parte degli investimenti che i piani quinquennali destinano al potenziamento dell’economia nazionale, che consiste in lavori di costruzione e di montaggio.

Questo rilievo ci ha indotti a ritornare alla partizione degli investimenti tra i vari rami della produzione, per stabilire tra quali di questi può avere incidenza questa speciale partizione.

Al di fuori di essa restano le «sovvenzioni» statali alle aziende che sono in crisi di produzione e si presentano «deficitarie», ed anche quelle somministrazioni di pubblica finanza alle aziende che devono aumentare la produzione e quindi fare acquisti maggiori di materie da lavorare e assunzioni di personale più numeroso.

La spesa per nuove costruzioni (genericamente fabbricati) e montaggi (genericamente macchinari, impianti, armamenti tecnici, condotte di ogni genere) può incidere sugli investimenti del settore comunicazioni e trasporti, in grandissima misura, e su quelli industriali come su quello agrario. Bulganin ad esempio ha detto che nei 600 miliardi che il piano quinquennale riserva all’industria sono comprese queste realizzazioni: costruzione di centrali elettriche, di aziende dell’industria chimica, della siderurgia e della metallurgia non ferrosa, delle industrie carbonifera e petrolifera, di quelle dei materiali da costruzione, della forestale. Ai quali settori si prevede di destinare 400 dei 600 miliardi.

Nei limiti della nostra ricerca non siamo in grado di dire come tra i vari rami si dividono i miliardi di costruzioni e montaggi, ma solo di confrontare tale cifra con quella dell’investimento globale.

La tabella che abbiamo tratta dall’annuario statistico di Stato ci dà la percentuale di questi lavori al totale, che non varia grandemente, ma ha solo una tendenza alla diminuzione negli ultimi piani quinquennali, il che ci sembra conforme al rallentare generale dell’accumulazione e della creazione di nuovi impianti produttivi in rapporto alla gestione di quanto già esiste, sintomo di un capitalismo che si prepara a «calmare i giovanili bollori».

Nel I piano abbiamo avuto l’85 per cento, assai alto: ma sappiamo che si risorgeva da una distruzione totale e si doveva prima ricostruire, poi gestire.

Il II piano ha dato l’80 per cento; il III, spezzato, 79; il periodo di guerra 78. Il IV piano è sceso a 64 ma con questa serie: 70, 65, 64, 63, 60. Il V piano, stabile nei cinque anni tra 64 e 62, ci dà 63. Il maresciallo Bulganin non ha creduto informarci delle previsioni su questo speciale indice nel sesto piano, ma ci dirà presto una cosa interessante.

68 – Percentuale degli appalti

Disponiamo di un’ultima tabella che va, anno per anno, dal 1933 al 1955. Essa lascia quindi fuori solo il I piano, e ci indica, dopo aver ripetuto il volume degli investimenti in lavori di costruzione e di montaggio, il minor volume sul precedente che viene «dato in appalto ad organizzazioni».

Per fare un esempio, nel V piano quinquennale su 625,3 miliardi generali ne sono stati investiti in costruzioni e montaggi 394,8, e di questi sono «dati in appalto» ben 332,3. Rispetto al IV piano abbiamo avuto questi incrementi, ripetendo quello generale già noto: Investimento generale: aumento 91,5 per cento. Costruzioni e montaggi, aumento 89,6 per cento. Appalti, aumento 113,2 per cento.

Nel discorso Bulganin troviamo questa promessa, che gli investimenti, come ben sappiamo, nel nuovo piano quinquennale si limiteranno a salire, non più del 91, bensì del solo 66,6 per cento, ma che, non nel piano, ma
«attualmente oltre l’80 per cento di tutto il volume dei lavori di costruzione viene affidato per contratto a speciali organizzazioni edili».
Infatti la nostra tabella ci dà per il 1955 la rispettabile proporzione di 83 per cento, e i dati appaiono filare d’accordo.

Dunque in Russia esiste l’appalto, esiste il contratto di appalto, e copre nientemeno un rapporto di 83 per cento del tutto. Bulganin non dice che nel sesto piano coprirà probabilmente il 90 e più, ma ora lo trarremo noi dalle cifre.

Ma prima vogliamo riferire, ci si scusi, un aneddoto. Cerchiamo novità e troviamo di continuo vecchiumi dei più disgustosi. Ci si annunzia in tutte le direzioni la primizia stuzzicante dei miracoli del socialismo, e finiamo con tra i piedi l’appalto, delle cui gesta ladresche siamo edificati non diciamo nell’Italia fondata dai comitati di liberazione, o dalla marcia su Roma, ma in quella classica che ci hanno trasmesso gli imperatori romani coi loro appaltatori e i loro Verre pieni di soldi al punto da scoppiare. Quale serie di delusioni!

Un giornalista italiano è in visita da un saggio ospite cinese che si è evidentemente prefisso di sbalordirlo coi costumi stranissimi del suo particolarissimo paese. L’interlocutore non meno arguto trova modo a ogni originale pratica e costumanza che gli viene descritta di ribattere che la cosa non lo stupisce menomamente, perché faccende del genere sono all’ordine del giorno a casa sua. Un po’ smontato il colto cinese finalmente si alza e traendo di sotto alla sua persona una specie di panchetto sul quale stava assiso esclama, mostrando che è fatto di un pacco di giornali piegati e strettamente legati tra loro con una cordicella a più croci: Dove credete che in Cina vadano a finire i giornali stampati dopo letti? ebbene: sotto il sedere! Oh questa poi, risponde calmissimo il visitatore, non mi riesce proprio nuova per nulla: in Italia i giornali vecchi non li destiniamo all’uso di diversa parte del corpo!

Con il quale aneddoto non abbiamo voluto manifestare la nostra speciale stima per quel prodotto primo della civiltà moderna che è la stampa, a stento superata dalla carta igienica, quanto fare un paragone calzante fra la poca originalità delle rivelazioni del cinese, e quella degli annunci pomposi dei dirigenti sovietici, quando vantano di avere allestito davanti agli occhi abbagliati del vecchio mondo una struttura sociale impensabile ed inattesa, i cui caratteri tutti sono stati finora ignorati e riescono di inedito modello – davanti alla massiccia apparizione di un rapporto economico tanto rancido, quanto il contratto di appalto di lavori con l’amministrazione dello Stato!

Viene sollevata una questione che interessa grandemente sotto il profilo quantitativo e sotto quello qualitativo. Ci sia consentito di dare la precedenza al primo, con altre brevi cifre, in quanto può riuscire un po’ più pesante.

Non possiamo verificare se la mancanza di dati per il primo piano quinquennale oltre che per gli anni che lo precedono derivi dall’assenza del fenomeno nel periodo successivo alla rivoluzione e alla distruzione delle vecchie imprese private e borghesi appaltatrici di lavori edilizi ed affini. Probabilmente dopo aver riconosciuto che si poteva statizzare la sola industria, e che le diverse esigenze dell’agricoltura e del commercio avevano reso necessario rassegnarsi alle forme del mercato monetario e dello scambio di prodotti agrari, si rimase restii ad intendere che nel campo della produzione dei manufatti lo Stato potesse rinunziare ad essere, oltre che nuovo proprietario titolare delle fabbriche ed imprese espropriate, anche loro gestore a mezzo di diretto suo personale remunerato a tempo di lavoro, e, come dicono i borghesi, per conduzione diretta, in economia diretta; esperimento che per tutti gli Stati borghesi riesce sempre ultrarovinoso e di spregevole rendimento. Forse si ritardò, per così dire, ad ingoiare un altro rospo di così immani proporzioni. Comunque non possiamo dedurre che dalle cifre in nostro possesso.

Nel primo anno di tabella la proporzione tra il volume dei lavori dati in appalto e quello totale è molto basso: 25 per cento. Deve pensarsi che lo Stato conducesse i tre quarti delle costruzioni di opere fatte col suo denaro in economia diretta; anticipando materiali e spese di personale. La percentuale sale nei 5 anni del II piano senza posa: 25, 25, 27, 34, 48, e la media del quinquennio è 33. Sebbene sia noto che le cifre assolute in miliardi di dollari delle due colonne ebbero oscillazioni notevoli negli anni di guerra, l’indice o aliquota degli appalti che qui ci interessa non cessa di aumentare: per il parziale terzo piano diviene 56; e per gli anni di guerra sale ancora a 59. Non trascriviamo tutta la serie dei 23 anni che non presenta mai un ritorno indietro, e basterà dire che nel quarto piano si sale al 73 per cento medio, e nel quinto a ben 81.

Si tratta dunque, quale che sia l’ingranaggio reale dell’appalto di lavori dello Stato russo, di un fenomeno di aumento del sistema tanto deciso quanto irreversibile, e la percentuale degli appalti sale ad ogni piano di uno scatto tra il 5 e il 10 per cento: il che ci autorizza a dire che alla fine del sesto piano saremo al 90 per cento, ossia praticamente alla regola che la totalità delle spese dello Stato per costruzioni ed impianti si fa attraverso un contratto con un ente appaltatore.

Naturalmente ci si dirà che non abbiamo capito che si tratta di «appalto socialista», e dobbiamo quindi vedere la questione sotto il profilo qualitativo.

69 – Servizi delle moderne «organizzazioni»

Il fatto assodato che lo Stato russo spende in un anno oggi circa 80 miliardi su 93,5 di lavori di costruzione ed installazione attraverso contratti con enti di cui si tratta di definire la natura economica. Quando tra due enti si stipula un contratto ciò vuol dire che gli interessi dei due enti sono differenti ed il contratto evita che quelli dell’uno sopraffacciano di troppo quelli dell’altro. Naturalmente si verrà subito a raccontare che altro è il contratto capitalista, altro sarà il «contratto socialista». Poiché di un tale documento non ci è ancora accaduto di sentir parlare, e tutto quel che possiamo presumere è che la sua destinazione sarebbe quella dei giornali del cinese, non ci resterebbe che elevare un’altra delle nostre definizioni del socialismo, nella solita lapalissiana maniera: Il socialismo è quell’economia, nella quale non si fanno contratti.

Altro fatto assodato è che esiste una somma di denaro che lo Stato deve erogare, e che nel piano vi è ad esempio un progetto per una diga fluviale e relativa centrale elettrica che si prevede costi, poniamo, due di quegli 80 miliardi, e che quindi ad uno stadio determinato del procedimento quei due miliardi passeranno all’ente contraente a cui la controparte nell’appalto consegnerà la diga. Questo avveniva a Tebe, a Ninive ed a Roma; e la cosa in Russia non può andare diversamente, se è vero che dopo spesi quei due miliardi ne resteranno, per le esigenze dello Stato e del piano, 78. Se così non fosse allora davvero di Lapalisse-Bulganin si dovrebbe dire che, un quarto d’ora prima della sua morte, non «il était encore en vie» (era vivo ancora) ma, secondo la versione originaria, «il faisait encore envie» (suscitava invidia a vederlo).

Alt! Questo originale quanto misterioso contratto si stipula non con un volgare appaltatore capitalista, ma con «speciali organizzazioni», e noi non le abbiamo mai viste, non sappiamo come siano fatte, non le abbiamo mai guardate contro il tubo di Röntgen e ne ignoriamo, poverelli, la solida struttura socialista.

Monsieur de Boulganine, si vous n’êtes pas mort, mort devant Pavie… se siete ben vivo davanti all’emulativo mobile-bar del Cremlino, e alla vostra salute, ascoltate il nostro povero ed occidentale: ti conosco mascherina! Nonno e babbo conoscevano, in questo bel clima borghese, il trogloditico appaltatore, noi non ne incontriamo più, e si offrono, quando una «stazione appaltante» privata o pubblica ha da spendere qualche miliardo di centesimi italiani, le più anonime e compite «organizzazioni».

«Essendo informati che vi occorre installare una linea telefonica diretta con l’ufficio del maresciallo Bulganin in Mosca, ci pregiamo porre a vostra disposizione la provata esperienza in materia della nostra «specializzata» organizzazione, e vi sottoponiamo il preventivo alle migliori condizioni, e il nostro schema di contratto per il quale i nostri uffici hanno calcolato il prezzo di ventidue copechi alla versta, ecc…».

Il capitale si presenta oggi in ogni momento nella forma di una «organizzazione», e dietro questa parola divenuta non più sinonimo di fraternità in una lotta aperta come ai tempi gloriosi delle lotte operaie, ma ipocrita finzione del comune interesse, dietro l’inespressiva e antimnemonica sigla dell’inafferrabile azienda, tra affaristi, amministratori, tecnici, operai specializzati, manovali, cervelli elettronici, robots e cani da guardia, dei fattori della produzione e degli stimolatori del reddito nazionale, compie l’immonda funzione che sempre ha compiuto, anzi una funzione immensamente più ignobile di quella dell’imprenditore in nome personale che si faceva pagare intelligenza, coraggio e vero pionierismo agli albori della società borghese.

Anche nei paesi capitalistici questa forma più spinta della spersonalizzazione del capitale, che Marx ha scolpita nelle sue previsioni man mano che toglieva dalla scena come inutile la figura padronale del capitalista, scusandosi di non averla dipinta in tinte rosée[287], e disegnava le linee taglienti della sparizione della forma capitale come un processo grandioso e irriducibile al pettegolare sulle personalità, i loro brindisi e i loro rutti oratori, viene ogni giorno più assunta dall’industria delle costruzioni, e delle installazioni.

70 – Stato minchione

L’organizzazione non solo è il moderno capitalista senza persona, ma è anche il capitalista senza capitale, perché non ne ha bisogno alcuno. L’impresa di appalto edilizio non ha fissa dimora e non ha patrimonio immobiliare: il suo cantiere glielo dà lo Stato appaltante, e lo si scrive nel primo articolo del contratto. È chiaro che noi non abbiamo mai letto un contratto di lavori in Russia, ma siamo sicuri che lo sapremmo scrivere. In Russia i capitali che lo Stato ed il piano stanziano per lavori ed impianti non viene versato nella Gosbank o banca centrale di Stato, per cui passano i versamenti – e i prelievi – dalle industrie generiche che lo Stato gestisce – fin quando, lì ed ovunque, senza pregarne un organizzato appaltatore? – ma viene passato a banche speciali. Queste non possono fare alla speciale organizzazione l’offesa di considerarla capitalista, e tengono a sua disposizione anche il primo milione di rubli, se non il primo rublo, entro i limiti dello stanziamento. Anche in Occidente ogni ditta che abbia avuto un contratto con lo Stato va alla prima banca, lo mostra, ed ha tutti i soldi che le servono non già per compiere l’opera ma per arrivare al primo versamento. Se l’impresa lavora su contratto vuol dire che sono stabiliti dei prezzi che le sono riconosciuti per l’esecuzione dell’opera, e di date parti e quantità di opera. Questi prezzi contengono un margine di profitto, e la sola differenza con l’appaltatore classico è che non vi è più per lui nessuna vera anticipazione di valore e nessun vero rischio nel caso che l’opera costi troppo o non corrisponda allo scopo. Probabilmente la sola differenza che vi è nel contratto russo è che la speciale organizzazione appaltatrice non versa nessuna «cauzione di garanzia». Nei paesi borghesi questa clausola si sa magnificamente come eluderla in cento modi. L’organizzazione di affari ha il suo proprio intelligente piano: non presenta ditte responsabili con valori vivi, ma fa andare avanti una «società pilota» con un capitale finto, e se anticipa in cassa poche somme sono quelle per guadagnarsi la facile simpatia degli uffici statali che devono vagliare offerte, proposte e contratti.

Qui si scopre da un lato la fallacia della sciocca dottrina sulla burocrazia di Stato, o di partito, nuova classe dominatrice e sfruttatrice che la fa a proletari e capitalisti, e si scopre sotto un aspetto nuovo e diverso da quella, che basta ad eliminare in linea marxista la ridicola ipotesi che un corpo di servitori che vendono il proprio signore assuma la direzione della società e della sua vita economica. Lo «specializzato» è oggi l’animale da preda, e il burocrate il miserevole untorello.

L’organizzazione differisce dalla comune di lavoro (pura illusione libertaria di cui non vi ha esempio entro confini locali) perché non vi è parità di prestazione ad una comune opera, ma vi è una gerarchia di funzioni e di vantaggi, entro ciascuna azienda operatrice; né potrebbe essere altrimenti quando l’azienda ha un suo bilancio in chiave di profitto attivo ed un’autonomia nel campo del mercato. Lo Stato che ha avuto il coraggio di essere capitalista, manca di quello di essere operatore economico; esso è un ventre pieno di capitale denaro che consegna ad altri perché con esso operino economicamente, e lo rovescia fuori al più lieve invito vellicante. Le organizzazioni operatrici economiche sono le piovre del plusvalore e le disfattiste del rendimento sociale; e sono l’ambiente più adatto alla corruzione della classe dei salariati, ed alla alimentazione con pochi lecchi di una sciagurata aristocrazia proletaria, nel vecchio senso di Lenin.

Il senso di recenti notizie di Russia sul decentramento regionale e una ancor maggiore autonomia aziendale[288] è che si va verso una travolgente estensione del sistema dei contratti, con cui lo Stato si affitta ad organizzazioni che sono vere bande di affari, di composizione umana mutevole ed inafferrabile, in tutti i settori dell’economia, lungo una strada che in tutti i sistemi capitalistici moderni è segnata dalle forme esose che ha assunto l’industria edilizia, e a sede volante.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXIII)

71 – Abitazioni e costruzioni

Avendo visto quanto sia grande nell’economia dell’industrialismo russo di Stato la parte dell’appalto dei lavori di costruzione e di installazione, ci è di molto interesse il fare un confronto, per i vari paesi moderni, tra la spesa destinata a queste attività e quella totale della società, che oggi tutti i «sistemi» si danno a determinare ed anche a pianificare, certo non meno che il non diverso, qualitativamente, «sistema» sovietico.

Indubbiamente negli ultimi decenni e specie dopo la guerra sono stati fatti molti sforzi per coordinare le definizioni e quindi i rilevamenti delle varie grandezze da registrare nei paesi del mondo, e vi è anche una specie di codice statistico che fa capo, dopo laboriose convenzioni, all’organizzazione delle Nazioni Unite. Ma i vari apparati nazionali e internazionali di esperti lasciano sussistere molte e gravi confusioni nel cercare di assimilare tra loro i dati che vengono da fonti varie e rispondono a fenomeni vari.

Per dedicare un qualche tempo alla discussione di questo punto, che merita una trattazione a parte, sistematica, che noi indichiamo a qualche odierno e futuro volonteroso della scuola marxista pura, ci conviene ammettere che si possa dare un senso al cumulo delle spese per vari obiettivi, in un dato paese e in un dato periodo, che vengono fatte da privati, da enti vari, e dallo Stato od anche da Stati stranieri, in modo che questo integrale, espresso in valori monetari, assuma un significato comparabile da tempo a tempo e da luogo a luogo. Resterà tuttavia da discutere molto sul come i vari elaboratori hanno trattato, specie con gravissime sviste, le grandezze fisiche e reali in gioco, ed i rapporti economici che le collegano, anche tenendoci al prudente livello della registrazione dei fatti e dei dati, senza salire alla filosofia economica, e accendere lumi che potrebbero accecare quella buona gente.

Lo studioso al quale ci siamo riferiti troverà in Marx rilievi notevoli e di portata storica sulla sociologia dei grandi lavori di costruzione. Questi hanno per primi chiamato in gioco la forza dell’associazione in masse della mano d’opera umana e dell’ammannimento di forti scorte di materie prime trasportate e semilavorate, ossia hanno richiesto già da secoli e millenni che si accumulasse di fatto capitale variabile e capitale costante, prima che la forma di produzione capitalista sorgesse tanto nella sua economia di scambio generale mercantile e monetaria, quanto nelle sue moderne forme di società politica: prima dunque, come Marx stabilisce da gran tempo, dello stimolo privato alla ricerca del plusvalore e del profitto, in quanto le opere erette e previste, dagli antichi più altamente spesso che dai contemporanei, erano destinate a durare nella loro funzione per intere generazioni ed erano servizi sociali di gran respiro prima di essere strumenti di produzione, nel senso moderno di macchine per erogare profitto a chi ne ha il sociale controllo[289].

Marx quindi indicò genialmente in queste remote imprese la prima formazione di capitale anche quando vi provvidero poteri precapitalistici e perfino semibarbari; ed indicò anche la prima formazione di rapporti economici a scala internazionale, in quanto i primi poteri dispotici le condussero al di sopra anche dei limiti di popoli e di razze, spesso un esercito belligerante fiancheggiando la massa degli schiavi piegati al lavoro e dei tecnici che li dirigevano al servizio del Re o del Signore: anche a domare le rivolte dei forzati e minimo-alimentati lavoratori.

Solo, nella sua prima forma, l’organo Stato funzionava come organizzatore di opera in massa e quindi come capitalista: e ciò ovviamente non cominciò per prodotti consumabili mobili e non durevoli ma per l’erezione di beni immobiliari di godimento sociale; e vi era più germe comunista in queste imprese di schiavismo che nelle molto più recenti «galere di lavoro» ove i sudanti indossano uscendo l’abito borghese e godono l’ipocrisia di tutte le libertà.

72 – Dalla casa all’edificio

Un primo modo burocratico e miope di porre il problema è quello di limitarlo all’abitazione, solo perché il moderno addensamento delle popolazioni e la loro folle concentrazione nei centri urbani generata dal capitalismo industriale e dalla morte del primitivo artigianato diffuso su tutta la campagna e perfino nomade, hanno reso di natura sociale la mancanza di case sufficienti a contenere le masse degli attuali eserciti di lavoro, e a consentire loro di proliferare.

All’origine la casa poteva essere un prodotto manufatto di chi la abitava, come la capanna del selvaggio e anche del primo agricoltore, messa insieme con materie maneggevoli leggere e reperibili in ogni luogo intorno. Forse l’uomo ha cominciato col farsi fare da un altro «specializzato» il vaso e la freccia, ma solo con molto ritardo la casa. Questa è venuta molto dopo l’edificio stabile e pesante ad uso collettivo per cento finalità: politica, guerra, religione, mercato, ecc.

Molto tardi l’uomo usuario di un domicilio si è fatto venire la ben strana idea di averlo sopra o sotto quello di un compagno e della sua gente, e solo per aver visto questo fenomeno dell’edificio multipiano in fabbriche ove nessuno dormiva, o soltanto un essere di speciali funzioni e all’inizio considerato di una specie diversa, di una «casta» immescolabile.

Una critica dell’architettura e dell’ingegneria edile che parta da queste semplici basi è proponibile, ma per ora ci limiteremo a quello dell’economia sociale delle costruzioni che mette in primo piano l’abitazione, il logement, il dwelling, e non vede cose molto più vaste e decisive che gli sono meno vicine. Pochi capiscono il concetto tanto semplice, che sono più le fabbriche di uso diverso dall’abitazione che quelle di abitazione, che costano quindi molto più lavoro e denaro, quale che sia il «sistema». La recente amministrazione italiana successa a quella fascista, che tanto si gridò essere divenuta intollerabile per ladreria e asinità, e pertanto messa fuori a furore di popolo, solo da un anno e con numeri palesemente falsi ha cominciato a distinguere i fabbricati non residenziali da quelli residenziali, annotando i pochi locali non di abitazione che si fanno oggi nei primi, e i pochi di abitazione che stanno nei secondi.

La banalità si riduce ad avvertire la fame edilizia e la mancanza di fabbricati esasperata dalla distruzione bellica come un problema riconducibile a misura, calcolazione e pianificazione di progetto, partendo dal dato crudo della popolazione restata senza tetto o troppo concentrata nelle case, e mettendo con correnti indici computistici il numero di case o di stanze in rapporto al numero della popolazione, e la spesa occorrente in rapporto a un indice per stanza o per vano. In Germania ad esempio si è meglio capito che abitare non è la prima necessità umana, ma è secondaria a quella di consumare, e quindi di produrre, e si sono costruite nei primi anni del dopoguerra coi pochi materiali e forze lavoro reperibili non abitazioni, ma fabbriche, impianti generali e luoghi di lavoro, accorgendosi che il fabbisogno economico era doppio e triplo, e rinviando agli ultimi anni decorsi l’affrontare con una attrezzata macchina di produzione la costruzione di case.

Siccome dove ci sono forti partiti comunisti, e socialisti di sinistra, la macchina amministrativa è più docile alle esigenze di speculazione dell’impresa capitalistica, e siccome è un facile teorema del marxismo che in fase avanzata della forma borghese di produzione si guadagna più che a gestire una fabbrica a costruire lo stabilimento, gli impianti e i macchinari, e, ancora più che a costruire una fabbrica, a costruire una casa, soprattutto dove il valore di realizzo dopo un ciclo cortissimo di investimento del capitale proprio (e spesso come dicemmo non proprio) è esaltato dalla fittizia ricchezza di ubicazione che la bestiale follia urbanistica ha generato; in Italia si sono gettati a far case, a buttare giù le vecchie che potevano ancora alloggiare gli operai addetti agli impianti produttivi, e poi con la famosa balla del Piano Fanfani, detto anche INA-CASA, hanno pensato di far vivere di lavoro tutti i disoccupati adibendoli ad erigersi la casa, pregando i costruttori mobilitati dall’ente di farle più tremolanti che fosse possibile per poter riaprire il ciclo della loro strategia economica al più presto. Il coltivato cittadino moderno si lascia propinare questo «piano» assennato: Vuoi aver da mangiare? Fabbricati la cucina! Laddove il troglodita riuscì a capire che doveva disturbarsi ad accendere il fuoco solo quando ebbe tra mano, dopo rischiosa caccia e lotta, la zampa di orso, dura da azzannare anche ai suoi denti robusti.

Il furbissimo e cosciente elettore italiano compra invece la pelle dell’orso prima che sia stato ucciso, e la paga profumatamente alla democrazia capitalista appaltatrice.

73 – Edilizia privata e pubblica

Non sarebbe giusto trattare indipendentemente la casa e i fabbricati di altro genere, per lavoro, studio, industria, commercio, svago, cultura, sanità e così via, come campi estranei, col motivo che nel primo caso si tratta di opera e spesa privata, negli altri pubblica. Non solo in Russia, ma negli altri paesi borghesi confessi, all’esigenza casa non sono solo i privati a provvedere ma lo Stato, sia per costruzione diretta sia per costruzione largamente sovvenzionata, e le differenze tra i due lati della cortina sono soprattutto quantitative. Del resto in Russia, se non si esclude l’appalto delle costruzioni che fa lo Stato, nemmeno si esclude che privati costruiscano la loro casa, la posseggano e la trasmettano in eredità. Il confronto quantitativo tra i vari paesi non è tuttavia facile non solo ad impostare in termini economici, ma anche in termini fisici, per le ben diverse unità cui le varie statistiche nazionali sono riferite. Mentre in alcuni paesi si concepiscono le unità di abitazione, che non sono poi sempre facili ad isolare una dall’altra nei casi di affollamento e di coabitazione che gli effetti della guerra hanno esasperati spezzando la relazione famiglia-focolare – nonché per la diversa incidenza delle comunità di residenza, educative, lavorative, militari, religiose, ecc. –, in altri si indicano le stanze, o vani, o locali, o ambienti (pièces) la cui conta è ancora più problematica, per quanto sembri cosa immediata. Nella complessa vita moderna si verifica sempre questa incertezza in cose a prima vista evidenti; e non si verifica quando si ha l’onore di interpellare lo «specialista» ma proprio quando non si accetta per moneta contante tutto quello che lo specialista, sicuro dell’ignoranza di chi sente, spaccia per certo e fuori discussione. La specializzazione borghese in un dato «problema» non consiste nel conoscerne le difficoltà più a fondo, ma nel coprirle sempre ed ovunque col velo di una incontrollabile e poltrona sicumera convenzionale.

La Russia ci presenta, nelle sue statistiche sulla casa, questione che è colà gravissima e superacuta, la novità di darci i milioni di metri quadrati di abitazioni costruite e costruende, unità di cui mostreremo la maniera di riferimento alle «borghesi» stanze e appartamenti.

Prima però di entrare nella parte numerica, servendoci delle poche fonti che hanno l’aria di essere concludenti, vogliamo completare la nostra estensione nel campo delle costruzioni, in cui siamo partiti dalla semplice «casa» o fabbricato ad abitazioni, per aggiungervi anzitutto tutti gli altri tipi di edifici che sorgono negli agglomerati urbani e nelle campagne, con una infinita gamma di destinazioni, che sembrano di eccezione, mentre in fondo l’eccezione è la sede di pura abitazione residenziale.

Per leggere questo foglio il lettore può anche essere un senza tetto, perché può farlo al caffè o seduto sulla panchina del giardino pubblico o per terra nel cuore del deserto libico, salvo la varia comodità più o meno propedeutica a digerire le lunghe brode e a schiacciare il pisolino salvatore. Ma non lo leggerebbe ove non fosse stata eretta in sedi varie una serie di altri edifici, per attenerci a quelli soli che visti da lontano hanno grosso modo la stessa foggia della casa.

Si tratta delle fabbriche in cui si fa la carta, l’inchiostro, i caratteri da stampa, le macchine da stampa della tipografia locale che in genere sta nel cuore degli abitati cittadini, senza parlare delle stazioni postali e ferroviarie e lasciando da parte tutte quelle attrezzature ed impianti che di case non hanno la forma, ma sono non meno necessarie. E quello che si dice del giornale si può dire di tutti gli altri oggetti e funzioni che l’animale uomo incontra nel breve giro della giornata e di cui si serve in modo vario o con cui ha le relazioni più diverse, che sarebbe lungo accennare, anche in esempi. L’uomo ha cominciato ad avere relazioni sociali e ad essere un produttore prima di prendere l’originale uso di dormire al coperto, che le bestie e gli dèi sostanzialmente ignoravano, prima che noi, stranissima specie, erigessimo le stazioni zoologiche e i templi.

In generale il luogo di lavoro, la fabbrica, è anche un edificio come la casa di abitazione, ma nella generalità la cosa è ancora più vasta, e l’uomo non costruisce solo edifici ma cose ben più complicate, in cui si lavora all’impianto, ed in diversa misura all’esercizio. Uomini lavorano al coperto, come dormono; uomini lavorano all’aperto o in gabbie mobili quali i veicoli terrestri, acquei ed aerei. Oltre a costruire case si costruiscono edifici, e la faccenda diviene, se non vi spiace, all’incirca tre volte più grossa (e il rapporto non fa che crescere grazie al commendator Progresso); ma oltre a costruire edifici si fanno strade, canali, irrigazioni, bonifiche, ferrovie, elettrodotti, porti, aeroporti, impianti estrattivi, e chi più ne ha più ne metta, tutte opere che della casa edificio hanno perduta anche la sagoma più lontana. Vorremmo azzardare che si ripete una triplicazione di sforzo di lavoro umano e di «valore», come quella dalla casa all’edificio generico, e forse anche se ci fermiamo al campo della costruzione di strutture fisse ed immobili per natura, ossia a quello che in Russia chiamano lavoro di montaggio o di installazione, lasciando fuori ancora i veicoli, le macchine, gli attrezzi mobili o «semifissi» che si potrebbero (a parte la convenienza) spostare in altro luogo di funzione, come un motore elettrico o un maglio di officina, ecc. Solo allora avremmo percorso il ciclo dei beni durevoli, che è più vasto di quello dei beni immobili per natura, o immobili per destinazione, e dal quale poi si passa in quello dei beni non durevoli o di vero consumo, che l’uso più o meno rapidamente trasforma fino alla distruzione pratica.

74 – Costruzione ed economia

Le classi di cui diamo questo monco abbozzo vanno riferite a quelle dell’economia, seguendo quanto fanno i governi e le classi dirigenti, tutti e tutte ormai guadagnati alla moda della pianificazione in grande.

Nel nostro bel paese di cuccagna, di Pantalone o di Pulcinella, volevamo in primo tempo ridurre tutte le classi a quella della casa; si sono fatti poi grandi passi salendo dal Piano Fanfani al Piano Vanoni, ma in questo non mancano certo i nonsensi, a parte quello fondamentale per tutti; che in atmosfera mercantile si riesca ad attuare piani razionali anticipati.

Si pensava di ridurre tutto alla casa, tutti gli operai sarebbero campati facendo case, e tutti gli affaristi e quelli che elegantemente oggi chiamano «terziari» sulla relativa speculazione in grande, che in un secondo settennato (tra l’altro di tecnica deteriore e mariuola, e di stile che fuga le ombre degli artefici classici e rinascimentali ormai non solo dalle città ma anche dai paesaggi d’Ausonia) allegramente dilaga. Non si capì che valeva tanto fare un piano ancora più stretto in limiti elementari: quello della costruzione delle tombe e dei cimiteri (opera ragguardevole che in quanto precede non ci è venuto in mente di elencare), poiché i relativi residenti non hanno la cattiva abitudine di mangiare.

Eseguita ora la nostra ovvia estrapolazione, possiamo porre in relazione la spesa casa con la spesa in costruzioni private e pubbliche che non sono case (anche private come gli alberghi, ristoranti, bar, caffè, negozi, laboratori artigiani, studi, uffici di commercio, e giù altra filza da completare) e con l’ulteriore per servizi generali, che in genere sono fatti dallo Stato, ma non sempre neppur quelli. D’altra parte per il momento questo non ci importa, né in Russia né da noi, e per non porre altro indugio prima di venire alle quantità in gioco ammetteremo di passaggio che tutta questa erogazione di lavoro e di spesa si chiami investimento di capitali, nella sua privata e pubblica totalità, mentre la parola ha senso ben diverso per la teoria marxista da quella usata dagli uffici di statistica di Stato; anche da quelli sovietici.

Ci domanderemo quindi, come fanno molte statistiche di confronto internazionale, quanto si spende in un anno, poniamo, per la costruzione di abitazioni, quanta parte è questa della spesa per l’edilizia generale, e poi di quella per le opere e servizi di ogni genere, perché ci interessano due tesi: in genere si dà troppo posto alla spesa per le case, per i fabbricati pubblici, e per le opere veramente generali che restano a fare bella mostra di sé (forse che sì, forse che no) una volta esposte al sole, e quanto meno non si dà nessuna razionale precedenza alle opere veramente utili e sociali, perché questo gruppo di attività investitrici è quello che più fa comodo alla forma moderna della forza capitale, cui è soggetto il mondo.

Una seconda nostra tesi è che questo meccanismo più o meno fanfarone e filibustiere gioca in Russia nelle stesse forme e negli stessi rapporti di tutto il resto di questo bel mondo successo alla seconda guerra, nel quale gavazza, con la grande costruzione, il più grande affare del secolo e della storia.

Su queste grandi imprese che fecero correre fiumi di retorica ebbe già Marx ad esporre in più e più luoghi l’applicazione della nostra dottrina, che tra l’altro ci insegnò in un secolo a non aprire la bocca stupita davanti alle meraviglie del mondo e ai colossi della megalomania costruente, quando trattò delle grandi imprese storiche, dai monumenti egizi e babilonesi alle strade romane, e alle moderne grandi reti ferroviarie, gallerie transalpine e canali navigabili, col classico esempio del taglio marittimo di Suez (e poi di Panama) in cui il capitale moderno sfoggiò tutta la sua audacia e la sua internazionalità, la strapotenza della sua ingegneria e della sua canaglieria[290].

75 – Confronto in Europa

Quattro grandi paesi dell’Europa occidentale hanno affrontato dopo la guerra il problema delle abitazioni, e si hanno i dati per fare un confronto relativo all’anno 1952. Non è molto dissimile tra i quattro la popolazione: Gran Bretagna 51 milioni, Germania (occidentale) 50 milioni, Italia 49 milioni, Francia 43 milioni. Ben diversa però la «popolazione di case», che li schiera in un ordine diverso, anche se non siamo sicuri che la conta sia stata fatta con lo stesso sistema. Nel 1952 la Gran Bretagna aveva 14 100 000 abitazioni, la Francia 12 835 000, l’Italia 11 573 000 e la Germania 10 milioni 455 000. Le case disponibili per ogni mille abitanti erano 298 in Francia, 277 in Gran Bretagna, 236 in Italia e 209 in Germania, paese nel quale la dotazione antebellica era molto più alta che da noi, ma le distruzioni sono state ancora più massicce, e la mania della casa («maison d’abord») non ha imperversato in misura grave come abbiamo già detto.

Si suole spesso usare l’indice inverso, ossia la media di persone per ogni abitazione, e tale indice risulta di 3,4 persone per la Francia, 3,6 per la Gran Bretagna, 4,2 per l’Italia, 4,8 per la Germania. È chiaro che su tale indice ha influenza la media composizione della famiglia, che ad esempio in Francia è poco numerosa, il che rende appunto necessarie più case a parità di popolazione. Più frequentemente si mette la popolazione in rapporto alle stanze o ai vani disponibili, ma anche qui sorgono dubbi perché la riduzione di un alloggio a numero di vani è molto dubbia, ed in Italia vi è differenza tra gli stessi metodi dei censimenti di anteguerra e dopoguerra. Ciò dipende da stanze grandi o piccole, ambienti destinati a cucina, a servizi e a disimpegni, specie piccolissimi, ed altre considerazioni, non ultima l’avidità della speculazione edilizia che, fissati i prezzi a vano, trasforma in sette o più vani una casa con quattro stanze, mobilitando otto o nove «accessori» fino alla casetta dei piccioni…

Non possiamo seguire tale indagine; diremo solo che i vani di abitazione in Italia nel censimento del 1951 furono circa 35 milioni con l’indice di 1,33 abitanti per vano, contro l’1,41 antebellico.

Vi è motivo sicuro di ritenere che il movimento sia stato inverso a quello che le cifre dicono. All’ingrosso, dato l’aumento di popolazione, l’indice non migliora se non si costruiscono oltre 350 000 vani annui; se ne sono costruiti nel 1952 676 000, nel 1953 889 000, nel 1954 1 071 000, nel 1955 1 311 000, e nel 1956 1 400 000, probabilmente. Noi pensiamo che siano da sottrarre non pochi vani non di abitazione: comunque ammessi tali dati sarebbero nei 5 anni 5 milioni e mezzo di nuovi vani, e si sarebbe a 40 milioni di vani per 49 milioni di abitanti, con l’indice dell’1,23, che consideriamo assolutamente troppo ottimista.

Ci limitiamo dunque nel confronto europeo all’unità un poco vaga di abitazione, e consideriamo il volume costruito nell’anno 1952. La Germania – ed era logico – si era già portata all’avanguardia con 386 000 unità, seguiva il Regno Unito con 246 000, l’Italia con 116 000 e la Francia, ormai satura, con 84 000. Per ogni mille abitanti erano in Germania 7,7 nuove abitazioni, in Gran Bretagna 4,8, in Italia 2,4 e in Francia 2. Con gli stessi dati del 1954 l’ordine è lo stesso:

Germania 505 000, Gran Bretagna 354 000, Italia 177 000, Francia 162 000; e per ogni mille abitanti: Germania 10 abitazioni nuove, Gran Bretagna 7, Italia 3,5 e Francia 3,8.

Possediamo i dati che indicano il valore di tale massa di abitazioni costruite se non in cifre assolute, non facili a stabilire, in cifre relative al reddito nazionale netto. Esse indicherebbero quanta parte della somma a loro disposizione per i consumi hanno accantonato i vari popoli per farsi le case mancanti.

Non abbiamo i dati per la Francia ma solo quelli per gli altri tre paesi, sempre con riferimento al 1952. La spesa per la costruzione di case di abitazione in detto anno ha rappresentato in Germania il 5 per cento di tutto il reddito nazionale; in Gran Bretagna il 3,1 e in Italia il 3,6. Poiché sappiamo che il reddito nazionale italiano 1952 è stato considerato di 9243 miliardi, la spesa per abitazione è stata qui valutata ben 333 miliardi, e dunque 2 871 000 lire per ciascuna abitazione. Dalle cifre già date abbiamo che la media per abitazione è di vani 5,8, e la spesa per vano è stata di circa 500 000, abbastanza alta per i prezzi del 1952. Qui è una riprova che il piano italiano fornisce case di troppo alto costo e di troppi vani in media, sicché provvede alle classi meno disagiate e non ai veri sovraffollati e senza tetto. Il confronto con altri paesi ci porterebbe troppo lungi dal nostro tema, che è il russo. Anche in Russia Chruščëv ha lamentato il troppo alto costo delle case costruite.

76 – America e «boom»

Ci rivolgiamo a fonti diverse e usiamo cifre di gran massima per estendere questa ricerca all’America. Nel 1950 gli Stati Uniti disponevano di ben 44 897 000 abitazioni urbane e rurali (come in tutte le altre statistiche) per una famiglia; e dato che allora la popolazione era di 151 milioni di abitanti si avevano abitazioni 300 circa per ogni mille abitanti, pareggiando il dato francese che è il massimo europeo; ma nel 1952. In detto anno si costruiscono 1 100 000 altre case, in ragione di circa 7 per mille abitanti, restando al di sotto del solo ritmo tedesco. Il ritmo di aumento delle case è il 2,5 per cento annuo, che supera quello della popolazione che è di circa 1,5. Da allora si è però molto intensificata la costruzione di alloggi, che ha dato le seguenti cifre: 1953: 1 100 000; 1954: 1 220 000; 1955: circa 1 650 000; 1956: circa 1 700 000. Oggi si può ritenere che la massa dei dwellings o case di abitazione sia di 53 000 000 unità e di 315 ogni mille abitanti almeno, mentre il ritmo di costruzione è salito a 10 nuove abitazioni ogni mille abitanti, naturalmente primato mondiale; e tuttavia alla pari coi dati germanici del 1954.

La spesa americana per l’housing sarebbe stata circa 13 miliardi nel 1952 e 16 miliardi nel 1956. Dato che in tale anno il reddito nazionale è stato di 325 miliardi di dollari, il rapporto è del 5 per cento e collima bene con quello germanico.

Allineato così il temibile concorrente America possiamo seguitare nel confronto delle aliquote economiche, che stabiliscono il rapporto tra investimento nel settore abitazione ed investimento annuo totale. Sempre nel 1952 il rapporto sarebbe stato per l’Italia il 17,3 per cento, per la Germania il 21,2 e per la Gran Bretagna il 23,7. Per determinare quello dell’America rileviamo che nel 1952 l’investimento totale americano è stato circa di 55 miliardi, e nel 1956 è salito a 67, sicché quel rapporto è di 23,4 e 23,9 rispettivamente, ben concordante con quello europeo, come si vede.

Ci viene poi data altra aliquota che pone l’investimento case in rapporto a quello totale per costruzioni edilizie ed opere pubbliche. In Europa abbiamo (1952): 48,5 in Italia; 52,1 in Germania; 52,3 in Inghilterra, e si sta intorno alla metà; la casa di abitazione prende la metà di tutti gli sforzi di costruzione di edifici e servizi generali, e pur tenuto conto che siamo nel periodo che segue ad una guerra disastrosa, troviamo sempre che si dà alla casa troppo peso: effetto del seguito delle classi medie agli usi della classe privilegiata, che in un mondo in cui la rivoluzione è in letargo sfoggia spudoratamente i suoi pescecaneschi e cafoneschi sciupii. I marxisti sapranno cercare quanta minima parte di questo fiume di lussi edilizi ricade sul proletariato, seguendo soprattutto la spesa per case una divisione di classe, che seguono meno le spese per edifici pubblici ed opere generali – escludendo tuttavia armamenti e galere!

Che per tali dati in America? Con cifre un poco grossolane nel 1952 l’investimento totale è stato di 55 miliardi, come detto, e quello in opere di costruzione 28 miliardi, di cui le case hanno preso il 46,5 per cento, un poco meno che in Europa. Nel 1956 l’investimento in costruzioni sale a 36 miliardi su 67 e i 16 miliardi per le case sono del primo il 44,5 per cento. Potremmo giudicare più saggia la politica economica americana, se non sapessimo che le distruzioni di guerra lì non ci sono state, e quindi dobbiamo portare i giudizi negativi sulle società dalle due parti dell’Atlantico allo stesso livello.

Può a questo punto interessare l’aliquota di lavori di costruzione in genere, ossia case comprese, sul totale dell’investito. Avremo, partendo dai dati noti: 1952, Germania il 41 per cento, Italia il 36,8, Gran Bretagna il 45; il dato peggiore è certo l’italiano. In America nel 1952 abbiamo il 51 per cento, e nel 1956 il 54, il che mostra come quella potente economia largheggi in opere e servizi pubblici generali.

Le cifre assolute che danno i riferiti rapporti le abbiamo indicate per gli Stati Uniti, e possiamo aggiungerle, per evitare più lunghe indagini e riferimenti di cifre, per l’Italia. Secondo i dati ufficiali nel 1955 l’investimento lordo è stato di 2925 miliardi, e di esso nelle costruzioni in genere sono andati 951 miliardi soltanto, che danno il 32,5 per cento, ancora inferiore al 36,8 dedotto per il 1952. Forse parte di un 5 per cento indicato in tabella per «varie» può essere aggiunto, ma è noto che negli ultimi anni se non è stato posto un freno alle case ne è stato però posto uno notevole alle opere pubbliche, anche perché i potenti intrighi in questo campo sono superati da quelli ultratossici nel primo, sfondo degli scandali in cui nuota questa repubblica sfrontata.

77 – Italia e case, ancora

Le abitazioni darebbero il 24,0 per cento del totale, con 701 miliardi, e ben il 74 per cento sulle opere di costruzione, il che aggrava molto i più moderati indici che abbiamo trattati per il 1952: 333 miliardi; 17,3 per cento; 48,5 per cento. Sappiamo del resto che da 676 000 vani nel 1952 si è saliti a ben 1 400 000 nel 1956, e la cosa non stupisce, confermando solo una sbagliatissima politica economica italiana che prepara a breve scadenza la strana contemporaneità di due crisi: quella della mancanza di case per le classi povere, e quella della sovrapproduzione ed ingorgo di mercato delle case ricche, con fallimento della poco corretta industria edilizia, dall’andatura di bancarotta fraudolenta.

Nell’ultimo quadro dell’investimento italiano di cui si dispone, per il 1955, la disponibilità totale lorda è ripartita (come detto) per il 24 per cento del totale alle abitazioni, e per il solo 8,5 per cento alle altre costruzioni ed opere pubbliche. Deve però notarsi che quanto riguarda trasporti e comunicazioni sta in altro settore, che copre in tutto il 14,4 per cento, di cui circa il 5 per cento riguarda ferro-tramvie, poste, telefoni e radio, e il resto mezzi autonomi di trasporto stradali, marittimi e aerei. Si possono dunque portare le opere pubbliche al 13,5, e può essere anche lecito aggiungervi, dal 12,7 per cento che riguarda l’agricoltura, un 7,7 per bonifiche e trasformazioni fondiarie. In tal modo, forse più atto al paragone con paesi esteri, l’Italia investirebbe oggi sempre l’alto 24 per cento (e l’alto 7,5 per cento del reddito nazionale!) in abitazioni (al pari il primo indice d’Inghilterra ed America), ed altro 21,2 in opere pubbliche, portando le costruzioni in tutto al 45,2 e l’incidenza su questo totale delle abitazioni al più equilibrato 53 per cento, che resta tuttavia un massimo tra tutti i paesi considerati.

Prima di salire, previa telefonata a Bulganin per il nostro filo speciale, sull’aereo Roma-Mosca, e occuparci dell’edilizia in Russia, vogliamo ancora dare un colpo alla pianificazione nera italiana, visto che in Russia faremo i confronti con la pianificazione rossa, e che i sinistri locali pongono allo stesso livello il culto per la Costituzione politica di De Gasperi e quello per la Costituzione economica di Vanoni, facendo dire messe periodiche a tutti e due.

Nel piano di Vanoni le case occupano un posto di primissima fila. Come è noto il piano copre il decennio 1955–1964 e la sua posizione chiave è che il reddito nazionale deve aumentare ogni anno del cinque per cento, a partire dal 1955, che doveva fare tal premio sui 10 450 miliardi da Vanoni stimati per il 1954. Per le cifre del reddito, più o meno ufficializzate, il '55 e il '56 hanno mantenuto il passo. Anzi era già il reddito 1954 che Vanoni stimò basso. Nel suo piano il reddito netto 1955 doveva essere 10 972 e quello 1956 11 528 miliardi: oggi ce lo annunziano di 12 641, pure avendo rispetto al 1955 avanzato non del 5 ma del 4,1 reale e pure essendo stato il 1956 anno poco favorevole, a parte la perequazione al valore della moneta.

Comunque per Vanoni il reddito del 1964 deve essere di 7000 miliardi, ossia deve nel decennio andare da 100 a 163. Il totale nel decennio sarebbe 135 000 miliardi di lire (lire 1954, si capisce).

78 – Piano Vanoni e case

L’investimento netto deve formare il 18 per cento del reddito nel corso del piano, il lordo salire dal 20,5 del 1954 al 25 del 1964 e in tutto il piano il netto rappresenta il 18 per cento ossia 24 337 miliardi, su 135 000 di reddito.

Vediamo come si ripartisce, e quanto ne va alle costruzioni, e alle case per abitazione, di cui abbiamo visto i rapporti di fatto odierni in Europa ed America.

Una prima parte del piano comprendente agricoltura ed opere pubbliche viene definita di «investimenti propulsivi» e prima calcolata in 11 237 miliardi, poi ridotta a 10 637 ossia il 43,7 del totale decennale. La ripartizione di questa prima sezione va fatta quindi sulle cifre dì partenza. La partizione risulta: agricoltura 3467 miliardi, ossia 32,6 per cento, e sul totale 14,2. Energia elettrica, gas naturali, ferrovie e trasporti 4960 miliardi, ossia 46,6 %, e 20,4 % del totale di piano. Opere pubbliche (sistemazioni fluviali e montane, edilizia scolastica e varie) 2810 miliardi, 26,4 per cento, e sul totale 11,5.

Il secondo settore riguarda le attività industriali, artigiane e terziarie per cui sono previsti 8600 miliardi, il 35,3 del piano. Non discutiamo questa parte del piano, piattamente piccolo-borghese, che tende soprattutto ad una industria minima e ad una massa di impiegatucci che aumenti la pletora presente.

Il terzo settore (dulcis in fundo) è l’abitazione. Essa prende 5100 miliardi nel decennio, e quindi il 21 per cento di tutto l’investimento. Si tratta di puri vani di abitazione, dato che «il documento» proclama che «la attività edilizia, pure contribuendo come gli investimenti nei settori propulsivi a stimolare l’espansione della domanda, non dà luogo alla creazione di attrezzature produttive e pertanto non è in grado di contribuire all’assorbimento permanente di mano d’opera». Questo vale ammettere che, quando le case siano finite o l’industria edilizia scoppiata per pletora, ricomparirà una disoccupazione maggiore di quella che il piano vanta di eliminare!

I vani edilizi tuttavia, sia fatto onore a Vanoni, sono (calcolando L. 500 000 per uno) previsti in numero minore di quello che i due primi anni hanno già realizzato. Infatti si va da 840 000 nel 1955 a 1 200 000 nel 1964. Sappiamo che già nel 1954 erano stati 1 071 000, nel 1955 1 311 000 e nel 1956 almeno 1 400 000, per quanto sia nostra opinione che in tale cifra non pochi vani, per fortuna, non siano di abitazione e quanto meno occupino commessi di negozi e bar, maschere di cinema e qualche altro disgraziato che non aveva lavoro.

Perché dunque in questo campo si supera il piano, e invece si resta bene al di sotto nel programma, che Vanoni ha portato seco nella tomba, di ridurre la disoccupazione? Perché messer Capitale e la sua aspra fame di profitto stanno bene al di sopra di noi ben vivi e anche del fu Vanoni. E una delle più indecenti manifestazioni è la follia edilizia dei fabbricati ed appartamenti.

Infatti secondo la cifra di 1 311 000 vani nel 1955 si sono spesi 655 miliardi contro i 420 previsti da Vanoni. Le abitazioni figurano addirittura per 701 miliardi nel prospetto degli investimenti lordi.

Vanoni si limiterebbe alla fine del piano ad avere per le abitazioni la spesa di 600 miliardi contro 17 000 di reddito nazionale netto e quindi il 3,5 per cento congruo alle statistiche europee citate per il 1952.

Dove i rapporti del Piano Vanoni sono da esaminare è nel campo delle opere di costruzione ed impianti in generale. Basti un cenno. Gli investimenti in tale settore sono bassi, ed è rispetto ad essi che l’investimento in abitazioni è eccessivo. Il settore opere pubbliche infatti è parte di quello degli «investimenti propulsivi» e si possono sommare le partite relative a: centrali elettriche, reti di distribuzione, gas naturali, ferrovie e trasporti, telefoni, acquedotti, e le citate opere montane, fluviali, di edilizia scolastica e varie, ossia in tutto 7770 miliardi, che insieme all’edilizia di abitazione danno 12 870 sul totale di 24 337 e quindi il 52,9 per cento. Forse si potrebbe togliere qualche settore delle partite trasporti (veicoli e altri beni non immobili) ma forse anche aggiungere parte del settore agricolo, e non si va molto lontani dai dati dell’economia americana sopra riportati; è forse proprio l’industria pesante che è tenuta bassa (ma ciò è in un certo modo giustificato dai caratteri dell’economia italiana): essa non incide che per 1000 miliardi sui 4800 del settore attività industriali e terziarie, e per il 4,1 per cento del piano.

Ma l’errore di Vanoni è il rapporto falso tra edilizia di abitazione e generale. Non vi sono che i miseri 220 miliardi di edilizia scolastica, e parte dei 650 di opere pubbliche varie, che possiamo mettere tutti a compenso di poche opere edilizie comprese tra quelle agrarie di servizi generali e trasporti, e con ciò l’edilizia totale sarebbe di 880 non residenziale contro 5100 residenziale. I due settori stanno come il 14,7 e l’85,3 %, mentre in una sana economia devono stare come il 66 e il 34 di consistenza, ed anche ammesso che il problema casa sia in fase acuta, al massimo come il 50 ed il 50 di spesa investita. Sempre se si vuole che chi ha un dormitorio e un… refettorio, abbia anche il lavoro e il cibo che va consumato nel secondo!

Una delle follie dell’economia borghese è che, se costruisce case in troppa abbondanza, la classe utile ed oppressa dell’umanità resta à la belle étoile. E se poi si ferma e non ne costruisce più, il fenomeno seguita… allo stesso modo.

79 – Le abitazioni in Russia

Sebbene non sia facile allineare dati sulla consistenza in Russia delle abitazioni, è ben noto che in quel paese la mancanza di case è un problema tremendo e feroce. Fino alla fine dello zarismo una minoranza della popolazione russa non sapeva che cosa fosse una casa di muratura; la maggioranza rurale viveva in case di legno, quasi tutte di un solo piano e molte di un solo ambiente: izbe, più capanne che case.

Su questo primitivo sistema residenziale si sono abbattute due rivoluzioni e due guerre sterminatrici, e lungo sarebbe seguire tutta la vicenda dell’evoluzione dei domicili in Russia. Ma da quanto precede ben sappiamo che al 1914 è seguito un grave movimento, già delineato sotto lo zarismo, di concentramento della popolazione nelle città che erano sorte sostanzialmente come agglomerati di edilizia muraria e come tali si sono paurosamente sviluppate e moltiplicate.

Il lettore conosce i motivi per cui abbiamo considerato esagerate le cifre ufficiali sul rapporto tra popolazione urbana e rurale, e consideriamo che la seconda sia tuttora la maggioranza. Se quelle cifre fossero vere quelle dell’affollamento degli abitanti nelle case di città diverrebbero favolose: sappiamo tutti dalle notizie di giornale che è norma che una e più famiglie di molte persone abbiano per casa una stanza unica.

Quindi il governo russo ha messo in linea con altri urgenti guai questo tragico della mancanza di case ed i piani di costruzione delle stesse, e vanta a sua volta di aver già fatto passi da gigante nell’affrontare un tale compito.

Abbiamo accennato che nelle statistiche russe le cifre relative non sono date in vani-stanze, né in unità-domicili, ma a superficie, indicate nei piani in milioni di metri quadrati, il che intriga un poco il comune lettore.

Qualche indicazione viene anche fornita sulla spesa totale per l’edilizia, ma la stessa non è di facile decifrazione perché bisogna distinguere tra la parte di investimento statale e di piano destinata ad un tale obiettivo e quella importante che gravita su altre economie locali.

Vediamo quindi annunziato che durante tutto il periodo del V piano quinquennale sono stati costruiti coi fondi del piano 105,4 milioni di metri quadrati, ai quali se ne aggiungono 10 costruiti dalle aziende di produzione (fabbriche), ben 38,8 attuati col «finanziamento dello Stato a privati» ed altri 2,3 con fondi dei colcos rurali, formando un totale di 156,5. Lo Stato, a detta di Chruščëv, ha nel quinquennio 1950–55 stanziato a tal fine 100 miliardi di rubli, crediamo tra costruzione diretta (sempre per appalti!) e finanziamenti. Nel successivo quinquennio del VI piano si dovevano costruire 205 milioni di mq., di cui 29 nel 1956. Durante il quarto piano, 1946–50, l’attività edilizia è stata molto più bassa se il V piano ha prodotto, sempre nel discorso Chruščëv al XX congresso, 2,2 volte di più. Possiamo forse fissare la successione: IV piano 71,1 milioni di mq., V piano 156,5 milioni, previsti per il VI piano 205 milioni, ossia non oltre il 31 per cento del quinto, mentre questo giunse al 220 per cento del quarto. La cosa è troppo chiara, ma tuttavia è il caso di ragguagliare l’unità qui adottata a quella già familiare.

80 – Misura delle abitazioni

Per superficie di abitazione non si deve intendere la superficie occupata dagli edifici, ossia quella che viene detta dai tecnici «area coperta», bensì l’area dei piani singoli insieme sommata, o se si vuole l’area sommata di tutte le unità di abitazione che un edificio contiene, e che è un poco minore perché una parte della superficie di ogni piano è impegnata per le scale e altri passaggi comuni a più unità domiciliari. Immaginiamo che si intenda per superficie delle abitazioni quella netta, ossia senza comprendere le pareti, in quanto in tutte le legislazioni che limitano la superficie di abitazioni per motivi fiscali o analoghi è a questa che di solito ci si riferisce.

Una stanza media, sebbene l’indice vari da paese a paese e soprattutto da epoca ad epoca, tendendosi oggi ad impicciolire gli ambienti, la possiamo considerare di 18 metri quadrati. Ciò vuol dire che, per ogni milioni di metri quadri costruiti, le stanze medie sono circa 55 mila.

I 156,5 milioni del V piano avrebbero dunque dato 8,6 milioni di stanze o vani. Non è facile ridurle ad abitazioni perché non si hanno dati per stabilire il numero medio di stanze: se lo ponessimo di quattro avremmo 2,15 milioni di abitazioni costruite in 5 anni e in media 430 000 all’anno. Questa cifra non fa gran figura se comparata alle 386 000 costruite in Germania nello stesso anno, ma è in relazione alle 116 000 italiane; infatti con una popolazione di 190 milioni si avrebbero 2,3 abitazioni annue nuove ogni mille abitanti, contro le 2,5 italiane del tempo (le tedesche sono state ben 8).

Il ritmo annunziato per il VI piano quinquennale, se le nostre riduzioni sono probanti, non è formidabile. Non parliamo affatto dei 29 milioni di mq. del 1956 ma partiamo dai 205 milioni di mq. in tutto il piano. Ammetteremo che questi stiano in relazione non ai 156,5 milioni, ma ai soli 105,4 del piano statale nel precedente quinquennio, dato che Chruščëv ha parlato di raddoppiare, e non, come prima calcolato, di aumentare al limitato 31 per cento… Avremmo un massimo di 320 milioni di mq. che ci danno 17,6 milioni di vani e 4,4 milioni di abitazioni nel quinquennio, in media 880 mila l’anno. Non dunque altro che, su una popolazione di 200 milioni, una rata di costruzione annua di 4,4 nuove abitazioni per mille abitanti che è all’incirca quella italiana di oggi.

Se istituiamo un paragone col piano Vanoni, i 4,4 milioni di abitazioni e 17,6 milioni di vani in un quinquennio sarebbero nel decennio 35,2 milioni di vani, che si oppongono ai 10,2 milioni di Vanoni. Fatto il rapporto delle popolazioni, se consideriamo (invece) che nel quinquennio 1956–60 Vanoni ne prevede 4,8, arriviamo ad un pareggio tra i due concorrenti: Bulganin 88 vani ogni mille abitanti e ogni cinque anni, Vanoni 96.

In Italia sappiamo che in questi primi anni la piega è di costruire più case ancora di quelle che Vanoni prevedeva. In Russia è più difficile prevedere la via che si prenderà perché influiscono cause opposte: è maggiore grandemente la fame di case. Ma è nostro avviso che si tratta di una eguale pressione di forze economiche per preferire la costruzione di case di alto tono ed attirare forti investimenti di Stato ed enti periferici (che ogni giorno più si vedono scendere sulla scena a visiera alzata) nell’edilizia urbana residenziale.

In sostanza il fenomeno della costruzione di abitazioni edilizie nel dopoguerra mostra in Europa, America e Russia una struttura con molte analogie. Noi riteniamo che sia una struttura critica – e per questo ci siamo fermati a fondo su di essa – atta a mettere in evidenza la generale virulenza antisociale e antioperaia dell’economia capitalista sviluppata.

In quel che segue tenteremo di spingere il confronto dai dati fisici a quelli economici del problema, confronto bene ammissibile perché è confessa, nelle due economie «emulatrici», l’adozione dello stesso metro economico: l’investimento del denaro.

Il programma socialista è altro: oh vecchio Engels, da quanti anni lo hai insegnato?! Fermare la costruzione delle case urbane! Gli appaltatori sapranno cadere combattendo, tra le rovine dei mostruosi cantieri.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXIV)

81 – Pauroso inurbamento

Nel suo discorso al XX congresso Chruščëv ha detto sull’edilizia per abitazioni cose gravissime, per deplorare che disponendo di stanziamenti enormi molti ministeri e dipartimenti non realizzano i piani di costruzione di alloggi. E ha detto letteralmente (riferendosi anche all’altezza dei costi ed alla pessima organizzazione dell’industria edilizia): «Non si può tollerare questa situazione scandalosa» (n. 7, pag. 24, dell’edizione italiana del bollettino dell’Ufficio comunista di informazione dei partiti).

Nella sola Mosca a suo dire si sono negli anni del quinto piano (1951–55) costruite case di abitazione per 4 305 000 metri quadrati, ossia il 2,78 per cento che in tutta la Russia, mentre la popolazione è il 2,4 per cento con le cifre sempre oscillanti di 5 e di 205 milioni (notare che pochi giorni addietro «l’Unità» sulla fede dell’annuario dell’ONU ultimo, ma certo per imbeccata da Mosca, rilanciava i famosi 220 milioni di popolazione bruscamente decurtati or è un anno!)

Non è tuttavia la rata di Mosca su tutta la Russia che interessa, ma l’insufficienza delle costruzioni dove la popolazione aumenta a ritmo ben più alto, mentre come in tutti i paesi capitalistici il territorio si spopola a vantaggio delle sinistre metropoli.

Il riferimento di Chruščëv è grave in quanto non considera la massa di case esistenti, ma confronta il loro incremento nel quinquennio con quello della popolazione. Egli riferisce che, mentre si attuava nel quinquennio quel volume di costruzioni di case nuove, che con la nostra riduzione rappresentano 236 000 vani, la popolazione di Mosca aumentava di 300 mila abitanti «contando solo quelli che vi si sono trasferiti da altre regioni». Chi riflettesse poco troverebbe elevato l’indice in quanto quei sopravvenuti sarebbero stati alloggiati alla media di 1,3 persone per vano, che è soddisfacentissima. Ma con questo non si terrebbe conto che all’immigrazione va aggiunto il naturale incremento demografico, che risulta in Russia dell’uno e mezzo per cento annuo, e in cinque anni su cinque milioni di moscoviti ne allinea non meno di altri 375 mila, che uniti ai 300 mila venuti di fuori fanno ben 675 mila, da pigiare in 239 mila nuovi vani alla media di 2,86 individui per stanza. Questa è di per sé scandalosa, ma nasconde ben altre sperequazioni se ci domandiamo come si divide tra i vari strati economici, con indiscutibile vantaggio per l’inurbato rispetto all’antico cittadino.

In Italia nel 1955 a Roma i nuovi vani sono stati 115 000; e nel quinquennio 327 000, ossia molto più di quelli di Mosca, che ha una popolazione tripla. Roma in tutto il quinquennio è aumentata di circa 150 000 abitanti, di cui circa la metà è immigrazione, un quarto di Mosca.

Anche a Roma malgrado la costruzione febbrile di case (da signori) l’indice medio non migliora: è di 1,45 persone per vano contro 1,4 del 1931.

La popolazione di Roma è circa il 2,5 per cento dell’italiana, le case costruite nel 1955 sono state il 7,2 per cento di tutta la nazione.

Ne segue che Chruščëv trova utile seguire le tracce di Fanfani, e reclamare che si raddoppi l’intensità della costruzione di case: «il volume della costruzione di alloggi nelle città dovrà essere quasi raddoppiato». Roma è un buon modello per l’emulazione. Di più «si può fare a meno nelle città, dato il forte incremento di popolazione, di reclutare mano d’opera nelle località esterne, e si può soddisfare il bisogno di mano d’opera nelle città con la loro popolazione». Con questo Chruščëv mostra il proposito lodevole di «riuscire a far cessare l’afflusso di popolazione nelle grandi città da altre regioni».

Ma se in Russia non esiste disoccupazione, come mai si propone la stessa via sciocca, di impiegare la popolazione stipata nelle città a costruire alloggi? Secondo Chruščëv «nelle grandi città non vengono costruite nuove aziende industriali», ed inoltre non si reclutano nuovi operai perché «nelle aziende esistenti si sviluppa rapidamente la tecnica, si perfeziona la produzione, si eleva ininterrottamente la produttività del lavoro». E dunque, come i borghesi, non si riduce il tempo di lavoro, ma si scacciano operai.

Tutti questi possono essere intenti lodevoli, ma quello che è sicuro è che, nella mente dei grandi uomini che dirigono «il socialismo», le idee sul rapporto tra lavoro e sua remunerazione, tra alloggio e mantenimento vitale della popolazione delle città e di fuori, sono spaventosamente confuse.

82 – Reddito e investimento

Nel premettere allo studio dell’economia edilizia in Russia un confronto coi dati di altre nazioni, abbiamo citato i rapporti, tratti per lo più dagli annuari statistici dell’ONU che, come ora visto, fanno testo anche per i russi, tra la spesa per l’abitazione (housing degli inglesi) e la spesa totale negli investimenti, ed anche tra la prima ed il totale reddito nazionale. Seguendo tali cifre nell’accezione dell’economia corrente abbiamo tante volte fatto riserva sul criterio, per noi non scientifico, di trattare come grandezze della stessa specie tre grandezze ben distinte e che potremo qui elencare per chiarezza:

1) Investimento di parte del reddito consumabile (per noi marxisti un’operazione la cui possibilità appartiene solo alla classe capitalistica, e quindi agli enti che dispongono di capitale in massa: società, cartelli, Stati) in capitale circolante differenziale rispetto a quello del ciclo precedente; e quindi acquisto di materie prime incrementali, ingaggio di mano d’opera incrementale.

2) Investimento di altra parte del reddito consumabile in maggiori capitali fissi, ossia in nuove macchine, attrezzi, impianti e fabbricati di stabilimenti di produzione e di intraprese, industriali ed agrarie, investimento che lasciamo ai borghesi chiamare incremento della ricchezza, del patrimonio «nazionale», ma che incrementa solo il potere della classe o forza capitalistica dominante, che per noi resta fuori dal processo di accumulazione del capitale attivo. Questo solo (somma del costante e del variabile) è l’investimento che riappare ciclicamente in incremento del prodotto disponibile sul mercato, la forma 1.

3) Investimento in opere, impianti, manufatti che non fanno diretta parte di organizzazioni produttive, come sono ad esempio le case, la cui funzionalità non dipende (salvo la manutenzione e l’ammortamento di cui va sempre fatta riserva) da erogazione permanente di lavoro vivo. Queste opere non generano profitto da plusvalore, e la loro utilità sociale indiscutibile prende nella società mercantile forma di rendita immobiliare, che lo Stato può incamerare senza con questo uscire dalla forma capitalistica. La somma del valore delle case e delle opere pubbliche non sedi di impresa (esempio una strada non a pedaggio) rientrino pure nel patrimonio e nella ricchezza «nazionale» – noi designereremmo questo investimento di terzo grado come investimento in patrimonio immobiliare, privato o statale che sia non importa teoricamente.

Tanto nelle statistiche occidentali quanto nelle russe questi tre gruppi non sono distinti, e distinguerli è possibile, a suo luogo e tempo, solo applicando il metodo di ricerca e di presentazione di Marx.

In questo sviluppo l’esame insiste sui mutamenti quantitativi e sul confronto tra le economie che si pretendono opposte e fondate su «due sistemi», che invece tutta l’indagine fa risalire ad un sistema unico, destinato a cadere sotto i colpi di critica unica, rivoluzionaria.

Ripartendo dall’investimento nelle case di abitazione, che è per noi del terzo tipo, abbiamo avuto i dati per tre paesi europei: Italia, Germania, Gran Bretagna; per gli Stati Uniti; e si tratta di indicare quelli della Russia.

Un primo rapporto è tra la spesa per case e il totale del reddito nazionale, ossia la totale spesa dei privati e degli enti per tutte le necessità di consumo e di investimento in beni non consumati. Li ricordiamo: Germania 1952, il 5 per cento; Gran Bretagna 1952, il 3,1 per cento; Italia 1952, il 3,6 per cento. Nel 1955 siamo saliti al 6,1 davvero enorme, e nel piano Vanoni si dovrebbe stare sul 3,8 nel decennio e finire nel 1964 col 3,5, al che provvederà non la pianificazione, ma una sicura crisi. Negli Stati Uniti, nel 1952 e nel 1965, il 5 per cento.

Secondo rapporto: tra spesa case e investimento totale. Germania 1952, il 21,2 per cento; Gran Bretagna 1952, il 23,7; Italia 1952, il 17,3. Nel 1955 il 24 per cento. Per gli Stati Uniti il rapporto case-investimento è stato nel 1952 del 23,6 e nel 1956 del 24,0.

Un terzo rapporto, assai male definibile nelle statistiche nazionali, è quello tra la spesa per le abitazioni e la totale spesa per edilizia generale ed opere pubbliche «immobiliari». Sarebbe nel 1952 in Germania 52,1, in Gran Bretagna 52,3, in Italia 48,5 per il 1952, 53 se stimato con larghezza (vedi il precedente paragrafo 79), 51 forse nel Piano Vanoni, in cui come dicemmo non lo si legge agevolmente.

Queste cifre, al momento di cercarle per la Russia, ci conducono a stabilire un rapporto, che nella polemica internazionale è fieramente discusso come esageratissimo in Russia: quello tra investimento e reddito nazionale, il cui complementare è quello tra consumo e reddito, da cui dipende il tenore di vita della popolazione. I russi hanno sempre vantato l’aumento continuo del reddito nazionale e Bulganin al XX congresso ha detto che se ne consuma il 75 per cento.

83 – Ancora una sosta italiana

La rata di investimento secondo le già date cifre risulta, nel 1952, per la Germania il 23,6, per la Gran Bretagna il 13,1 (paese tipico della quasi completa accumulazione), per l’Italia il 20,8 che nel 1955 sale al 25 come rata di investimento lordo sul reddito nazionale netto, e che per Vanoni dovrebbe essere, come rata di investimento netto, solo il 18 per cento nel decennio, avanzando dal 14,3 del 1954 al 19,3 del 1964.

Tali aumenti dell’investimento netto corrispondono a quelli, che già citammo, dell’investimento lordo (esso comprende le spese per «rinnovi», ossia per impianti che riportano a nuovo – ammortizzano – l’efficienza di quelli già esistenti logorati dall’uso o superati) dal 20,5 al 25 per cento del reddito. Per ottenere tanto, il rapporto del netto al lordo dovrebbe variare dal 70 al 77 circa per cento.

A questo punto torna utile un cenno alle cifre testé pubblicate del famoso «bilancio economico nazionale» per il 1956. Su questo democristiani apologizzano, socialcomunisti funebrizzano: ma che ci importa, se entrambi sono d’accordo nel fatto che il proletariato debba gioire, quando fa premio attivo il bilancio nazionale? Ossia il contrario impudente di quello che Marx tuonava sulla faccia borghese di Gladstone?

Nel 1956 il reddito nazionale lordo è stato di miliardi 13 878, che depurati di miliardi 1210 di ammortamenti o rinnovi danno il reddito netto di 12 668. Rispetto al 1955 si è avuto un aumento del 7,2 per cento, che però espresso in valore reale si riduce al 4,1 per cento, restando al di sotto del 5 per cento voluto dal Piano Vanoni, come i quotidiani hanno detto.

Tra il 1954 e il 1955 l’aumento era stato di circa il 9 per cento in termini reali. Coi valori monetari 1954 il reddito netto nei tre anni sarebbe stato di miliardi 10 796, 11 630, 12 260 circa. Ora Vanoni partiva da 10 450 al 1954 e i suoi traguardi per i due anni successivi erano 10 973 e 11 521, che risultano nettamente superati, anche se con minore slancio nel secondo anno di piano.

Quanto agli investimenti, nel 1956 quello lordo è stato di 3130 miliardi, e togliendo gli ammortamenti restano 1920 miliardi. La serie dell’investimento netto nei tre anni è stata: 1467, 1820, 1920. Riducendo al valore monetario 1954 si ha la serie reale: 1467, 1790, 1842. Dunque una quasi stazionarietà dell’investimento capitale a danno del consumo. Gli italiani hanno mangiato e non «risparmiato», e sia il ministro del tesoro sia la confederazione del lavoro anelano a che essi digiunino. Ma che altro esigeva da loro l’appeso a Piazzale Loreto?!

Vanoni partiva da un investimento 1954 esatto o poco maggiore del reale, ossia 1500 miliardi. I suoi obiettivi per i due anni successivi erano 1590 e 1730: dunque la realtà è stata migliore del piano, di 200 miliardi nel 1955 e solo di 90 nel 1956.

A noi qui non interessa che il rapporto investimenti-reddito.

Il rapporto tra investimento netto e reddito netto è risultato del 13,5 nel 1954, del 15,4 nel 1955, del 15,1 nel 1956. Dunque si ripiega invece di avanzare verso il 18 di Vanoni, le cui tappe erano, giusta le tabelle del piano: 14,3; 14,5; 15,0. Comunque si è tuttora in linea con le previsioni.

Se indichiamo il rapporto dell’investimento lordo al reddito netto, allora la scala è stata 23,0, 24,9, 24,8. Infine il rapporto dell’investimento lordo al reddito lordo (ambo di ammortamenti) è stato 21,1; 22,8; 22,6 (Vanoni valutava l’investimento lordo del 1954 nel 20,5 del reddito lordo, prefiggendosi nel piano di portarlo al 25).

Durante la compilazione del Piano si ebbe un reddito maggiore dello stimato, ed un ancor maggiore investimento dei capitalisti italiani, per far piacere… ai comunisti.

Osserviamo, a chiusura di questa nuova parentesi, che le cifre adoperate dalle statistiche ONU si riferiscono a rapporti tra investimenti lordi e redditi nazionali netti, sempre insistendo sul fatto che i confronti internazionali in materia sono molto incerti.

84 – Reddito nazionale russo

Ancora una volta deve essere anteposta l’esposizione quantitativa alla discussione critica, poiché ancora più controversa è la definizione del «reddito» collettivo del «popolo» in un’economia di capitalismo di Stato industriale. La nostra tesi è che la stessa critica vale per le economie occidentali e per la Russia, checché ne pensino gli economisti dell’ONU che classificano il mondo in tre tipi di economie. Primo: economie dell’intrapresa privata. Secondo: economie centralmente pianificate. Terzo: economie di produzione primaria, o in parole povere economie in cui i ladroni di alto bordo sono invitati a predare materie prime: gomme, petroli ed altro. Qui è tutta l’Asia e l’Africa, meno il privato Giappone e la pianificata Cina, e anche Sud America, Australia e Nuova Zelanda, ormai senza riguardo a colore di bandiere metropolitane o di pelli bianche…

Prendendo il reddito nazionale russo per quello dichiarato nelle solite fonti ufficiali e congressuali, e negli «storici discorsi», ci sarà facile confrontarlo con le cifre già qui esposte diffusamente degli investimenti di Stato e di piano «nell’economia nazionale», rispetto alle quali abbiamo già esaminato la rata elevatissima di lavori dati «in appalto» e la rata di quelli di «costruzione e montaggio», volendo pervenire ora alla rata destinata alle case di abitazione che abbiamo esposto in termini fisici e dobbiamo trattare in termini economici.

Rimandando alla serie degli investimenti per anno e per piano quinquennale già riportata, dobbiamo indicare i dati relativi al reddito nazionale; sarà poi facile dedurre il rapporto tra investimento e reddito, e mostrare come esso sia altissimo, con totale smentita alla tesi Bulganin, che d’altra parte trova comodo dire: «in regime socialista tutto il reddito nazionale appartiene al popolo», per non soffermarsi troppo sul problema della quota del reddito destinata al consumo. In effetti la tesi marxista che tutto il valore che si aggiunge nella produzione è dato dal lavoro umano, deve accompagnarsi con l’altra che si parla di reddito quando il valore prodotto passa da chi lo ha generato col suo lavoro al membro di altra classe sociale che ne gode grazie al sistema di rapporti di produzione. In economia socialista vi è lavoro e vi è consumo, ma non vi sono «redditi». Né individuali, né nazionali.

Le notizie che abbiamo sullo sviluppo del reddito nazionale, che dobbiamo ritenere date in rubli del tempo in cui si produsse, le sintetizziamo in queste cifre, espresse da miliardi di rubli. 1928, 24,4; 1929, 29,0; 1930, 35,0; 1932, 45,1; 1933, 48,5 (in altro discorso di Staun 50,0); 1938, 105,0. Da questa data non si parla più di cifra monetaria del reddito ma solo di rapporti. Dal 1940 al 1951 e al 1955 si sarebbe avuto lo sviluppo per indici: 100, 184, 276. Nel corso degli anni del quinto piano (1950 a 1955) si sarebbe avuto il rapporto da 100 a 168. Ed infine si presume per il sesto piano, 1955–1960, il rapporto 100 a 160.

Elaborate un poco le dette cifre, e supposto, molto ottimisticamente, che dai 105 miliardi del 1938 si sia passati negli altri due anni antebellici a 115 e 125, avremmo questa serie per gli ultimi anni, in cifre all’ingrosso: 1950, 210 miliardi di rubli; 1951, 230; 1952, 260; 1953, 295; 1954, 330; 1955, 370; e, previsti per il 1960, miliardi di rubli 590.

Se il rublo fosse uguale al quarto di un dollaro, sul che grava forte dubbio – e come vedremo soprattutto in materia di costruzioni e di case – i 370 miliardi attuali sarebbero 93 miliardi di dollari, che stanno contro i 306 americani del 1955. Il reddito per abitante sarebbe di 450 dollari in Russia, di 1850 in America, e in Russia nel 1960 arriverebbe a circa 650, tenuto conto della popolazione (280 mila e 400 mila lire italiane rispettivamente).

Sempre mantenendo tali cifre, contro il reddito nazionale russo di 93 miliardi di dollari quello italiano 1955 sarebbe di 21 miliardi. Il reddito per abitante italiano nel 1955 vale 270 mila lire, e 430 dollari; sarebbe in pratica pari al russo se valesse quel dubbio rapporto: quattro rubli per dollaro 155 lire per rublo.

Ma basterebbe questo a mettere molto giù il medio tenore di vita russo. Infatti sappiamo che la cifra totale dell’investimento russo va da 91 miliardi di rubli nel 1950 a 150 nel 1955. Se sarà mantenuta la promessa di 990 miliardi di investimento nel sesto piano, si dovrà avere nel 1960 un investimento di 250 miliardi di rubli.

Queste cifre, tutte russe ed ufficiali, messe in rapporto con la serie di quelle di pari fonte per il reddito nazionale, danno la seguente percentuale di investimenti rispetto al reddito: 1950, 43,4 per cento; 1951, 44,3; 1952, 43,9; 1953, 40,4; 1954, 42,4; 1955, 40,4. La previsione 1960 risulta 42,3.

Quindi del reddito russo annunziato se ne investe il 40 per cento e più, ossia tra 40 e 44, e la popolazione non ne consuma i tre quarti, ma meno del 60 per cento, dal 56 al 59 per cento.

Abbiamo visto che negli altri paesi il rapporto è molto minore, e non raggiunge il 25 per cento. Negli Stati Uniti supera di poco il 20 per cento, ed in Gran Bretagna è ancora molto più basso.

In Italia, ben lo sappiamo, si fa un gran lavoro per portarlo nel 1964 al 25 per cento, mentre nel 1956 è stato del 25 per cento appunto.

Ora consumando il 57 per cento di 280 mila lire se ne hanno 160 mila per il russo, e per l’italiano il 75 per cento su 270 mila gliene lascia 200 mila. Salvo il rapporto di potere valutario, che è molto peggio per il russo.

85 – Partizione dell’investito

Ritorniamo su questo argomento pure avendone già detto per l’industria e l’agricoltura, ed avendo indicato quali incertezze sorgano da ogni lato. In questo caso si tratta di pervenire alla parte che riguarda le costruzioni, l’edilizia generale e quella per abitazione, campo nel quale si annida il grosso imbroglio economico ed una forma che non è certo molto diversa da quelle nostrane.

La «World Economic Survey», rassegna economica mondiale delle Nazioni Unite, anno 1955, porge un prospetto degli investimenti che stanno a base del sesto piano quinquennale, ed elenca le cifre molte delle quali abbiamo già date traendole dai tante volte citati discorsi del XX congresso. La tabella riguarda i ben noti 594 miliardi del V piano, e i 990 del VI, e quindi riguarda gli investimenti del governo centrale ai quali si aggiungono quelli di altri enti, come finora, tra altri minori, i colcos. Sappiamo che nel V piano i 594 miliardi statali sono divenuti 625 nel conto globale.

È certo che durante gli anni del VI piano, a partire da questo che è il secondo, anche l’investimento verrà fortemente decentrato, giusta il recente indirizzo centrifugo e regionalista che si intende dare all’economia e che racchiude in sé un’altra notevole tappa verso la «confessione» di identità del sistema russo con tutti gli altri.

La più grande parte del piano russo è per l’industria: ben 353 miliardi nel V piano, ossia il 59,4 per cento, e 600 nel sesto ossia il 60,6.

Di questi le industrie leggere ed alimentari, ossia che producono beni di consumo immediato, rappresentano nell’uno e nell’altro piano il 6 per cento. Per il sesto piano è stata poi indicata per la grande industria la cifra di 400 miliardi, due terzi di quella generale, e 40,4 per cento del piano, ma non è chiaro se contenga tutta l’industria pesante.

Bulganin ha detto che più di 400 miliardi varino investiti nei seguenti settori: costruzione di centrali elettriche, imprese della metallurgia ferrosa e non ferrosa, e chimiche, petrolio e carbone, materiali da costruzione ed industria forestale. L’annuario ONU fa l’ipotesi che il resto oltre l’industria leggera, in 141 miliardi, sia coperto dall’engineering, ossia dalle opere di ingegneria, i nostri lavori pubblici, ma sembra ritenere che gli edifici pubblici e privati figurino più oltre.

120 miliardi come già sappiamo saranno investiti nell’agricoltura, a cui se ne aggiungerebbero 100 dei colcos.

200 miliardi vanno sotto la voce: servizi culturali e sociali, di cui è data questa specificazione: abitazioni, edifici di utilità pubblica, scuole, università, istituti scientifici, ospedali ed impianti sanitari, teatri, asili infantili ed altre istituzioni. Non vediamo quindi qui le case di abitazione valutate a parte. Restano ben 70 miliardi sui 990, ossia il 7,1 per cento, sotto l’indicazione vaga di «altri settori».

Nel precedente V piano l’agricoltura ha preso 64 miliardi, ossia il 10,8 per cento che oggi si porta al 12,1 per reagire alle notissime e confessate deficienze. I servizi culturali e sociali sono a 120 miliardi, e nei due piani al 20,2 per cento. Il resto a destinazione varia era nel quinto piano 57 miliardi, ben il 9,6 per cento.

Disponiamo di un altro specchio circa le sole percentuali, ma per i singoli anni 1950, 1952 (manca il 1951), 1953 e 1954, ossia 4 su 5 anni del quinto piano. Le rate dell’industria pesante sono state 55, 61, 56, 55. Quelle della leggera 5, 5, 6, 9. Le percentuali investite nell’agricoltura 10, 8, 8, 9. Nei trasporti, che qui figurano a parte, 14, 12, 13, 12. Nelle abitazioni, che ci sono date a sé, 12, 12, 13, e 16. Come investimenti diversi figurano le rate per cento 16, 14, 17, 15 nei detti anni. L’annuario vi annota le opere pubbliche e dell’amministrazione, come sopra.

Possiamo ritenere che il 16 per cento di tutto l’investimento sia stato destinato alle case di abitazione nel 1955 e sappiamo che una rata non inferiore si dichiara di voler raggiungere nel sesto piano. Comunque sapendo gli investimenti anno per anno per la quantità globale 625, che sono dal 1951 al 1955: 102, 114, 119, 140, 150, possiamo spartire i corrispondenti 594 statali come segue: 97, 109, 113, 113, 142. Sapendo le percentuali e ponendo quella 1951 pari al 12 del 1950 e del 1952, si hanno i seguenti investimenti nelle case per 5 anni: miliardi 12,2, 13,7, 14,3, 18,2, 24,0. Sono in tutto 82,4 miliardi nel quinquennio.

86 – Economia russa dell’abitazione

Lo Stato dunque avrebbe investito nella costruzione di case nel quinto piano quinquennale la somma di 82,4 miliardi di rubli. Tale cifra trova conferma in quella data da Chruščëv di 100 miliardi, con questa espressione: «fondi investiti da parte dello Stato nella costruzione alloggi».

Infatti noi sappiamo che lo Stato ha costruito direttamente per 105 milioni di mq., che per noi valgono 5 800 000 stanze, ma oltre a ciò ha finanziato 39 milioni di mq. costruiti da privati, a parte 10 milioni di aziende ed altri servizi, e 2,3 dei colcos e per i loro «intellettuali».

Non sappiamo la rata del finanziamento ma la supponiamo non inferiore ai due terzi del costo (tutto il mondo è paese! quando lo Stato finanzia è regola «farci uscire tutto»). Possiamo quindi portare i 105 milioni di mq. a 131, rapporto che è circa quello che porta gli 82,4 miliardi a 100.

Se quindi su 594 miliardi di investimenti ne sono andati alle case 100, il rapporto percentuale è del 16,9 per cento, e quindi inferiore a quelli europei ed americani che abbiamo citati e che stanno tra 20 e 24 per cento.

Avendo Chruščëv annunziato che si deve raddoppiare, e dato il rapporto da 105 a 200 in milioni di mq., possiamo portare i 100 miliardi a 191 per il sesto piano, e porli in rapporto ai 990 totali; avremo che le case rappresenterebbero nel prossimo quinquennio il 19,3 dell’investimento, ossia un ritmo del tutto… vanoniano.

Invero la cosa si urta in qualche difficoltà se notiamo che tutto deve uscire, con moltissima altra roba non di carattere residenziale, dai 200 miliardi dei servizi sociali e culturali; ed anche qui si ripete in modo stucchevole la cantonata di tutti i piani italfanfa-vanoniani: dare troppo peso alla casa in rapporto all’altra edilizia.

Se poi cerchiamo il rapporto tra spesa case e reddito nazionale, possiamo averlo dalle cifre 1955, che sono in miliardi 24 e 370, col rapporto del 6,5 per cento, che è veramente forte, se si pensa al quasi 4 italiano e al 5 americano! E se si pensa che crescerebbe molto nel sesto piano.

Più difficile è trovare il rapporto tra edilizia per abitazione e costruzioni in generale, che per l’occidente gira attorno al 50 per cento.

Ripreso il nostro specchio di partizione dell’investimento abbiamo per il quinto piano tutti i 120 miliardi che (lasciando poco margine) comprendono le case. Per quadrare il conto dobbiamo attingere ai 353 miliardi dell’industria, in quanto riguardino non macchine e scorte ma costruzione degli stabilimenti, supponiamo 100 miliardi; e ai 64 dell’agricoltura per opere fisse e fabbricati, siano altri 30. Se ne prendano anche 40 dai 57 di altro settore e si va a 300 miliardi e dunque la metà. Una volta ancora: nulla di nuovo.

Fatta a Bulganin proprio la stessa operazione praticata a Vanoni!

87 – Costruzioni ultracostose

Il peso della macchinosa industria delle case di abitazione tende dunque in Russia ad «emulare» quello dei paesi in cui imperversa la mania della casa propria, intelligentemente incoraggiata dagli operatori del capitale e dagli economisti al servizio del capitale. Si tende alla saldatura casa-famiglia che è, come abbiamo sviluppato nella riunione di Ravenna[291] l’equivalente urbano ed industriale della formula colcosiana nelle campagne, basata sulla strettissima relazione famiglia-parcella di terra; famiglia-azienda minima; famiglia-casetta.

In Russia è indiscutibile che la scarsezza di case è enorme per un’economia basata sullo sviluppo industriale e mercantile, e che gli strati miseri della popolazione imparano adesso o da pochi anni che cosa sia una casa di struttura stabile. Ma tutto sta ad indicare che il pullulare dei cantieri edilizi non è indirizzato a munire di case questi strati primitivi e poco esigenti, ma ad arruffianare strati piccolo-borghesi, e un’aristocrazia operaia, o di spioni degli operai, a modi di vita esistenziali e snobisti, copiati dall’andazzo del mondo capitalista occidentale. Deduciamo questo dall’entità della spesa per le case e dalle stesse rampogne date nei congressi dai capi, che pure dispongono di case in città e di «dacie» o ville di campagna in cui sono entrati tutti i lenocinii dell’insipida e triviale edilizia borghese contemporanea. Questa ha il suo tempio non presso il focolare della cucina o nella stanza degli antenati, ma sui monumenti della stanza da bagno tra rivestimenti di vetro cangiante e lucori di sempre più strane robinetterie cromate.

Abbiamo stabilito più sopra che 131 milioni di metri quadri di abitazioni, pari a 7 200 000 stanze medie, sono costati 82,4 miliardi di rubli. Questa divisione vi apparirà un poco macchinosa, non lo negate, ma togliete sei zeri per parte ed avrete un poco più di 7 stanze per 82 300 rubli. Il risultato esatto è 11 400 rubli ogni stanza. Se davvero il rublo valesse 155 lire come risulta dalla parità al quarto di dollaro, il costo di un vano o stanza risulta di 1 750 000 lire!

Sapete che nel Piano Vanoni si calcola 500 mila lire: dunque in Russia una stanza costa tre volte e mezzo più che in Italia. Ma mezzo milione è già il prezzo di costruzione di una casa civile, e il Piano Vanoni partì sette anni fa con 300 mila a vano per le case operaie. Aggiungete che nelle previsioni italiane si deve al costo di costruzione aggiungere il valore del suolo che si espropria a privati, sia pure in zone non vicine al centro della città. Il «socialismo» non si sarebbe nemmeno liberato della più esosa di tutte le speculazioni borghesi, che è quella sui terreni da edificazione.

Un milione e tre quarti per stanza è cifra che fa stropicciare gli occhi ed il lettore potrebbe diffidare dei nostri passaggi e riduzioni, tra milioni di metri e miliardi di rubli, sicché è il caso di rassicurarlo. Prescindiamo dalla relazione tra un vano e 18 metri quadri, e consideriamo di quattro metri, ossia in oggi molto larga, l’altezza del piano, ossia delle stanze delle case considerate. I 131 milioni di metri quadri costruiti in cinque anni divengono 524 milioni di metri cubi di fabbricati, e volendo tenere conto dei volumi di scale ed androni con altrettanta larghezza, 600 milioni di metri cubi. Questi sono costati 82 400 milioni di rubli, come ben sappiamo, ed il costo unitario è ora espresso da 137 rubli per ogni metro cubo. Col solito cambio sarebbero 21 300 lire. Se interpellate un buon muratore saprete che questo è tre volte il costo di una casa di lusso in Italia, che si fa bene con 7100 lire per metro cubo, come si dice, «vuoto per pieno».

Non vi sono dubbi dunque sull’esattezza dei nostri piccoli computi, e non resta che ammettere una delle due cose: o il valore del rublo, il suo potere di acquisto riferito a tutta la gamma dei generi di prima necessità, è enormemente inferiore al quarto di dollaro – o in Russia il costo della costruzione di case si eleva di tre volte al di sopra di quello che a parità di condizioni raggiunge negli altri paesi.

Se ammettete la prima cosa, avviene che il tenore di vita, prima considerato quasi pari a quello italiano, scende alla terza parte – se ammettete la seconda ne segue che nella costruzione di case in Russia negli «appalti» da noi già illustrati ed ufficialmente annunziati (Annuario sovietico ufficiale, discorso di Bulganin) le misteriose «organizzazioni» e i loro poco definibili e identificabili «operatori» fanno sugli affari un premio del duecento per cento almeno, a danno dello Stato, e quindi dei lavoratori dell’industria.

Noi non ci dedichiamo in questo punto ad illustrare quale sia la soluzione giusta col mezzo dei prezzi degli altri generi, che va decifrato tra prezzi dei magazzini di Stato e prezzi del minuto commercio, ma arrischiamo una risposta media. Il reale potere di acquisto del rublo è oggi di un ottavo di dollaro, pari a circa ottanta lire italiane; la costruzione edilizia si paga una volta e tre quarti il costo nei paesi occidentali, ossia con un extraprofitto del 75 per cento.

88 – Più lusso che in America?

Vogliamo illuminarci con un altro confronto. Dai dati americani che abbiamo riferiti risulta che nel 1952 si sono costruiti 1 milione 100 000 dwellings ossia appartamenti per abitazione. La spesa per l’abitazione è stata in quell’anno 13 bilioni, o miliardi, di dollari. Dunque un’abitazione americana costa in media 11 700 dollari. Tale somma corrisponde a 7 250 000 lire. A quante stanze dobbiamo far corrispondere una casa americana media? Non abbiamo a disposizione statistiche ma per chi conosca le piante delle case e delle villette americane con tutti gli accessori fino al garage, non sembrerà esagerato mettere anche dieci vani. Il costo medio di una stanza (che qui comprende il terreno) risulta di 725 000 lire, e se è certamente superiore a quello italiano di 500 000 lire è bene inferiore al russo di 1 750 000 lire, trovato col rapporto di un quarto tra rublo e dollaro.

Col rapporto più giusto di un ottavo, la casa russa costa 875 mila lire contro 725 mila di quella americana per ogni stanza, o se volete 1400 dollari contro 1170, il 20 per cento di più. Ma il tono della casa media edificata oggi in Russia è più verosimile adeguarlo a quello, già stupidamente pretenzioso, della casa italiana, e non a quello americano per classe media e anche per proletariato qualificato: esponemmo che 37 milioni di famiglie statunitensi su 50 al massimo hanno la macchina, 45 milioni il frigorifero, 38,8 milioni di case il televisore!

D’altra parte nel 1956, anno che ha segnato il massimo delle costruzioni, con l’investimento di 16 miliardi di dollari, le abitazioni sono state ben 1 700 000. Il costo di un’abitazione scende a 9400 dollari, pari a 5 800 000 lire. Potremmo indurne la diminuzione ulteriore del costo del vano medio ma troviamo più logico ammettere che la campagna per la casa a tutti abbia con l’ultima ondata provveduto le famiglie meno agiate, e che la media di stanze per abitazione sia stata di otto anziché dieci, con lo stesso costo unitario prima stabilito. Che vergogna se l’America riduce i costi e l’URSS, che parla tanto di farlo, li vede crescere!

Non si capisce se i dirigenti russi lottino a favore o contro questa forma di emulazione, che risponde ad un ignobile scimmiottamento, degno non di un nemico che ogni tanto minaccia di ribattere missile su missile, ma di un popolo rincoglionito quanto quello italiano, che lascia impiantare le basi dei missili d’America, e raccatta per le città spezzati di dollari per farsi televisori di seconda mano e frigoriferi risibili sotto un sole ed un clima che conservano tutto fresco a cielo aperto, salvo la fierezza e il coraggio di non lasciarsi affittare donne e coscienze.

Abbiamo sentito Chruščëv tuonare contro la «situazione scandalosa» e veramente crediamo che quello immobiliare a Mosca sia uno scandalo ben peggiore di quello liberatore e vaticanesco di Roma.

Ma vi sono altri suoi detti del XX congresso che vanno richiamati. Ad un certo punto egli ha detto:
«Per migliorare la vita della famiglia sovietica bisogna aumentare la produzione di macchine utensili che agevolino i lavori domestici: lavatrici, elettrodomestici, macchine da cucire, utensili da cucina perfezionati, diminuendo al tempo stesso il costo di tali prodotti».

Evidentemente l’oratore si è a tal punto morso le labbra per questa smaccata apologia del peggiore bigottismo domestico piccolo-borghese: home, sweet home, casa, dolce casa, una emulazione perfetta della volgarità e della ipocrisia dei filibustieri ritinti discesi dal Mayflower. Avranno certo ricostruito la nave con i bagni e water-closets a siphonic, anche se senza macchina a vapore, mentre or sono tre secoli si vuotavano i pitali a mare…

Chruščëv ripensa alle leniniane mense in comune, ed invoca un miglioramento della preparazione del cibo collettivo: «organizzare l’alimentazione pubblica in modo che per la massa dei lavoratori sia più vantaggioso servirsi delle mense e delle tavole calde che acquistare prodotti alimentari e preparare i cibi in casa». Egli vuole «esonerare milioni di donne da molti lavori domestici…», ma noi crediamo che siano meno borghesi le donne americane, che la risolvono facendo lavare i piatti al marito. Povero comunismo! Avesse capitolato solo davanti ai conti economici sarebbe niente; ha rinculato davanti al problema dell’eguaglianza sessuale, come davanti a quello dei culti religiosi, problemi che con la forza rivoluzionaria nelle mani il partito marxista risolve senza bisogno di calcoli pianificati, con poche volate di sberle, perfino senza effusione di sangue.

Ma è il dramma delle cifre che turba i sonni ai dirigenti di Mosca, i quali con i recenti radicali mutamenti nell’organizzazione produttiva non fanno che ammettere ogni giorno più di stare perdendo crassamente la «folle sfida» dell’emulazione.

89 – Il dramma dei «costi»

Costituiscono una vera geremiade le ammissioni di non riuscire ad elevare la produttività del lavoro e ridurre i costi di produzione. Un marxista non se ne può meravigliare. Quando la rivoluzione proletaria si pone un problema alla maniera borghese lo risolve peggio della borghesia. Immaginiamo che i vittoriosi fabbricanti e banchieri di Francia si fossero dati a ricostituire la Tavola Rotonda di Re Artù, la cavalleria di Carlo Magno, e i suoi monasteri-falansteri, invece di dare sfogo alle nuove forme di produzione; sarebbe stata la fame epidemica.

I pretesi bolscevichi hanno posto il problema in termini di mercantilismo e hanno così rinunziato alle risorse che sole fanno dell’economia comunista una forma di più alto rendimento, che economicamente chiede l’ossigeno della rivoluzione internazionale. Affondati nell’equazione borghese dei costi e dei prezzi, questa tenaglia si chiude stringendoli alla gola.

Il socialismo pone la questione del rendimento del lavoro con la dottrina della compressione audace del tempo di lavoro, e all’indomani della vittoria rivoluzionaria non potrà che dare un colpo formidabile in questo senso, sulla classica via dell’intervento dispotico del «Manifesto». Con questo aumenterà come risultato immediato i costi, anche espressi in tempo di lavoro, è certo, ma risponderà col dare molti tratti di corda ai consumi cretini, anzitutto dei non proletari e delle classi medie (gli intellettuali hanno come prima cosa bisogno di un regime non drogato, asciutto e spartano), e risolutamente degli stessi lavoratori che la rivoluzione deve spingere a costumi opposti a quelli della precedente decadenza. I rivoluzionari che avevano disperse le sedi sontuose di Versailles ebbero il coraggio di esibire il sanculottismo e di vestire le donne, degne furie rivoluzionarie, di una tunica rude e succinta.

Col passo attuale che prende le consegne da Mosca e dai suoi rappresentanti esteri, pur di mimetizzarsi emulativamente sulle mode e gli stili del cinema di oltre Atlantico, insegneranno agli operai ad indossare lo smoking al momento della rivoluzione, che per loro significa ingresso nel governo delle classi operaie, Palmiro e Pietro nel cilindro di Benito, Thorez e simili insetti profumati di Coty, Gallacher al baciamano di Elisabetta.

90 – Politici ed «architetti»

Di urbanistica e di costruzioni i vari Chruščëv parlano del tutto ad orecchio, come in tutto il capitalismo decadente la classe «politica» si compone di orecchianti, foraggiatori compiacenti di pretesi esperti.

«Abbiamo condannato nella costruzione i metodi artigiani e gli inutili dispendi… Non possiamo ammettere che milioni di rubli vengano sperperati per decorazioni assurde per compiacere il cattivo gusto di certi architetti… Le abitazioni devono essere quanto più comode è possibile, gli edifici devono essere solidi, economici, belli… Bisogna porre l’organizzazione della costruzione delle abitazioni su basi industriali… aumentare la produzione di materiali da costruzione, di case prefabbricate».

Bulganin dirà che a questi scopi, e soprattutto per imparare a ridurre i costi, nel che tutte le previsioni dei piani hanno fatto bancarotta, sono stati spediti in occidente gli ingegneri e gli architetti sovietici!

Ma nei loro viaggi questi signori non sentiranno che ripetere gli stessi abusati slogans del discorso Chruščëv: industrializzare, standardizzare, imporre a chi non sa che farsene e le subisce per pura viltà e cafonismo comodità a schema fisso fabbricate e propagandate in serie.

Scambiare la ciarlataneria della moderna architettura ed urbanistica per un’intelligente ricerca di ottenere il massimo scopo umano e sociale col minimo mezzo e spesa, è veramente una spassosa bevuta degli emulatori. La speculazione appaltatrice e mercantile, che non ha mai tanto diguazzato come quando lo Stato finanzia dentro e fuori le frontiere, lavora a distanziare i costi dai prezzi con forti investimenti in spese di pubblicità e in corruzione di uffici (coda passiva ultima delle società fradice, e non forza nuova sociale) al solo scopo di esaltare il profitto, e dove troviamo presso l’appaltatore il prezzo alto, che lo Stato coglione (ma non tale in linea di posizione di classe) chiama «costo» perché è lui a pagare, vi è una sola spiegazione della differenza: l’esaltazione del profitto che finora si è chiamato di impresa oggi si può meglio chiamare di operazione economica, perché i soldi da spendere lo Stato pianificatore li tira fuori e li arrischia lui stesso.

Solo il fluire più o meno sotterraneo di un profitto di capitale può spiegare che la casa russa costi il doppio che altrove, anche rispetto a case estere non solo migliori, più belle, più solide, ma anche fatte con sfoggio di capricci degli architetti, senza uso di prefabbricati commerciali, e con metodi «artigiani».

Nella produzione delle merci il sistema artigiano è stato sommerso, e lo doveva, dalla produzione in massa e in serie capitalista. Ma quando il capitalismo cadrà si uscirà dalla piattitudine sinistra del prodotto moderno. La casa non è esattamente una merce, non fosse che per il fatto che non è trasferibile qua e là ma radicata nel suolo naturale. Il suo romanzo, che non possiamo qui scrivere, ha capitoli originali.

I russi, imbevuti fino alla cima dei capelli dal malcostume capitalista dell’industria internazionale delle costruzioni in appalto e delle abitazioni, che traversa l’epoca di maggiore degenerazione di tutta la storia di questa attività umana, pestano l’acqua nel mortaio a cercare in questo andazzo borghese il metodo per ridurre i costi, e non vedono che esso è solo il metodo per esaltare scandalosamente il profitto e l’extra-profitto del capitale, che tra loro si mostra, se le cifre non ci hanno mentito, non solo presente, ma più virulento che ovunque.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXV)

91 – Abitazioni e diritto

Abbiamo trattato la questione della casa urbana di abitazione, in quanto precede, sotto il profilo economico, ma limitandoci all’economia di costruzione della casa che ci interessa più dell’economia di gestione, di esercizio. Venendo su tale campo, per la chiarezza delle idee generali, sarà bene ricordare quali rapporti sorgono nel «diritto» sovietico a proposito della casa.

Il lettore intende senza dubbio che noi non mettiamo il problema della casa, e dell’edilizia in genere, al centro dell’economia sociale, ma che ce ne siamo serviti per porre in evidenza la natura del rapporto sociale, e giungere in maniera inconfutabile alla scoperta di un rapporto di produzione del tipo capitalistico, male dissimulato nella facciata della struttura russa.

La nostra imputazione di capitalismo alla gestione dei mezzi e delle forze produttive in Russia è del tutto generale; ma abbiamo qui svolta una via più evidente per confutare l’eterna confusione tra statizzazione e socialismo, su cui da almeno trent’anni lavora la colossale propaganda della terza ondata del tradimento opportunista.

La distinzione tra esercizio della struttura costruita, ed economia della sua costruzione, vale anche per uno stabilimento industriale; e certamente in Russia quantitativamente la costruzione di officine e la loro successiva gestione hanno dato una massa di movimento economico ben superiore a quella della costruzione delle abitazioni, ed anche della costruzione di edifici in genere per tutte le destinazioni, e di quella delle grandi opere pubbliche, forse anche.

Nel fermarci dunque alle case urbane teniamo ben chiara questa distinzione triplice. La costruzione e il montaggio di una fabbrica con tutte le sue macchine ed impianti dà luogo ad un primo rapporto di produzione in quanto un’impresa ne assume contro compenso in denaro la costruzione ed il montaggio (prescindiamo per un istante dalla natura privata, cooperativa, statale di detta impresa).

Una volta eretta la fabbrica questo primo rapporto è chiuso, e se ne apre un secondo con la sua entrata in funzione, ossia si inizia la produzione di quel tipo di manufatto che la fabbrica somministra. Questa fase non temporanea ma permanente, fino a che l’impianto non sia messo in disuso, dà luogo al classico rapporto capitalistico di produzione quando arrivano in fabbrica materie da lavorare e lavoro umano e ne escono i prodotti lavorati in forma di «merce».

Quando al posto della nostra fabbrica vi sia, ad esempio, una opera pubblica di uso generale non pagato, come una strada rotabile, non vi sarà una fase di esercizio comparabile, nemmeno in paese di confessato capitalismo, al rapporto della produzione di merci: la spesa di manutenzione e di ripristino (ammortamenti) non sarà tratta da una entrata mercantile, ma sostenuta dallo Stato o altro pubblico ente.

I casi intermedi, tra questi due estremi della destinazione che oggi direbbero «funzionale» della costruzione «realizzata», sono vari e complessi. Una ferrovia dà luogo ad un esercizio mercantile, dato che i viaggiatori e le merci pagano il trasporto e da tale ricavo si paga un personale, sia la gestione privata o pubblica, attiva o passiva.

La casa di abitazione, dopo eretta ed occupata, dà luogo ad un’attività economica di esercizio in quanto in generale l’abitatore paga per il suo godimento, ma non si tratta di un rapporto di produzione capitalistico, né basta a stabilirlo la relativamente lieve spesa di manutenzione e conservazione. Non vi sono prodotti vendibili, ed in generale nemmeno «servizi» frazionabili in remunerazioni a prezzo, o tariffe.

Nella limpida società borghese ternaria, ove sono presenti i redditieri immobiliari, Marx ci dice che la gestione della casa non dà profitto di impresa ma solo rendita di proprietà. In Russia ci domanderemo se vi è la proprietà della casa e l’onere per il suo uso, e a chi nel caso vada tale ricavo di gestione.

Ma siamo giunti a questo per esserci occupati del rapporto di produzione che inerisce alla costruzione, al montaggio, all’appalto di questi lavori da parte di intraprese il cui bilancio abbiamo voluto studiare e svelare. Ciò in analogia stretta col fatto che nei paesi moderni una parte veramente notevole di investimento del capitale di impresa, che sta bene a fronte di quella che si rovescia nelle industrie «manifatturiere» ed anche di «servizi generali», si dedica all’industria della costruzione, si tratti di case, di edifici generici o di altri impianti.

92 – Codice civile sovietico

Sarà bene guardare alle formule teoriche che sono contenute nelle costituzioni generali e nel codice civile russo, anche se non è facile venire in possesso delle ultime versioni che tutte, notoriamente, si avvicinano sempre più a quelle in vigore nei paesi di diritto borghese (con le note origini dal diritto romano e dal codice napoleonico).

Il codice russo ammette tre tipi di proprietà: statale, cooperativa, privata. Questa distinzione, che riguarda il soggetto del diritto di proprietà, è chiarita nella sua portata dalla distinzione circa l’oggetto della proprietà, ossia la natura dei beni su cui essa si esercita.

Nel diritto sovietico è scomparsa la classica distinzione tra beni immobili e mobili, in quanto il bene immobile tipo, ossia la terra, il suolo, è dichiarato dalla Costituzione proprietà dello Stato, e nessuna sua parte può divenire oggetto di proprietà privata, e in teoria nemmeno cooperativa.

Questo è vero formalmente agli occhi di un ideologo del diritto borghese, in quanto per costui si ha la proprietà integrale e piena quando alla stessa si accompagna il diritto di «alienabilità» contro denaro sul mercato. Nei paesi borghesi ogni titolare del diritto di proprietà può, appena crede, vendere la sua terra; ed anche il titolare di qualche altro diritto meno totale (enfiteusi e simili).

In regime borghese, lo Stato ha una doppia forma di proprietà: demaniale, ossia invendibile sul mercato a privati – patrimoniale, ossia vendibile ad un qualunque compratore, a volontà dello Stato stesso o a giudizio di chi lo gestisce.

Poiché nel codice russo la terra è dichiarata non solo proprietà dello Stato, ma anche «bene non passibile di atto di disposizione privata», insieme ad altri beni e cose che elenca un articolo fondamentale dal titolo «sull’oggetto dei diritti» (il nostro giurista direbbe: res extra civile commercium), essendo ipotizzabile un unico proprietario di terra, che è lo Stato, questo è un proprietario che non può contrarre vendite (né compere) dato che un secondo non ne esiste.

Il codice civile di un paese comunista, prima di divenire del tutto inutile, potrebbe dire più semplicemente: è abolito l’istituto della proprietà sulla terra e sul suolo. Inutile far vivere una «proprietà statale», che in tanto è logicamente necessaria in quanto ha di fronte una proprietà privata.

Comunque, è solo apparente l’abolizione della proprietà privata della terra (e più ancora come vedremo quella degli immobili, tra cui le case) visto che lo Stato può darne concessione ad enti cooperativi e famiglie private come ben sappiamo per il campo agrario. Questa forma giuridica di concessione non la si vuol chiamare proprietà (e si avrebbe ragione anche dal congresso internazionale dei professori di diritto!) perché non comporta l’alienabilità contro denaro. Ma restando sul terreno economico (ossia per un marxista che studi il diritto solo in quanto sovrastruttura contingente dell’economia), quando il godimento è perpetuo, e irrevocabile dallo Stato, non si accompagna ad altro tributo che ad un’imposta come quella che anche la proprietà fondiaria borghese paga ai suoi Stati, ed è perfino trasmissibile per via ereditaria, abbiamo la piena trasformazione della proprietà statale in proprietà cooperativa (grande azienda colcos) e proprietà privata (campicello e casa familiare contadina). Marx direbbe che a pari rapporto di produzione si ha pari forma di proprietà.

Abbiamo anche sempre detto che una riforma legislativa che attribuisca allo Stato la proprietà e la rendita è concepibile per il sistema capitalistico e propugnata da gran tempo da scuole borghesi e «industriali classiche».

I beni non suscettibili in Russia, ed in dottrina legale, di privata disposizione, sono oltre alla terra molti altri, e soprattutto gli impianti e stabilimenti industriali o destinati a servizi di utilità generale. Contiene questa definizione espressamente il divieto di possedere l’attrezzatura «volante» di un cantiere di costruzione, che è un impianto non fisso, non di produzione di manufatti, e nemmeno di servizi permanenti, quali sono invece l’officina e la rete elettrica, ferroviaria, ecc.?

Il problema centrale che abbiamo davanti è quello del primo smascherarsi del profitto di impresa, che non è mai stato assente, attraverso le organizzazioni di costruzione a cui si trovano nei vari discorsi ai congressi curiosi accenni.

93 – Abitazioni e locazioni

Costruita la casa di abitazione, come nel caso di un fabbricato industriale o di un’opera destinata a un servizio pubblico, la «organizzazione» edile si ritira facendone consegna. A chi, e per quale disposizione?

Se interroghiamo il nostro ipotetico congresso mondiale delle università giuridiche, apparirà che la proprietà delle case non esiste, e che sono tutte dello Stato, una volta che tale è la sorte del suolo. Infatti nel puro diritto romano «qui dominus est soli…», chi è proprietario del suolo, lo è anche di quanto sta sotto e sopra «usque ad coelum et inferos», fino al cielo e all’inferno, e tutt’al più escluso solo il possesso di Dio e di Satana…

Tale norma dei polverosi digesti cade però in difetto non solo in legislazioni moderne ma anche in quelle che hanno base nel diritto germanico medioevale; e quindi la miniera sotto e la casa sopra trovano discipline diverse da quelle del suolo. E nel diritto positivo russo abbiamo che, dopo aver defenestrata la definizione di «immobile» per il fatto che la nuda terra non è commerciabile, si riammette la possibilità di case di privata disposizione, ereditabili e vendibili, come pure godibili senza pagare canoni allo Stato o ad altro ente.

Infatti del terzo tipo di proprietà, ossia «privata», non solo possono essere oggetto tutti i generi di uso personale o meno, per cui non faccia specifico divieto la legge, come anche le piccole aziende commerciali ed industriali che abbiano un numero molto piccolo di operai salariati, ma altresì «gli edifici non municipalizzati». La Costituzione 1936, come sappiamo, riconosce nell’art. 7 al componente dell’azienda collettiva (membro del colcos), a parte il godimento di cui abbiamo ampiamente discorso sul campicello, «la proprietà personale sull’azienda accessoria all’appezzamento suddetto, sulla casa per l’abitazione, il bestiame produttivo, il pollame e il minuto inventario rurale». L’art. 8 riconosce analogo diritto di proprietà a contadini singoli e a piccoli artigiani, purché basata esclusivamente sul proprio lavoro personale. Nel codice è riconosciuta la proprietà individuale sul reddito del proprio lavoro, sui risparmi, sulle «case di abitazione» e sui «beni domestici ausiliari» ossia sugli oggetti facenti parte dell’uso e dell’economia domestica, come sugli oggetti di uso personale. Per tutti i detti beni (e quindi anche per la casa di abitazione) è consentito il diritto di successione ereditaria.

Quanto alle case, l’art. 182 (codice civile 1937) dichiara «valida la vendita di edifici di abitazione non municipalizzati o demunicipalizzati» con la sola condizione che «attraverso quell’atto l’acquirente o i suoi familiari non assommino presso di sé più di una proprietà».

La casa di abitazione è dunque suscettibile di compra-vendita, sia evidentemente da parte di successivi possessori, sia da parte del primo costruttore.

Esiste dunque la piena privata proprietà delle case di abitazione, col solo limite che siano adibite all’uso del proprietario e dei familiari.

Infatti la casa di abitazione, sia pure idealmente considerata come distinguibile dal suolo su cui sorge (che è dello Stato), può avere, oltre a tutti gli altri requisiti (perpetuità di godimento, ereditabilità per successione, non revocabilità da parte dello Stato o di altro ente di tali diritti), anche quello che mette d’accordo tutto il congresso dell’universale giure borghese, ossia la vendibilità e acquistabilità contro moneta.

Tutt’al più si può considerare che colui che ha acquistato questa piena e totale proprietà della casa può goderne solo direttamente o attraverso i suoi più stretti congiunti, e non può procurarsene una seconda (non può stipulare più di una volta in tre anni), e quindi non ha il diritto di concederla ad altri contro un canone di locazione. Sarebbe così ammessa la proprietà della casa propria familiare, e non altra.

Viene quindi da chiedersi come tutti quelli che non hanno raggiunta la proprietà della casa che abitano, conseguano il godimento di una casa, e sotto quali rapporti e condizioni, poiché non si mancherà di gridarci in volto che non devono rivolgersi all’odiata figura del «padrone di casa»; alla quale tuttavia nei paesi borghesi coi vincoli, i blocchi e le proroghe sono state tagliate le unghie.

Fermo restando che il suolo è proprietà dello Stato, la legge sovietica, che si fonda indubbiamente sulla espropriazione iniziale di tutta la proprietà edilizia che fu trovata in atto dalla rivoluzione, ha affidato la gestione delle case che non sono possedute da privati abitatori alle municipalità locali.

L’insieme delle case di una città grande o piccola forma un «demanio comunale», tra cui si eccettuano alcuni edifici dell’amministrazione statale centrale, e quelli che traverso un lungo decorso in continuo incremento sono stati attribuiti a privati goditori-proprietari nelle forme ora dette.

Le case disponibili sono distribuite tra coloro che ne abbisognano con un procedimento chiamato di «condensazione» che assegna i locali a ciascuno e fissa il canone di affitto, cui apposito articolo pone limiti tariffari (il 166). Non meniamo scalpore sulla non immediata abolizione di ogni canone di fitto, quale era stata fatta al tempo del comunismo di guerra, ben ricordando che nella classica «Questione delle abitazioni»[292] Engels spiega che l’ente espropriante di esse nell’interesse del proletariato non potrà di primo colpo sopprimere la pigione, essendo chiaro che il demanio case non starebbe in piedi senza un contributo di tempo lavoro dedicato a mantenerlo efficiente. Lo scandalo lo vediamo nella proprietà privata familiare che non paga pigione.

94 – Costruzione ed assegnazione di case

Lo Stato o gli enti pubblici locali possono concedere il diritto di costruzione su dati terreni, contro pagamento di un canone «da parte del costruttore» e con diritto di «godimento e sfruttamento della costruzione» alle condizioni del contratto. Tale diritto può essere attribuito a «privati, cooperative, aziende», ecc. Togliamo le attuali citazioni dall’articolo di Ugo Natali nel nr. 1–2 della stalinista «Cultura Sovietica» del 1946.

Il costruttore non solo può ricavare dalla costruzione i canoni di affitto, ma può anche alienarne le parti, sotto date norme se la figura del costruttore l’ha rivestita un’azienda che ha lo scopo di destinare le case ai soli suoi dipendenti. È vero che al termine della lunga concessione il tutto ritorna all’ente concedente il suolo, e in ultima analisi allo Stato, ma un simile istituto è in molte legislazioni (Inghilterra) ed è notoriamente ottimo ossigeno per la vitalità delle capitalistiche «società di costruzione».

Ecco perché la casa è un bell’esempio di come il diritto di proprietà dei mezzi di produzione, che sembrava scomparso, appare nella deteriore forma del diritto di costruzione. Nato sul terreno infido dell’abitazione tale diritto passa ben presto al diritto di appalto della costruzione, che altro non è che la proiezione, in un’economia statizzata, del diritto di intrapresa privata, sul comune fondamento capitalista.

Quando si procede alla «condensazione» delle abitazioni di un edificio, o di un rione urbano, ossia si tolgono stanze in più ad antichi occupanti per alloggiare altri nuclei familiari, si colpiscono gradatamente tre categorie di utenti: i godenti di reddito non proveniente da lavoro; i professionisti ed artigiani; e solo per ultimi i lavoratori salariati. Nello stesso ordine si procede allo sfratto degli eventuali occupatori eccedenti lo spazio disponibile, e i lavoratori non possono (salvo casi disciplinari come il disturbare un coabitante) essere sfrattati se non vengono provveduti di casa altrove.

In tal modo il codice ha disciplinato l’uso delle case urbane e il contratto di locazione dell’abitazione. Ma il codice prevede anche la locazione, a privati o a cooperatori, di aziende di produzione dello Stato o dei comuni, che è legata a cifre minimum della produzione annua. E da questa norma vediamo riapparire il rapporto di appalto di una fabbrica, che ci richiama a quanto abbiamo svolto sul caso statisticamente predominante dell’appalto di lavori di costruzione e di montaggio, che si estende dalle case agli stabilimenti, ai grandi impianti ed opere pubbliche generali.

È forse, in tale sistema, non certo ordinato e facilmente classificabile, e che nelle risultanze in possesso di chi lo studi ad ogni passo richiama il caos equivoco del mondo borghese della costruzione edile, dell’accaparramento dei suoli, dei cantieri e delle case, ed in genere della proteiforme ed elastica industria dell’intrapresa costruttrice, dai tentacoli inafferrabili e dal ribollire che aggira ogni freno, è forse l’esistenza di una proprietà privata sulle case abitate una eccezione, un residuo di forme passate che si tende a liquidare con forme transitorie di gestione e di amministrazione? Risulta perfettamente il contrario.

È certo che una rivoluzione proletaria potrà facilmente liberarsi della forma sociale della grande proprietà urbana, con la stessa facilità con cui i regimi borghesi hanno potuto in guerra eternare l’uso della casa semplicemente togliendo al padrone i mezzi di forza legale per estromettere il locatario. Tuttavia non solo non potrà, come dice Engels, regalare la casa al pigionante, perché costituirebbe una nuova base alla proprietà perpetua, ma sarà costretta in un primo breve periodo a rispettare la minoritaria proprietà legata all’uso diretto (di famiglia) dell’abitazione. La giusta politica sarà di prendere per il collo «chi si è fatta la casa» e fargli pagare una buona pigione allo Stato: ma è facile vedere come al primo momento si tollereranno, provvisorio del provvisorio, i padroni della loro risibile «home».

Si va in Russia verso una liquidazione di questa forma di proprietà frammentaria e minuta dell’abitazione, che appunto per evitare il concentrarsi in grossi blocchi tiene in vita il famigerato borghese istituto del «condominio sugli edifici», sopra tutti irrazionale, antieconomico e socialmente pestifero? Al contrario! Questo miserabile e reazionario sistema, ricettacolo incubatore di ogni tirchieria individualista e piccolo-borghese, costituisce in Russia un ideale, non meno che nei paesi retti da democratici laici o confessionali!

Basti sentire Chruščëv al XX congresso:
«Oltre alle costruzioni con finanziamento statale, bisogna sviluppare più ampiamente le costruzioni con fondi individuali, aiutare gli operai e gli impiegati a costruirsi la casa con i risparmi personali, aumentare la produzione e la vendita alla popolazione di materiali da costruzione di case prefabbricate».

95 – L’antimarxismo emulato

In che differisce questo linguaggio, questo stile, questo programma di incanalamento delle tendenze «popolari», da quelli che adoperano, nella fiducia di pervenire a sradicare dalle classi lavoratrici dei paesi di tutto il mondo le luminose impronte della tradizione rivoluzionaria suscitata dalla sommovente dottrina del marxismo, gli americani, i keynesiani, quelli della teoria del benessere, della cancellazione di ogni dinamico connotato di classe in una società che tuttavia resti inchiodata sui ceppi del modo capitalista di produrre, i bigotti indecenti di tutte le socialdemocrazie e di tutti i socialcristianesimi?

Quando non si era ancora dimenticato il classico inno che il nostro «Manifesto» levò, fra il terrore di un mondo abbacinato, alle gesta della borghesia mondiale che aveva cancellato, nelle masse immense dei salariati lanciate in turbine per un mondo fragoroso di sonanti officine e di macchinari frementi, gli istinti millenari che vi avevano impresso i residui tradizionali di limitatezza personale religiosa, familiare, domestica, mercantile, propri di vinte economie polverizzate e pidocchiose – allora noi concedemmo ogni fede alla minoranza magnifica che in Russia rappresentava questa avanguardia delle società moderne, preparata sui piani dell’istinto della massa e della dottrina del partito a dilacerare senza alcuna pietà tutti gli schermi di quei vecchi fradici scenari; e mai fede fu meglio riposta. La collera di classe che montò sul sommo dell’onda bolscevica di battaglia scosse sulle loro fondamenta tutti quegli idoli e feticci a cui ancora l’occidente bruciava stupidi incensi. Vedemmo davanti ad essa per sempre fuggire gli ultimi scrupoli paralizzatori legati ai pretesi «valori» della civiltà moderna, che voleva solo chiudere nel giro delle sue molli braccia la vasta terra degli zar, ma allibì vedendo spezzare dal proletariato scatenato ogni vincolo alle sue icone e ai suoi ideologismi ed ai suoi astratti, che si equivalgono quali forze classiste e storiche, si chiamino essi divinità, personalità, libertà, proprietà, culto imbecille dello Stato, della patria, della famiglia, della casa infine, ultima e più sinistra prigione che il fiammeggiare del comunismo mondiale deve disonorare prima, dissolvere poi.

Mentre il giovane proletariato russo, con la sua breve ma sfolgorante storia di classe, che aveva percorsa fulmineamente infrangendo sinistre catene ideologiche, e che più irruente ripercorse avendo nelle mani le fiamme e le armi della guerra di classe, si proiettava all’avanguardia di tutti verso le più audaci conquiste dell’avvenire, in uno dei cicli più iconoclasti della storia umana, fu chiaro alla nostra teoria, mai disgiunta dal nostro entusiasmo, che esso, levandosi, doveva sommuovere il più tremendo di tutti i cumuli di strati sociali che il marxismo avesse mai previsto; vivemmo la storia ed erigemmo coi marxisti russi la scienza del trattamento nella rivoluzione non tanto di nobili e borghesi, per cui era pronta ed ovvia la formula della riduzione al nulla, quanto e soprattutto dei contadini famelici, loro a buon diritto perché non avevano retine per raggi più alti, di terra e libertà, di proprietà non serva e di casa che non fosse canile nella famiglia del padrone terriero

Stabilimmo chiaro che essi avrebbero saputo combattere, ma non potevano sapere e vedere quei traguardi tanto più alti, per i quali solo la classe dei lavoratori di massa e nullatenenti ha organi di senso e di pensiero.

Questo insegnamento ci permise di intendere che per tratto non breve, ma che confidammo potesse essere traversato di slancio con la forza della rivoluzione occidentale, si dovesse filtrare questa massa di disperati servi, dai muscoli rivoluzionari ma dalle menti oppresse da tenebre, attraverso le reti della parcellazione dei campicelli e delle casette tra loro lontane e purtroppo nemiche, dialetticamente immergendo, e non vi era da temere a riconoscerlo, il fiammante slancio delle masse urbane nella rurale fame di egoismo personale, microdomestico, microaziendale, come sola via storica per spingersi poi fuori dall’inferno della limitatezza individuale, che vive nel culto ingenuo quanto sciagurato della zolla, del peculio, della vacca, del figlio animale da lavoro posseduto, del padre nutrito titolo monetario, delle quattro mura cretine che separano dal mondo, come disse Engels della meno angusta cerchia del mir[293].

Non venne l’onda montante della rivoluzione di occidente con le altre formidabili armate di senza-riserva, di proletari puri delle città – e delle campagne capitalistiche da secoli – e fummo pronti a registrare l’evento storico che, col raffreddarsi della tensione rivoluzionaria ad ovest, si dovesse scontare l’imprigionamento della campagna contadina russa in forme istintive da bassa rivoluzione borghese-individualista, per una dura tappa storica ulteriore.

Ma abbiamo visto cosa e vicenda più orrenda: non solo che il ferratissimo e spregiudicatissimo proletariato industriale russo fosse riportato indietro alla parità di potere col contadiname frammentario; ma che al primo si ponesse come modello, come traguardo, come programma, al posto di quelli comunisti che aveva conquistato nella forza del più grande partito di dottrina della storia, il modo di vivere miserabile dell’agricoltura molecolare affondata nel pantano dell’egoismo sociale.

96 – La proprietà personale

Una vecchia canzone che ci insegue dai tempi lontani della prima polemica sulla rivendicazione comunista: «Il socialismo non sopprimerà la proprietà personale». Si vuole con ciò dire che il socialismo consiste nel sostituire all’appropriazione privata degli strumenti di produzione, e quindi dei loro prodotti, la loro appropriazione da parte della società. La massa del prodotto sociale verrà assegnata ai produttori, ma ognuno, ricevuta la sua parte di consumo, tra il momento dell’assegnazione e quello della consumazione ne ha la «proprietà personale», come si dirà sempre il mio pane, il mio companatico, le mie scarpe, il mio mantello…

Questo non è un ragionamento scientifico ma solo un vecchio espediente di propaganda per attenuare la paura che faceva al tardigrado «senso comune» la rivoluzionaria proposta di cancellare ogni proprietà individuale.

Prima di provarne il vizio con la teoria e coi suoi testi di base, ne abbiamo ora trovata una prova storica: arriveremmo a questa enormità, che il socialismo conservi la proprietà personale della casa, in quanto la stessa, pur non essendo un genere di sussistenza e di consumo, può essere goduta individualmente?

Fatta questa scivolata è facile rilevare che tale godimento non è personale, ma familiare, per piccole collettività domestiche, ed ecco che nel socialismo avremmo fatto rientrare a bandiere spiegate l’istituto della «famiglia» che consuma e gode in comune dati benefici, e con esso il cardine di ogni società di proprietà privata, fino alla forma capitalistica: la trasmissione ereditaria, che è uno dei piloni angolari dell’accumulazione della ricchezza privata.

Andrebbe riletto l’intero capitolo «Proletari e comunisti» del «Manifesto», che stritola le obiezioni tradizionaliste alle posizioni comunistiche contro la proprietà, la libertà, la personalità, la cultura, la famiglia, la patria, la religione.

Nella moderna società borghese, dice il «Manifesto», non vi è proprietà acquistata col lavoro.
«Il lavoro del proletario crea il capitale, cioè crea la proprietà che sfrutta il lavoro salariato».
Quando si accusano i comunisti di abolire ogni proprietà, si allude forse alla proprietà del piccolo-borghese e del piccolo agricoltore che precedette la proprietà borghese? Codesta non abbiamo bisogno di abolirla; lo sviluppo dell’industria l’ha abolita e la abolisce quotidianamente.

Ora il punto è questo: vogliamo noi forse capovolgere questo processo borghese di espropriazione della piccola proprietà, che in epoche precedenti si era formata, genericamente parlando, col lavoro? No, noi vogliamo soltanto che esso si completi, per avere tutte le condizioni del socialismo. Possiamo essere costretti a riconoscere, pur essendo passati 110 anni da quelle tavole formidabili, che resta in questo campo molto da espropriare, e tollerare che queste antiche forme conducano il loro ciclo; ma non certo disfare quel tanto di loro evoluzione che la stessa società borghese ha attuata.

E come, senza essere paranoici, si concilia questo abbicì sempre indiscusso con l’incoraggiamento alla proprietà della casa «formata col risparmio del lavoratore»? Una tale frase delinquenziale può pronunciarla Keynes, e con lui soltanto chi abbia lacerato tutte le pagine del marxismo.

Vogliamo tuttavia seguire il tentativo di considerare la casa non come una parte di capitale (ciò stabilirebbe decentemente ogni keynesiano che aspiri ad attribuire individualmente e familiarmente non solo pezzetti di case, ma anche di intraprese di produzione industriale, di titoli azionari; ogni modernissimo capitalista democratico - coerente lui, e coerenti noi cui capitale e democrazia suscitano lo stesso schifo) ma come parte di quel consumo individuale di prima necessità, per cui non abbiamo mai annunziata la privazione del diritto di disporre.

Il «Manifesto» infatti dice:
«Quello che l’operaio salariato si appropria con la sua attività gli basta soltanto per riprodurre la sua nuda esistenza. Noi non vogliamo affatto abolire questa appropriazione personale dei prodotti del lavoro necessari per la riproduzione della vita immediata, appropriazione la quale non lascia alcun utile netto che possa dare un potere sul lavoro altrui».

Questo passo segue a quelli che hanno spazzato via la «proprietà acquistata col lavoro personale» e quella privata borghese, e tratta della proprietà nata dal salario – fin che esista.

Da questo passo è uscita la parafrasi che il socialismo fa salva la proprietà individuale del consumo, di cui non vieta la «appropriazione» nel breve ciclo tra erogazione della forza di lavoro e consumo del cibo che la ripristina. Ma ogni accantonamento, ogni «risparmio», esula da questa appropriazione fatta salva, ed è concessione alla posizione opposta, l’accumulo di rendite che diano modo di dominare il lavoro altrui.

Scientificamente parlando è il caso di riservare il vocabolo proprietà ed appropriazione a questo secondo rapporto, di messa in riserva di risorse da usare «per dominare il lavoro altrui», rapporto che è finito nella società socialista, e parlare di «disposizione» da parte del lavoratore di quanto gli compete per provvedere al suo consumo «immediato» nel senso che non va a riserva, ma può coprire in ciclo brevissimo la gamma dei bisogni.

97 – La questione posta storicamente

Scientificamente e fuori delle prime concessioni filosofiche alla contrapposizione dei principi, per un solo attimo pensati metafisicamente, il marxismo mette esattamente al loro posto i termini ed i rapporti di appropriazione e di espropriazione. Siamo nel classico centrale caso di uso della dialettica.

Nel capitolo XXIV del «Capitale» Marx fa in nota uno dei suoi tanti omaggi al geniale dialettico Sismondi, che aveva scritto:
«Noi ci troviamo in una situazione del tutto nuova per la società… tendiamo a separare ogni specie di proprietà da ogni specie di lavoro».
Frase da gigante, quanto è da sporco pigmeo quella di Chruščëv sull’ideale della saldatura del lavoro risparmiato con la proprietà perpetua della casa e, peggio, non individuale, ma familiare[294].

La separazione della proprietà dal lavoro Marx la svolge in tutta la dottrina dell’accumulazione capitalistica: noi la chiamiamo con rigore «Espropriazione dei produttori immediati». E leggiamo (cento volte e più nella vita):
«La proprietà privata acquistata col proprio lavoro, fondata per così dire [e per così profetizzare che taluno sarebbe sceso fino a Chruščëv] sull’unione intrinseca della singola e autonoma individualità lavoratrice e delle sue condizioni di lavoro, viene soppiantata dalla proprietà privata capitalistica, che si basa sullo sfruttamento di lavoro che è sì lavoro altrui, ma, formalmente, è libero».

La classica descrizione segue il suo corso indimenticabile. Questa espropriazione di molecolari proprietà private, che il capitale compie, è nel nostro formulano già una socializzazione. Ma presto
«anche la ulteriore socializzazione del lavoro e l’ulteriore metamorfosi del suolo e degli altri mezzi di produzione in mezzi di produzione sfruttati socialmente assumono una nuova forma».
Questo corsivo lo dedichiamo a sottolineare che nel marxismo il suolo, la terra, è «un mezzo di produzione». Vi diamo il tema: La casa, il suolo non agrario, sono mezzi di produzione? Marx dovette ricordare il teorema generale nella lettera sul programma di Gotha a smemorati discepoli: il suolo e la terra sono compresi negli strumenti di lavoro. Ma la casa non è compresa tra gli strumenti di lavoro, ci si può dire per la disperata difesa della «riappropriazione» della casa. E vero. Ma la casa non è nemmeno un «prodotto» rapidamente consumabile – per distruzione – prima di poter divenire monopolio di chi domina il lavoro altrui. In questo passo Marx indica i due monopoli della società borghese: quello dei capitalisti sugli strumenti costruiti dal lavoro, e quello «dei proprietari della terra», che in questo senso è, come detto, uno strumento di lavoro anch’essa.

Le case ed i suoli urbani non sono mezzi di produzione in senso proprio: non sono, come dice lo Statuto della Prima Internazionale, fonti della vita, ma la loro appropriazione che non sia sociale ma personale è una base di monopolio borghese e non è concepibile che esista nella società socialista; in quanto residui storicamente, una società anche tendenzialmente socialista la può subire, ma non fondare, incoraggiare, diffondere alla Chruščëv. Se lo fa, è perché è borghese.

Non si tratta solo di un’aspirazione antisocialista e controrivoluzionaria ma di una aspirazione assurda e falsaria, che sia apologizzata a Mosca o a New York. La casa dei singoli raggiungerà una piccola minoranza, o cadrà nei vortici dell’accumulazione capitalista. Il risparmio sarà espropriato dal capitale, come con la odierna confisca dei titoli di Stato forzati.

Torniamo indietro, nella nostra corsa storica. Qual è per Marx la nuova forma della socializzazione che succede alla prima in cui i capitalisti espropriano le impotenti proprietà dell’autonomia familiare? È la forma dialettica:
«Chi deve essere espropriato non è più il lavoratore indipendente, ma il capitalista».
Non gridino i Chruščëv che!'hanno fatto! Qui sono i grandi capitalisti che vanno espropriando i minori, finché (Engels, «Anti-Dühring») non agisce lo Stato. Ma
«a un certo grado dello sviluppo, neanche la forma delle società per azioni non è più sufficiente. In un modo o nell’altro, con o senza trust, il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve assumerne la direzione»[295].

E torniamo alla pagina base di Marx:
«Il modo di appropriazione capitalistico […] costituisce la prima negazione della proprietà individuale, fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la sua propria negazione. E la negazione della negazione. E questa non ristabilisce la proprietà privata ma [ecco il passo che sembrò ermetico] la proprietà individuale sulla base della conquista dell’era capitalistica, la cooperazione e il possesso comune della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso».

Ma l’ermetismo insinuato da Dühring fu risolto dal nostro «cristallino Engels», in cui Stalin fu il primo a non saper leggere:
«Per chiunque capisce il senso delle parole, ciò significa che la proprietà privata si estende alla terra e agli altri mezzi di produzione, e la proprietà individuale ai prodotti, quindi agli oggetti d’uso [di consumo]»[296].

A ribadire questa portata dell’espressione di Marx sulla proprietà individuale, Engels cita, come altre volte abbiamo riportato, il passo di Marx nello stesso primo libro del «Capitale» che – al solito – descrive la società socialista.
«Una associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione sociali e spendano coscientemente le loro molte forze lavoro individuali come una sola forza lavoro sociale…»
viene supposta da Marx. In essa
«l’intero prodotto dell’associazione è prodotto sociale. Una parte serve a sua volta da mezzo di produzione. Rimane sociale. Ma un’altra parte viene consumata come mezzo di sussistenza dai membri dell’associazione: quindi deve essere ripartita fra essi»[297].

A disposizione del singolo produttore nella società socialista viene messa solo la quota immediatamente consumabile del prodotto sociale che gli compete, e questo Marx chiamò proprietà individuale storicamente in contrapposto alla proprietà privata borghese sorta dall’espropriazione degli antichi lavoratori autonomi, e che a grande distanza storica e in forme radicalmente nuove ne rivendica la riaffermazione dialettica, sorta dall’espropriazione degli espropriatori.

L’oggetto della formula «proprietà individuale» fisicamente sparisce nel consumarla. Solo questo lo salva dall’essere riespropriato.

Sorge da tutto ciò che la casa stabile e usabile (ma non consumabile) in successione da persone fisiche mutevoli e diverse non può mai essere compresa nella quota dal continuo flusso assegnata alla disposizione personale di ciascuno e che costui può consumare subito e sul posto o in altro luogo ed ora.

La casa non può venir assegnata alla persona e alla famiglia senza che si ricada in una forma di proprietà precedente all’epoca borghese, in cui si confondevano totalmente il luogo di soggiorno e riposo e quello di lavoro, forma palesemente deteriore rispetto a quella borghese, sicché non si tratta di un capovolgimento dialettico ma di un banale rinculo su strade già percorse dalla storia sociale.

È ben chiaro che un tale processo seduce i difensori dell’ordine borghese, che sono tutti schierati a frenarlo e chiamarlo indietro dalla china inesorabile in cui lo travolgono le leggi scoperte e proclamate dalla potenza del marxismo.

Ed è ben chiaro che l’adesione ad un simile metodo sociale da parte della politica russa non può preludere ad altro che all’accettazione di questo piano generale dei neo-malthusiani moderni, i quali vogliono rimettere in ripartizione non solo la parte consumabile del prodotto di lavoro, ma anche quella del profitto di impresa e di capitale, insieme alle particole di rendita della ricchezza ben rappresentate nel godimento dell’abitazione urbana. Ciò è altro passo verso l’ammissione e la confessione che l’economia russa di capitalismo di Stato si risolve palesemente in una copia conforme delle economie di capitalismo privato, confesse in occidente.

La questione della casa è un nodo cruciale di tale dimostrazione, in cui la valutazione delle relazioni economiche converge con quella delle influenze psicologiche, ideologiche e politiche che ci hanno consentito il parallelo tra il colcosiano agrario dispositore di terra, di casa, di capitale scorte, e il proletariato industriale avviato alla casa di proprietà familiare ereditaria, arredata domani all’americana di refrigeratore, televisore e tutto l’altro instalment multiforme e stupefacente, e che farà un giorno analoga fine.

Alla posizione di vantaggio economico e sociale che, tramite il rapporto con lo Stato, corre oggi in Russia tra il ceto medio e gli operai industriali, corrisponde nella sovrastruttura politica il processo di plasmatura dell’ideologia operaia su un modello piccolo-borghese, che spegne gli ultimi ritorni di fiamma dell’incendio bolscevico, e chiama il plauso, l’appoggio, la collaborazione e la direzione suprema del grande capite internazionale e degli imperi di Occidente, primo fra tutti quello di America. Questo, preso coraggio dalla liquidazione delle ultime vampe che lucevano nell’aggressività stalinista, mostra ormai alla luce del sole i grappoli delle bombe atomiche, che assicurano della servile emulazione e della lunga pace.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXVI)

98 – Crisi della casa nel 1956 e 1957!

Prima di lasciare l’argomento della casa (è stato per noi un «argomento campione», o, in altre parole, una prova di Wassermann della sifilide economica borghese) è bene registrare le cifre del 1956, primo anno del nuovo piano quinquennale, come sono state date dalla pubblicazione «Notizie Sovietiche» nel n. 3 del 1957.

Notiamo subito che la fonte filosovietica dichiara che «il piano di costruzione degli alloggi non è stato adempiuto interamente». Un’analoga lamentela viene dall’America, e ascoltiamo la nota rivista «Fortune» dell’aprile, che si pone la domanda: è l’industria della costruzione delle case una forma per sua natura crescente? E risponde che, dopo lo sviluppo incredibile della decade postbellica, gli ultimi due anni, e il primo trimestre di questo, hanno dato inizio a un ripiegamento; e la causa è più profonda che la difficoltà di anticipare il massiccio investimento di capitale nell’housing. Nei due anni il reddito nazionale è salito del 9 per cento, l’occupazione del 6 per cento, mentre l’inizio (starting) di nuove costruzioni è sceso del 25 per cento, coi dati del trimestre ultimo. Nella decade postbellica dodici milioni di nuove abitazioni hanno assicurato oltre dodici milioni di posti fissi di lavoro (il quinto del totale!), mentre aggiungevano più di cento milioni di dollari al prodotto lordo nazionale. La crisi si inizia in un momento in cui, a dire della rivista, non ci si può consolare con l’alta dotazione di abitazioni. Dato il crescere della popolazione e il degrado delle vecchie case, lo «standard» degli alloggi in America, messo in relazione al reddito nazionale, «è più basso che nel 1929».

La dura constatazione è aggravata dal fatto che la crisi investe le case di minor costo, in questi ultimi anni. Indicammo come costo medio della casa nel 1956 (v. paragrafo 88) 9400 dollari, contro 11 700 circa nel 1952, e ne deducemmo che il trascorso grande sviluppo della massa di case costruite si accompagnò con l’orientamento della produzione verso la casa meno costosa e vasta. Oggi il movimento si presenta invertito: troviamo infatti queste cifre, un poco diverse da quelle della fonte precedente («The Economist»): 12 300 nel 1954, 13 700 nel 1955, probabili dollari 15 500 nel 1957. Il modesto acquirente ha ceduto, oggi. Possono essere stati variamente considerati spazio, lavori e impianti accessori alla casa vera e propria, ma quello che importa è la direzione del movimento: sappiamo poi che negli ultimi due anni ha giocato un sempre più accentuato decrescere di potere di acquisto del dollaro.

Non possiamo diffonderci di più sulla questione della casa in America, ma va notata la strana analogia tra le dichiarazioni delle due fonti: «Fortune» deplora la disorganizzazione e il disordine dell’industria delle case; «Notizie Sovietiche» scrive
«In relazione al frazionamento dei fondi in numerosi cantieri, è aumentato il numero delle costruzioni incompiute».

99 – Dati russi recenti

Ma è il caso di ritornare alle case russe, richiamandoci ai dati che abbiamo già riferiti nei nostri paragrafi 79 e 80. Ci viene oggi detto che
«nel 1956 le organizzazioni statali e cooperative ed anche la popolazione urbana [leggi: i privati], a proprie spese con l’ausilio del finanziamento statale, hanno costruito case di abitazione con una superficie globale di 36 milioni di metri quadri».

Coi rapporti da noi introdotti si tratta di due milioni di vani e di mezzo milione di abitazioni urbane, ossia circa 2,5 per ogni mille abitanti, contro l’indice 10 che si raggiunge in Germania ed in America – sebbene ovunque in diminuzione, e sebbene la casa russa si possa mediamente considerarla meno di 4 vani e quindi 72 mq., il che aumenterebbe i numeri ma non i valori, dato che le case europee ed americane sono molto più grandi. Dai dati di «Fortune» si possono dedurre, senza il garage (molti per snob ne chiedono – dice un architetto – uno da due macchine, pur non avendo da metterci che la tondeuse dell’erba!) e altro, da 983 a 1230 piedi quadrati, ossia da 92,5 a 115 metri quadri, per le sole stanze di alloggio e soggiorno.

Vediamo perché, proprio come in America, i 36 milioni di mq. rappresentino un indietreggiamento, circa della stessa misura che è data laggiù: 25 per cento.

Ricordiamo, restando ai milioni di metri quadri, i dati russi. Nel IV piano, totale costruzioni urbane 70 milioni; nel V 154 milioni, con aumento del 120 per cento nel quinquennio, e del 17 per cento annuo.

Nel V piano dei 154 milioni sono 105 (Chruščëv) quelli statali diretti, che si diceva di portare nel VI a 205, dei quali 29 sarebbero stati fatti nel 1956.

Conservando la proporzione ai vani urbani totali, questi devono crescere da 154 a 305 milioni. L’incremento nel quinquennio era previsto del 95 per cento (contro 120 dell’altro piano), e vi corrisponde un passo annuo del 14,5 per cento, col quale appunto nel primo anno contro i 105 milioni statali ne vanno fatti 29 milioni. Con le cooperative e i privati dovevano essere 43 milioni, pure avendo scontata la discesa dal passo del 17 per cento a quello del 14,5.

Ci si annuncia oggi che al posto dei 43 milioni preventivati se ne sono fatti nelle città, nell’anno testé decorso, solo 36 milioni, e non siamo noi che li abbiamo contati. Si è dunque rimasti al di sotto del programma pel 20 per cento, dato che l’incremento annuo è stato dell’11,8 al posto del promesso 14,5. Nel quinquennio si avrebbe non più il 95, ma il 74 per cento di incremento, salvo ulteriore ripiegamento, come in America attendono.

Sembra che in questa questione vi sia una differenza tra i «due sistemi», dato che in America cresce di continuo il debito degli occupatori di case ed il tasso a cui scontano i loro «mortgages» (ipoteche), che tra alcuni anni raggiungeranno cifre astronomiche e assai intriganti per la dottrina economica ufficiale.

È facile prevedere che una crisi di disoccupazione e di rarefazione del credito rovinerà i possessori di case per famiglia. Man mano, se essi vorranno mangiare, dovranno vendere le macchine, i televisori, e infine le case, che andranno a vil prezzo in bocca al creditore. Ricchezza borghese genera miseria.

Ma a noi pare diverso il malessere indiscutibile dei «ceti medi» anche in Russia, con il quale gli economisti inglesi spiegano oggi le recenti «riforme» nella gestione centrale dell’economia pianificata chiamandola una «managerial revolution»!

Quando la casa è tanto trasmissibile in eredità quanto vendibile (la seconda cosa non è per la casa colcosiana) la conferma che vigono le leggi dell’accumulazione del capitale che ne vietano ogni imbelle «democratizzazione», sia etichettata socialista che liberale, si avrà quando esse costringeranno, nel corso di questa crisi, che nel prossimo decennio riteniamo prenderà gli stessi aspetti in tutti i paesi, gli illusi proprietari dell’home a mangiarsela, se vorranno campare.

100 – L’abitazione rurale

La recente notizia russa contiene un dato importante, e lo dà con queste parole:
«Inoltre nelle campagne i colcosiani e i tecnici rurali hanno costruito durante lo scorso anno circa 700 mila case di abitazione».

La cifra è imponente, per quanto sia difficile conoscere la dimensione media di ciò che qui si intende per «casa» (nella piccola coltura contadina di tutti i paesi sono sinonimi «casa» e «stanza», perché poco la casa ha evoluto dalla primitiva capanna-baracca).

Avremmo 700 mila abitazioni rurali contro sole 500 mila urbane da noi calcolate, e nulla dice il fatto che tale numero crescerebbe se supponessimo case di meno stanze e stanze di meno area.

Ciò non muterebbe tuttavia le nostre deduzioni sul ritmo delle costruzioni «civili», dato che le abitazioni rurali sono costruite con investimento di denaro proprio della famiglia colcosiana, ed infatti ne restano di proprietà, anche ammesso che vi possa essere un credito a lunga scadenza della cassa del colcos alla famiglia associata, per integrare la spesa di costruzione. Tale spesa, infatti, che non troviamo mai indicata nei testi compulsati finora, non figura negli investimenti statali e nei piani quinquennali (se non negli accenni ad ulteriori investimenti dei colcos e dei colcosiani, cifre estranee a quelle di Stato, e da aggiungere al volume delle cifre del piano centrale). Resta quindi fermo quanto dedotto sul decrescere del ritmo delle costruzioni urbane.

Non meno fermo resta il confronto con gli altri paesi, in quanto abbiamo sempre usato le statistiche delle case urbane e non contadine. Ad esempio in America (annuari dell’ONU, ecc.) sono distinte le case urbane e le rurali, e tra queste le «farms» ossia agricole, e «non farms», mentre alle cifre di cui ci siamo serviti per le statistiche delle costruzioni è aggiunta la nota: «non farm dwellings units» (unità abitative non agricole), e altre colonne con cifre di anche maggiore peso riguardano le categorie di fabbricati industriali, commerciale di altre destinazioni, nel che difetta invece la statistica italiana, come mostrammo.

Per la Russia si può confrontare la cifra data di 700 mila «case» con altra che fu data tra i risultati del V piano quinquennale in un comunicato sovietico, riportato in «Notizie Sovietiche» n. 13 del 1956, ma non riferita da Chruščëv al XX congresso. Si tratta della cifra di 2,3 milioni di case «per i colcosiani e gli intellettuali rurali (?)» che segue l’elenco delle note cifre date invece in unità di milioni di mq. Ove tale cifra si legga in mq. potrebbe essere riferita alle poche case per gli intellettuali (oggi meglio designati come tecnici agricoli) e forse erette col contributo dello Stato; ma se si tratta di tutta la popolazione contadina, si può riferire la cifra alla mal definita unità casa, e naturalmente assumerebbe un ordine di grandezza molte volte superiore; per lo meno 20 volte. Incerti delle statistiche!

È indubitabile che al colcosiano, nella sua multipla figura di cooperatore nella grande gestione del colcos, che riceve un primo salario orario e poi un dividendo sui profitti dell’impresa, e di possessore della piccola azienda, sono state date vaste possibilità di migliorare le condizioni dell’alloggio familiare, destinandovi i margini di lavoro e denaro che gli restano oltre la sussistenza messa a sua disposizione prima in natura e poi in moneta, nei due momenti del beneficio cooperativo e familiare-individuale. Un vero potente settore di investimento e di accumulazione di ricchezza, che ha preso il carattere di una maggiore dotazione edilizia nella campagna russa e, sotto forma di innumeri piccole casette da coloni, integra l’edilizia colcosiana dei fabbricati da fattoria: depositi, stalle da allevamento, manufatti di ogni natura per l’esercizio della coltivazione.

Siamo di fronte ad una serie di fatti che tutti concludono a vantaggio del piccolo contadino, ibridato col cooperatore, e contro il salariato dello Stato capitalista, industriale o agrario (sovcos).

101 – Confronto città-campagna

Le stesse cifre di fonte sovietica, alle quali sole ci atteniamo in questa nostra disamina (subendo le conseguenze che derivano molto frequentemente dalla loro incompatibilità concreta, sia pur dovuta in parte alle traduzioni di propaganda) conducono a stabilire queste relazioni:

1) La popolazione urbana aumenta relativamente ed assolutamente, mentre la popolazione rurale diminuisce relativamente in modo drastico, e secondo le cifre ufficiali (che qui abbiamo mostrato troppo tendenziose) anche in assoluto.

2) Non è facile stabilire paragoni tra il reddito (così lo chiamano essi) delle due classi, ma è chiaro che il gioco degli indici monetari e reali favorisce il contadino che è due volte venditore e compratore di merci, contro il salariato che deve tutto comprare e vende solo a tasso obbligato la sua forza lavoro. Le stesse cifre ufficiali devono ammettere che nelle campagne il reddito misurabile in moneta è superiore a quello delle città, sebbene solo il primo vada ancora sommato con altro reddito in natura, non misurabile.

3) Il lavoratore urbano deve pagare la sua casa di abitazione, e dispone di una rata minima di essa, dato che le case di nuova costruzione procedono a ritmo che appena supera quello di aumento della popolazione industriale (vedi caso di Mosca al nostro paragr. 81). Ci si dice che il costo della casa e connessi si tiene sul 7–8 per cento del guadagno totale: è un indice non dissimile da quelli borghesi (una volta di più). Il massimo sarebbe per ogni metro quadro usufruito 1 rublo e 32 copechi al mese: 206 lire italiane al cambio 156 («Notizie Sovietiche» n. 2–1957); vorrebbe dire per una delle nostre stanze 3700 lire al mese, e sarebbe enorme, se il cambio non fosse ben diverso. L’idiota blocco nostrano delle pigioni («in Russia non aumentano da 25 anni»!) fa molto meglio.

Anche in relazione ai precedenti casi di impiego della moneta russa, ci consentiamo di includere uno specchio di prezzi reali di generi di prima necessità, e lasciamo al lettore di esercitarsi un poco per dedurne un’equivalenza che per noi vale poco più di cinquanta lire per rublo. La fonte è al solito l’annuario russo governativo. Carni e pollami, 15 rubli al kg.; pesce, 6; burro, 35; olii vegetali e altri grassi, 12; uova (uno), 1 rublo; farina e prodotti di grano, 3 rubli il kg; patate, 1,5; ortaggi, 2; frutta, 4,3.

Tutto ciò è indicato come effetto del ribasso generale dei prezzi di Stato, che avrebbe elevato il valore del rublo.

Una casa di una stanza dunque costerebbe per noi non 3700 ma 1200 lire al mese, e quel lavoratore dovrebbe guadagnare 15 mila lire al mese, che non è molto, ma tali da essere espresse da rubli 309.

A quanto è stato solennemente annunziato, al principio del 1957 è stato stabilito il «minimo retribuito» di 300 rubli al mese! Come «conquista».

Dunque il limite di casa per l’operaio russo, se tutto va bene, è di avere una sola stanza per lui e una famiglia di non attivi, al tenore di vita italiano. Ma in Italia la situazione degli alloggi urbani lascia ad ogni 3 abitanti 2 stanze, e alla media famiglia di 4 persone oltre due stanze e mezza. L’operaio russo delle città ha uno spazio vitale di alloggio grandemente inferiore.

4) Nella descritta situazione, mentre la costruzione di case urbane rallenta nel tempo dagli incrementi del 17 a quelli del 14,5, e dell’ 11,7 mantenuto, la costruzione di case per i contadini aumenterebbe (abbiamo indicato le ragioni che ci fanno usare il condizionale) di 2,3 milioni di case, e sia pure di stanze, in cinque anni, e quindi dalla media di 460 mila all’anno a 700 mila nel 1956, secondo la recente indicazione. Si tratta di un aumento di circa il 50 per cento, che sarebbe maggiore se il confronto tenesse conto del numero della popolazione tra città e campagna indicato al punto 1.

Mentre l’ammannimento di case all’operaio rallenta del 42 per cento, quello di case ai contadini accelera del 50 per cento. Si trasformano simili cifre in parole col dire che si tratta di due classi non alleate ma nemiche e che quella operaia è la classe sconfitta. Non abbiamo detto che il rurale imbelle sfrutta l’urbano, perché è terminologia che può dar luogo ad equivoco scientifico – ma non politico e sociale. Classe mantenuta può voler dire altro che classe dominante (Marx, «Manifesto»)?

102 – Altri indici dell’ultimo anno

L’ordine che seguiamo non è forse impeccabile, ma è il caso di esaminare alcune altre delle ufficiali, cifre consuntive del 1956.

Naturalmente si mena scalpore del fatto che, mentre l’incremento della produzione industriale totale è disceso in America nettamente, riducendosi ad appena il 2 per cento, quello sovietico è stato «quasi» dell’11 per cento.

L’indice del 1955, o meglio l’aumento nel 1955 rispetto al 1954, era stato secondo i dati del XX congresso del 12,3 per cento. Va riconosciuto che la diminuzione era attesa. Per il V piano quinquennale si era pianificato il 70 per cento che vale annualmente 11,2, e si era realizzato l’85, che vale il 13,1 annuo. Col 12,3 del 1954–55 si sentiva già la pesantezza. Si pianificò per il VI piano (le cifre le abbiamo ripetute cento volte) solo il 65 per cento, contentandosi del ritmo del 10,5 per cento annuo. Si è verificata la lieve flessione, ma un poco più forte: quasi 11 per cento.

Tale andamento dell’industria è stato al solito «antimalenkoviano». I mezzi di produzione sono stati prodotti con l’11 per cento in più senza quasi, e i mezzi di consumo col solo 9 per cento. Petrolio, gas ed elettricità fanno premio, carbone e ferro hanno perduto maggior terreno.

Sono invece dati indici agricoli buoni, e alquanto inattesi. Sappiamo che il raccolto dei cereali lungo il V piano invece di crescere del pianificato 55–65 per cento crebbe, con andamento difficile, solo del 29 per cento, tanto che si previde per il successivo quinquennio di elevarlo del solo 20 per cento.

Invece il prodotto 1956 del grano – non di tutti i cereali – sarebbe in un solo anno salito del 20 per cento, «e ha superato in misura notevole quelli di tutti gli anni precedenti». Questa frase in apparenza apologetica può significare solo questo; che nel 1955, sebbene il raccolto dei cereali fosse cresciuto del 23 per cento (da 1220 a 1500 milioni di quintali) per effetto di una favorevole stagione, il raccolto del frumento deve essere stato basso, anche rispetto a qualcuna delle precedenti annate. Si inneggiava infatti al granoturco per le bestie.

La serie di tutti i cereali era stata, dal 1950 al 1955, la seguente: 1160, 1125,1310, 1170, 1220, 1500, come abbiamo molte volte ripetuto, per mostrare come ben due volte si era trattato di indietreggiamento. Quali le cifre corrispondenti del frumento, che non è il solo cereale di cui in Russia si fa pane?

Si può stabilire che per molti anni il raccolto del frumento si tenne in cifre basse e perfino sotto l’anteguerra. Nel 1913 fu 816 milioni di q.li, nel 1927 era di meno, 775 milioni. Malenkov ci raccontò che tra il 1940 e il 1952 crebbe del 48 per cento: ma tra quali cifre? Nel comunicato relativo al V piano si riferì solo che tra gli anni del IV e quelli del V il raccolto granario «medio», ossia per ettaro, era salito solo del 18 per cento.

Col V piano si era stabilito di farlo salire dal 55 al 65 per cento, e ripetiamo che quello dei cereali salì del 29 soltanto, a 1500 milioni di quintali. È possibile che quello del grano sia salito meno (18 contro 29), rimasto stazionario, o disceso, anche fino all’anno 1955. Non è quindi possibile credere alla serietà di una ripresa agraria se non si pubblicano due elementi: quali le cifre del raccolto del solo grano negli anni dal 1950 al 1955 – e, d’altra parte, contro i 1500 milioni di quintali dati da tutti i cereali nel fertile 1955, quanti se ne sono raccolti nel 1956. Non crederemo mai che se ne siano raccolti 1800, quanti se ne aspettavano a dire di Bulganin nel 1960.

Gli aumenti del 1956 sarebbero stati anche notevoli per varie derrate alimentari. Latticini, 28 per cento; olio, 31; burro, 27; latte, 32 nei colcos, e solo 10 nei sovcos, altro punto di vantaggio per il contadino, che pure può poppare in segreto sotto la sua vacca.

Le dette cifre meritano di essere conciliate con quelle scoraggianti degli anni decorsi, e resta da provare che siano un avvio agli aumenti di circa il doppio che il VI piano ha promesso per carne, latte e simili, argomenti che abbiamo già trattati, e che resteranno chimera.

Vi è un dato che risulta decisivo. Si dichiara che negli investimenti di capitale da parte dello Stato si è rimasti del 6 per cento al di sotto dell’obiettivo, e questo non può non essere in relazione all’odierna «riforma gigante» del Soviet supremo, che investe soprattutto la centralizzazione statale dell’investimento. Durante il V piano gli investimenti in capitale dello Stato aumentarono del 92 per cento, il che dà come è noto il 14 per cento annuo. Tra il 1954 e il 1955 si ebbe l’aumento del solo 6,8 per cento, con strana brusca caduta del 17,7 per cento tra il 1953 e il 1954. Ciò indusse a frenare le promesse per il VI piano, come abbiamo avuto occasione di ben svolgere: si scese al 68 per cento nel quinquennio, che rappresenta l’11 per cento annuo. Non si è dunque ottenuto che il solo 5 per cento, se si è rimasti del 6 per cento al di sotto dell’obiettivo!

Siamo noi in presenza di «volontaristiche» manovre riformatrici, o della deterministica dimostrazione che si tratta di capitalismo normale che rallenta, alternando, come sempre e dovunque, folli avanzate a sinistri rinculi?

103 – Orgia di mercantile miseria

Un’ultima nota della recente comunicazione sul 1956 dobbiamo rilevare: il reddito nazionale (dulcis in fundo) si dice salito del 12 per cento. Nella nostra precedente esposizione abbiamo dedotto dalle cifre ufficiali che nel 1955 il reddito nazionale sovietico sarebbe ammontato a 370 miliardi di rubli. Questa cifra era da noi dedotta da cifre relative ufficiali, come quella dell’aumento del 68 per cento avutosi nel V piano e di quello del 60 previsto per il VI, aumenti cui al solito corrispondono annualmente l’11 ed il 10 per cento annuo circa. Appare strano che il reddito sia salito del 12 per cento, ossia più del previsto, proprio quando la produzione è cresciuta meno del previsto. Tuttavia la diminuzione denunziata dell’investimento avrebbe potuto far aumentare la parte consumata del reddito che influisce sul tenore di vita. Secondo quei precedenti dati il reddito del 1955 di presunti 370 miliardi di rubli avrebbe avuto destinazione ad investimento per 155 e quindi a 215 per il consumo, dal che facemmo le note deduzioni sul basso tenor di vita russo medio rispetto agli altri paesi.

Possiamo ora tener conto di altri dati. Più sopra dicemmo che l’equivalenza del rublo in lire, che si cita in pubblicazioni filosovietiche di 155, è molto minore, e dai prezzi dei generi di consumo si desume di poco più di 50 lire. Ora in data 15 maggio 1957 la stampa italiana ha pubblicato che con la data 1 aprile la banca del commercio estero dell’URSS, unilateralmente, ossia senza il bisogno di consensi degli altri paesi, ha rettificata l’equivalenza rublo-dollaro, che aveva stabilita da tempo in quattro rubli, a ben dieci rubli per dollaro, ossia facendo scendere al 40 per cento il valore del rublo, che in lire italiane verrebbe a corrispondere a 62, invece che a 156. Tutto ciò collima con le nostre precedenti estimazioni sia a proposito del costo della costruzione e uso di case che dei prezzi dei generi, anche volendo tener conto che nei dati del 1955 e del 1956 il rublo avesse maggior potere di acquisto che oggi all’inizio del 1957.

Nell’annuario per il 1955 dello Stato russo vi è un’altra indicazione che è il caso di utilizzare, sul volume del commercio interno al dettaglio.

Le cifre che sono fornite salgono ad un massimo di 550 miliardi di rubli per l’anno 1955, i cui dati in generale riporta il detto ultimo annuario.

Il commercio russo per il consumo è gestito dallo Stato per il 63 per cento, mentre il 28 per cento è gestito dalle cooperative, e il restante 9 per cento è costituito dalle vendite dirette dei piccoli produttori, il cosiddetto «mercato colcosiano». Del commercio statale e cooperativo i generi alimentari costituivano nel 1955 il 55 per cento, mentre nel 1940 avevano costituito il 63 per cento, in modo che il 37 per cento di allora, di altre merci di consumo (non alimentari), sarebbe nei quindici anni salito al 45.

È anche interessante uno specchio del commercio nel tempo. Da 50 miliardi di rubli nel 1932 si passò a 204 nel 1940, a 409 nel 1950, a 502 nel 1955 (escluso il mercato colcosiano). Qui si risponde alla ovvia domanda sul valore reale e non monetario di questa massa di merci vendute. Dal 1940 le dette cifre monetarie variano come gli indici 100, 200, 245. La variazione dei prezzi si afferma essere stata 100, 186, 138, ossia sarebbero saliti durante la guerra e il dopoguerra e discesi durante il V piano. Quindi il volume reale del commercio ha avuto l’andamento 100, 108, 209, mentre fatto il calcolo correttamente, come il lettore attento può verificare, si avrebbe solo 100, 108, 178. La guerra quindi avrebbe reso stazionario per dieci anni il commercio-consumo, che nel quinquennio ultimo sarebbe cresciuto da 108 a 178 ossia del 65 per cento, solito concorde indice del passo del V piano.

Per il VI si presume di andare da 502 a 830 miliardi, guadagnando ancora il 65 per cento. Ma come questa vicenda si incrocia con la mutevole valutazione del rublo? Si potrebbe dire che questa si dà di autorità secondo le convenienze del commercio statale con l’estero; ma noi abbiamo visto che le cifre dei costi della casa e della vita parlano in senso opposto.

Ciò stabilito tolleri il lettore un ultimo confronto, che affidiamo al suo senso critico. Notiamo anzitutto che, a parte la cifra data per il «mercato colcosiano», resta fuori da tutte le stime il valore della massa di merci consumate dai colcosiani in natura, che è difficile a calcolare, ma comunque aumenta il medio tenor di vita «di tutto il popolo» secondo la solita ipocrisia economica emulativa e mondiale.

Ci resta dubbio come si consumino 550 miliardi quando il reddito nazionale è stato indicato, sia pure implicitamente, di 370 e quello consumato, dedotti gli investimenti, si riduce a 215 soltanto.

È molto strano che con due terzi del commercio in mano allo Stato (socialista!) le merci siano commerciate due volte per mangiarle una sola! Questo è, rispetto a quello borghese, supermercantilismo.

104 – Mistero del tenor di vita

Per fare un finale confronto fra il tenore di vita in Russia e quello nei paesi occidentali, accetteremo la cifra di 550 miliardi di rubli per le merci consumate nell’anno 1955. Se dividessimo questa cifra per 205 milioni di abitanti il consumo pro-capite sarebbe di 2683 rubli.

Una simile ricerca per l’America sarebbe data dalla divisione di 260 miliardi di dollari per 170 milioni di abitanti, e si avrebbe un consumo di 1529 dollari pro-capite.

Infine per l’Italia dal reddito netto consumabile 1955 di 10 200 miliardi, in ragione di 48 milioni di abitanti, sono 212 500 lire. Facile il confronto con gli Stati Uniti: 330 dollari al posto dei 1529: come ben sappiamo siamo consumatori cinque volte più leggeri.

Se applicassimo al russo abitante il rapporto della banca per il commercio estero in 10 rubli a dollaro, gli resterebbero 270 dollari, e ancora una volta saremmo al di sotto del livello italiano.

Se invece (vedi paragrafo 84) partiamo – sempre usando le cifre ufficiali dello Stato russo – dal reddito «nazionale», e ne deduciamo il pesante investimento, vediamo il consumatore russo scendere ben al di sotto di quello italiano, e ciò perfino se ammettiamo che nel corso del 1955 valesse il dubbio rapporto di quattro rubli a dollaro.

Un tentativo di conciliare la contraddizione fra i dati può essere quello di attribuire l’eccesso di acquisti sul reddito ufficialmente calcolato proprio alla massa dei colcosiani (e in genere dei micro-produttori), che sono dei cripto-redditieri. Data la finzione che in Russia abbiano un «reddito» solo quelli che pigliano un «salario» (ossia proprio quelli che, se si impara su Marx e non su Keynes-Malthus, non hanno reddito di sorta!), la differenza tra 550 miliardi di acquisti agli spacci e 215 di reddito consumabile «registrato» diamola alla massa agraria degli aziendali-familiari e a una certa massa artigiana o borsanerista delle città, e inoltre all’altra schiera nera degli «operatori economici» invisibili, soprattutto delle industrie di appalto; i 215 miliardi sono il reddito dei salariati dello Stato (e bassi impiegati), che calcoliamo, con le famiglie a loro carico, e dopo adatta mitigazione delle assurdità ufficiali, a metà della popolazione totale (vedi la nostra ricerca demografica dei paragrafi 44 e sgg.). La Russia risulterà un paese, come mostrammo, più industriale oggi dell’Italia, e il reddito pro-capite della classe operaia sarà di 215 miliardi di rubli per 100 milioni di abitanti e quindi 2150 rubli, meno lontano dai 2700 che vengono fuori dalla statistica del commercio.

Non importa molto se quei 2150 rubli valgono 215 dollari, e 135 mila lire, o alquanto di più. Ammettiamo fra tanto dubbio una equivalenza dell’ottavo di dollaro: saranno 270 dollari e 170 mila lire.

L’importanza è altrove. Avendo un maggior grado di industrializzazione, la Russia remunera l’operaio, il proletario, meno che l’Italia media, e quindi molto meno che l’Italia industriale, per tacere degli altri paesi.

La differenza tra 550 e 215, ossia 335 miliardi di rubli, in larga parte (ossia dovendo soltanto toglierne il valore reale della forza di lavoro spesa dalla metà rurale della popolazione nella terra di casa sua e in simili rapporti) e quindi non meno della metà di tutto il consumo, di tutti i 550 miliardi di incassi degli spacci, ha, nella teoria di Marx, un nome semplice e noto: plusvalore.

Valga il rublo quel che vuole al cambio della banca dei predatori mondiali; è il «socialismo» misurato con questi ignobili, inafferrabili rubli che non vale neanche il canchero che lo freghi.

105 – Nel tempio-stato, l’idolo d’oro

Fino a pochi anni addietro, ed in virtù delle teorie «aggiunte» da Stalin a Marx, l’argomento principe per contrapporre il «sistema socialista» a quello capitalista era che tutto il flusso della ricchezza e della moneta, o quasi tutto, rifluiva nella cassa unica dello Stato.

La nostra rassegna di fatti economici – quanto alla difesa di mai tradite né migliorate dottrine esse si difendono da sé; i loro baluardi da un secolo non vacillano per l’urto dei filistei – si avvia alla fine, con la constatazione che anche la divisa «tutto allo Stato» è caduta sotto la sorte risibile dell’arricchimento e dell’aggiornamento - ossia vaga a brandelli nella miseria e nella notte.

Ma anche un’economia tutta ficcata nello Stato è economia capitalista, anzi ne è – sì, o signori, nelle immutabili tavole - la suprema espressione. Non sarà il caso di ricordare che, semmai, l’economia socialista si definisce economia senza Stato; e lo Stato socialista verrà, ma per sbrigare faccende di guerra sociale e di liquidazione senza scrupoli dei residui lasciati nell’uomo dal capitalismo sociale e politico.

Nei paesi capitalistici una frazione notevole dell’economia fluisce ormai attraverso la macchina amministrativa dello Stato, e del resto nelle più antiche forme di produzione vi furono stadi in cui vi passò in forme più rilevanti, ed anche in rapporti più alti, se teniamo fuori dal confronto i settori di economia naturale e non mercantile. I lavori di costruzione ad esempio, come Marx illustra nella sua prima stesura del testo del «Capitale», di recente pubblicata dai russi sui manoscritti di un secolo addietro (Quaderni del 1857–58), furono quasi in totale affidati allo Stato nelle economie classiche (Roma) e nelle più antiche orientali (Egitto, Assiria…)[298].

Se ci poniamo il problema per gli Stati Uniti troveremo che su 73 miliardi di dollari del solito reddito nazionale, nel 1939, lo Stato spese 9 miliardi, ossia circa il 12 per cento, e se ci riferiamo al prodotto lordo nazionale di 91 miliardi il 10 per cento.

Nel 1955 invece la spesa dello Stato è stata ben 67 miliardi, contro 325 del reddito netto e 412 del prodotto lordo, salendo al 20,6 e al 16,3 per cento.

Ciò significa che mentre la «economia», all’ingrosso, nel periodo di 16 anni diventava oltre quattro volte più elefantesca, il suo settore statale si gonfiava quasi otto volte. Noi marxisti del 1857–1957, invece di dire: Che passi sta facendo il socialismo in America!, ci limitiamo a fregarci le mani e dire: Spicciati, che si avvicina il giorno in cui devi schiattare, capitalismo!

Che – solito metodo di noi «aprioristi», «dogmatici», e sordi alle lezioni della storia – nella povera Italietta?

Nel 1955 sul prodotto lordo nazionale di 13 mila miliardi, e netto di 11 circa, lo Stato ha speso duemila miliardi e un quarto di lire, ossia il 17 e il 21 per cento di tutto. In socialismo battiamo l’America! E figuriamoci appena una benefica crisi ci dà il ministero Pietro-Palmiro, a sfonda-Pantalone.

Il confronto storico italiano? Eh noi, grazie a Benito, già nel 1939 eravamo in pieno socialismo. Contro 150 miliardi di reddito nazionale netto lo Stato ne spese oltre 40, ossia il 27 per cento! Di tal socialismo siamo non degeneri figli, essendo scesi solo al 21 e più per cento di oggi, contro il 20 americano.

Ed ora alla Russia. Le spese del bilancio statale sono state in miliardi di rubli dal 1950 al 1954 di: 413, 430 (?), 460, 514, 560.

La cifra che ci deve indicare l’economia generale è dubbia per le ben note ragioni dei redditi in natura e dei redditi nascosti. Se prendiamo la nostra elaborazione dalle dichiarazioni congressuali sul reddito nazionale, che abbiamo date nel paragrafo 84, abbiamo 210, 230, 260, 295, 330, e restiamo un poco intrigati perché lo Stato spende di più del «reddito nazionale». Il fenomeno esige riflessione. Sarebbe questo il «socialismo»?

106 – Reddito e bilancio

Non sempre è facile fissare le idee economico-sociali. L’atmosfera è densa di cortine fumogene. In questo caso sono sparse da entrambe le basi nemiche.

È chiaro che i russi intendono per reddito nazionale quello che chiamano reddito della popolazione. Quindi vi figurano, come abbiamo più sopra mostrato, tutti i salari e gli stipendi che pagano la fabbrica di Stato, il sovcos, gli uffici della pubblica amministrazione, e così via. Ma i «profitti delle aziende», siccome si afferma che non li consuma nessun privato, ma o sono versati allo Stato o sono reinvestiti (col permesso del piano generale) nella stessa azienda, si sostiene ufficialmente che non figurano nel reddito nazionale. Se tanto fosse vero, allora non si dovrebbero neanche sottrarre, ad esempio, dai 370 miliardi di reddito nazionale del 1955 i 155 miliardi di investimenti, come sopra abbiamo fatto. Tuttavia se così fosse diverrebbe un’altra la contestazione da fare ai filo-sovietici: lo scarto tra i 550 miliardi di commercio per il consumo e i 370 di reddito nazionale si ridurrebbe alla cifra cospicua di 180 miliardi e diminuirebbe il rapporto fra reddito consumato e reddito totale prodotto, oggetto di violenta polemica tra occidentali ed orientali, e sia pure. La rata di 155 su 550 sarebbe sempre più alta che in occidente: il 28,2 per cento.

La statistica ufficiale, esagerata indubbiamente quando esalta la trasformazione della Russia in paese industriale, denunzia 48 milioni di operai ed impiegati nel 1955, come sappiamo. Solo ora nel 1957 si assume di avere assicurato il salario di 300 rubli al mese e 3600 annui: il fondo salari sarebbe 173 miliardi, e quindi resta a notevole distanza sia da un reddito nazionale consumabile di 215 miliardi, quale dedotto sopra, sia – e ovviamente assai più – da uno di 370 miliardi; e di fronte a 550 miliardi consumati lo sarebbero col fondo salari solo 173, e poniamo pure, col gioco degli alti salari e stipendi ad una piccola minoranza, 200. Saliamo con la forza lavoro interna colcosiana a 275; siamo sempre a metà di forza lavoro compensata contro 550 di consumo mercantile, il che vuol dire che la metà è plusvalore, come sopra per l’altra via e con le solite riserve sulle cifre russe, ma sempre con vantaggio della nostra tesi, si è dedotto.

Tornando al bilancio statale, le sue alte spese derivano da queste partite, prendendo il 1952 per cui si hanno dati completi: finanziamento dell’economia nazionale, 39 per cento; provvedimenti sociali e culturali, 27 per cento; spese militari, 24 per cento; amministrazione statale, 4 per cento; servizio debito pubblico, 2 per cento; altre, 4 per cento.

Le entrate che provvedono a queste spese sono – queste per il 1954, essendo il bilancio russo dato per comprensibili ragioni sempre in pareggio – imposte indirette, 41 per cento; imposte dirette, 8 per cento; prelievo sui profitti, 16 per cento; prestiti, 3 per cento; altre, 32 per cento.

Dunque l’industria di Stato, a parte quanto poi riceve per nuovi investimenti in conto della nazione, versa allo Stato parte dei suoi profitti, coprendo in tal modo il 16 per cento sui bilanci. Secondo la fonte di cui ci stiamo servendo (discorso del ministro delle finanze Zverev nell’aprile 1955) le aziende statali nel 1954 ebbero profitti per 123 miliardi di rubli: lo Stato ne ritirò 92,6 come detto, ossia il 75 per cento, e il restante 25 per cento figura come «auto-finanziamento» ossia va a ulteriore capitale dell’azienda, e quindi in teoria sempre allo Stato industriale e azionista unico delle fabbriche e imprese.

Il prelievo dello Stato sui profitti era finora in continuo aumento: dal 1949 in poi 49, 56, 61, 70, 72, 75 per cento. Dal 1957 tout va changer!

Possiamo arguire che i 118 miliardi di profitti dell’industria statale si possano aggiungere al reddito nazionale dei privati. In questa balorda definizione il salariato è un privato, mentre nel marxismo privato è colui che vive del lavoro altrui: il lavoratore non è privato che usando la parola grammaticalmente quale participio passato, e quindi al passivo: il privato all’attivo (in barba anche alla grammatica) è il piccolo e grande borghese. E lo Stato-datore di lavoro.

Con la detta aggiunta il reddito nazionale aumenta per il 1954 a 330 più 118 miliardi, ossia 448 miliardi, e si comincia ad avvicinare al bilancio statale di 570 miliardi.

107 – Il gobbo fisco sovietico

Sarebbe anche plausibile ritenere che il reddito della popolazione sia dato depurato dalle imposte, almeno dalle imposte dirette che sono quelle (ma che specie di socialismo!) sul reddito privato, e possiamo aggiungere altri 46 miliardi portando il reddito nazionale a 494. Potremmo anche supporre che non si sia fatta figurare nella statistica del «reddito popolare» la spesa che fa lo Stato per la propria amministrazione, ossia il reddito della famosissima burocrazia, spesa che è stata nel 1950 di 13,8 miliardi, nel 1952 di 20,8, e nel 1953 prevista di 24,3 (come si era fatto l’anno prima) e non riferita di quanto nel fatto, mentre del 1954 non si è pubblicato né preventivo né consuntivo. In ragione proporzionale sarebbero almeno 25 miliardi; anche i 10 miliardi di interessi privati passivi sul debito pubblico andrebbero aggiunti al reddito del «popolo», ed ovviamente i 16 che lo Stato si è in quell’anno fatti prestare, e che da qualche parte sono usciti (tra cui confische dei salari statali). Tuttavia per pareggiare bilancio dello Stato-padrone e reddito della nazione bisogna attingere un poco alle altre partite di imposte indirette e spese incognite.

La conclusione cui abbiamo condotto il lettore è che in Russia lo Stato maneggia non il 20, non il 25, ma il 100 per cento del reddito nazionale, che in realtà per il paragone con gli altri paesi borghesi vale: lavoro pagato più profitti.

La dimensione infatti del bilancio nazionale, di oltre seicento miliardi di rubli nel 1955, trova rispondenza nell’ordine di grandezza del totale commercio dei beni acquistati dai consumatori, nel volume degli affari.

Se il reddito nazionale accertato in Russia non rappresenta che in parte minore lavoro umano vivo pagato, e se la parte in eccesso cresce sempre quando alla massima cifra incontrata finora di 370 miliardi di rubli si aggiungano i «profitti dello Stato» e le sue varie confische – nel che non fa che seguire le orme di tutti i suoi predecessori storici – bisogna anche ritenere che la parte di economia che resta fuori dallo Stato è poca rispetto all’occidente (con rammarico di tutti fuorché dei veri proletari) ma all’opposto la parte di economia che resta fuori dalle misurazioni statistiche è maggiore che altrove. Le ragioni sono due: l’ampio posto fatto all’economia bloccata al tipo naturale nei colcos (e anche in altre sfere) con un consumo non mercantile del produttore, che risulta non misurabile, e la parte che è lasciata al contrabbando delle merci e dei profitti. Questa è enorme, come mostrano tutte le fasi di guerra e di emergenza in cui lo Stato capitalista si mette a fare e dettare tutto lui. Quando lo Stato ha proclamato che tutto il reddito consumabile deve passare per le sue casse e le sue calcolatrici, una parte sempre più alta del consumo si attua per vie illegali, non tanto di acquisto della merce quanto di guadagno di denaro.

Certo che se il socialismo fosse la pigiata dell’economia dentro lo Stato esso condurrebbe a questo, o alla fucilazione in permanenza: ma il socialismo è l’opposto, è l’economia portata fuori dal mercato, e dalla circolazione di moneta. E i suoi passi avanti si misurano con questo solo metro, dando fuoco alle statistiche e gettando dalla finestra le calcolatrici.

Tutte le contorsioni della statistica russa non danno che la misura del suo triviale rinnegamento.

Ormai la maggioranza dei lavoratori è stata abituata a tutti i pasti, ma è certo che nei primi tempi questa storia delle fortissime imposte in Russia è stata mal digerita. In verità la cosa più strana è che la digerisca il codazzo schifoso di piccoli borghesi, di bottegai, di intellettuali, di poveri cafoni da tutti fregati, che purtroppo sta dietro a stalinisti e post-stalinisti, e in cui immenso è l’orrore dell’agente del fisco. dell’esattore dei tributi.

108 – Dal mazzo delle democratiche ubbie

Secondo il misero bagaglio degli agitatori di folle che, in modo del tutto parallelo ai demagoghi che oggi ovunque parlano per il Cremlino, hanno cercato di trarsi dietro i ceti e le folle «popolari», un vecchio luogo comune è questo, in materia di imposta. Le imposte dirette sono quelle con cui lo Stato interviene a prendere per sé e per i servizi sociali che deve gestire parte del reddito che ogni cittadino incassa in moneta. E si intendeva reddito di proprietà, reddito di impresa, ossia di industria, di commercio. Ha fatto sempre parte dei luoghi comuni dei socialisti democratici e se vi pare dei democratici socialisti e dei democratici sociali, da un buon secolo, la «rivendicazione»: niente imposta diretta sul salario! E con questo si era coerenti ad un teorema economico che il marxismo contiene: il salario non è reddito! I redditi sono le varie parti in cui il plusvalore si ripartisce: rendita, profitto, interesse commerciale e bancario. Pur avendo il plusvalore giustamente, tramite l’imposta, provveduto a darci il servizio di strade, ferrovie, vigili del fuoco…, birri, preti e parlamentari.

La croce era invece gridata contro l’imposta indiretta, in quanto la stessa si fa pagare dal consumatore, aggiungendola al prezzo a cui le merci gli sono vendute. Tale imposta la paga quindi chiunque consumi; consumi dal reddito o dal magro salario importa poco.

Due quindi le magnifiche grida della democrazia filopopolare e filoproletaria (per quelli che non ne schifano l’amplesso lurido!). Non imposte indirette, sul pane del popolo, ma imposte dirette, e, soprattutto, imposte progressive sui redditi. Così si colpiscono gli alti profitti e gli alti redditieri. Simili stupide solfe sono ancora in voga nel festival della regia cremlinesca, che naturalmente caccia sotto i piedi il facile teorema di babbo Marx. I servizi dello Stato si dividono in quelli che aiutano l’umanità e in quelli che la fottono. Nell’uno e nell’altro caso, qualunque sia il sistema di imposta, la spesa di tali servizi è pagata dal plusvalore e grava sulla classe lavoratrice.

Non è dunque come marxisti ma come democratici che trattiamo questi signori gettando loro sul grugno il fatto, per noi in sé ben spiegabile, che in Russia si paga un fottio di tasse, e di più che le dirette sono appena un sesto delle indirette. Facile sarebbe rispondere che, non essendoci più alti redditieri, lo Stato farebbe affare magro a tassare alti redditi, anche perché dovrebbe confessare ufficialmente che ne esistono, rovinando la propaganda.

Vogliamo solo deridere la pretesa degli agenti esteri del Cremlino di essere più in alto delle vecchie rancide panzane dell’economia democratica. Non avrebbe il diritto di dare tale risposta chi ne segue tutti i passi, affiancandola nella ricerca di esaltazione dell’investimento e nello stesso tempo di democratizzazione non solo della proprietà della terra e della casa, ma perfino del capitale industriale e commerciale.

Ma è forse possibile tenere per un momento in piedi anche qualche timido barlume di quella abbagliante folgorazione di menzogne che ci permise di disperdere il bigottismo della piccola economia, quando ogni giorno si sacrifica alla peggiore superstizione per le parole d’ordine democratiche, e anche peggio, in politica, in diritto, in morale, in filosofia?

Ha diritto di mantenere la critica al sistema borghese di imposta chi ha disertato da quella alla statolatria e al legalitarismo costituzionale, alla santità della famiglia e della persona, che tutto assomma, anche l’omaggio al peggiore pietismo e fideismo, oltre i quali un giorno era andata la stessa democrazia borghese laica?

Può forse balbettare marxismo in economia – del sistema fiscale russo diremo subito in breve – chi scrive genuflesso del galero messo in testa al cardinale polacco, e non esita davanti ad espressioni di questo calibro: «Rafforzare il prestigio della Chiesa ed estendere il magistero del clero»? Dopo di che hanno ragione i giornali benpensanti («Tempo» rivista):
«Se è vero che il marxismo non distrugge la religione, è altrettanto vero che la religione non distrugge il marxismo».
È un patto storico corso, ma non con il marxismo: tra due passeggiatrici della storia, religione e democrazia, di cui è la seconda che è degna della tessera della questura.

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXVII)

109 – Il sistema di imposte

È del tutto naturale che il sistema fiscale dello Stato sovietico sia sorto come un sistema misto e si sia andato via via sviluppando per adattarsi ad un’economia che si andava sempre più industrializzando. Poiché tuttavia fino agli anni della NEP fu chiaro che parallelamente si sarebbe sviluppato un immenso mercato monetario interno, e da quelli della falsa «collettivizzazione» agraria si rese evidente che le forme private cooperative ed anche individuali avrebbero parimenti progredito enormemente, fu inevitabile che il sistema di imposte si poggiasse su tre settori: quello «socializzato», e per dire esatto della gestione statale – quello cooperativo – quello privato.

Ad evitare confusione di idee diremo subito che nell’economia socialista non può essere questione di imposte pagate in moneta: essendo in un dato momento l’amministrazione sociale dispositrice di ogni prodotto, nel ripartirlo trattiene la parte che risponde ai servizi generali e lascia il resto ai consumi individuali quotidiani; questo lo schema marxista.

Ma anche un’economia totalmente statizzata pur restando monetaria, potrebbe funzionare senza imposte. Dato che il centro statale conduce nel suo bilancio e nella sua cassa ogni «profitto» delle aziende statizzate, e se queste fossero praticamente tutte anche nell’agricoltura, da questo movimento si possono ricavare le spese per i servizi generali pubblici.

Se l’imposta in moneta vive e si amplia, ciò vuol dire che anche la statizzazione totale (che è per Marx una «fase non stabile» da tempo rivoluzionario) non solo non è raggiunta ma si va allentando. Tutte le notizie dal 1953 sono in questo senso, anche le ultime. Questo processo, per una stranezza della storia o per una coincidenza pura, segue la morte di Stalin che ne ha facilitato la confessione. Non abbiamo solo in Russia capitalismo di Stato ma capitalismo di Stato misto al privato, in una miscela che si svolge diminuendo la dose del primo: non solo non è il risultato di un processo di rivoluzione socialista, ma non migliora nemmeno le condizioni per questa rivoluzione.

Il concetto di Lenin di «imposta in natura» a carico del contadino familiare e cooperativo, come chiara misura borghese, è abbandonato. Lo Stato preleva derrate, ma contro moneta, e con una via che va sempre a vantaggio della popolazione agraria e a danno di quella industriale.

Nel 1945 l’attento studioso Bettelheim scriveva:
«La parte più importante dell’imposta sulla cifra di affari è fornita dai prodotti bianchi, dal pane, ciò che è reso possibile dal fatto che lo Stato compra a basso prezzo e con misure d’imperio i cereali che rivende molto cari alla popolazione sotto forma di farine e pane. Nel 1937 su 77 miliardi di rubli dell’imposta totale 24 furono dati dai prodotti agricoli e 20 dall’industria alimentare; solo 9 dall’industria pesante»[299].

In questi giorni del 1957, dopo che a grandi passi segue la marcia intrapresa nel 1953, il cui senso è di usare la maggiore resa della produzione e della tecnica associata al solo scopo di fondare una società statica di consumatori-possessori ad ambito familiare autonomo, «l’Unità» si fa così scrivere da Mosca:
«Gli errori [quale barba!] scoperti e denunciati furono due: un eccessivo gravame finanziario imposto ai contadini attraverso esazioni fiscali, i prezzi troppo bassi per la loro produzione e le forti quote di ammasso; un insufficiente rispetto [!] della natura cooperativa dei colcos che giunse sino a tutto imporre dall’alto, ecc.» (numero del 26 maggio).

La presente regionalizzazione, e peggio, della stessa macchina industriale è altro passo che va nello stesso tempo in senso contrario alla tradizione di Stalin e alla rivoluzione. Essa prelude secondo ormai chiare parole di Chruščëv all’ideale di un’industria frammentata, cooperativa e colcosiana, ideale che è lo stesso della controrivoluzione borghese in America, e di cui il vicino futuro darà dimostrazioni clamorose.

110 – Le forme dell’imposta

Nel primo settore, l’economia socializzata, l’imposta in moneta «sulla cifra di affari» segue ogni prodotto nell’origine e in successive trasformazioni. Nessuno nega che si tratti di un’imposta «indiretta», ma vi è stata da molti anni una grande discussione, pretendendo gli economisti sovietici che non si avesse a che fare con una vera imposta «sul consumo», ma con un semplice prelievo, forfettario e «a priori», sui profitti delle imprese statali e cooperative.

In effetti, se tutto partisse ed arrivasse alla cassa unica di Stato, se ogni movimento di valore si riducesse ad entrata ed uscita di Stato, nel conto finale potrebbe essere indifferente che si lasci una impresa profittare cento per ritirarle quaranta e lasciarle sessanta, ovvero farle prima pagare venti di tassa sul beneficio e poi dirle di versare altri venti dal netto. Infatti se il prezzo finale al consumatore è il prezzo di Stato, lo stesso come tale resterebbe indifferente al fatto del prelievo in un tempo o in due tempi. Ma una tale imposta non si paga all’atto della produzione né a quello dell’incasso di un reddito, bensì ogni qualvolta avviene uno scambio monetario tra una ed un’altra azienda, ed in ragione della cifra di tale scambio.

Sono percepite tasse anche sulle imprese agrarie e non cooperative (colcos) e sulle aziende familiari dei colcosiani. Ma solo all’inizio la tassa era in ragione della superficie (seminata) con analogia alla comune imposta fondiaria; successivamente la si è applicata anche qui sui «benefici» dell’azienda, fermo restando che il godimento ha la stessa estensione di quello borghese fondiario.

Meno importanti sono le imposte a carico del settore «privato» che colpiscono le piccole aziende agrarie, industriali e commerciali ufficialmente ammesse. Ma la cosa che «sembra la più logica di tutte» è che tale imposta colpisca il salario operaio (oggi al di sopra di un certo minimo, come vedemmo) ripetendo il non senso di trattare il salario come un reddito monetario e non più come una «iniezione di alimento» destinata a conservare al proletariato il suo carattere di serbatoio di forza lavoro, nella generazione viva e nella sua fisiologica riproduzione. Il socialismo vorrebbe dire il sollevamento del salario da questo carattere: ma nel sistema di servitù salariale al capitale di Stato la pallida forma di «emancipazione», che si può esprimere in termini monetari, dà subito occasione all’incidere dell’imposta; e ad un saggio più alto per salvare il carattere «progressivo»! Questa imposta sul reddito è quella diretta, e non si può quindi dire che colpisca il proletario in quanto consumatore: fa di peggio, lo colpisce in quanto «produttore» di quello che non produce, ossia il reddito, egli che incassa solo quello che dovrebbe consumare. E ciò in tutto il sistema due volte, tre volte, sommando gli effetti di tutte le imposte.

111 – Lo Stato ammucchia denaro

La chiave di tutto il sistema è che lo Stato deve accumulare moneta perché il giro salario-merci-denaro possa non arrestarsi. Abbiamo visto come il flusso di miliardi di rubli arriva al bilancio. All’incirca metà sono le imposte, ossia denaro raccolto tra la popolazione. Il fisco dello Stato-capitalista economico è più tremendo di quello dello Stato-capitalista solo politico, o economico «prorata» come da noi. Lo Stato non ha il disturbo di esigere, gli basta non versare! Il piccolo produttore, il colcosiano, il cripto-redditiero, l’operatore mimetizzato, figure privilegiate nella società russa, devono, come il nostro volgare contribuente, essere snidate e fatte pagare: il dipendente dello Stato come operaio urbano e rurale a salario, ed anche l’impiegato a stipendio (speriamo si sia capito che al marxista interessa la struttura del rapporto di produzione, e non la banale questione: è pagato bene o è pagato male? Avete o no capito dalla vita della società borghese che chi più soldi maneggia, più si sente fregare quando li vede diminuire?) sono «à la merci» del padrone-Stato che, in una sconcia economia e in una oscena letteratura, sono essi stessi!

Metà dunque dei miliardi di cui ha bisogno il suo ventre orrendo, lo Stato li ha dalle imposte, solo il 16 per cento dal prelievo sui profitti delle aziende, e il resto gli viene da fonti «varie».

Ma altri due fenomeni – classici tra quelli con cui Marx definì l’accumulazione capitalistica primitiva, che scrisse la sua epopea in occidente dal XVI al XIX secolo, e oggi imperversa in Russia – gonfiano d’oro lo Stato: il sistema del credito bancario e del risparmio, e quello del debito pubblico.

Lo Stato maneggia il risparmio che i cittadini sono in un modo o nell’altro condotti a versare nelle banche, che egli detiene – lo Stato, con un metodo una volta ancora dieci volte più sicuro di quello degli Stati capitalisti nell’aggettivo storico e non ancora nell’apposizione economica, fa rubli con prestiti del «pubblico» a cui promette interessi. E l’operaio che nel paese borghese può agevolmente «cracher» ossia vigorosamente scaracchiare sul cartellone che gli punta il dito con lo slogan: oro alla Patria!, paga su ritenuta e non se ne accorge. Sì, perché Creso ed Arpagone si accorgono dei pagamenti che fa la loro cassa ipertrofica; il lavoratore nullatenente ride sul vuoto del suo borsellino, e, se è cosciente, vorrebbe solo prima di crepare vedere il falò di tutte le banconote e di tutti i titoli di carta: non ve n’è uno di essi in cui il credito non sia per la canaglia borghese, e il debito non sia per lui: Carlo Marx seppe (e credemmo per tutti i secoli) spiegarlo al ministro Gladstone e svergognare la Ricchezza della Nazione, che coi descritti afflussi, che sono di umano sudore e sangue, oggi si costruisce in Russia, e non per un solo, ma per tutti gli Stati del mondiale impero del Capitale.

Del gettito dei prelevamenti sui profitti delle sue aziende, e molto più timidamente fino a ieri, e nulla domani, lo Stato non fa solo investimenti in nuovi mezzi di produzione (accumulazione capitalistica squisita), poiché le cifre tra le quali lungamente noi ci indugiammo mostrano che l’investimento è meno del prelevamento. Infatti, mentre possiamo ammettere che la pesante imposta vada ai servizi di Stato generali, sociali e culturali – come ogni Stato fa, ma non appena esce dal settore dei servizi strettamente fisici (nessuno è apolitico, forse i vigili del fuoco e il D.D.T.), con intenti sociali e di cultura sinistri e deformi, che in Russia come altrove non riscalda la lotta per la società di domani – i prelevamenti di benefici vanno in gran parte a sostenere il passivo di aziende deficitarie che lo Stato deve finanziare perché non si chiudano, ed un settore della popolazione non cada dal tenore di vita ultracompresso all’inedia completa.

Lo Stato capitalista integrale ha una macchina che più delle altre è adatta a comprimere la distribuzione del minimo vitale; ma vi riesce in pieno in quel raggio in cui l’economia è tutta nella sua amministrazione, mentre gli sfugge ben più che negli Stati capitalistici che si definiscono «liberi» il controllo sulle risorse delle classi medie. Queste sono fragili di per sé, anche quando lo Stato vigliaccamente le «rispetta» ed ha interesse a salvarle.

112 – L’atroce contraddizione

Il dramma della società russa è giunto al suo penultimo, se non ultimo atto, dalle svolte del 1953; il suo inno è l’epicedio a Giuseppe Stalin che tragicamente ondeggia fra l’apoteosi e la maledizione.

La macchina che fa passare rubli dall’operaio all’erario è sempre lì pronta a funzionare; e ulteriori spandimenti di fumogeni possono ben celare l’impotenza di tale macchina verso le economie che sfuggono al rapporto salariato-amministrazione centrale.

D’altra parte la «politica» dello Stato russo attuale è attratta da forze irresistibili verso la moderna zattera di salvezza del capitalismo universale: la tutela di una società che bene abbiamo definito «colcosiana», e di cui è ben chiaro che non facciamo una «scoperta», una pretesa nuova forma che si inserisca assurdamente tra capitalismo e socialismo, un neoplasmo che sarebbe un pleonasma nella serie storica dei modi di produzione stabilita dalla nostra cardinale dottrina.

La società «colcosiana» – definita dall’estensione di questo aggettivo fuori del campo originario della produzione agraria parcellare a quello di ogni struttura che voglia far perno, attorno all’individuo, sulla famiglia, la casa di abitazione, l’arredamento, un domestico peculio – non è una forma che esiste né esisterà nella storia, ma solo uno strato di ibrida incrostazione sovrapposto alle forme di influsso economico ed imperio di potenza del capitale. La sua generalizzazione non è un dato della storia che passa, ma soltanto un’illusione di classe, una forma e formula agitativa per la manovra di classe della conservazione del classico e storico modo di produzione borghese, i cui connotati essenziali ci sono noti senza dubbio né incertezza alcuni da circa un secolo.

Le forme labili ed invertebrate del colcosianismo sociale si succedono sullo sfondo della lotta di primo piano fra capitale e proletariato; esse sono in grande evidenza in tutte le fasi storiche di scomposizione e degenerazione del movimento operaio; sono l’atmosfera vitale dell’infezione batterica chiamata nei nostri testi fondamentali opportunismo; è quando il proletariato rincula e si smarrisce che esse sembrano con tutte le loro manifestazioni disgustose e filistee venire avanti sul proscenio della storia.

I ceti sociali che si affondano in quel dubbio melmoso tramezzo delle vere classi sono facili ad apparire e scomparire; quando la tempesta rugge quelle grigie folle si disperdono e annebbiano. È facile prevedere che le forme economiche e sociali corruttrici, con cui il grande capitale le porta innanzi, si mostreranno al venire della crisi straordinariamente precarie. Così ad esempio il prestito popolare forzato allo Stato russo ha per lunghi anni esaltato la psicologia piccolo-borghese del minimo proprietario che accarezzava nella sua borsa i titoli e le ridicole cedole di interessi: è già venuto un giorno in cui questa debole impalcatura è stata fatta crollare cancellando il valore della piccola cedola, o coupon, alla scadenza, preludio alla confisca di quel cellulare e anemico microcapitale distribuito nelle mani delle vittime del capitalismo. Fine non diversa farà anche, in Russia, il microrisparmio personale e familiare presso le diramazioni delle banche maneggiate dallo Stato: un giorno tremerà la piattaforma artificiosa di tanto tarlata impalcatura, il mostro-Stato dal ventre foderato di lamina d’oro incorporerà quel povero briciolame di una trangugiata sola.

In Russia, ma anche in America, come altrove, questi noduli familiari, di accumulazione di piccole doti e godimenti per i nove decimi inconsistenti e da mania drogata, se non per requisizione dello Stato centrale, per forza della necessità economica, avanzandosi le nubi nere della disoccupazione e delle insolvenze, fuggiranno dalle mani illuse dei colcosianizzati, per «libera» alienazione: alla scala storica la grande accumulazione e la concentrazione più mostruosa riprenderanno il loro sinistro rimbombante cammino, mentre dal lato opposto ricomincerà a risuonare quello non meno terribile della Rivoluzione.

Siamo ora nella fase in cui si tratta di mandare indietro lo spettro della proletarizzazione fulminante dei piccoli goditori, e seguitare la pioggia ad innaffiamenti di piccole offe che alimentino pallidi focolari domestico-aziendali nei loro tenacissimi e ciechi appetiti. Quindi la consegna è di proclamare a tutti la santità, l’utilità e il rispetto di questi piccoli accantonamenti di ricchezza, chiedendo di meno con l’apparato fiscale e prelevatore di prodotti e profitti, offrendo di più coi mille lenocini assistenziali e «culturali». Non è che un’edizione mezzo novecento delle ineffabili Festa Farina e Forca che si offre agli strati delle micro-cristallizzazioni colcosiane.

Poiché tuttavia l’imperativo categorico di accumulare ed investire in grandi masse di valore non dà tregua, bisogna che seguiti la pressione, mal mascherata dalle forme urbane di incoraggiamento sterile ad un minimo di agi nella casa e nella famiglia, sulle masse dei salariati delle grandi aziende industriali di cui non si può nemmeno lontanamente simulare una molecolarizzazione. A carico quindi degli operai industriali delle città, lo Stato-pompa di rubli seguita ad ansare nella sua tesaurizzazione elefantesca.

E tuttavia le saldature di bilanci monetari si scollano, la montagna d’oro frana e si sfalda, la risorsa della super-accumulazione centrale letta nella sua espressione in denaro minaccia tremendamente di venir meno, e il gigantesco macchinone così fondato, che ha per motore la corsa centripeta di tutti i rubli nella cassa centrale dello Stato, minaccia seriamente di incepparsi; appare immensa menzogna che il socialismo sia centralizzazione di moneta.

113 – La vecchia infamia: un «nuovo corso»

Lo scritto finale di Stalin, sui problemi economici del socialismo, aveva il doppio scopo di mantenere la definizione di socialista all’economia russa, e di giustificare, in relazione a tanto, il gioco nella produzione e distribuzione russa della legge dei valori scambiati come equivalenti, quindi il carattere di merce dei prodotti e della forza di lavoro, e l’espressione monetaria della dinamica delle imprese di produzione, fossero esse private, cooperative o statali[300].

Morto Stalin nel 1953, e dopo le note voci di rettifiche di tiro al tempo di Malenkov che, soppresso l’ultrastaliniano Beria, mostrava operare uno svolto sul terreno economico con la formula: «meno produzione di strumenti, più di oggetti di consumo», scoppiò la bomba del XX congresso del febbraio 1956, etichettato al solito con grossi nomi: Chruščëv e Bulganin. La bomba era la revisione dello stalinismo e del giudizio su Stalin, ma solo gli ingenui si attesero che si correggessero anche di poco le bestemmie antimarxiste dei Problemi e l’«arrangiatura» mercantile monetaria ed aziendale del socialismo (anche di stadio inferiore). Si parlò di tornare al puro marxismo-leninismo correggendo Stalin che lo aveva abbandonato, ma nulla si condannò di Stalin economista (o meglio apologeta dell’economia capitalista). L’idolo di ieri fu processato come capo politico e uomo di Stato, quale generalissimo in guerra e diplomatico in pace, deplorato come dittatore troppo crudele e falsario della storia e come provocatore di una terza guerra (quasi che si possa essere marxisti e dire che le guerre v'ha uno che le provoca).

In una parola si compì il sensazionale passo di buttare giù Stalin dagli altari, ma i falli che gli si imputarono non furono le bestemmie economiche né i crimini tattici nel puttaneggiare per il mondo coi ceti medi e i loro partiti opportunisti e con gli Stati dell’imperialismo capitalista: furono invece falli e crimini di cattivo democratico, di cattivo pacifista, di cattivo filantropo sociale. Fu chiaro che si abbandonava Stalin per andare più sfacciatamente di lui nella direzione opposta a Marx e a Lenin; e vi fu per questo a iosa di dichiarazioni in materia politica, quanto a rapporto tra gli Stati e tra le classi, quanto a violazione dei principi di base su dittatura, forza e violenza, e di quelli tattici sull’annientamento dei partiti piccolo-borghesi e riformisti; ma in maniera economica non fu chiaro e provato che si era anti-marxisti molto più di Stalin: fu solo ammesso che si pensava come lui circa i lati aziendali mercantili e finanziari dell’economia russa, e si era dunque antimarxisti almeno quanto lui.

Col nuovo svolto di oggi, che si lega alla sessione del Soviet Supremo del febbraio 1957, si compie altra tappa di quel fatto storico che fin dal 1953 noi chiamammo la «Grande Confessione». Si entra decisamente nella materia economica; e come era logico si ribadiscono gli svolti politici nella medesima decisa direzione, verso posizioni borghesi capitalistiche, e altri più clamorosi se ne fanno prevedere[301].

Le formule hanno valore di simbolo. A tutto quel che in Russia si svolge, questa si applica per noi: rimpianto di Stalin.

La sessione di febbraio del Soviet Supremo dette incarico al governo ed al partito di preparare una relazione e un testo di tesi sulla «riorganizzazione dell’industria sovietica». Queste tesi dovute a Chruščëv sono state rese pubbliche il 30 marzo e in questi giorni di maggio il Soviet Supremo le ha fatte proprie.

Non si nasconde che si tratta di uno sconvolgimento dalle fondamenta, di una vera e propria rivoluzione dall’interno. La sintesi della «svolta» per le stesse definizioni che ne danno i suoi fautori è l’abbandono del «centralismo». Essa si applica alla costituzione dello Stato, in quanto molte funzioni del governo centrale dell’Unione passano alle repubbliche federate, di cui si proclama una nuova autonomia. E si applica all’economia, in quanto si sopprime la direzione dal centro a favore di consigli locali di repubblica e anzi per le grandi repubbliche di regione e di provincia. E vi è di più: la gestione e la pianificazione per grandi settori d’industria, dal centro per tutta l’Unione, cede il passo ad una gestione e pianificazione di tutti i settori in un sistema di ristretto territorio. Alla struttura verticale se ne sostituisce una orizzontale.

114 – Comunismo e «centralismo»

Naturalmente, con totale sfacciataggine, questa ondata di dispersione centrifuga delle energie, che è ben facile definire come «popolare», «democratica» e – aggiungiamo noi – «liberale», viene anch’essa presentata come conforme alle dottrine di Marx e di Lenin e alle tradizioni del bolscevismo russo.

Come si inventò da Stalin il «principio leninista dell’edificazione del socialismo nella sola Russia» che era l’opposto della storica lotta che ebbe a capo Lenin in tutto il corso della sua vita; così oggi dai liquidatori di Stalin se ne inventa destramente – e con trattazioni storiche derivative! – un altro non meno bugiardo:
«il principio leninista del centralismo democratico nello sviluppo economico».

Si enuncia la cosa in non pochi passi in maniera ancor più crassamente antimarxista: «democratizzazione dell’economia»! Fatto questo, altro non occorre per navigare in pieno capitalismo e liberalismo borghese.

Noi marxisti radicali ci colleghiamo alla definizione della linea marxista che fu data contro di noi nelle polemiche della Prima Internazionale intorno al 1870. Accettiamo l’accusa e confessiamo la colpa: come siamo gli autoritari contro i libertari, siamo parimenti i centralisti contro i federalisti.

Al tempo di Marx, di Lenin e all’odierno, si imposta nello stesso modo la battaglia dei rivoluzionari contro gli opportunisti.

La formula del «centralismo democratico» fu – è vero – data da Lenin nella ricostruzione dei partiti marxisti e dell’Internazionale comunista. Essa però si riferiva all’organizzazione interna dei partiti e dell’Internazionale, e non alla società economica; né quale programma integrale del comunismo, né quale programma di politica economica nella Russia, società in moto tra feudalismo e capitalismo, nell’attesa della rivoluzione proletaria occidentale.

Anticentralisti erano sempre stati i socialisti di destra, riformisti e collaborazionisti di prima della prima guerra mondiale, e social-patrioti durante questa. Tale gentaglia con la quale ci davamo a coltello mezzo secolo fa era per tutte le «autonomie» e soprattutto per le «locali». La tesi di questi traditori del proletariato era che un’organizzazione locale, cittadina o provinciale, poniamo, del partito, poteva decidere tutto da sola, e anche contro il parere prevalente del partito, sull’azione locale, sulla tattica, sugli accordi con altri partiti. Negando questa autonomia nel 1870 ai libertari e nel 1900 ai revisionisti, i difensori dell’integrale tradizione di Marx ed Engels difendevano da attentati passati, contemporanei e futuri la priorità della questione del potere centrale. Centralizzato sempre più il potere della classe borghese, centralizzato nell’azione oltre che nella dottrina il partito proletario rivoluzionario.

Su identico piano era la lotta contro i social-sciovinisti, in cui sta la piattaforma vitale del «leninismo». I traditori vollero ogni partito autonomo nell’atteggiamento rispetto alla guerra, fino ad ammettere che mentre il partito (poniamo) serbo sabotava la guerra (e lo fece sebbene «difensiva»!), quello austriaco conservasse il diritto di votare i crediti di guerra a Francesco Giuseppe e appoggiare il suo governo (benché, a dir popolaresco, «aggressore»). Noi con Lenin pretendemmo che valesse l’impegno internazionale che legava ogni partito nazionale, e che questo non avesse mai il diritto di decidere con una sua consultazione «democratica» interna il rispetto o la violazione del patto centrale e di classe.

Sviluppata dai classici di Lenin e dei suoi la dottrina del potere rivoluzionario con due soli personaggi centrali: Stato capitalista e Rivoluzione proletaria, e rivendicato il programma marxista della stretta dittatura centralizzata come potere post-rivoluzionario, che distrutto lo Stato borghese e resolo in pezzi monta la macchina unitaria del potere comunista, fu ancora una volta dispersa ogni concezione che facesse posto a poteri locali e a intese federali di organi autonomi, che potessero decidere ognuno per suo conto.

A una tale dottrina per lo Stato, che spinse al massimo l’indignazione dei social-traditori ex marxisti da un lato, e quella degli anarchici e sindacalisti alla Sorel dall’altro, varietà tutte della peste «autonomista» ed «iniziativista» (concetti che per noi valgono: borghese), corrisponde analoga dottrina per la vita del partito di classe rivoluzionario.

La centralità della direzione del partito – e quindi dell’Internazionale, che è considerata in Lenin come il partito per eccellenza – fu da tutti accettata, e qualche elemento a tendenza piccolo-borghese autonomista, anche se di atteggiamenti estremisti, fu messo fuori, alla pari di quelli destri egualmente restii alla ferma mano della direzione centrale, che storicamente non poteva avere altra sede che a Mosca.

Fu allora che, ai fini della vita interna dell’Internazionale, Lenin pose nelle sue storiche tesi l’espressione di «centralismo democratico». Noi della sinistra italiana proponemmo – ancora una volta i fatti ci hanno dato ragione – di sostituire questa formula, che giudicavamo pericolosa, con quella di «centralismo organico». Ci spieghiamo subito, ma fateci scrivere d’urgenza che chi si dà a fracassare il centralismo, senza aggettivi, oltraggia Marx, Lenin e la causa della rivoluzione: è un manutengolo di più della conservazione borghese.

115 – Impotenza alla dialettica

Nella possente marxista dialettica di Lenin l’aggettivo di democratico, applicato qui alla nozione di centralismo nel fine preciso di definire la dinamica interna del partito di classe, non era affatto in contrasto con lo sterminio della superstizione democratica, che è il contenuto essenziale del marxismo, come Lenin rivendicò respingendo l’ondata opportunista del suo tempo, avente gli stessi caratteri della contemporanea, trionfante ed ululante dal Cremlino.

Il concetto di Lenin è sul piano organizzativo e si riferisce alla regolazione della vita del partito. Nella fase storica che precede e accompagna subito la rivoluzione non vi può essere partito senza statuto, senza carta costituzionale. Noi marxisti ridiamo di una costituzione della società comunista, perché se così non fosse non avremmo tra i nostri canoni la scomparsa dello Stato. Ridiamo di una costituzione e di una democrazia entro la classe operaia, in quanto se la ammettessimo dovremmo cancellare tutto il nostro programma storico, che è la scomparsa della classe (la parola classe non ha singolare; quando sparisce la divisione della società in classi, non ne è superstite nessuna).

La democrazia costituzionale operaia sotto il capitale vale la costituzione per cui gli schiavi hanno diritto a far parte del loro consorzio in base al marchio di ferro rovente che possono mostrare sulla spalla. Ad essa si riduce la nefasta illusione di laburisti sindacalisti e ordinovisti.

Lenin trattava del funzionare tecnico del partito, e la sua impostazione della questione era dialetticamente cristallina. Noi lo capivamo al mille per mille, ma venivamo di sotto la pressione bestiale del capitalismo parlamentare e democratico, che lui non aveva mai subita, avendole col suo partito dato gloriosamente di ferro alla gola prima che cominciasse gli atti respiratori. Tememmo che la formula potesse – ed oggi avviene – essere predata dai futuri traditori, cosa possibile fino a che il funerale mondiale della democrazia borghese, della democrazia nella società, della democrazia in generale, non sarà stato celebrato: era lontano nel 1920 e lo è ancora oggi, dopo tanti anni, e non abbiamo fatto a tempo a mandargli dietro colossali corone rosse con la scritta: da Carlo Marx – da Vladimiro Lenin – dai minimi ma gaudiosi affossatori.

Era ben evidente che le decisioni del partito, dalla sua «base» in su, tecnicamente non si potevano prendere che col sistema ingenuo della conta dei voti. Ciò ammesso, si trattava di ribadire la categoria primaria del marxismo, ossia la centralità, la unità omogenea, la garanzia contro i nefasti delle velleità individuali, di gruppo, di località, di nazionalità.

Il partito nella sua vita interna, una volta storicamente ricondotto alla dottrina di origine, risanato nell’organizzazione con l’eliminazione degli strati corrotti, rinsaldato nell’azione con decisioni tattiche dal respiro mondiale e rivoluzionario, e per ciò stesso assicurata la sua dinamica centralista, è in un certo senso una anticipazione della società comunista in cui il dilemma tra decisione del centro e decisione della base perderà di senso e non si porrà più. Ma esso vive ed opera nell’interno della società di classe e subisce le determinazioni e le reazioni dei suoi urti contro il nemico di classe e dei controurti di questo. Più volte mostrammo che nei momenti decisivi l’indirizzo non è cercato da consultazioni e congressi e nemmeno dai voti di istanze ristrette e comitati centrali; l’esempio tante volte ripetuto è Lenin stesso.

Lasciamo negli statuti questo banale ingranaggio della conta dei voti e dei pareri individui, noi proponevamo; ma consideriamo che l’unità del partito non è quella di un cumulo di sabbia o altra sostanza granulare, di una colonia di esseri simili, quale la primitiva madrepora nel banco di corallo o il singolo uomo (capolavoro della natura!) nella banalità dell’anagrafe e della statistica.

Il partito è un organo nel senso integrale che si applica a quelli viventi. È un complesso di cellule, ma non tutte sono identiche, né uguali, né della stessa funzione, né dello stesso peso. Non tutte le cellule né tutti i loro sistemi condizionano l’energetica o al più la vita di tutto l’organismo. Tale nell’insegnamento di Marx e Lenin, nel materialismo dialettico, è la valutazione delle società umane e dei complessi sociali, contrapposti alla sciocca filosofia borghese che proietta tutta la società nell’individuo e non ammette che nella società sono le potenze e capacità di sviluppo all’individuo contese e negate, e che esse non risiedono in un individuo speciale e di eccezione, ma nella ricchezza delle relazioni fra uomini, gruppi di uomini, classi di uomini.

116 – I falsari del leninismo

Caduti nella più crassa impotenza al maneggio della dialettica, che è di un partito tenuto salvo dalla lue quanto a teoria, organizzazione e strategia, gli attuali capi del PCUS con l’ennesimo dei loro trucchi da fiera fanno un balzo dal «centralismo democratico» chiesto da Lenin per il partito, ma che, a parte il termine, conteneva piena l’organica unità inscindibile di esso, applicandolo a ciò a cui Lenin allora non si riferiva – e a cui mai si è riferito quanto al concreto compito dello Stato russo e del partito russo vittorioso – ossia alla «edificazione dell’economia socialista».

Da decenni il «marxismo-leninismo» consiste nell’attribuire a Marx e a Lenin volgarissime castronerie. Avete ancora visto una edificazione democratica? Sarebbe quella in cui ogni pietra si muove da sé e si va a mettere dove le pare, sotto gli occhi sbalorditi dei maestri muratori e dell’ingegnere. Una maniera di decidere può essere democratica – e soprattutto una maniera di frodare le decisioni! – ma non una maniera di costruire.

Questa gentaglia poi si mette a riscrivere con parole e frasi diverse la storia di quello che Lenin disse. Non fa con questo che ripercorrere la via dei bollatissimi «crimini di Stalin», e solo con improntitudine più spinta.

L’edificazione cui Lenin chiamò il partito russo non era quella del socialismo, che per lui sorge dalla rivoluzione politica internazionale, e tanto in lui quanto in Marx non vale una «costruzione», ma una distruzione di ostacoli che ritardano un processo naturale. Era la realizzazione delle condizioni economiche per il socialismo, ossia della forma capitalistica in Russia; in cui nella sua concezione genialmente dialettica il partito proletario fa coscientemente ciò che hanno altrove fatto inconsapevolmente i membri della classe borghese.

Essi sono costretti a stabilire, pure avendo chiamata questa formidabile svolta della lotta di un partito marxista in paese arretrato col nome falso di edificazione di un’economia socialista, e a ricordare, che Lenin fissò questo compito in quello della pianificazione centrale dell’attività industriale. Ricordano che Lenin mise in prima linea l’elettrificazione della Russia. Ma forse non avevano capito da che si costruisce dialetticamente questa consegna di azione e di agitazione rivoluzionaria, alla fine. L’accumulazione capitalistica classica poté sorgere da impianti isolati e controllabili da privati, e anche la macchina a vapore che edificò il capitalismo dell’ottocento poteva essere controllata localmente e in modo autonomo. Ma la rete delle centrali che producono energia elettrica per migliaia di macchine motrici-operatrici su un territorio immenso non può – se soprattutto si voleva riguadagnare l’arretratezza rispetto al capitalismo estero – che sorgere con una progettazione centrale: questo fu il primo nocciolo del piano tecnico-economico di Lenin. L’energia termica è locale, autonoma, degna della democrazia filosofica e dell’anarchia economica del piccolo borghese. L’elettricità è unitaria, centralista, organica: questo Lenin morì sicuro che aveste appreso, quando vi dettò di pianificare!

Oggi sperate invano, coi benesseristi dell’occidente, che l’energia nucleare ridia vita all’autonomismo e al localismo produttivo, perché essa allo stato non fa che scimmiottare la funzione millenaria del combustibile, e sperate di contenerla nel volume di una scatola di fiammiferi.

Ma intanto vi permettete di richiamarvi alla pianificazione centrare di Lenin, mentre la frammentate, la provincializzate, la localizzate, la incafonite, le imprimete lo stampo della vostra ideologia colcosiana-bottegaia, la schiacciate alla misura del campanile e del domestico focolare, alla cui superstizione siete riprostituiti.

Per voi sarebbe uno scherzo fare malgoverno delle parole. Ma per la rivoluzione le parole sono armi, e capovolgerle vale capovolgere la bocca dei cannoni, come cento volte avete fatto contro il proletariato e i suoi schieramenti, come Stalin vi ha insegnato a fare verso alleati e nemici.

Avete quindi scordato, nell’annunziare l’ultima beffa dei cento piani circondariali, avete scordato, squisiti cialtroni, che come la parola classe non ha singolare, così la parola Piano, che Lenin pronunziò, non ha plurale.

Stalin non avrebbe osato mettersi sotto i piedi fino ad un tale punto la consegna rivoluzionaria di Lenin.

117 – Liquidazione gigante

La scritta può essere apposta sotto la grande torre dell’orologio del Cremlino, che segnò il tempo con le note dell’Internazionale. Possono accorrere le carovane di mercanti da Jakutsk, da Tiflis, da Alma Ata, o da Riga o da Odessa; si svende tutto. Ritiro dagli affari.

Il cumulo di oro, il tumore monetario è scoppiato tra le mani dello Stato Capitalista più pianificato del mondo, come scoppiò tra le mani delle classi e degli Stati di tutti i modi di produzione mercantili, derivando da questa rovina economica quella dei grandi imperi politici e militari. I miliardi sui miliardi hanno ucciso quelli che con essi hanno orgiasticamente fornicato.

Questa riproduzione di una antichissima tragedia non travolge con sé (ma i gerenti della liquidazione fallimentare hanno fatto di tutto perché ciò avvenisse) il socialismo e il comunismo, che non c’entrano, e nemmeno il marxismo e il leninismo, per abuso che se ne sia fatto nei torchi per etichette false.

Essa è un nuovo passo verso un difficile lontano traguardo: la riconquista, da parte di un’avanguardia della classe lavoratrice, dell’impostazione teorica dell’antitesi tra economia capitalista e socialismo.

La decentralizzazione si annunzia per l’economia industriale. Ogni altra economia la si è decentralizzata senza dirlo, perché non era accentrata che ai fini di un malsicuro controllo statale. Da anni si è andato svincolando da ogni impegno che vincolasse la sua pratica gestione sia il colcosiano singolo sia il colcos territoriale, reso autonomo nel suo cerchio piccolo o anche grandissimo. Il piano di produzione, e la decisione sull’uso del prodotto e del profitto (che sussiste in corretto termine per l’azienda familiare colcosiana come per quella collettiva del colcos), quanto a sua destinazione al consumo ovvero a nuovo investimento, erano sottratti a decisioni concrete dei centri amministrativi dello Stato. Gli stessi poi sono divenuti sempre più larghi nello stabilire sia la quantità delle derrate da consegnare sia i prezzi di ammasso da parte dello Stato, in modo che una aliquota sempre più alta veniva lasciata all’amministrazione libera. È già un fatto compiuto che il colcos si pianifica da sé. Naturalmente è un’altra bella invenzione che questa forma duplice di gestione agraria, e la sua triplice struttura di istituti: colcos, sovcos e stazioni di motorizzazione, sia stata progettata di suo pugno da Lenin. In quanto precede abbiamo mostrato che Lenin ammise soltanto che alla forma, contenuta nel Piano Unico, dell’azienda salariale di Stato e della stazione di macchine si aggiungesse la Comune Agricola, intesa nel senso che ogni suo membro ricevesse il suo consumo come associato della Comune stessa e non anche sotto il secondo aspetto di raccolta dei frutti nel campo da lui lavorato. Questa la possiamo chiamare a piacere un’eredità della vecchia agricoltura russa degenerante nei secoli da collettivismo di villaggio a privatismo, o una scoperta tutta di Stalin. Che potrebbesi definire padre del colcosianismo integrale. Ma doveva venire dopo di lui chi su questo squallido altare avrebbe sacrificata l’industria.

118 – Il toro nella cristalleria

La sola cosa che può spiegare come sia possibile, senza fermare tutto per mesi e anni addirittura, attuare una trasformazione amministrativa così radicale, è il fatto che in sostanza è rimasto al di sopra di tutto il carattere di autonomia aziendale; che l’impresa è la cellula base della produzione, e quindi tutto il movimento si fa nel riflesso cartaceo e registrativo dei fatti reali.

Questa è una riprova che statizzando con la formula monetaria e mercantile, di prodotti che escono e materie prime che entrano e di forza lavoro che si acquista, il capitale resta la forza vitale del tutto e l’impresa la sua normale estrinsecazione; questa è la costante tra ieri, oggi e domani, tra un capitalismo organizzato dallo zar, condotto dallo Stato sovietico, e domani reso fotograficamente identico a quello occidentale; è in questo la riprova sperimentale di quanto abbiamo dedotto e calcolato fin qui partendo dalle leggi scientifiche della nostra dottrina.

Non si parla di tempi per attuare il movimento, di successione degli arroccamenti, di manovre di uffici e di personale, di pause che nel fare tanto si stabiliscono nel lavoro produttivo e nella resa in prodotti e servizi. Sotto l’esercizio, come si dice tecnicamente, si può sostituire una rotaia, e perfino alcuni deviatori, ma non si può passare da una ad un’altra diversa rete ferroviaria. Per questo, che è ancora un esempio semplice, va progettato un tempo di sospensione di tutto il servizio. E qui si tratta di ben altro.

Il mondo della produzione industriale cambia faccia come amministrazione, ossia come dirigenza della gestione corrente; come pianificazione e programmazione delle operazioni lavorative e della quantità impiegata di materie e di uomini; come origine e sbocco del mezzo finanziario per le provviste e remunerazioni.

I settori d’industria avevano una gerarchia che si chiama in linguaggio capitalista da cartelli verticali. Vi ricordiamo le lunghe esposizioni circa i programmi di Lenin dopo la rivoluzione e la sua difesa della trustificazione. Ora si dichiara di punto in bianco scandaloso che esistessero 33 di questi cartelli verticali di settori industriali sotto forma di ministeri; essi sono di colpo esautorati e soppressi al tempo stesso, e i ministeri si riducono a 8; ma di essi due soli hanno il carattere industriale diretto: quello che dirige le industrie della difesa militare e quello delle centrali elettriche. Questo fatto collima con la nostra giustificazione teorica della statizzazione rivoluzionaria voluta da Lenin, che non cessò di chiamarla capitalista in linea di scienza economica: la necessità politica che lo Stato avesse in pugno la macchina militare della guerra civile, e il testé ricordato imperativo della elettrificazione. Per il resto, disse Lenin mille volte, anche il capitalismo privato è per noi un progresso, sebbene preceda il pieno capitalismo di Stato. Ben diversa suonava per lui la parola socialismo, che era la mira di tutto il tiro, ma non una struttura presente, immediata.

Spezzati nelle altre industrie, i suoi trust verticali sono sostituiti da innumeri centrali orizzontali della produzione industriale, che controllano in un piccolo territorio le aziende di tutti i settori, e sono sovrastate dal sovnarcos o consiglio regionale dell’economia, dal quale partiranno gli ordini di esercizio a tutte le industrie del piccolo territorio, senza che il centro di Mosca ne sappia più nulla, se non a posteriori, come ufficio statistico. Questi sinedri locali dell’economia sono ben 92 (quanti gli elementi chimici fino a… Mendeleev), di cui uno per ogni piccola repubblica, 11 nell’Ucraina e 68 nella Russia.

Ogni consiglio farà nel suo distretto la pioggia e il bel tempo, e al centro non resterà che un ufficio del piano, il quale però non diramerà prescrizioni e ordini di produzione, ma timidamente coordinerà sulla carta (adesso davvero inutile) i piani fatto ormai dal basso.
«I progetti dei piani locali verranno elaborati da ogni singola impresa, poi dagli organismi locali»,
consigli dell’economia ed uffici del piano delle repubbliche federate; infine inviati pro-forma al Gosplan centrale lasciato per lustro in piedi.

I cartelli tedeschi e i trust americani (proibiti dalla legge) furono passi più audaci contro l’anarchia borghese della produzione, e Lenin li elevò a modelli.

L’unità e centralità della produzione è quindi saltata in aria. Se le ruote seguitano a girare, è perché quella che ne esisteva era una parodia da agitazione.

È facile dedurre che sarà dal lato monetario finanziario. Lo sfondato bilancio dell’Unione sarà minimizzato: come i borghesacci dicono, un «ridimensionamento». Cresceranno i bilanci delle repubbliche federate cui con analoga rivoluzione della struttura costituzionale si sono attribuite nuove vaste autonomie.

Parte della circolazione di moneta e di capitale denaro sarà chiusa nelle cerchie dei distretti economici, di autarchico sapore. È infatti detto che oltre ai criteri storici ed etnici giocheranno quelli economico-produttivi nel delimitare distretti produttivamente omogenei e abbastanza piccoli per essere tenuti d’occhio da un posto di comando locale.

Vecchio Bakunin, stai per guadagnare la partita, e le ombre di Plechanov e dell’allievo Lenin si convellono di disperazione per la sconfitta del marxismo in lingua russa!

La stessa Banca di Stato, vecchia rivendicazione ultrasecolare, può essere smontata e divisa in cento rivoletti provinciali.

L’affarismo mercantile giocherà libero tra distretto e distretto, consiglio e consiglio economico. Ma è troppo poco tutto quel che diciamo! Come nella vera sostanza mai hanno cessato di fare, e per il solo fatto di far volare via migliaia di cartacee foglie di fico, le imprese singole trafficheranno quando, dove e come vorranno tra di loro. Lo dicono le tesi di Chruščëv, che per un momento personifica il toro che si è gettato dentro il negozio di cristalleria. Se non ha la gran testa ha le grandi corna, questo signore venuto di moda:
«Verso legami contrattuali diretti tra aziende produttrici e aziende consumatrici».
La tesi spiega che questi contratti comporteranno rigorose responsabilità per il rispetto delle condizioni, scadenze, ecc. Ma se l’azienda fosse di Pantalone, chi risponderebbe, mondo ladro, se non Pantalone?[302]

Il superuomo Chruščëv è l’antesignano di questa marcia. Egli non è che all’inizio. Lo ha annunciato il 23 maggio nel lanciare agli Stati Uniti la grande sfida per la produzione alimentare.
«Il primo segretario del PCUS ha lasciato intravvedere«l’Unità» che parla, e non l’organo di un duce da appendere per i piedi], per subito dopo la riorganizzazione dell’industria, una riforma di tutti gli apparati, quelli di partito innanzi tutto, poi quelli dei sindacati e dei soviet».

Allora ci citeranno testi per provare che Lenin aveva stabilito che, un giorno, partito e sindacati e soviet sarebbero stati mandati a farsi fottere!

Ed allora, a questo capolavoro mondiale dell’emulazione, noi lanceremo al grande Chruščëv l’omaggio che gli spetta: salute, salute a voi, o Primo Presidente degli Stati Uniti di Russia!

Con le corna o con l’utero, costui ha deciso di generarli alla storia.

119 – Gaudio degli antiburocratici

Possono dunque rallegrarsi, e riallearsi al sovietismo ufficiale, i deprecatori della tirannide burocratica e i teorizzatori della nuova classe dominante da cui vorrebbero liberare il proletariato russo, caduto in questa nuova barbarie, antitetica al socialismo, che si salva scassando Stato di classe, partito, sindacati e altri impacci! Chruščëv ha prevenuto tutti questi signori, sbarazzando di una sola cornata venticinque ministeri centrali, alcune centinaia di quelli «repubblicani», tagliando, nuovo Alessandro, il nodo gordiano di milioni di collegamenti gerarchici, abolendo con un colpo solo miliardi di lettere da scrivere all’anno per disporre da Mosca un movimento tra aziende che distano tre chilometri, come si è vantato.

Questa classe dominante di nuovo genere, che dominava col sedere, era dunque tanto facile da sgominare, e tanto vile da intraprendere alcuni milioni di viaggi di trasferimento e incassare più che altrettanti licenziamenti in tronco?

Noi non riusciamo ad intenderlo e attendiamo luce da un «libero dibattito» fra gli antistalinisti di mille sfumature, ma che hanno in comune l’insofferenza degli apparati di Stato e di partito cui attribuiscono origine diabolica contaminatrice, quali che siano, e quali che siano i rapporti storici che li producono, e il nuovo grande campione dell’autonomia, del decentramento, della consultazione delle masse spontanee, che può vantare 40 milioni di discutenti, 514 mila riunioni, 68 mila discorsi, 854 mila resoconti. Noi abbiamo visto abbastanza come con questa stucchevolissima ricetta non si faccia che affondare sempre più nelle sabbie mobili del bigottismo borghese e della controrivoluzione.

Fra la burocrazia di un apparato statale capitalistico e quella che alligna sul verminaio delle micro-aziende locali, non si tratta di una scelta storica e di principio. La bancarotta, che non esigerà conflitto violento dell’una o dell’altra, sta sempre sul conto del capitalismo, e l’economia socialista uccide la burocrazia non in quanto la si prende dalla base o dal centro, ma in quanto è la prima che supera la melma della contabilità monetaria e del bilanciamento mercantile.

Da questo limbo pre-dottrinario non può salire né chi vuole impiegare il piano centrale né chi si illude sulla spontaneità della base, quando non vede con gli occhi di Marx e di Lenin che l’ostacolo è la registrazione degli scambi e la contabilità in partita doppia dell’azienda-soggetto universale; che alla scala statale e a quella molecolare parimenti è pestifera.

120 – Lo scontrino di Marx

Il male, questi recenti avvenimenti dimostrano, non è nello Stato o nel contro-Stato, nel partito o nel contro-partito. Il male è nell’avere smarrita la chiave dialettica che contrappone il modo capitalista al modo socialista.

La società socialista esce dal grembo di quella capitalista ma non risolve in un atto solo la metamorfosi. Marx distinse i due stadi, che furono chiamati inferiore e superiore. Su ciò si è troppo speculato.

Nello stadio che cronologicamente deve precedere,
«abbiamo a che fare con una società comunista quale emerge dalla società capitalistica»,
Marx dice nel commento critico al programma di Gotha. Ma già in queste obbligate condizioni inferiori il mercantilismo è finito. In una certa forma, il principio dello scambio delle merci domina in un solo rapporto: tra la forza lavoro data dal lavoratore e quello che riceve per il suo consumo. La società infatti stabilisce una equivalenza tra consumo spettante e lavoro fornito (previa la detrazione a fini sociali che Marx stabilisce per demolire la lassalliana formula deforme del «frutto indiminuito, o integrale, del lavoro»). Ma al di fuori di tale rapporto il contenuto della legge di equivalenza è già divenuto caduco.

Il testo dice:
«Contenuto e forma sono mutati, perché, in mutate condizioni, nessuno può dare niente all’infuori del suo lavoro, e perché, d’altra parte, niente può passare in proprietà del singolo all’infuori dei mezzi di consumo individuali».

Come Marx vede questo concretamente realizzato? La concessione non è trascendente. In questa prima fase inferiore (in cui come ricordate vige un diritto «borghese», ossia costituito da un limite, che poi sparirà quando la società scriverà sulla sua bandiera: Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo bisogno)
«il lavoratore riceve dalla società uno scontrino da cui risulta che ha prestato tanto lavoro (previa detrazione del suo lavoro per i fondi comuni), e con questo scontrino ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto costa il lavoro corrispondente»[303].
Ed è questa la sola equivalenza che resta ancora in gioco. Quanto dura lo scontrino? La sua grande caratteristica è questa: esso non è, come la moneta, equivalente generale; è solo consumabile, non è accumulabile, e nemmeno tesaurizzabile. Dura quanto il pane ad ammuffire o il burro a irrancidire; poniamo, per restare a questo schema simbolico, che gli si dia la validità di una settimana.

Per un anno abbiamo studiato la Russia incontrando le proclamazioni che vi è il socialismo, che resta solo da passare alla fase superiore. Siatemi testimoni che non abbiamo mai incontrato il semplice innocente scontrino del Padre Marx; il buono del retto socialismo di due o più generazioni addietro. Tutto, fuori di lui, abbiamo incontrato, e tutto ha proclamato fetore di accumulabilità e di forma capitalistica piena. Il Denaro, il Risparmio, il Deposito in banca, l’Interesse, il Titolo di credito… tutto fuorché la proprietà, sola superstite, sul consumo personale (che una volta volemmo chiamare disponibilità o disposizione). Abbiamo trovato il Campo, la Casa, anche la Villa, la Mobilia primordiale fino a quella di lusso e alle Collezioni d’Arte.

Mai lo Scontrino, e mai il Socialismo economico.

A dispetto del fatto che nella stessa società a potere borghese si è costretti ad ammettere forme senza mercato e moneta, di socialismo superiore, in circoscritti settori!

Adesso, oltre a tutto questo, abbiamo l’azienda proprietaria, responsabile contrattuale, in quanto vende al consumatore e compra dal produttore, dall’altra azienda, e se ne frega del marxista fondo sociale. Ha il fondo aziendale, lo amministra in bilancio di partita doppia, e non si dibatte che per aumentarlo. Evviva te, Bentham!

Al di sopra dei sorrisi che hanno valicato l’Atlantico sugli schermi del video, e che si invocano ricambiati da Eisenhower alla popolazione russa, una formula sacra lega i due condottieri di Stati in emulazione. Nessuna riforma intacchi l’industria pesante! Chruščëv ha bandito che questa nel nuovo schema conserva il primo posto – e il primissimo ministero centrale – zittendo ancora una volta ogni malenkovismo, e quest’altra versione castrata del socialismo che è il «consumismo».

In America i capi del mondo del business attribuiscono felici la salvezza del ritmo economico alle generose ordinazioni del governo per le forniture militari, che tengono su l’indice della produzione e del giro degli affari, minaccianti crollo.

Essi hanno imparato il marxismo di Chruščëv, e tra i suoi sorrisi «combattono le concezioni errate sull’industria pesante e leggera»; hanno imparato «la leninista linea dello sviluppo prioritario dell’industria pesante»!

Viva i due presidenti marxisti-leninisti della pace universale! E che industria pesante e guerra imperialista pensino a fare giustizia di ambo le presidenze, tra qualche altro paio di settennati!

121 – Riforma e rivoluzione

Nel presentare quest’ultima decisa rettifica della rotta verso il capitalismo non più mascherato, è stato proclamato che più che di una riforma sì tratta di una vera rivoluzione. Anzi: una riforma che vale una rivoluzione.

Mezzo secolo fa, Lenin e gli altri risposero (e, se avessero potuto, col lancio di vetriolo sui sozzi grugni dei revisionisti) che le riforme non potevano valere una rivoluzione.

Sappiamo la risposta; questa polemica l’abbiamo negli interstizi delle cellule sensorie: Quelle erano le riforme fatte legalmente e pacificamente dagli Stati della borghesia!

Con Marx e Lenin spiegammo che noi sapevamo bene che il mutamento della struttura produttiva non sarebbe stato istantaneo, ma raggiunto da una serie di modificazioni gradate; all’inizio di esse ponemmo la rivoluzione politica. E su questa scientifica visione gravita in Marx e Lenin la dottrina dell’inevitabile dittatura di classe.

Noi quindi non negheremo che lo Stato della Rivoluzione violenta politica dovrà attuare profonde riforme. Sarà con queste che distruggerà ogni vestigia della forma capitalistica. Dopo averla constatata presente.

Esso conserverà la forza armata, lo Stato, la legge, per non dover ogni volta ricombattere la battaglia armata. È l’anarchismo che non lo intende.

Quando sarà finito di uccidere il capitalismo la società non procederà per rivoluzioni, ma nemmeno per riforme, legalitariamente coattive.

L’antitesi rivoluzione-riforma è propria della storia dell’economia privata mercantile, capitalistica.

Chi invoca una riforma, con ciò ammette di vivere ancora nella preistoria mercantile della società, nel senso di Marx.

Dire di avere già costruito socialismo e prospettare grandi riforme di Stato non ha senso storico alcuno. E se non si vuole ammettere che le riforme sono imposte dal fatto che l’economia è tuttora totalmente capitalista, ciò nella lingua di Marx e di Lenin trova un’espressione sola: La forza che agisce e che maneggia il potere non ha la funzione né di rivoluzionare né di riformare il capitalismo; ma quella di difenderlo, servirlo e tentare di eternarlo.

L’orrore che bisogna riservarle è più fiero di quello che ispirarono i riformisti dell’ottocento. Essi promisero di cambiare con empiastri la faccia losca della società borghese, ma non tentarono nemmeno di raccontarci che la avessero già cambiata. Non ci invitarono a sorriderle!

La posizione a cui sono giunti, dopo così lungo dramma della storia, i dirigenti dello Stato russo, finché non sarà svergognata, è più nefasta che se essi dichiarassero al mondo: Verificato che l’economia socialista secondo Marx e Lenin è un assurdo storico, proclamiamo di avere adottato in Russia la forma economica capitalistica, cui abbiamo applicato speciali riforme.

Molto tempo non passerà. E la Rivoluzione riprenderà il suo cammino, contro le Confederazioni di Occidente e di Oriente.

Appendice alla «Struttura economica e sociale della Russia d’oggi»

Passo accelerato delle riforme economiche a ritroso fra il XX e il XXI Congresso del PCUS

Riteniamo opportuno far seguire come appendice integrativa alla «Struttura economica e sociale della Russia d’oggi» due brani di commento alle riforme economiche varate fra il XX e il XXI congresso del PCUS, in campo industriale e in campo agricolo, sulle linee di tendenza indicate e previste nel loro ulteriore sviluppo – da questo fondamentale testo di partito: autonomie regionali ed aziendali; smantellamento delle stazioni di macchine e trattori; riduzione dello stesso piano economico centrale a semplice quadro indicativo, non collegato al precedente né fisso; esaltazione delle forme più tipiche dell’economia mercantile; con tutti i riflessi politici e sociali che ne conseguono all’interno e nei rapporti internazionali. Quanto è avvenuto dopo, non è che una con/erma ed un prolungamento del trend di allora.

I due brani risalgono, rispettivamente, al rapporto alla riunione di partito del 20 e 21 settembre 1958 tenuta a Parma (in «Il Programma Comunista», n. 18–22 di quell’anno) su «La teoria della funzione primaria del partito politico, sola custodia e salvezza della energia storica del proletariato», e a quello svolto alla riunione della Spezia del 25–26 aprile 1959 (in «Il Programma Comunista», nr. 9–18 di quell’anno) su «La struttura economica e sociale della Russia e la tappa del trasformismo involutivo al XXI Congresso».

I

Le «riforme» postrivoluzionarie

[…] Nella polemica con gli anarchici Lenin, e noi sinistri con lui, e caso mai più e non meno di lui, avevamo spiegato che per espellere dalla politica della lotta di classe ogni «gradualismo» equivoco (che vale democratismo, culturismo, elettoralismo, parlamentarismo ed altri insetti) era di mestieri ammettere che nella economia del trapasso dalla struttura capitalista a quella socialista si dovevano prevedere e predisporre gradazioni nel tempo, lasciando agli anarchici l’idea assurda e disfattista che in uno stesso giorno potesse essere rovesciato il potere borghese e messa in funzione un’economia collettivista

Solo con questa dimostrazione si stabilisce la necessità inderogabile della dittatura rivoluzionaria, chiara dal tempo del «Manifesto dei Comunisti» nel sistema marxista, definita in questo stesso con le parole inequivocabili di intervento dispotico nei rapporti produttivi borghesi; e nelle «Lotte di classe in Francia» con le parole messe sulla bocca dei combattenti di Parigi, 1848: Abbattimento della borghesia! Dittatura della classe operaia!

Mentre quindi si può a buon diritto, come i marxisti radicali fecero per mezzo secolo, provare che anche economicamente e tecnicamente le riforme che hanno per attore un governo borghese non hanno mai il carattere di una fase gradata di sostituzione dei caratteri economici capitalistici con quelli socialistici, è sana teoria spiegare che negli atti del governo post-insurrezionale si attuano, in una serie gradata che può avere scale variabilissime, le misure di imperio che si possono correttamente definire leggi dello Stato e se si vuole riforme sociali (facendo grazia dell’odierno termine corbellatore di riforme di struttura) nelle quali si concreta la trasformazione del modo di produzione. Questi sono effettivi passi storici per cui dalle forme predominanti nel paese ove si è conquistato il potere si passa a quelle socialistiche, anzi più generalmente a forme più avanzate di quelle dominanti […]

Le antiriforme di oggi

Le trasformazioni russe «di struttura», che sono seguite al XX Congresso e sono presentate ed esaltate dall’odierno Comitato centrale del PCUS e dalle discorse di Chruščëv e pochi altri, si chiamerebbero meglio riforme di rinculo, leggi di Stato per passare da forme più o meno lontane dal capitalismo pieno a forme più vicine ad esso.

Le riforme chieste ai governi parlamentari dai socialisti legalitari della fine dell’ottocento erano una rispettabile illusione, e se non fossero servite da diversivo politico alla impostazione della esigenza della conquista del potere, può darsi che avessero anche un senso positivo; come in corretto marxismo (sia pure ammesso che è qui un punto dialetticamente difficile) lo furono le misure di limitazione della giornata di lavoro o dell’età di lavoro, in quanto chiarivano che la emancipazione del proletariato non era questione di contratto economico immediatista, bensì di potere e di maneggio del potere politico.

È indubbio che un’economia con giornata di otto ore è più vicina alla forma socialista di quella a giornata di dieci ore, pure restando nei confini salariali e mercantili da cui solo con il saltus politico si uscirà un giorno; ed è certo che Lenin e anche Stalin hanno promulgato di queste riforme in Russia, e alle stesse tocca il segno positivo.

Ma le riforme successive a Stalin e al 1956 sono riforme alla rovescia, di segno negativo, e svelano la tendenza al ritorno al pieno capitalismo non più dissimulabile, e sempre più «confessato».

Il vecchio riformismo socialista, malgrado il suo basilare errore di prospettiva, esce da questo confronto in parte riabilitato. La espressione di riforma, che i russi danno a quanto stanno perpetrando nella struttura economica e sociale interna dal XX Congresso, prende un sapore di tragica ironia.

Una delle trasformazioni consiste nella introduzione dell’autonomia regionale economica che ha decentrato molte funzioni prima attribuite al centro statale, sia come pianificazione generale della produzione, sia come direzione di essa, che dai ministeri di Mosca è stata passata ai Sovnarcos o consigli economici industriali regionali. Questa misura drastica e quasi improvvisa (ma evidente conseguenza di una lunga preparazione ed evoluzione anche involontaria) rendeva evidentemente assurdo il tentativo di sfuggire alle critiche jugoslave contro i pretesi pericoli dell’accentramento, e porgeva il fianco all’argomento insidioso che l’accentramento statale dell’economia aveva generato quello politico, fino al dispotismo personale, argomento che non è difficile ai vari opportunisti di truccare di marxismo.

Dalla proprietà statale alla proprietà aziendale

Nella legittima serie di Marx-Lenin è passaggio positivo quello che va dalla proprietà aziendale (privata o cooperativa non importa) alla proprietà statale, perché vale passaggio dal capitalismo privato a quello di Stato, e solo dopo questo segue storicamente e socialmente quello da capitalismo di Stato a socialismo, sia pure di grado inferiore nel senso di Marx (Gotha). A proposito del XX Congresso, provammo che carattere di tale passaggio è la fine della legge del valore, dell’economia di mercato e della moneta.

Sarà forse la immancabile confessione teorica (per quanto è dato a falsari cronici della dottrina) che materierà il prossimo XXI Congresso del PCUS, a consentirci di erigere la prova che la riforma Chruščëv – che questi sfacciatamente vanta allo stesso tempo come un passo al socialismo superiore o comunismo integrale, e come un passo alla democrazia dal basso! – è una discesa dello scalino di Lenin dal capitalismo di Stato in direzione opposta al socialismo perché dalla dimensione Stato si decade alla dimensione centrifuga regione prima, e subito dopo alla dimensione azienda.

I russi si contraddicono dicendo da un lato: «non abbiamo voluto creare qualcosa che rassomigliasse ai consigli di produzione jugoslavi perché questi si ispirano ad una concezione sindacalista che noi non condividiamo» e dall’altro ammettendo nello stesso testo (Pospelov) che «le nuove forme di direzione hanno accresciuto il ruolo della classe operaia nella direzione dal basso con un nuovo fermento di attività che caratterizza i sindacati, i quali attraverso le assemblee permanenti di produzione hanno assunto una funzione determinante nella guida dell’economia». Abbiamo qui un esempio delle due parti in commedia: ostentata sensibilità teorica, e manovra pratica bassamente rinculatrice. Un democratico, un libertario o un sindacalista possono plaudire a quelle frasi (se sono di bocca tanto buona da crederci) ma la valutazione marxista è quella della scala discesa e non salita.

Con la riforma non solo i Sovnarcos, ma le fabbriche, trattano tra loro i prezzi di vendita e di acquisto, e ovviamente fanno i piani di produzione. I 33 ministeri aboliti con grande chiasso per «creare» le 92 regioni economiche amministrative, in modo che «le imprese dipendano da queste e non dal centro» anche per i pochi ministeri unitari (Guerra, ecc., «Unità» 2 giugno 1957), hanno per conseguenza, vantata nelle tesi di Chruščëv (30 marzo 1957), che vi saranno
«legami contrattuali diretti tra aziende produttrici ed aziende consumatrici».

La frase è gettata lì come fosse una cosa innocente. Ma la giustificazione che ne segue vale un completo trattato dal titolo «Superiorità dell’economia di mercato sull’economia socialista». La frase è questa:
«quale forma più opportuna e vantaggiosa economicamente di approvvigionamento dei materiali e di smercio della produzione».

Dopo questi capolavori di dottrina del «marxismo-leninismo» nessun stupore circa l’apologia, che si desume da questo e altri testi anche per l’agricoltura, dei prezzi «economici», che finalmente sono stati «scoperti» ed applicati, abbandonando la pianificazione centrale dei prezzi (che non è il socialismo, rappresentato dalla abolizione dei prezzi, ma era un passo in quella direzione).

Stalin si arrabattò nei «Problemi», dopo avere richiamata in vigore la legge del valore per tutti gli scambi di oggetti di consumo (derrate agrarie e manufatti industriali finiti) a condannare chi chiamava merci anche i prodotti dell’industria statale aventi carattere di beni strumentali, ossia di materie semilavorate e macchine. Nella danza dei sette veli, anche questo oggi cade ai piedi di Salomé-Nikita! Da azienda ad azienda e da provincia a provincia, anche i beni che non hanno carattere di consumo diretto saranno contrattati e pagati. Nel capitalismo di Stato tutta l’industria ha un bilancio unico (sebbene già Stalin avesse fatto larghe concessioni al principio di «redditività» delle singole fabbriche) e non ha importanza se una macchina o una scorta di semilavorati passa da una azienda all’altra senza contropartita in denaro. Oggi, dopo lo scalino disceso, tutti i generi, non solo quelli del consumo personale e familiare diretto, circolano con un contratto di scambio e contro moneta; e il cadavere di Stalin ha di che arrossire.

L’antiriforma agraria

[…] Nel campo agrario la riforma rinculante principe è stata la liquidazione delle stazioni statali di macchine e trattori, con la vendita di questo capitale di Stato ai privati colcos che lo hanno pagato in denaro, senza poter nascondere un enorme vantaggio con questo arrecato ai grandi colcos rispetto ai minori.

I discorsi e rapporti di Chruščëv su questo tema sono una miniera di prove della accentuazione decisa delle forme borghesi. Stalin nei «Problemi», se aveva scartata l’idea di espropriare i colcos, ossia passare dalla proprietà cooperativa a quella statale delle imprese agricole, aveva però condannata l’abolizione delle SMT proprio provando che significava rendere (da statale) privata appunto la parte maggiore e più concentrata del capitale di intrapresa agraria. Ciò avrebbe significato, come oggi significa, togliere un vasto settore alla proprietà dello Stato, chiamata proprietà di tutto il popolo (?!), passandolo a proprietà di dati gruppi rurali. Oggi questi hanno ricevuto ben altre agevolazioni, come la soppressione dell’obbligo di conferire derrate agli ammassi di Stato a prezzi di imperio, consegna abolita per i colcosiani singoli e sostituita per i colcos da «liberi contratti a prezzi economici». Dai testi di Chruščëv (non è al solito il nome che importi, ma l’indirizzo, di cui è meno facile che due anni fa trovare un collegio di antesignani!) si possono trarre infinite citazioni che mostrano come questa misura o riforma sia supremamente antisocialista.

Come teorico Chruščëv vale quanto Stalin. La situazione prima della riforma di vendita delle SMT viene criticata per il fatto che sulla terra vi erano due padroni (!) ossia il colcos che disponeva della forza lavoro dei suoi soci e del capitale derrate e bestiame, e la SMT che disponeva del capitale macchine. Si tace che vi era un terzo padrone, lo Stato che si proclamava proprietario della terra, data al colcos in perpetuo usufrutto […].

Quale il vantaggio di avere mandato via uno dei due padroni del capitale di impresa agraria? Ve ne sarebbe stato uno se si fosse mandato via il padrone privato rispetto a quello delle macchine, che era «tutto il popolo». Facendo il contrario si è favorita l’accumulazione non statale del capitale e si è obbedito allo squisito principio borghese di un solo padrone, reazionario forse per la stessa forma capitalista: il principio «pas de terre sans seigneur», opposto a quello mercantile: «L’argent n’a pas de maitre» (Non vi è terra senza padrone – Il denaro non ha padrone).

Tutto questo movimento riformatore sposta a danno della classe salariata industriale (e del sovcos) tutto il rapporto sociale. Il consumatore russo paga a prezzi favolosi frutta e ortaggi, perché ai signori colcos costano molto. Il rimedio kruscioviano è lasciare che nei colcos si produca solo per consumo diretto, vera economia patriarcale, e far produrre ortaggi e frutta per le città solo ai sovcos, finché queste aziende schiaviste quanto le fabbriche saranno tenute in piedi.

Degna conclusione

Qual meraviglia fanno dunque gli inviti ai capitalisti dell’estero per venire a fare buoni affari, non con lo Stato, ma con le contrattanti autonome aziende locali? Limitiamoci ad alcuni gioielli dell’arte del sedurre.

«Se uno scienziato o un ingegnere non condivide le vedute e le convinzioni politiche comuniste, conservi pure le sue opinioni, e venga da noi come specialista chimico, come scienziato. Se egli vuole effettivamente ottenere risultati migliori nel suo lavoro, gli offriamo la piena possibilità di farlo: lo pagheremo meglio di come lo pagano le ditte ed i cartelli più ricchi».
«Se qualcuno ha ancora nel cervello certi bacilli che impediscono di assumere fermamente la posizione del riconoscimento della necessità di trasformare la società secondo i principii del comunismo, si tenga pure per qualche tempo la sua mallatìa. Noi lo pagheremo bene, gli daremo una buona retribuzione, la villa in campagna, ecc.» (discorso 8 luglio 1958 al Congresso elettro-chimico di Bitterfeld, Germania est).

«A molti di loro non interessano le idee politiche, sono attirati più dal business, come dicono gli americani. Paghiamoli bene, dunque; più di quanto li pagano gli americani, più di quanto li pagano a Bonn…». «Dopo di aver lavorato con noi si convinceranno realmente che il socialismo è il regime sociale più progressivo e il comunismo è il luminoso avvenire sognato dall’umanità» (!).
(Chi credesse a un nostro scherzo confronti il vol. n. 7 del 26 agosto 1958 dell’ufficio stampa dell’Ambasciata dell’URSS in Italia).
«In questi ultimi tempi il nostro governo ha avuto dai paesi occidentali molte proposte di grandi ditte che vorrebbero fornire attrezzature, ecc. Noi stiamo ora studiando queste proposte, per concludere buoni affari».

Ed ora questo soltanto:
«Bisogna necessariamente garantire all’imprenditore capitalista una adeguata percentuale di guadagno».

Babbo Carlo si divertiva a citare Dante. Qui, prima di andare avanti, va messo:

«E questo fia suggel ch'ogni uomo sganni».

II

Politica economica russa

[…] Mentre quell’incendio internazionale[304] era spento in un lago di sangue, senza che si vedesse giustiziare nessun agente di occidente, e sola sua conseguenza era di aumentare nelle file proletarie lo smarrimento che ha la forma di nostalgia idiota verso le forme e i procedimenti democratici (questo smarrimento rende più aspra la via per il ritorno al partito rivoluzionario, ed è vile compenso che sgretoli un poco i partiti affiliati a Mosca, che pagano il prezzo di aver seminato e coltivato a piene mani quelle idiozie democratiche parlamentari e tollerantesche), cose di altro campo ma parimenti gravissime accadevano in Russia.

Veniva smontata – senza che questo fosse fatto prevedere dai milioni di parole del congresso – tutta la macchina centrale della gestione economica di Stato; che non è il socialismo, ma può in date condizioni di sviluppo storico essere una strada verso di esso. Ai centri statali che si assommavano nei ministeri della Unione e negli organi del piano economico unitario per tutte le repubbliche, si sostituiva in modo non chiaro e brutalmente improvviso (che si spiega solo se di qualche cosa sia avvenuto un crollo improvviso) una rete di nuovi ganglii locali, che venivano gradatamente annunciati. Le repubbliche nazionali (era un primo passo) ma diverse, e sopra tutte la RSFSR, sono troppo vaste, ed allora si giunse all’elemento regionale, e si considerò come organo economico massimo il Sovnarcos, consiglio della economia regionale, a cui fu demandata la pianificazione nel territorio e la gestione di tutte le aziende che prima erano dello Stato, o con la comoda dizione antimarxista «proprietà di tutto il popolo». Popolo significa insieme interclassista, e vada, ma insomma popolo dell’URSS, della RSFSR, della regione, di un gruppo di governatorati o di province? Fu presto chiaro che questa tra le «riforme di struttura» che ci fecero parlare di un riformismo alla rovescia (rinculatore, gambero, arretratore rispetto a quello famoso del 1900 che sognava di andare avanti adagio) nella sua corsa al decentramento e verso la formula periferica e centrifuga, non si arrestava prima della unità azienda, in pratica e teoria identica alla azienda borghese di tutti i paesi. Le aziende, disse il capintesta Chruščëv, faranno i loro piani trattando tra loro (anche al di sopra dei confini di Sovnarcos) i loro affari di acquisto e di vendita. Facendolo a prezzi liberi di contratto lo faranno nel modo più economico. Il modo più economico è quello di maggior vantaggio per la collettività sociale e nazionale. Si è mai parlato un linguaggio più borghese di questo?

Mentre così veniva riformato il settore industriale, cose non meno sensazionali avvenivano per l’agricoltura. L’eresia trionfante uccise uno dei membri della sacra Trinità, che coi colcos e i sovcos formavano sotto Stalin le stazioni statali di macchine e trattori. Un vero (direbbe Marx) peccato contro lo Spirito Santo, per il quale il prete non ammette perdono. Si fece di peggio che gettare un idolo giù dall’altare. Le macchine furono svendute ai colcos, il che in parole comuni significa che «tutto il popolo» le vendette a certi «gruppi del popolo». Fu un fatto economico, è chiaro, perché mercantile. Chi fece l’affare?

Una vecchia regola della economia di mercato sta a provarci che in questo caso i meno fregano sempre i più. Ma non solo in questo i colcos e quindi i contadini in essi associati ebbero vantaggi, a parte dilazioni ampie nel pagare le macchine a… Pantalone in rubaschka. Vi fu la liberazione da ogni consegna di derrate in quantità fissate dai piani e a prezzi di stato. Da quel tempo in poi lo Stato approvvigiona le città solo in base a liberi contratti mercanteggiati con le cooperative rurali. Mentre il colcos si svincola così sempre più dallo stato centrale, il contadino colcosiano si svincola dal suo colcos, se pure questo lo paga meglio per le sue ore di lavoro sui campi e con le macchine comuni, e recenti notizie lo hanno dimostrato lucidamente circa il diritto del contadino e della sua azienda familiare di comprare o vendere bestiame senza permesso del colcos.

Se il colcos era ieri una cooperativa privata di usufruttuari della terra nazionale, oggi che ai suoi fondi pecuniari indivisibili ha aggiunto il macchinario (capitale scorta morta, strumento di produzione), esso diviene sempre più una società privata capitalistica sul cui capitale lo Stato non ha diritti, né ha controlli maggiori che negli stati borghesi.

Il nuovo volto del piano

Dopo queste innovazioni che tutte procedono nel senso che volgono le terga al capitalismo di stato e procedono verso il capitalismo privato (con che si vuol dire che il capitalismo di stato non è socialismo, è certo; ma è anche certo che con queste riforme le terga sono volte al socialismo) il XX congresso doveva condurre la sua battaglia nella prova che l’economia russa batte in velocità quella occidentale e soprattutto americana. Ma non doveva dire che questo era ottenuto, in quanto ancora ottenibile, non più grazie ad una pretesa differenza nel metodo di gestione (essa si riduceva al misero principio della statizzazione industriale) ma grazie al salvataggio ottenuto con l’adozione di una serie di misure imitative della gestione a stile occidentale.

Non è solo il riformismo che tenta di andare non dal capitalismo al socialismo, bensì in direzione contraria, ma si tratta addirittura della famosa emulazione. Essa è gloriosamente in piedi da un congresso all’altro; nel XX era l’America che doveva emulare la Russia – nel XXI è la Russia che si lancia ad emulare la borghese America.

Nel XX congresso a fianco delle vanterie sull’aumento della produzione (Chruščëv) vi era un nuovo piano (Bulganin). Oggi il piano centrale statale è morto, non vi è più piano quinquennale, non vi è più continuità tra il piano chiuso e quello che s’apre. Quello che dobbiamo studiare è un surrogato di piano. Non è più un programma di gestione ma una qualunque previsione statistica, una misera inchiesta tra esperti, all’americana, emulativamente.

Non è più quinquennale, come nei tempi d’oro, ma settennale. Avrà Nikita Chruščëv visto in sogno le sette vacche magre?

Non è più continuo con la fine del vecchio piano, ma lascia un vuoto di tre anni, dal 1955 al 1958 (o più esattamente per gli anni 1956, 1957, 1958). Un triennio in cui l’industria ha sonnecchiato, mentre l’agricoltura è addirittura caduta sotto un incubo.

Una sola pianificazione continua imperterrita: quella della menzogna. Che tra concorrenti si mentisca è buona norma, e non ci importa affatto che si spaccino menzogne al mondo o alla opinione mondiale, bassamente borghese.

Ma la menzogna è diretta anche al proletariato. Se quindi il piano non è più piano, non è più quinquennale, non è più consecutivo, ciò non ci distoglie dal compito di dimostrare quanto esso è bugiardo[305].

Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. I resoconti di queste riunioni, apparsi nell’opuscolo «Sul filo del tempo» nel maggio 1953, si leggono ora nel volume «Per l’organica sistemazione dei principi comunisti», Edizione «Il Programma Comunista», Milano 1973. pagg. 11–27. [⤒]

  2. B. D. Wolfe, «I tre artefici della rivoluzione d’ottobre», Firenze, 1953, pag. 836. [⤒]

  3. L. Trotsky, «La mia vita», Milano, 1961, pagg. 200–202. [⤒]

  4. Lenin, «I compiti della socialdemocrazia rivoluzionaria nella guerra europea», in «Opere», XXI, pag. 12. [⤒]

  5. Cfr. anche, di Lenin, «La guerra e la socialdemocrazia russa» e «La situazione e i compiti dell’Internazionale socialista» («Sotsial – Demokrat», nr. 33 del 1° nov. 1914), in «Opere», XXI, pagg. 19–32. Per la Sinistra in Italia, cfr. la documentazione contenuta nella nostra «Storia della sinistra comunista. 1912–1919», cit. [⤒]

  6. «Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell’U.R.S.S. – Breve Corso», Mosca 1945, pag. 145. [⤒]

  7. «Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa», in «Opere», XXI, p. 313. [⤒]

  8. «Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa», in «Opere», XXI, pag. 314. [⤒]

  9. «Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell’U.R.S.S. – Breve Corso», Mosca 1945, pag. 145. [⤒]

  10. Cfr. «Sulla parola d’ordine del 'disarmo’», in «Opere», XXIII, pagg. 92–102. [⤒]

  11. «Il programma militare», ecc. cit., in «Opere», XXIII, pag. 77. [⤒]

  12. Cfr. fra l’altro i «Fili del tempo» apparsi nei nr. 10–14/1950 e 4–6/1951 di «Battaglia comunista», allora nostro organo quindicinale. [⤒]

  13. Sempre in «Il programma militare», ecc. cit., in «Opere», XXIII, pag. 83. [⤒]

  14. Sempre in «Il programma militare», ecc. cit., in «Opere», XXIII, pag. 81. [⤒]

  15. Nel testo originale è stato scritto in tedesco sbagliato: «zur Paris! zur Paris!» [sinistra.net, giugno 2000] [⤒]

  16. Sempre in «Il programma militare», ecc. cit., in «Opere», XXIII, pag. 78. [⤒]

  17. «Avanti!» del 21-XII-1915, riprodotto nella nostra «Storia della Sinistra Comunista, 1912–1919», cit., pagg. 259–261. [⤒]

  18. I brani citati qui si leggono in K. MarxF. Engels, «Manifesto del Partito Comunista», Ed. Riuniti, Roma 1971, pagg. 49–50, 70, 84, 87–88, 88, 113. [⤒]

  19. B. Wolfe, op. cit., p. 832. Qui si è tradotto dall’originale. [⤒]

  20. Cfr.: «Il socialismo di ieri dinanzi alla guerra di oggi», ne «L’avanguardia» del 25/10/1914, in «Storia della Sinistra comunista. 1912–1919», cit., pagg. 236–237. [⤒]

  21. L. Trotsky, «Stalin», Milano, 1947, pag. 270. I brani successivi, alle pagg. 273, 274, 274–275. Cfr. la «Storia della rivoluzione russa». Milano 1969, I, pagg. 313–341. [⤒]

  22. Il resoconto della seduta 22 febbr. 1926 della delegazione italiana con Stalin si legge ora negli «Annali Feltrinelli», 1966, pagg. 263–270: l’episodio del da di Stalin a Bordiga, che il resoconto non contiene (et pour cause), è confermato nella premessa dal curatore della suddetta pubblicazione, G. Berti, non certo sospetto di irriverenza a Stalin. [⤒]

  23. Lo si legge in Stalin, «Opere», VIII, pag. 147 (Discorso alla commissione tedesca). [⤒]

  24. Lenin, «Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale», in «Opere», XXIV, pagg. 11–15. Qui e nel seguito (par. 36–45) se ne dà una parafrasi. [⤒]

  25. Basti citare il suo vigoroso discorso al XV Congresso del Partito nel dicembre 1925, in tutto degno di figurare accanto a quelli di Zinoviev e Kamenev come grido d’allarme per il corso preso sotto la direzione staliniana. riprodotto solo parzialmente in «La Russie vers le socialisme. (La discussion dans le Parti Communiste de l’U.R.S.S.)», Parigi 1926, pag. 181–194. [⤒]

  26. Esse avevano occupato i numeri dal 21/1953 al 12/1954 de «Il programma comunista», ma si vedano in particolare: «Prospetto introduttivo alla questione agraria» di quel primo numero, «Stregoneria della rendita fondiaria» nel nr. 22/ 1953, «Miseranda schiavitù della schiappa» del nr. 11/1954, e «Codificato così il marxismo agrario», del nr. 12/1954. Il tema venne poi ripreso in numerose riunioni generali e in testi singoli. [⤒]

  27. Il primo numero indica sempre la data secondo il calendario zarista, il secondo quella secondo il calendario gregoriano. [⤒]

  28. L. Trotsky, «Stalin», cit., pag. 271. [⤒]

  29. L. Trotsky, «Le nostre divergenze», in appendice al 1905. [⤒]

  30. L. Trotsky, op cit., pagg. 277 c 278. [⤒]

  31. Passato lo… scandalo, il post-stalinismo si è deciso a pubblicare quello che nel 1954 era tabù. I rapporti e i discorsi alla VII Conferenza Panrussa del POSDR (b) si leggono ora in Lenin. «Opere», XXIV. pagg. 227–323. Si veda inoltre il vasto materiale sulla precedente Conferenza cittadina pietrogradese, del 14–22 aprile (27 aprile – 5 maggio), ivi pagg. 135–161. I resoconti dell’una e dell’altra non solo confermano quanto allora qui dedotto da testi monchi e divulgativi, ma lo rafforzava, come il lettore può agevolmente constatare. [⤒]

  32. Nel testo delle «Opere» pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1966: «non per instaurare una normale repubblica o per passare direttamente al socialismo» («Opere», XXIV, pag. 241), e subito dopo:
    «Questo è impossibile. Che cosa devono fare allora? Devono prendere il potere per compiere i primi e decisivi passi verso questo passaggi». (Dal «Rapporto sul momento attuale»). [⤒]

  33. Lenin, «Opere», XXIV pagg. 241–142. [⤒]

  34. Lenin, «Opere», XXIV, pagg. 298–299 («Rapporto sullo questione agraria»). Non a caso Marx aveva scritto:
    «Il borghese radicale. che segretamente vagheggia la soppressione di tutte le altre imposte, arriva teoricamente alla negazione della proprietà fondiaria privata, di cui egli vorrebbe fare, sotto la forma di proprietà statale, la proprietà comune della classe borghese. Nella prassi tuttavia manca il coraggio, poiché l’assalto ad una forma di proprietà – a una delle forme di proprietà privata sulle condizioni di lavoro – sarebbe pericoloso per le oltre». (K. Marx, «Storia delle teorie economiche», Torino, 1955, II, pag. 192). [⤒]

  35. Con lievi varianti di pura forma, Lenin, «Opere», XXIV, pagg. 240–241 («Rapporto sul momento attuale»). [⤒]

  36. Con lievi varianti di pura forma, Lenin, «Opere», XXIV, pag. 318 («Discorso a sostegno della risoluzione sul momento attuale») [⤒]

  37. Idem, Lenin, «Opere», XXIV, pag. 320–321 («Risoluzione sul momento attuale»). [⤒]

  38. Lenin, «Opere», XXIV, pagg. 242–243, 316, 241, cioè rispettivamente nel «Rapporto sul compito attuate», e nel «Discorso a sostegno della risoluzione sul momento attuale». [⤒]

  39. Con lievi varianti, Lenin, «Opere», XXIV, pag. 317 («Discorso a sostegno», ecc.) [⤒]

  40. Ancora nel «Rapporto sul momento attuale», Lenin, «Opere», XXIV, pagg. 236–237. Vedi anche il «Discorso di chiusura» sullo stesso rapporto, ivi. pagg. 245–247. [⤒]

  41. «Risoluzione sull’unificazione degli internazionalisti contro il blocco difesistico piccolo-borghese», Lenin, «Opere», XXIV, pag. 302. [⤒]

  42. Si vedano in particolare, su questi ultimi punti, il «Discorso» di Lenin a sostegno della risoluzione sulla guerra, e la «Risoluzione sulla guerra», Lenin, «Opere», XXIV, pagg. 262–275, e 276–279, tutti alla VII conferenza del partito. [⤒]

  43. «La risoluzione sulla questione nazionale» si legge ora nel cit. volume XXIV delle «Opere», pagg. 311–312; l’opuscolo «I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione» del 10 aprile 1917, ivi, pagg. 51–80 (per la questione nazionale, pagg. 65–66). [⤒]

  44. Lenin, «Opere», volume XXIV, pagg. 307–308 («Discorso sulla questione nazionale»). [⤒]

  45. Cfr. per tutta questa intermezzo «italiano» la nostra «Storia della Sinistra Comunista», 1912–1919, cit., in particolare i paragrafi 9–12. [⤒]

  46. «Storia del P.C. (b) dell’URSS». cit., pag. 206. [⤒]

  47. Ora, come già detto, la risoluzione figura redatta da Lenin nel vol. XXIV delle «Opere». [⤒]

  48. «I compiti del proletariato», ecc., in «Opere», XXIV, pag. 65. [⤒]

  49. «I compiti del proletariato», ecc., in «Opere», XXIV, pagg. 65–66. [⤒]

  50. Per le tesi del 1920 e il dibattito intorno ad esse, si veda la già citata «Storia della Sinistra Comunista», 1919–1920, pagg. 629–642 e 714–720, con rinvio anche ad altri testi. [⤒]

  51. «Risoluzione sulla questione nazionale», in Opere, XXIV, pag. 311. [⤒]

  52. Il capitoletto «Stalin e la linguistica» e i successivi punti 12–14, come i precedenti capitoletti su «Preistoria e linguaggio», «Lavoro sociale e parola» e , compresi nei suddetto Rapporto, si leggono nel nr. 17/1953 de «Il programma comunista». [⤒]

  53. Lenin, «Risoluzione sulla questione nazionale», pubblicata ai primi di maggio 1917, in «Opere», XXIV, pag. 312. [⤒]

  54. Lenin, «Risoluzione sulla questione nazionale», pubblicata ai primi di maggio 1917, in «Opere», XXIV, pag. 312. [⤒]

  55. Riunione del 6–7 dic. 1953 su «Imperialismo e lotte coloniali» (nr. 23/1953 de «Il programma comunista»). Una successiva riunione a Firenze, il 25–26 genn. 1958, trattò poi ampiamente il tema: «Le lotte di classi e di stati nel mondo dei popoli non bianchi, storico campo vitale per la critica rivoluzionaria marxista» (resoconto ne «Il programma comunista», nr. 6 del 1958). [⤒]

  56. Cfr. «Storia della sinistra comunista, 1919–1920», cit., pagg. 629–642. [⤒]

  57. Per quanto sopra, cfr. la già citata «Storia della sinistra comunista, 1912–1919», pagg. 51 e segg. [⤒]

  58. Successivamente, si è potuto utilizzare, circa la conferenza di Aprile, altro testo pubblicato nel 1928 in tedesco dal «Lenin Institut», e così rettificare o completare i brani di Lenin a proposito di Pjatakov, ed altri punti, convergendo ancor meglio nella valutazione data alla posizione di Lenin. Resta il dubbio che ponemmo in ordine alla persona del relatore: fu Lenin o Stalin? Ora dal detto testo risulta che il relatore designato era Stalin (co-relatore Pjatakov), ma si conferma che la risoluzione fu opera del solo Lenin, come da noi ampiamente riferito, e come dalla inserzione di essa nelle «Opere» di lui. Dall’altro canto il risolutivo discorso di Lenin, sebbene non si abbia completo, mentre conduce direttamente ai concetti della risoluzione da noi largamente riportata, non fa cenno alcuno della relazione di Stalin o di un suo discorso, tanto meno della vantata collaborazione.
    Sappiamo che la conferenza era iniziata già in marzo, e che al suo arrivo Lenin ne sconvolse i piani. Stalin era programmato relatore, e, pare, tenne un discorso: se propose una risoluzione, questa fu poi messa da banda e sostituita con quella nota di Lenin, adottata ad unanimità in aprile.
    È strano che quello stesso testo «popolare» stalinista che ci disse come Lenin sia stato relatore «della questione agraria e di quella nazionale» (in realtà sulla situazione politica e sulla questione agraria), rabberci poi questa scabrosa svolta con queste parole:
    «L’attitudine del partito bolscevico nei riguardi della libertà nazionale è stata espressa con sufficiente chiarezza nella deliberazione votata alla conferenza di Aprile sul rapporto di Stalin, come pure [?] in una serie di articoli di Lenin e di altri bolscevichi».
    Il meschino sforzo di trasferire all’individuo storico Stalin il merito della rimessa in rotta operata da Lenin al suo arrivo, su tutto il fronte, contro l’indirizzo fino allora tenuto dalla destra del partito ad opera principalmente di Stalin, è confermato dalle parole di Trotsky nel suo Stalin, cui nulla toglie il solito argomento che allora Trotsky non faceva parte del partito bolscevico, a proposito delle tesi sostenute dal futuro «padre dei popoli» nella conferenza svoltasi poco prima del ritorno di Lenin in Russia a favore di un appoggio sia pur condizionato al Governo provvisorio e di una fusione coi menscevichi:
    «Per questa ragione la conferenza di marzo, nella quale Stalin fece una così chiara figura di intrigante, viene espurgata oggi dalla storia del Partito, e i suoi documenti ne sono conservati sotto chiave. Nel 1923 tre copie dei verbali della conferenza furono segretamente preparate per i membri del triumvirato Stalin, Zinoviev, Kamenev. Solo nel 1926, quando Zinoviev e Kamenev si unirono all’opposizione contro Stalin, io riuscii a farmi consegnare da essi l’importante documento, e potei pubblicarlo all’estero in russo e in inglese». (L. Trotsky, «Stalin», cit., pag. 268).
    Brani della relazione di Stalin alla suddetta conferenza del 29–30 marzo, tratti dal verbale inedito, si leggono in L. Trotsky, «Storia della rivoluzione russa», cit., I, pagg. 329–333. [La presente nota risale alla pubblicazione del testo ne «Il Programma Comunista». Fonti successive hanno confermato l’intervento di Stalin come relatore, su posizioni reciprocamente contrastanti, nelle conferenze di marzo e di aprile, cioè prima e dopo il ritorno di Lenin. Il rapporto Stalin alla VII conferenza si legge ora nel vol. III delle «Opere complete», Roma 1951, pagg. 63–72, insieme al discorso di chiusura, senza però quelli del marzo!]. [⤒]

  59. «L’Ucraina», 15/28 giugno 1917, in «Opere», XXV, pagg. 83–84. [⤒]

  60. «Finlandia e Russia», 2/15 maggio 1917, in «Opere», XXIV, pagg. 348–349. [⤒]

  61. All’impazienza di Marx per il ritardo nella presa di Sebastopoli, come all’entusiasmo di Lenin per la caduta di Port Arthur ad opera dei giapponesi nel 1905, in contrasto con il… lutto nazionale per le due sconfitte decretato da Stalin e successori in questo dopoguerra, è dedicato il paragr. 15 della I Parte di «Russia e rivoluzione nella teoria marxista», cit. [⤒]

  62. Per la posizione di Lenin di fronte a queste due ali del partito, cfr. in particolare il «Discorso di chiusura sulla questione del momento attuale», 25 aprile / 8 maggio 1917, in «Opere», XXIV, pagg. 245–247. [⤒]

  63. «Risoluzione del CC del POSDR del 22 aprile /5 maggio 1917», in Lenin, «Opere», XXIV, pagg. 209–210. La traduzione italiana è qui leggermente diversa dal testo surriprodotto, e anziché di «braccianti» vi si parla di «manovali», termine tuttavia ancora vago e di dubbia interpretazione. [⤒]

  64. In Lenin, «Opere», XXIV, pagg. 522–524. [⤒]

  65. Lenin, «Discorso sull’atteggiamento verso il governo provvisorio», 4/17 giugno, in «Opere», XXV, pag. 14. L’episodio di cui sopra è confermato, in base ai verbali poi editi, da E. H. Carr ne «La rivoluzione bolscevica, 1917–1923», Torino 1964, pag. 91. [⤒]

  66. Lenin, «Discorso sull’atteggiamento verso il governo provvisorio», 4/17 giugno, in «Opere», XXV, p. 17. [⤒]

  67. Si vedano, nella nostra «Storia della Sinistra comunista 1919–1920», cit., le pagg. 112–115, 140–143, 167–168, 225–258 e gli scritti apparsi su questo tema nell’organo della Frazione comunista astensionista, «Il Soviet», fra il settembre 1919 e l’aprile 1920. ivi riprodotti a pagg. 183–184 [«Tesi sulla costituzione dei Consigli Operai proposte dal CC della Frazione Comunista Astensionista del PSI»] e 274–294 [«Il sistema di rappresentanza comunista », «Formiamo i Soviet?», «Per la costituzione dei Consigli Operai in Italia»]. [⤒]

  68. Lenin, «Stato e rivoluzione», in «Opere», XXV, pag. 393. [⤒]

  69. «Discorso sull’atteggiamento verso il Governo provvisorio», 4/17 giugno, in «Opere», XXV, pag. 14. [⤒]

  70. Cfr. il «Discorso sulla guerra» tenuto da Lenin nella stessa sede il 9/22 giugno, in «Opere», XXV, pagg. 22–34. [⤒]

  71. Lenin, «Progetto di risoluzione sulla questione agraria», in «Opere», XXIV. pag. 495–496, cui fa seguito un grande discorso sullo stesso tema, al quale rinviamo il lettore (ivi, pagg. 497–515). [⤒]

  72. Sulle giornate di luglio, si veda l’ampio e fremente racconto di Trotsky nella «Storia della rivoluzione russa», cit., vol. II, pagg. 541–626. [⤒]

  73. L. Trotsky, «Stalin», cit., pag. 296. [⤒]

  74. Nell’articolo del 10/23 luglio su «La situazione politica» (pubblicato il 20) Lenin scrive che la parola di tutto il potere ai Soviet va ora sostituita con quella della concentrazione delle forze in vista dell’insurrezione armata, il cui scopo
    «può solo essere il passaggio del potere al proletariato, appoggiato dai contadini poveri, per l’attuazione del programma del nostro partito». («Opere», XXV, pagg. 167–169). [⤒]

  75. L. Trotsky, «Stalin», cit., pagg. 299–300. [⤒]

  76. L. Trotsky, «Stalin», cit., pagg. 295–296. [⤒]

  77. Rispettivamente, in: Lenin, «Opere», XXV, pagg. 174–181 e 217–230. [⤒]

  78. «Sulle parole d’ordine», in: Lenin, «Opere», XXV, pag. 178. [⤒]

  79. «Sulle parole d’ordine», in: Lenin, «Opere», XXV, pag. 180. [⤒]

  80. «Sulle parole d’ordine», in: Lenin, «Opere», XXV, pag. 176–177. [⤒]

  81. «Gli insegnamenti della rivoluzione», nel cit. volume XXV delle «Opere», pag. 230. [⤒]

  82. In effetti, Stalin disse:
    «Sarebbe una indegna pedanteria esigere che la Russia, per fare delle trasformazioni socialiste [qui l’aggancio con alcune idee di Trotsky], ‹aspetti› che ‹cominci› l’Europa».
    Ma i suoi interventi hanno già un sapore di «via russa al socialismo», in nome, non a caso, di un «marxismo creativo»! (Cfr. Stalin, «Opere complete», III, Roma 1954, pagg. 209 e 233). [⤒]

  83. Cfr. il testo completo in «O preparazione rivoluzionaria o preparazione elettorale», Ediz. «Il Programma Comunista», Milano, pag. 39. Si veda inoltre la già citata «Storia dello Sinistra comunista 1919–1920», pagg. 614–623 e 702–707; e, per la «costituzione dei Soviet» in particolare, ivi, pagg. 183–186. [⤒]

  84. Lenin, «Discorso sul parlamentarismo», 2 agosto 1920, in «Opere», XXXI, pag. 240. [⤒]

  85. L. Trotsky, «Stalin», cit., p. 311. [⤒]

  86. L. Trotsky, «Stalin», cit., pag. 311–312. Lenin d’altronde aveva scritto al Comitato Centrale bolscevico, il 30 agosto/12 settembre:
    «In che cosa consiste il mutamento della nostra tattica, dopo il sollevamento di Kornilov? Consiste nel modificare la forma della nostra lotta contro Kerenski. Senza minimamente attenuare la nostra ostilità verso di lui, senza ritrarre neanche una parola di quanto abbiamo detto contro di lui, senza rinunciare al compito di abbatterlo, diciamo… non ci metteremo ad abbatterlo oggi, lo combatteremo in un altro modo, mostrando chiaramente al popolo (che lotta contro Kornilov) la debolezza e le esitazioni di Kerenski. Lo facevamo anche prima. Ma oggi questo è diventato l’essenziale: in questo [sic!] consiste il mutamento» («Al C.C. del POSDR», in «Opere», XXV, pag. 274). [⤒]

  87. La «Relazione del CC del PCd’I sull’opera del PC fra il III e il IV Congresso dell’Internazionale comunista» si legge, riprodotta quasi due anni dopo, ne «Lo Stato Operaio», anno II, nr. 6 del 6 marzo 1924 (cfr. in specie il paragrafo finale su «Le conseguenze dello sciopero»). [⤒]

  88. Il testo di Lenin, col titolo «Dal diario di un pubblicista» si legge in «Opere», XXVI, pagg. 41–47. [⤒]

  89. Cfr. ora «I bolscevichi e la rivoluzione d’ottobre – Verbali delle sedute del C.C. del P.O.S.D.R. (b) dall’agosto 1917 al febbraio 1918», Roma, Editori Riuniti, 1962. [⤒]

  90. «Il marxismo e l’insurrezione», in «Opere», XXVI, pagg. 12–17. Ma cfr. anche la lettera precedente, del 12–14/25–27 settembre, «I bolscevichi devono prendere il potere», che la anticipa, pagg. 9–11, e l’articolo «La crisi è matura», di poco successivo, pag. 63–71. [⤒]

  91. «Consigli di un assente», in «Opere», XXVI, pag. 166–167. L’1 ottobre aveva scritto:
    «Temporeggiare è un delitto… Attendere è un crimine verso la rivoluzione» (ivi, pagg. 125–126). [⤒]

  92. «Lettera ai membri del Partito bolscevico», 18-(31) ottobre 1917, in Lenin, «Opere», XXVI, pagg. 201–204. [⤒]

  93. I protocolli ne danno la piena conferma: riunione del C.C. del 7/20 ottobre, in «I bolscevichi e la rivoluzione di Ottobre», cit., protocollo 24, pag. 185. [⤒]

  94. Nei protocolli si legge infatti…
    «Questo centro [il Centro rivoluzionario militare] entrerà a far parte del Comitato rivoluzionario del Soviet». (Cfr. «I bolscevichi e la rivoluzione di Ottobre», cit., pag. 221). [⤒]

  95. «Lettera ai membri del C.C.», 24 ott. (6 nov.) 1917, in Lenin, «Opere», XXVI, pagg. 220–221. Rimandiamo allo stesso volume per l’intera serie delle incalzanti lettere di Lenin fino all’insurrezione, e al citato «I bolscevichi e la rivoluzione d’Ottobre» per le sedute del Comitato Centrale e gli scambi di lettere con Kamenev e Zinoviev. [⤒]

  96. cfr. Lenin, «Opere», XXVI, pag. 224 [⤒]

  97. «Dialogato con Stalin», cit., pagg. 52–62. [⤒]

  98. L. Trotsky, «Stalin», cit., pagg. 338–339. [⤒]

  99. L. Trotsky, «Dalla rivoluzione di Ottobre al trattato di pace di Brest-Litovsk», ed. Atlantica, Roma, 1945, pagg. 123–126. [⤒]

  100. L. Trotsky, «Dalla rivoluzione di Ottobre al trattato di pace di Brest-Litovsk», ed. Atlantica, Roma, 1945, pag. 126. [⤒]

  101. «Progetto di decreto per lo scioglimento dell’Assemblea Costituente», in «Opere», XXVI, pagg. 413–415. Cfr. anche il discorso di Lenin del 6 gennaio, ivi, pagg. 416420. Lo stesso Lenin ritornerà poi magistralmente sul tema, in polemica con Kautsky, in «Le elezioni dell’Assemblea Costituente e la dittatura del proletariato», dicembre 1919, cfr. «Opere», XXX, pagg. 225–246. [⤒]

  102. «Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell’U.R.S.S. – Breve Corso», Mosca 1945, pag. 233. [⤒]

  103. Decreto e commento in Lenin, «Relazione sulla pace», in «Opere», XXVI, pagg. 231–238. [⤒]

  104. Decreto e commento in Lenin, «Relazione sulla pace», in «Opere», XXVI, pag. 238. [⤒]

  105. Cfr. «Storia della Sinistra Comunista», 1912–1919, cit., pagg. 319–326. [⤒]

  106. Cfr. «I bolscevichi e la Rivoluzione di Ottobre», cit., pag. 349–398 e 403–438. [⤒]

  107. Cfr. Lenin, «Strano e mostruoso», 28 febbraio – 1 marzo 1918, in «Opere», XXVII, pagg. 54–61. [⤒]

  108. Lenin, «Opere», XXVII, pagg. 20–21. I numerosi interventi di Lenin sulla questione della pace si leggono, come gli articoli in polemica con i «sinistri», nello stesso volume. [⤒]

  109. Cfr. la fine del paragrafo 15 di «Le grandi questioni storiche della rivoluzione in Russia», più sopra. [⤒]

  110. L. Trotsky, «Stalin», pagg. 388–389. Una documentazione appassionante di come Lenin seguì dal centro di Mosca ogni anche minimo dettaglio della ciclopica lotta su tutti i fronti, si ha ora nei «Trotsky Papers», 2 voll. (1917–1919 e 1920–1922), a cura di J. M. Meyer, L’Aja – Parigi, 1964 e 1971. [⤒]

  111. L. Trotsky, «Stalin», pagg. 381. Cfr. l’opuscolo di Lenin: «Successi e difficoltà del potere sovietico», marzo-aprile 1919, in «Opere», XXIX, pag. 58. [⤒]

  112. «Discorso per la giornata dell’ufficiale rosso», 26 nov. 1918, in Lenin, «Opere», XXVIII, pag. 196. [⤒]

  113. «Sulla carestia», 22 maggio 1918, in Lenin, «Opere», XXVII, pagg. 361 e 364. [⤒]

  114. «Compagni operai, alla lotta finale, decisiva!», in Lenin, «Opere», XXVIII, pagg. 51–52. [⤒]

  115. L. Trotsky, «Stalin», Cit., pag. 447. [⤒]

  116. L. Trotsky, «Stalin», Cit., pag. 448. [⤒]

  117. L. Trotsky, «Stalin», Cit., pag. 441. [⤒]

  118. «Tutti alla lotta contro Denikin, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 415. [⤒]

  119. «Lettera agli operai e ai contadini dopo la vittoria su Kolčak», in Lenin, «Opere», XXIX, pagg. 512–513. [⤒]

  120. Sulla critica di queste elucubrazioni, si vedano in particolare i tre «Fili del tempo» intitolati «La batracomiomachia», «Gracidamento della prassi», «Danza dei fantocci», e apparsi nei nr. 10–11–12 del 1953 de «Il programma comunista», oggi raccolti in «Classe, partito, stato nella teoria marxista», Edizioni Il programma comunista, Milano 1972. [⤒]

  121. Rispettivamente in Lenin, «Opere», XXVI, pagg. 48–57, e XXV, pagg. 307–347. [⤒]

  122. Lenin, «La catastrofe imminente e come lottare contro di essa», in «Opere», XXV, pag. 341. [⤒]

  123. Lenin, «La catastrofe imminente e come lottare contro di essa», in «Opere», XXV, pag. 341. [⤒]

  124. Lenin, «La catastrofe imminente e come lottare contro di essa», in «Opere», XXV, pag. 342. [⤒]

  125. «I compiti della rivoluzione», cit., in «Opere», XXVI, pag. 56, come il brano successivo. [⤒]

  126. Apparso nel numero 11/1956 de «Il programma comunista» e destinato a gettare un ponte fra i paragrafi 8 e 9 della II° parte, nell’intervallo fra i quali il 20° Congresso del PCUS ci aveva imposto l’ampio commento critico e demolitore del «Dialogato coi morti», uscito a puntate nei numeri intercalari de «Il programma comunista». [⤒]

  127. Nel cit. «Dialogato con Stalin», pag. 8. [⤒]

  128. Nel cit. «Dialogato con Stalin», pag. 6. [⤒]

  129. Si veda anche nel nr. 14/1956 de «Il programma comunista» il «Plaidoyer pour Staline». [⤒]

  130. Qui riprende la Parte Seconda interrotta con lo «Intermezzo». [⤒]

  131. Poi ristampato in volume: «Dialogato coi Morti (Il XX Congresso del P.C. russo)», Edizioni «Il Programma Comunista», Milano. [⤒]

  132. L’«Intermezzo» è quello or ora pubblicato; il testo contenuto negli altri tre numeri è quello con cui termina il presente volume. [⤒]

  133. «Storia del PC (b) dell’URSS», ed. Mosca 1945, pag. 187. [⤒]

  134. G. Stalin, «Opere complete», Roma 1951, III, pag. 212. [⤒]

  135. Lenin, «I compiti della rivoluzione», cit., in «Opere», XXVI, pag. 56. [⤒]

  136. Nel già citato «Il marxismo e l’insurrezione» [in Lenin, «Opere», XXVI.] [⤒]

  137. Lenin, «Il marxismo e l’insurrezione», in «Opere», XXVI, pag. 12. [⤒]

  138. Poi raccolte in «Rivoluzione e controrivoluzione in Germania». [⤒]

  139. Lenin, «Opere», XXVI, pagg. 15, 69 (in «La crisi è matura», 9 sett.), 126 (nella «Lettera al C.C.», 1/14 ott.). [⤒]

  140. In Lenin, «Opere», XXVI, pagg. 257–258. [⤒]

  141. R. Labry, «Une législation communiste», Parigi, 1920, pagg. 62–63. I decreti qui illustrati si leggono alle pagg. 96, 119 sgg., 139 sgg., 131 sgg., 294, 271, 273, 55 sgg. [⤒]

  142. Lenin, «Progetto di decreto sulla nazionalizzazione delle banche», in «Opere», XXVI, pag. 373–376. [⤒]

  143. Lenin, «Progetto di decreto sulla nazionalizzazione delle banche», in «Opere», XXVI, pag. 374. Era, dirà poi Lenin, un compromesso: se si fosse riusciti a organizzare il controllo e l’inventario su scala generale,
    «avremmo raggruppato la popolazione in una unica cooperativa diretta dal proletariato». («I compiti immediati del potere sovietico», 28 aprile 1918, in Lenin, «Opere», XXVII, pag. 228). [⤒]

  144. Cfr. per tutto questo complesso di decreti, Lenin, «Risoluzione» per la seduta del Soviet di Pietrogrado, 25 ott./7 nov. 1917; «Rapporto sulla situazione economica degli operai di Pietrogrado», 4/17 dic.; «Discorso sulla nazionalizzazione della banche», 14/27 dic.; «Come organizzare l’emulazione?» 23–28 dic. / 7–10 genn. 1918; «Progetto di decreto sulle cooperative di consumo», id.; «Rapporto sull’attività del Consiglio dei Commissari del Popolo», 11/24 genn.; «Progetto di decreto sulla nazionalizzazione della flotta mercantile marittima e fluviale», 18/31 genn.; «Discorso ai propagandisti», 6 febbr., che si leggono nel vol. XXVI delle «Opere», rispettivamente alle pagg. 225–226, 346–348, 368–370, 386–395, 396–397, 435–451 e 490–494; e «Tesi sulla politica bancaria», marzo-aprile 1918; «I compiti immediati del potere sovietico» e relative «Tesi», pagg. 213–286 del vol. XXVII. [⤒]

  145. Rispettivamente, «Rapporto sulla questione della terra», in «Opere», XXVI, pagg. 239–243, e «L’alleanza degli operai con i contadini lavoratori e sfruttati», ivi, pagg. 318–320. È suggestivo della continuità ed invarianza in Lenin che l’adozione del «mandato» fosse già prevista – e per gli stessi motivi – in uno scritto del 29 agosto/11 settembre 1917, «Dal diario di un pubblicista – Contadini e operai»: cfr. «Opere», XXV, pagg. 263–270. [⤒]

  146. «Rapporto sulla questione della terra», 26 ottobre/8 novembre, in Lenin, «Opere», XXVI, cit., pag. 243. [⤒]

  147. «L’alleanza degli operai con i contadini lavoratori e sfruttati», in Lenin, «Opere», XXVI, pag. 319. [⤒]

  148. Il primo rapporto pubblicato nel presente volume sotto il titolo generale: «Le grandi questioni storiche della rivoluzione in Russia». [⤒]

  149. Ora in Lenin, «Opere», XXVII, pagg. 65–70, da cui la citazione che segue (pag. 66). [⤒]

  150. Cfr. anche «Sull’infantilismo di sinistra e sullo spirito piccolo-borghese», in Lenin, «Opere», XXVII, pagg. 295–322. [⤒]

  151. «Tesi sull’Assemblea Costituente», in Lenin, «Opere», XXVI, pag. 365. [⤒]

  152. «Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato», in Lenin, «Opere», XXVI, pag. 404. [⤒]

  153. K. Marx, «La questione ebraica» (cfr. A. Ruge e K. Marx, «Annali franco-tedeschi», Milano 1965, pagg. 285–287). [⤒]

  154. Il testo del 1956 seguiva la traduzione francese della «Dichiarazione» nel già citato Labry: qui si segue la versione recente in «L’URSS – Diritto economia sociologia, politica, cultura», a cura di M. Moushkely, Milano, 1965, II, pagg. 787–818. [⤒]

  155. Cfr. in particolare «Sulla questione delle nazionalità e della ‹autonomizzazione›», 30 e 31 dicembre 1922, in Lenin, «Opere», XXXVI, pagg. 439–445. [⤒]

  156. «I compiti immediati del potere sovietico», in Lenin, «Opere», XXVII. pagg. 243–244. [⤒]

  157. «Stato e rivoluzione», in Lenin, «Opere», XXV. pag. 427 e, poi, 428. [⤒]

  158. «I compiti immediati del potere sovietico», in Lenin, «Opere», XXVII., pag. 235. Le citazioni seguenti alle pagg. 237, 239, 240, 242, 243. [⤒]

  159. «I compiti immediati del potere sovietico», in Lenin, «Opere», XXVII., pag. 214. [⤒]

  160. «I compiti immediati del potere sovietico», in Lenin, «Opere», XXVII., pag. 227. [⤒]

  161. «I compiti immediati del potere sovietico», in Lenin, «Opere», XXVII., pagg. 246–247. [⤒]

  162. «I compiti immediati del potere sovietico», in Lenin, «Opere», XXVII., pagg. 247–248. Il lettore si documenti sullo sviluppo della stessa polemica nel parallelo «Rapporto sui compiti immediati del potere sovietico» presentato da Lenin alla seduta del Comitato Esecutivo Centrale di tutta la Russia del 29 aprile 1918 («Opere», XXVII, pagg. 251–274) e lo tenga presente anche in vista di quanto si dirà più avanti sulla NEP, oltre che sulla questione del capitalismo di Stato in generale. [⤒]

  163. «Rapporto sul lavoro nelle campagne», 23 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pagg. 182–183. [⤒]

  164. «La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky», in Lenin, «Opere», XXVIII, pag. 307. [⤒]

  165. «La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky», in Lenin, «Opere», XXVIII, pag. 307 e 308. [⤒]

  166. «La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky», in Lenin, «Opere», XXVIII, pag. 310. [⤒]

  167. «Storia del P.C. (b) dell’U.R.S.S.», ed. cit., pag. 297. [⤒]

  168. «Aggiunta alla parte politica del programma», in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 109. [⤒]

  169. «Rapporto sul lavoro nelle campagne», 21 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 184. [⤒]

  170. Nel 1925–26, le concessioni forzate al contadino medio (e perfino ricco) saranno fatte passare per elevazione dello stesso contadino medio (e perfino ricco) a «pupilla degli occhi del potere bolscevico», capovolgendo così l’intera costruzione – rigorosamente marxista – di Lenin. E l’Opposizione sarà coperta di insulti per aver osato notarlo e protestare! [⤒]

  171. «Rapporto sul programma del partito», 19 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pagg. 164–165. [⤒]

  172. Il lettore segua l’ulteriore sviluppo del tema della Costituzione 1918 e del diritto elettorale nel «Rapporto del Comitato esecutivo centrale della Russia e del Consiglio dei commissari del popolo», tenuto da Lenin al VII Congresso dei Soviet il 5 dicembre 1919, e nel «Discorso conclusivo» del giorno dopo, dove le argomentazioni sopra riportate vengono riprese con grande efficace polemica. Lo stesso rapporto inizia con la frase lapidaria che riportiamo ad illustrazione di tutto quanto è detto e argomentato nel presente volume:
    «Abbiamo sempre detto, sia prima dell’ottobre, sia durante la Rivoluzione di ottobre, che ci consideriamo e possiamo considerarci soltanto un reparto dell’esercito internazionale del proletariato, e inoltre un reparto che si è trovato più avanti degli altri non in virtù del suo sviluppo e della sua maturità, ma a causa delle condizioni eccezionali della Russia, e che perciò la vittoria della rivoluzione socialista si potrà considerare definitiva soltanto quando il proletariato avrà vinto almeno in alcuni paesi avanzati». (Lenin, «Opere», XXX, pag. 183: i corsivi sono nostri). [⤒]

  173. «I compiti immediati del potere sovietico», in Lenin, «Opere», XXVII, pag. 219. [⤒]

  174. «I compiti immediati del potere sovietico», in Lenin, «Opere», XXVII, pagg. 219–220. [⤒]

  175. «Dialogato coi Morti», cit., pagg. 71–72. [⤒]

  176. «Rapporto sul programma del partito», 19 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 147. [⤒]

  177. «Rapporto sul programma del partito», 19 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 148. [⤒]

  178. Riunione tenuta l’8–9 sett. 1956 sul tema «L’economia capitalistica in Occidente e il corso storico del suo svolgimento», e illustrata nel nr. 19 dello stesso anno de «Il programma comunista». Il «quadro» rielaborato è riprodotto al paragrafo 13 del resoconto della riunione di Torino, 19–20 maggio 1956, pubblicato più oltre nel presente volume col titolo «La Russia nella grande rivoluzione e nella società contemporanea». [⤒]

  179. «Rapporto sul programma del partito», 19 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 150. [⤒]

  180. «Rapporto sul programma del partito», 19 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 148. [⤒]

  181. «Rapporto sul programma del partito», 19 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 150. [⤒]

  182. La frase di Engels citata più sopra figura nell’«Abbozzo di una critica dell’economia politica», 1844 (cfr. A. Ruge e K. Marx, «Annali franco-tedeschi», cit., pagg. 174–175). [⤒]

  183. «Rapporto sul programma del partito», 19 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 150. [⤒]

  184. «Rapporto sul programma del partito», 19 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 150. [⤒]

  185. «La grande iniziativa», giugno 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 390. [⤒]

  186. «La grande iniziativa», giugno 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pagg. 390–391. [⤒]

  187. I brani che seguono, tratti dal «Discorso al I Congresso delle Comuni», ecc., 4 dic. 1919, si leggono in Lenin, «Opere», XXX, pagg. 171, 177, 177–178. [⤒]

  188. «Rapporto del Comitato Centrale», 29 marzo 1920, in Lenin, «Opere», XXX, pagg. 403–406. [⤒]

  189. «Rapporto del Comitato Centrale», 29 marzo 1920, in Lenin, «Opere», XXX, pag. 411. [⤒]

  190. «Rapporto del Comitato Centrale», 29 marzo 1920, in Lenin, «Opere», XXX, pag. 412. [⤒]

  191. «Rapporto del Comitato Centrale», 29 marzo 1920, in Lenin, «Opere», XXX, pag. 412. [⤒]

  192. «Rapporto del Comitato Centrale», 29 marzo 1920, in Lenin, «Opere», XXX, pagg. 412, 415. [⤒]

  193. «Rapporto del Comitato Centrale», 29 marzo 1920, in Lenin, «Opere», XXX, pag. 416. [⤒]

  194. «Rapporto del Comitato Centrale», 29 marzo 1920, in Lenin, «Opere», XXX, pagg. 416–418. [⤒]

  195. «Discorso di chiusura del dibattito sul rapporto del CC del PCR (b)», 9 marzo 1921, in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 182. [⤒]

  196. «Prima stesura del progetto di risoluzione sulla deviazione sindacalista e anarchica del nostro partito», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 225. [⤒]

  197. «Prima stesura del progetto di risoluzione sulla deviazione sindacalista e anarchica del nostro partito», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 225. [⤒]

  198. Per le «Tesi sul ruolo del partito comunista nella rivoluzione proletaria», testo e commento, cfr. la già citata «Storia della Sinistra comunista, 1919–1920», pagg. 580–614, e l’opuscolo «Partito e classe», Edizioni «Il Programma Comunista», Milano 1972, pagg. 19–30. [⤒]

  199. Si vedano le «Tesi sul movimento sindacale, i Consigli di fabbrica e la Terza Internazionale» nella stessa «Storia della Sinistra Comunista, 1919–1920», cit., pagg. 708–713, e il commento ad esse, pagg. 623–628. Per la posizione della nostra corrente di fronte a ordinovisti e kaapedisti, cfr. in particolare i capitoli VI e VIII con relative appendici. [⤒]

  200. «Prima stesura del progetto di risoluzione sull’unità del partito», in Lenin, «Opere», XXXII, pagg. 220–221. Su Kronstadt, cfr. pure Lenin, «Rapporto sull’attività politica del CC del PCR (b)», 8 marzo 1921, pagg. 169 e segg. e «Discorso al Congresso degli operai dei trasporti di tutta la Russia», 27 marzo, pagg. 258 e segg. [⤒]

  201. «Prima stesura del progetto di risoluzione sulla deviazione sindacalista ecc.», cit., ivi, pagg. 226–227. Si veda pure il «Rapporto» di Lenin del 16 marzo, Ivi, pagg. 228–235. [⤒]

  202. Del discorso, tenuto il 14 novembre 1922 dopo quelli di Lenin, Zetkin e Béla Kun sul tema «Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive di rivoluzione mondiale», Trotsky pubblicò un testo rielaborato, seguito da un corpo di «Tesi sulla situazione economica della Russia sovietica dal punto di vista dei compiti della rivoluzione socialista», che si legge in «Die Grundfragen der Revolution», Amburgo, 1923, ora in Reprint Feltrinelli, pagg. 385–446 e 457–471. Nei numeri 6–10/1966 de «Il programma comunista», ne è uscita una versione italiana commentata. La favola dell’opposizione di Trotsky alla NEP è smentita fra l’altro dalle misure proposte da lui stesso al Politburo nel febbraio 1920, che andavano appunto in quel senso. Se ne veda la parte essenziale in L. Trotsky, «Il nuovo corso», genn. 1924, appendice al cap. IV («Le questioni fondamentali della politica alimentare e agraria») e brani staccati in «La mia vita», tr. it. cit., pagg. 60–63. [⤒]

  203. L. Trotsky, «Grundfragen der Revolution», Amburgo, 1923, ora in Reprint Feltrinelli, pagg. 391–393, 394–395, 396–397, 399–400–401. [⤒]

  204. L. Trotsky, «Grundfragen der Revolution», Amburgo, 1923, ora in Reprint Feltrinelli, pagg. 402–404, 421. [⤒]

  205. Lenin, «Sull’imposta in natura», maggio 1921, in «Opere», XXXII, pag. 309. [⤒]

  206. Lenin, «Il compito principale dei nostri giorni». Lo scritto venne poi riunito in un solo opuscolo – come detto sopra – con la serie di articoli intitolata «Sull’infantilismo ‹di sinistra› e lo spirito piccolo-borghese» («Opere», XXVII, pagg. 295–322), nel maggio dello stesso anno: è dal secondo testo che provengono le citazioni successive, anche se il rinvio è allo scritto del 1921. [⤒]

  207. Lenin, «Sull’infantilismo ‹di sinistra› e lo spirito piccolo-borghese», in «Opere», XXVII, pag. 304, riprodotto in «Sull’imposta in natura», cit., pagg. 309–310. [⤒]

  208. Lenin, «Sull’imposta in natura», maggio 1921, in «Opere», XXXII, pag. 310. Occorre notare che un capitolo apposito di «La NEP e i centri di educazione politica», 19 ottobre 1921, in «Opere», XXXIII, pag. 55, è dedicato al tema: «Non dobbiamo contare di passare direttamente al comunismo?» [⤒]

  209. Oggi, 1975, la nuova costituzione stabilisce per… decreto che in Cina vige non più una democrazia popolare, ma la dittatura del proletariato, e questa è già il comunismo inferiore o socialismo!!! [⤒]

  210. «Sull’imposta in natura», in Lenin, «Opere», XXXII, pagg. 310–311. [⤒]

  211. Marx, «Per la critica dell’economia politica», Ed. Riuniti, 1957, pagg. 11–12. [⤒]

  212. Più sopra si allude agli «Abbozzi di risposta» alla lettera di V. Zasulič a Marx del 25 gennaio 1881, che si possono ora leggere al completo in versione italiana in K. Marx, «Il Capitale», Libro I, ed. Utet, Torino 1974, Appendice. Il passo citato, a pag. 1043. [⤒]

  213. Marx, «Il Capitale», Libro I, Prefazione alla prima edizione, Ed. Riuniti, 1967, pag. 32. [⤒]

  214. Cfr. la «Prefazione» alla seconda edizione russa (1882) del «Manifesto» nel citato «India, Cina, Russia», pagg. 245–246. [⤒]

  215. Le citazioni da Fourier si leggono in F. Engels, «Anti-Dühring», Editori Riuniti, Roma, 1968, pagg. 278 e 295. [⤒]

  216. «Sull’imposta in natura», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 311. [⤒]

  217. «Sull’imposta in natura», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 330. [⤒]

  218. «Sull’imposta in natura», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 334. [⤒]

  219. «Sull’imposta in natura», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 330. [⤒]

  220. «Sull’imposta in natura», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 340. [⤒]

  221. «Funzioni e compiti dei sindacati nelle condizioni della Nuova Politica Economica», risoluzione approvata il 12 gennaio dal CC e successivamente dall’XI congresso del PCR (b) nel marzo 1922, in Lenin, «Opere», XXXIII, pag. 174. [⤒]

  222. «Sull’imposta in natura», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 343. [⤒]

  223. «Rapporto politico del Comitato Centrale del PCR (b) all’XI congresso», 27 marzo 1922, in Lenin, «Opere», XXXIII, pagg. 261–262. [⤒]

  224. Cfr. in particolare il «Rapporto sull’imposta in natura» del 19 aprile 1921; il «Rapporto, il Discorso di chiusura» e il «Progetto di risoluzione» sulla NEP alla X Conferenza del 26–28 maggio 1921; le «Tesi» e il «Discorso sulla tattica del PCR» al III Congresso del Comintern, 22 giugno – 12 luglio 1921; La «Nuova Politica Economica», relazione alla VII Conferenza del Partito del governatorato di Mosca del 29–31 ottobre 1921; «La politica interna ed estera della Repubblica», rapporto al IX Congresso dei Soviet il 23 dicembre 1921; «Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale», relazione al IV Congresso del Comintern, 13 novembre 1922, rispettivamente in Lenin, «Opere», XXXII, pagg. 265–278, 382–414, 429–437, 454–470; e XXXIII, pagg. 67–91, 125–158, 384–397, oltre agli scritti o discorsi già citati o da citare più oltre. [⤒]

  225. Toccò infatti ad Amadeo Bordiga spiegare il senso della NEP ai comunisti francesi riuniti nel Congresso di Marsiglia, 24–30 dic. 1921, come delegato della III Internazionale. Cfr. il testo del discorso nei nr. 24 e 25 (anno II) di «Rassegna Comunista». Quanto al pieno riconoscimento della NEP da parte del P.C.d’I., cfr. «La rivoluzione russa» ne «Il Soviet» del 24 dicembre 1921. [⤒]

  226. «Tesi per il rapporto sulla tattica del P.C. di Russia al III Congresso dell’I.C.», progetto iniziale del 13 giugno 1921, in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 431. Il vero e proprio rapporto si legge alle pagg. 454–470. [⤒]

  227. «Tesi per il rapporto sulla tattica del P.C. di Russia al III Congresso dell’I.C.», progetto iniziale del 13 giugno 1921, in Lenin, «Opere», XXXII, pagg. 431 e 433–434. [⤒]

  228. «Tesi per il rapporto sulla tattica del P.C. di Russia al III Congresso dell’I.C.», progetto iniziale del 13 giugno 1921, in Lenin, «Opere», XXXII, pagg. 436–437. [⤒]

  229. «Tempi nuovi, errori vecchi in forma nuova», 20 agosto 1921, in Lenin, «Opere», XXXIII, pagg. 15–16. Vi si legge ancora:
    «Il nemico è oggi la realtà economica quotidiana di un paese di piccoli contadini, un paese in cui la grande industria è in rovina. Il nemico è oggi l’elemento piccolo-borghese, che ci circonda come l’aria e penetra profondamente nelle file del proletariato. E il proletariato è degradato; è stato cioè gettato fuori del suo alveo di classe. Le fabbriche e le officine sono chiuse, il proletariato è indebolito, disperso, estenuato, e l’elemento piccolo-borghese all’interno dello Stato è appoggiato da tutta la borghesia internazionale, che è ancora potente in tutto il mondo» (pag. 10).
    E altrove:
    «Il nemico in mezzo a noi è il capitalismo anarchico, il commercio anarchico… Questa è la sostanza della lotta» (vol. cit., pag. 53). [⤒]

  230. «Per il IV anniversario della Rivoluzione d’Ottobre», 14 ottobre 1921, Lenin, «Opere», XXXIII, pagg. 41–42–43–44. Il testo contiene perfino l’asserzione di un’audacia tutta leniniana secondo cui noi abbiamo condotto la rivoluzione democratica borghese sino alla fine, come nessun altro. Noi procediamo con piena coscienza, fermezza ed inflessibilità [qui il corsivo è nostro] verso la rivoluzione socialista) (pag. 37). La rivoluzione sociale ed economica socialista, beninteso! [⤒]

  231. «L’importanza dell’oro oggi e dopo la vittoria completa del socialismo», 5 novembre 1921, in Lenin, «Opere», XXXIII, pag. 94. Analogamente alla fine di febbraio 1922, in «Note di un pubblicista»:
    «Noi ‹abbiamo portato a termine› la rivoluzione democratico-borghese in modo così ‹pulito› come mai era avvenuto nel mondo. È questa una conquista grandissima, che nessuna forza potrà toglierci… Ma noi non abbiamo terminato neppure le fondamenta dell’economia socialista... E non v’è nulla di «terribile»… nel riconoscere questa amara verità, perché noi abbiamo sempre professato e ripetuto quella elementare verità del marxismo secondo cui la vittoria del socialismo richiede gli sforzi congiunti degli operai di più paesi avanzati» (ivi, pag. 185). [⤒]

  232. «L’importanza dell’oro oggi e dopo la vittoria completa del socialismo», 5 novembre 1921, in Lenin, «Opere», XXXIII, pagg. 94–96. [⤒]

  233. «L’importanza dell’oro oggi e dopo la vittoria completa del socialismo», 5 novembre 1921, in Lenin, «Opere», XXXIII, pagg. 98–99. [⤒]

  234. «Rapporto politico del CC del PCR (b)» all’XI congresso, 27 marzo 1922, in Lenin, «Opere», XXXIII, pag. 253. [⤒]

  235. «Rapporto politico del CC del PCR (b)» all’XI congresso, 27 marzo 1922, in Lenin, «Opere», XXXIII, pag. 260. [⤒]

  236. «Ci attende ora il compito di costruire le fondamenta dell’economia socialista. L’abbiamo fatto? No, non l’abbiamo ancora fatto […] I comunisti che pensano che queste fondamenta esistano, commettono un errore gravissimo» («Rapporto politico del CC del PCR (b)» all’XI congresso, 27 marzo 1922, in Lenin, «Opere», XXXIII, pag. 274.) [⤒]

  237. «Rapporto politico del CC del PCR (b)» all’XI congresso, 27 marzo 1922, in Lenin, «Opere», XXXIII, pagg. 262–264. [⤒]

  238. «Rapporto politico del CC del PCR (b)» all’XI congresso, 27 marzo 1922, in Lenin, «Opere», XXXIII, pagg. 272–273. [⤒]

  239. «Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale», rapporto al IV Congresso dell’IC, 13 novembre 1922, in Lenin, «Opere», XXXIII, pag. 386. [⤒]

  240. «Sulla cooperazione», in Lenin, «Opere», XXXIII, pagg. 433–435. [⤒]

  241. «Meglio meno, ma meglio», 2 marzo 1923, in Lenin, «Opere», XXXIII, pagg. 455 e 456. [⤒]

  242. Con l’usato coraggio della verità, in tutte le lettere inviate agli organi direttivi del partito nel 1922–1923 e nell’articolo su «Come riorganizzare l’ispezione operaia e contadina» apparso nella «Pravda» del 23 gennaio 1923, Lenin mise tuttavia ansiosamente in guardia sulla possibilità di una «scissione» nel governo e nel partito, aggiungendo che, in
    «un regime sociale basato sulla collaborazione di due classi, gli operai e i contadini, collaborazione alla quale sono oggi ammessi, a determinate condizioni, anche i nepman, cioè la borghesia», essa si sarebbe resa «inevitabile» in caso di esplosione di «seri contrasti di classe» («Opere», XXXIII, pag. 444. Ma si veda anche il materiale postumo ora raccolto in «Lettera al Congresso» [il XII], Editori Riuniti, 1974).
    Nulla era più alieno dalla mente di Lenin dell’idea staliniana (e, allora, bukhariniana) di uno sviluppo «armonico» dell’URSS «verso il socialismo» e di una sospensione della lotta fra le sue classi fondamentali, tema del grande dibattito del 1926–1927. [⤒]

  243. Per maggior comodità di lettura, abbiamo qui distinta una III parte. I paragrafi seguono perciò da 1 a 121 invece che da 102 a 222 come nelle puntate del giornale (le puntate originale sono messo in []). [⤒]

  244. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pagg. 46 e 47. [⤒]

  245. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 49. [⤒]

  246. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 48. [⤒]

  247. Era la prospettiva delineata da Lenin nell’opuscolo del 1918, del riunirsi delle «due metà spaiate di socialismo» formatesi dopo la guerra: in Germania, «la realizzazione materiale delle condizioni economiche, produttive e sociali del socialismo» («inconcepibile senza la tecnica del capitalismo, costruita secondo l’ultima parola della scienza moderna»); in Russia, «la realizzazione materiale delle sue condizioni politiche»; in mancanza della quale riunione il compito della dittatura bolscevica sarebbe stato di «mettersi alla scuola del capitalismo di Stato tedesco» («Sull’imposta in natura», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 344). [⤒]

  248. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 53. [⤒]

  249. Cfr., di Trotsky, il «Nuovo Corso», 1924. [⤒]

  250. Per una analisi approfondita del dibattito economico del 1926 – 1929 e delle sue complesse e a volte contraddittorie vicende (fra cui il finale «ravvicinamento», obiettivo anche se non dichiarato, fra sinistra e «destra» nella difesa del marxismo), è importante rifarsi al quinto paragrafo del III capitolo dell’opuscolo «Bilan d’une révolution», numero triplo speciale della rivista teorica internazionale «Programme communiste», ottobre 1967 – giugno 1968, pagg. 127–154, che ne tratta per esteso «in margine al 50' anniversario dell’Ottobre». Un più dettagliato studio di partito sull’intero dibattito è ora in corso, e sarà oggetto di pubblicazione: del dibattito stesso, nel presente volume, si danno solo le linee dorsali. [⤒]

  251. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 103. [⤒]

  252. Vercesi (O. Perrone), «La tattica del Comintern dal 1926 al 1940», in «Prometeo», I serie, nr. 2, pagg. 91 e sgg. [⤒]

  253. «Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell’U.R.S.S. – Breve Corso», Mosca 1945, pagg. 247, 250, e (per quanto segue) 250 e 253. [⤒]

  254. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pagg. 58–59. [⤒]

  255. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pagg. 59 e (più sopra) 61. [⤒]

  256. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pagg. 60–61. [⤒]

  257. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 61. [⤒]

  258. Si veda, per le riforme introdotte anche in questo campo in anni successivi, l’«Appendice» pubblicata più oltre a conclusione della «Struttura». [⤒]

  259. Si veda il citato sunto nel nr. 16/1955 de «Il programma comunista», qui a pagg. 11–48. [⤒]

  260. Si veda il testo del Capitolo I («Struttura della Società») della Costituzione 5 dicembre 1936, nel «L’URSS – Diritto economia sociologia, politica, cultura», a cura di M. Moushkely, Milano, 1965, II, pagg. 869–870, specialmente agli articoli 5 – 6 – 7 – 8 – 9 – 10. [⤒]

  261. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pagg. 84–85. [⤒]

  262. «Sulla cooperazione», in Lenin, «Opere», XXXIII, pagg. 430–431. [⤒]

  263. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pagg. 85. [⤒]

  264. In «Russia e rivoluzione nella teoria marxista», cit., par. 29–33. [⤒]

  265. Si veda per il seguito la già citata «Appendice», più oltre. [⤒]

  266. «Dialogato coi Morti», cit., pagg. 59–80. Il bilancio agricolo cronicamente «magro» è stato poi, notoriamente, una delle cause determinanti della caduta di Chruščëv, ma la situazione è così poco mutata da allora, che oggi, 1975, l’URSS è costretta a chiedere grano all’amica-nemica America. Si calcola che il raccolto cerealicolo 1975 non abbia superato i 135 milioni tonn. contro i 215 previsti. [⤒]

  267. Si tenga presente che i dati della produzione di cereali per il 1950 e il 1955 sono stati clamorosamente sbugiardati al XXI Congresso dallo stesso Chruščëv che forniva per quegli anni rispettivamente 811 (e non 1160) e 1045 (e non 1500) milioni di quintali. Dunque nel 1950 la produzione era ferma al livello del 1913. La rata per abitante di 6,3 quintali, che si vantava aumentata del 26 per cento, in realtà con 4,4 quintali risulta diminuita del 12 per cento. Quanto al l955 i quintali per abitante sono 5,2, quanti nel 1913 (e non 6,3): ma per il proletario della città l’indice, già crollato a 17,2, si riduce ulteriormente a 12 perdendo sul 1940 il 38,5 per cento (e non l’11,8). [⤒]

  268. «Dialogato coi Morti (Il XX Congresso del P.C. russo)», Edizioni «Il Programma Comunista», Milano. pagg. 63–66 (Giornata Terza, Basso pomeriggio). [⤒]

  269. Nella serie sono compresi i dati delle «Economie personali ausiliarie dei colcosiani» che incidono sul totale per il 3,9 %. [⤒]

  270. Il fenomeno è proseguito (e noi l’abbiamo commentato) in tutti gli anni successivi, mentre si verificava e via via cresceva quello della fagocitazione dei colcos più piccoli e poveri da parte di quelli più ricchi e dotati, e da un lato si moltiplicavano nelle città i «mercati colcosiani», dall’altro aumentava il contributo delle agenzie particellari all’allevamento del bestiame e quindi all’alimentazione delle città. [⤒]

  271. In questa cifra sono compresi gli artigiani cooperatori, inclusi i membri delle loro famiglie, che devono rappresentare una percentuale bassissima del totale. [⤒]

  272. Queste percentuali riguardano la popolazione, ma sono pressoché eguali a quelle relative agli attivi. [⤒]

  273. Apparso nel nr. 5/1957 de «Il programma comunista». [⤒]

  274. Allo studio ulteriore degli sviluppi dell’economia agraria e industriale russa sulla traccia fondamentale data nei paragrafi precedenti e in quelli successivi furono poi dedicate di anno in anno nutrite riunioni. Citiamo solo, fra le più vicine in ordine di tempo alla «Struttura», «Il corso del capitalismo mondiale nella esperienza storica e nella dottrina di Marx», ne «Il programma comunista» nr. 16–17 e 22–24/1957, 1–2 e 7–10/1958 e 1–7/1959, «Putrescente degenerazione della forma capitalistica ad Occidente, corso sciagurato della sua controfigura di Oriente», ivi, nr. 23 del 1958, e «La struttura economica e sociale della Russia e la tappa involutiva del trasformismo al XXI Congresso», nr. 9–18 del 1959, dove il lettore troverà ampi aggiornamenti di dati e raffronti con le economie occidentali. Tutte le annate successive dovrebbero però essere consultate numero per numero. Si veda infine la già citata «Appendice», più oltre. [⤒]

  275. 19–20 gennaio 1957 sul tema: «Struttura economica e corso storico della società capitalistica». Rapporto esteso e codicilli ne «Il programma comunista», nr. 3. 05. 1957. Per un riepilogo fino ad oggi, cfr. i nr. 1–2, 4–5 del 1976. [⤒]

  276. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 54. [⤒]

  277. Per la verità, in seno all’opposizione, soprattutto in Preobraženskij, vi furono teorizzazioni in questo senso, e lo stesso Trotsky, sia pure con molte oscillazioni, non vi fu estraneo (cfr. il già citato ««Bilan d’une révolution») in un dibattito in cui i problemi politici ed economici si intrecciavano in modo disorientante per gli stessi interlocutori. [⤒]

  278. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 48. [⤒]

  279. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 74. [⤒]

  280. Ossia 21,5 % di incremento medio annuo (che porta 100 a 5000 in vent’anni) + 3 % dell’Occidente + 1,5 % della popolazione. [⤒]

  281. Sono state qui utilizzate le uniche statistiche allora disponibili: quelle date da Stalin nei rapporti ai congressi del PCUS sugli adempimenti dei piani economici. In realtà venivano fatti passare per indici della produzione industriale gli indici di sviluppo della grande industria, che aumenta molto più rapidamente. In seguito alla pubblicazione in italiano nel 1957 del I annuario statistico dell’URSS, fummo in grado di smascherare quest'ennesimo falso. La gonfiatura dei dati risulta chiaramente a pag. 45 del detto annuario dal confronto fra le due serie di indici per gli anni dal 1913 al 1955. Poco conta che l’«errata-corrige» si pubblichi 20 anni dopo. [⤒]

  282. Per le successive riforme nell’impostazione stessa dei piani, cfr. la già citata «Appendice», più oltre. [⤒]

  283. Appunto questi motivi determinarono tra la fine del 1922 e l’inizio del 1923 la battaglia congiunta di Lenin e Trotsky contro i fautori dello smantellamento del monopolio del commercio estero e – con qualche legittima cautela nel primo – per un rafforzamento dei poteri del Gosplan. Cfr. Lenin, «Opere», XLV, pagg. 617 sgg. e «Trotsky Papers», («Trotsky Papers», 2 voll., 1917–1919 e 1920–1922, a cura di J. M. Meyer, L’Aja – Parigi, 1964 e 1971.), II, pagg. 745 sgg.; questioni sulle quali, come e più su quella delle nazionalità, Lenin era disposto, se le sue condizioni di salute l’avessero permesso, a battersi aspramente nel partito. Purtroppo, al XII congresso della primavera 1923, Trotsky, solo e tutto preso dai due primi problemi, non dette sul terzo la battaglia progettata da Lenin (che era pronto, occorrendo, a trasferirla in seno al congresso dei Soviet), e l’«offensiva» prevista lasciò aperti gli interrogativi più gravi sul regime di vita interna del PCR, anche se registrò un certo successo sul piano strettamente economico. [⤒]

  284. «Il piano economico unico», 21 febbraio 1921, in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 124. [⤒]

  285. Ch. Bettelheim, «La pianificazione sovietica», trad. it., Milano 1949, pag. 69. [⤒]

  286. «Dialogato coi Morti (Il XX Congresso del P.C. russo)», Edizioni «Il Programma Comunista», Milano, pagg. 58–63 e passim. [⤒]

  287. K. Marx, «Il Capitale», Libro I, Prefazione alla I edizione:
    «Non dipingo affatto in luce rosea le figure del capitalista e del proprietario fondiario. Ma qui si tratta delle persone solo in quanto personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classe. Il mio punto di vista, che concepisce Io sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile dei rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al disopra di essi». (Editori Riuniti, Roma 1964, pag. 34). [⤒]

  288. Cfr. l’«Appendice» al presente testo, più oltre. [⤒]

  289. Cfr. Marx, «Il Capitale», Libro I, cap. XI sulla «cooperazione». [⤒]

  290. Sul tema della «costruzione», si veda lo studio «Proprietà e capitale», uscito nei nr. 10–14 della I serie e nr. 1 della II serie di «Prometeo», e in particolare, in quest’ultimo numero, «Fanfania o il problema edilizio in Italia». [⤒]

  291. Quella «saldatura stretta fra l’istituto economico e il demografico, l’azienda e la famiglia, binomio di base su cui sono costruite tutte le impalcature sociali del mondo privatistico» che induce a «saldare questo molecolarismo ultraframmentato ai due cementi della reazione antisocialista più tremenda: religione-pretismo e patriottismo-esercito» (in «Programma comunista», nr. 3/1957). [⤒]

  292. «La questione delle abitazioni», tr. it. Editori Riuniti, Roma, 1971, pagg. 120–121. [⤒]

  293. «Il contadino russo vive tutto immerso nella sua obscina: il resto del mondo gli interessa solo in quanto si ripercuote nella sua ‹comune›. Ciò è tanto vero, che in russo la parola mir significa nello stesso tempo ‹il mondo›, o ‹l’universo›, e ‹la comune›; e vesc mir (‹il mondo intero›) l’assemblea dei membri della comune» («Soziales aus Russland», 1875, nel cit. Marx-Engels, «India, Cina, Russia», pag. 226). [⤒]

  294. Le citazioni da Marx in questo paragrafo si leggono nel Libro I del «Capitale», cap. XXIV, par. 7, ed. it. cit., pag. 825. Per tutto l’argomento sul piano teorico generale, cfr. «Il programma rivoluzionario della società comunista elimina ogni forma di proprietà del suolo, degli impianti di produzione e dei prodotti del lavoro», nei nr. 16+17/1958 de «Il programma comunista», poi riprodotto nei nr. 21–24/1975 dello stesso quindicinale. [⤒]

  295. «Anti-Dühring», Editori Riuniti, Roma, 1968, pagg. 295–296. [⤒]

  296. «Anti-Dühring», Editori Riuniti, Roma, 1968, pag. 139. [⤒]

  297. «Il Capitale», Libro I, cap. 1, par. 4 (Editori Riuniti, pag. 110). [⤒]

  298. «Grundrisse der Kritik der Politischen Ökonomie», ed. Mosca 1953: cfr. la trad. it. «I lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica», Firenze, 1968–1970. Si veda in particolare il capitolo su «le forme che precedono la produzione capitalistica» (in tedesco: «Formen, die der kapitalistischen Produktion vorhergehn»). [⤒]

  299. Ch. Bettelheim, «La pianificazione sovietica», trad. it., Milano 1949, pag. 220. [⤒]

  300. Stalin, «Problemi economici del socialismo nell’URSS» (1952), Roma, 1953. Contro il quale scritto si dirige il più volte cit. «Dialogato con Stalin». [⤒]

  301. Cfr. per gli sviluppi ulteriori della critica al post-stalinismo, fra gli studi più vicini nel tempo alla «Struttura», le due serie «Spregio e bestemmia dei principi comunisti nella rivelatrice diatriba tra i partiti dei rinnegati», nei nr. 12. 15 del 1958 e «La teoria della funzione primaria del partito politico, sola custodia e salvezza della energia storica del proletariato», nei nr. 18–22/1958 de «Il Programma Comunista», oltre a quelle citate nel «Collegamento» fra i paragrafi 47 e 48, più sopra. [⤒]

  302. Da allora, la marcia verso l’autonomia delle aziende, «cellule fondamentali dell’economia sovietica», ha fatto passi da gigante. Si veda, per alcune delle sue tappe basilari lungo una strada irreversibile, oltre alla già citata «Appendice», più oltre, «Il nuovo statuto delle aziende di Stato in Russia», nel nr. 3–4/1966 de «Il Programma Comunista», in cui si commenta il nuovo «regolamento dell’azienda produttiva di Stato» del 4 ottobre 1965, già annunziato da Kossygin ma reso noto in tutti i suoi particolari solo più tardi. [⤒]

  303. «Glosse marginali al programma del Partito operaio tedesco», 1875, in «Il Partito e l’internazionale», Roma, 1948, pagg. 230–232. [⤒]

  304. Si allude alla rivolta ungherese del novembre 1958. [⤒]

  305. Come appunto si fece nel seguito del rapporto. [⤒]


Source: «Struttura economica e sociale della Russia d’oggi», Edizioni Il Programma Comunista, Milano 1976.
Ultime correzioni inizio ottobre 2023 (snistra.net)

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