Con una formula semplice e giustificata dalle esigenze della propaganda si è sempre definito il socialismo come abolizione della proprietà privata, aggiungendo la precisazione: dei mezzi di produzione, e poi l’altra: e dei mezzi di scambio.
Anche se tale formula non è completa e del tutto adeguata, essa non va ripudiata. Ma le vecchie e recenti sostanziali questioni sulla proprietà personale, collettiva, nazionale e sociale rendono necessario delucidare il problema della proprietà di fronte all’antitesi teorica storica e di lotta tra capitalismo e socialismo.
Ogni rapporto economico e sociale si proietta in formulazioni giuridiche, e partendo da tale posizione il «Manifesto» dice che i comunisti pongono avanti in ogni stadio del movimento la «quistione della proprietà», poiché essi pongono avanti la quistione della produzione, più generalmente quella della produzione distribuzione e consumo, quella dell’economia.
In un’epoca in cui la grande antitesi storica tra feudalesimo e regime borghese era apparsa prima come un conflitto ideologico e di diritti che come rapporto economico e mutamento delle forme della produzione, non si poteva non porre nel massimo rilievo, anche nelle enunciazioni elementari, la forma giuridica delle rivendicazioni economiche e sociali proletarie. Nel passo fondamentale della prefazione alla «Critica dell’economia politica» Marx enuncia là dottrina del contrasto delle forze produttive con le forme della produzione e subito aggiunge:
«oppure – il che è soltanto un’espressione giuridica – con i rapporti di proprietà».
La giusta accezione della formulazione giuridica non può dunque fondarsi che sulla giusta presentazione del rapporto produttivo ed economico, che il socialismo postula di infrangere.
Adoperando quindi in quanto utile il linguaggio della scienza corrente del diritto si tratta di ricordare i caratteri discriminanti del tipo capitalistico di produzione – che vanno definiti in rapporto ai tipi di produzione che lo precedettero – e ulteriormente discriminare tra tali caratteri quelli che il socialismo conserva e quelli che invece dovrà superare e sopprimere nel processo rivoluzionario. Tale distinzione va ovviamente istituita sul terreno dell’analisi economica.
Capitalismo e proprietà non coincidono. Varie forme economico-sociali che hanno preceduto il capitalismo avevano determinati istituti della proprietà. Vedremo subito che è convenuto al nuovo sistema di produzione adagiare la sua impalcatura giuridica su formule e canoni derivati direttamente da precedenti regimi, malgrado che in essi i rapporti di appropriazione fossero diversissimi. Ed è non meno elementare la tesi che nella visione socialista il capitalismo figura come l’ultima delle economie fondate sulla forma giuridica della proprietà, sicché il socialismo nell’abolire il capitalismo abolirà anche la proprietà. Ma quella prima abolizione, e, meglio detto, successione violenta e rivoluzionaria, è un rapporto chiaramente dialettico e la si enuncia con più fedeltà al linguaggio marxista nostro proprio, che non la abolizione della proprietà di sapore un poco metafisico e apocalittico.
Rifacciamoci tuttavia all’inizio dei nostri noti concetti. Proprietà è un rapporto tra l’uomo, la persona umana, e le cose. I giuristi la chiamano la facoltà di disporre della cosa nel modo più esteso ed assoluto, e classicamente di usare e di abusare. Si sa che a noi marxisti queste definizioni eterne non piacciono, e potremmo meglio dare una definizione dialettica e scientifica del diritto della proprietà dicendo che è la facoltà di «impedire» ad una persona umana di usare di una cosa, da parte di un’altra persona o di un gruppo.
La variabilità storica del rapporto emerge ad esempio dal fatto che per secoli e millenni tra le cose suscettibili di formare oggetto di proprietà era la stessa persona umana (schiavismo). Che d’altra parte l’istituto della proprietà non possa pretendere alla prerogativa apologetica di essere naturale ed eterno lo abbiamo provato mille volte col riferimento alla primitiva società comunista in cui la proprietà non esisteva, in quanto tutto era acquisito e usato in comune dai primi gruppi di uomini.
Nella relativa primordiale economia o se si vuole pre-economia il rapporto tra uomo e cosa era il più semplice possibile. Per il limitato numero di uomini e la limitata gamma di bisogni, appena superiori a quelli animali della alimentazione, le cose atte al soddisfacimento dei bisogni stessi, che poi il diritto chiamò beni, sono dalla natura poste a disposizione illimitata e il solo atto produttivo consiste nel prenderle quando occorrono. Esse si riducono ai frutti della vegetazione spontanea e in seguito della caccia e della pesca e così via. Vi erano oggetti di uso in quantità esuberante, non vi erano ancora «prodotti» usciti da un sia pure embrionale intervento fisico, tecnico, lavorativo, dell’uomo sulla materia quale la offre la natura ambiente.
Con il lavoro, la tecnica produttiva, l’aumento delle popolazioni, la limitazione di terre vergini libere su cui espandersi, sorgono i problemi di distribuzione e diviene difficile fronteggiare tutte le necessità, le richieste di uso e di consumo di prodotti. Nasce il contrasto tra individuo e individuo, tribù e tribù, popolo e popolo. Non occorre ricordare queste tappe dell’origine della proprietà, ossia della appropriazione, per il consumo, per la formazione di riserve, per l’iniziato scambio a soddisfazione di altre sempre più vaste esigenze, di quanto ha prodotto il lavoro di uomini e di comunità.
Appare in processi svariati il commercio, le cose che erano solo oggetti di uso divengono mercanzie, appare la moneta e al valore di uso si sovrappone il valore di scambio.
Nei vani popoli e nelle varie epoche dobbiamo intendere quale fosse l’avanzamento della tecnica produttiva quanto a capacità di intervento dell’opera dell’uomo sulle cose o materie prime, quale il meccanismo della produzione e della distribuzione degli atti e sforzi produttivi tra i membri della società, quale il gioco della circolazione dei prodotti da mano a mano da casa a casa da paese a paese verso il consumo. Da tali dati possiamo passare ad intendere le forme giuridiche corrispondenti, e che tendevano a coordinare le regole di tali processi, attribuendo a date organizzazioni la disciplina di esse e la possibilità di costrizioni e di sanzioni verso i trasgressori.
Come non risale alla primitiva umanità la proprietà delle cose o beni di consumo e la proprietà dello schiavo, tanto meno vi risale la proprietà del SUOLO ossia della terra e di quanto di stabile l’uomo vi aggiunge e costruisce, i beni immobili del diritto. Tale proprietà nella sua forma personale viene in ritardo rispetto a quella delle cose mobili e degli stessi schiavi, in quanto all’inizio tutto se non è comune è per lo meno attribuito al capo dell’aggruppamento familiare di tribù o di città e regione.
Ma anche volendosi contestare che tutti i popoli siano partiti da questa prima forma comunistica e volendo ironizzare su una tale età dell’oro, l’analisi che ci interessa sulla derivazione dell’istituto giuridico dagli stadii della tecnica non ne resta inficiata, e basta rimandare alla grande importanza che Engels e Marx dettero all’avvio di questi studi sulla preistoria, premendoci di venire molto più oltre.
Riducendoci alle linee scheletriche e alle cose a tutti note, bastano i rapporti sulla proprietà dell’oggetto mobile consumabile e comunque adoperabile, dell’uomo schiavo o servo, e della terra, a definire le linee fondamentali dei successivi tipi storici di società di classe.
La proprietà, dice il giurista, nasce dall’occupazione. Lo dice pensando al bene immobile, ma la formula va bene anche per la proprietà sullo schiavo e sull’oggetto merce. Infatti «le cose mobili si appartengono al possessore». Non meno ovvio è il trapasso da possesso a proprietà. Se io ho una cosa qualunque tra le mani, in generale anche un altro uomo o un pezzo di terra (nel qual caso non lo tengo colle mani – e nemmeno l’uomo e la merce tengo costantemente colle mani) senza che un altro riesca a sostituirmi, io sono il possessore. Possesso materiale, fin qui. Ma il possesso diviene legittimo e giuridico, e si eleva a diritto di proprietà, quando ho la possibilità contro un eventuale pretendente o disturbatore di conseguire l’appoggio della legge e della autorità, ossia della forza materiale sistemata nello Stato, che verrà a tutelarmi. Per la cosa mobile o merce il semplice possesso dimostra la proprietà giuridica finché qualcuno non prova che io gli abbia sottratta la cosa con forza o frode. Per lo schiavo negli stati bene ordinati vi era una anagrafe familiare che li registrava ai padrone. Per gli immobili anche modernamente la macchina legale è assai più complessa, dipende da titoli in date forme e da pubbliche registrazioni, e così più complesso è il controllo legale dei trapassi di proprietà. Comunque il possesso materiale è sempre una grande risorsa per il suo effetto sbrigativo, e la legge lo difende in un primo stadio salvo in secondo tempo la difficile indagine piena sul diritto di proprietà. Si dice come paradosso giuridico che anche il ladro può chiedere alla legge la tutela possessoria, se estromesso (magari dallo stesso proprietario, per teorico assurdo) e i più avveduti patrocinatori legali dicono che tutti i codici si possono ridurre al solo «articolo quinto, chi tiene in mano ha vinto».
Alla base quindi di ogni regime della proprietà vi è un fatto di appropriazione dei beni in generale. I figli dello schiavo restavano al padrone, se fuggivano poteva farli inseguire dalla legge che glieli riconduceva.
Nel regime medioevale del feudalesimo appare in generale abolita la tecnica della produzione con manodopera di schiavi e la relativa impalcatura legale che disciplina la proprietà sulle persone umane. La disposizione della terra agraria assume una forma più complessa di quella classica del diritto romano in quanto su di essa si adagia una gerarchia di signori che culmina nel sovrano politico, che distribuisce ai dipendenti vassalli le terre con un regime giuridico assai complesso. La base economica è il lavoro agricolo a mezzo non più di schiavi, ma di servi della gleba, che non sono oggetto di vera proprietà ed alienazione da padrone a padrone, ma non possono in generale lasciare il feudo su cui lavorano con la loro famiglia. I prodotti del lavoro da chi sono appropriati? In una certa parte dal lavoratore servo, e in generale dandogli un piccolo appezzamento i cui frutti gli devono bastare per alimentarsi coi suoi, mentre egli è tenuto a lavorare solo o con gli altri nelle più vaste terre del signore, e tali maggiori prodotti sono a questi consegnati. Tale lavoro è la cosiddetta comandata. Nelle forme più recenti il servo si avvicina al colono in quanto tutta la terra del feudatario è smistata in piccole aziende familiari, ma dal prodotto di ognuna una forte quota viene consegnata al padrone.
In questo regime il lavoratore ha un parziale diritto ad appropriarsi dei prodotti del suo lavoro per consumarli a suo beneplacito. Parziale in quanto vi incidono i tributi, in tempo di lavoro o in derrate che siano, al padrone feudale, al clero e così via.
La produzione non agricola ha scarso sviluppo, per la tecnica ancora arretrata, la scarsa urbanizzazione e la primitività generale della vita e dei bisogni delle popolazioni. Ma i lavoratori di oggetti manufatti sono uomini liberi, ossia non legati al luogo di nascita e di lavoro. Sono gli artigiani, chiusi nelle pastoie di organismi e regole corporative, ma tuttavia economicamente del tutto autonomi. Nella produzione artigiana, della piccola e minima azienda e bottega, abbiamo la proprietà del lavoratore su vari ordini di beni: gli strumenti non complicati del suo lavoro, le materie prime che acquista per trasformarle, i prodotti manufatti che vende. A parte gli oneri delle corporazioni e dei comuni e dati diritti feudali sui borghi, l’artigiano lavora solo per sé e gode il frutto di tutto il tempo e di tutto il risultato del suo lavoro.
La rete di circolazione di questo sistema sociale è poco intricata. La grande massa dei lavoratori agricoli consuma sul luogo quanto produce e poco vende per acquistare i limitati oggetti di vestiario o altro che usa. Gli artigiani e mercanti scambiano coi contadini e tra loro per lo più in cerchi ristretti di città, villaggi e campagne, una piccola minoranza di signori privilegiati attinge da larghi raggi gli oggetti del suo godimento e fino a pochi secoli fa ignorava essa stessa le forchette, il sapone o quasi, per non dire di cento altre cose oggi usate da tutti.
Man mano però si pongono le premesse della nuova era capitalistica, con i ritrovati tecnici e scientifici che arricchiscono in mille guise i processi di manipolazione dei prodotti, con le scoperte geografiche e le invenzioni di nuovi mezzi di trasporto di persone e di merci che allargano continuamente l’ambito delle zone di circolazione e le distanze tra il luogo di fabbricazione e quello di uso dei prodotti.
Il procedere di queste trasformazioni è svariatissimo e conosce strane lentezze e travolgenti espansioni. Mentre dall’inizio dell’evo moderno già milioni di consumatori imparavano a conoscere e adoperare spezie e merci ignorate ed esotiche sorgendo nuovi bisogni (caffè, tabacco, ecc. ecc.) era ancora possibile al tempo della prima guerra mondiale sentire che una signora calabrese, grande proprietaria, aveva in un anno speso «un soldo» in tutto per gli aghi, essendole tutto il resto fornito dalla sua proprietà.
Arrivati a questo solito punto colla rammemorazione di questi pochi cenni, semplificata volutamente ma tentando di mettere le parole giuste al loro posto, domandiamoci quali sono le reali caratteristiche differenziali della nuova produzione ed economia capitalistica e del regime borghese a cui questa fornisce la base. E vediamo subito in che veramente consiste il mutamento che i nuovi sistemi tecnici, le nuove forze di produzione poste a disposizione dell’uomo, inducono dopo una lunga e dura lotta nei rapporti di produzione, ossia nelle possibilità e facoltà di appropriazione dei varii beni, in contrapposto a quanto avveniva nella società precedente, feudale ed artigiana.
Incominceremo così a stabilire in modo chiaro le basi della nostra ulteriore indagine sulle effettive relazioni tra il sistema capitalistico e la forma della appropriazione dei varii beni: merci pronte al consumo, strumenti di lavoro, terra, case e impianti vari fissati al suolo, per estenderla al processo di sviluppo dell’era capitalistica ed a quello della sua fine.
Il sorgere dell’economia capitalistica nei suoi effetti sui rapporti di proprietà si presenta non come una instaurazione, ma come una larghissima abolizione di diritti di proprietà privata. La tesi così formulata non solo non deve apparire strana ma nemmeno nuova, essendo del tutto conforme sostanzialmente e formalmente alla esposizione di Marx.
Nei riguardi dei signori terrieri feudali la rivoluzione borghese consistette in una radicale abolizione di privilegi ma non in una soppressione del diritto di proprietà sulla terra. Non si deve qui pensare alla rivoluzione nel senso di breve periodo di lotta, alle misure contro ribelli ed emigrati, e nemmeno alle posteriori misure di soppressione di privilegi sulle terre di enti di culto, ma riferirsi al contenuto economico sociale della grande trasformazione, che nel suo svolgimento comincia assai prima e finisce molto dopo le classiche date di insurrezioni, proclamazioni, e promulgazioni di nuovi statuti.
L’avvento del capitalismo ha il carattere di una distruzione di diritti di proprietà nei riguardi della numerosa classe dei piccoli produttori artigiani ed in largo campo e soprattutto in date nazioni anche a carico dei contadini proprietari lavoratori.?
La storia della nascita del capitalismo e della accumulazione primitiva coincide colla storia della feroce, disumana espropriazione dei produttori ed è consegnata nelle pagine più scultoree del «Capitale».
Il capitolo conclusivo del primo libro, come altre fondamentali scritture del marxismo, presenta il futuro abbattimento del capitalismo come la espropriazione degli espropriatori di allora, e perfino – ma di ciò diremo nella parte ulteriore di questo scritto – come una rivendicazione di quella distrutta e calpestata «proprietà».
Perché tutto questo sia chiaramente inteso occorre appunto seguire l’indagine nella corretta applicazione del nostro metodo, e non perdere mai di vista le relazioni che corrono tra le formulazioni del linguaggio o del diritto corrente, e quelle specifiche di noi socialisti marxisti.
La spiegazione dell’instaurarsi del capitalismo nel campo della tecnica produttiva si ricollega ai molteplici perfezionamenti della applicazione dell’opera umana alle materie lavorate, si inizia colle prime innovazioni tecnologiche nate sul banco del paziente e geniale artigiano isolato, percorre un formidabile ciclo col sorgere dei primi opifici, manifatturieri all’inizio, poi basati sulle macchine operatrici che sostituiscono la mano dell’operaio, poi ancora sull’impiego delle grandi forze meccaniche motrici.
Modernamente il capitalismo ci si presenta come il formidabile complesso di impianti, costruzioni, opere, macchinari, di cui la tecnica ha ricoperto il suolo dei paesi più avanzati, e perciò riesce ovvio definire il sistema capitalistico come quello dalla proprietà e del monopolio di questi colossali moderni mezzi di produzione, il che è esatto solo in parte.
Le condizioni tecniche della nuova economia consistono in nuovi procedimenti basati sulla differenziazione degli atti lavorativi e sulla divisione del lavoro, ma storicamente ancora prima di questo fenomeno abbiamo quello più semplice dell’avvicinamento e riunione in un luogo comune di lavoro di molti lavoratori, che seguitino ad operare con la stessa tecnica e usando gli stessi strumenti semplici che usavano quando erano isolati ed autonomi.
Il carattere veramente distintivo della innovazione non sta dunque nel fatto che sia apparso un possessore o conquistatore di nuovi mezzi o grandi meccanismi, i quali, producendo i manufatti più facilmente, soppiantino la produzione artigiana tradizionale. Questi grandi impianti vengono dopo, poiché per la semplice cooperazione, come dice Marx, ossia raggruppamento di molti lavoratori, basta un locale anche primitivo che può essere facilmente tolto a nolo dal «padrone» – ed anzi nello sweating system (lavoro a domicilio) i lavoratori rimangono nelle loro case. Il carattere distintivo è dunque altrove, esso è un carattere negativo, e pertanto distruttivo e rivoluzionario. Ai lavoratori è stata tolta la possibilità di possedere per loro conto le materie prime, gli arnesi di lavoro, e quindi di restare possessori di quanto avranno prodotto con l’opera loro, liberi di consumarlo o venderlo comunque. Per riconoscere dunque una prima economia capitalistica in funzione, basta dunque a noi constatare che vi sono masse di produttori artigiani che hanno perduta la possibilità di procurarsi materie e strumenti e, come condizione complementare, che nelle mani di nuovi elementi economici, i capitalisti, si sono raccolti mezzi di acquisto in volumi notevoli, che mettono questi in grado da un lato di accaparrare le materie e gli arnesi di lavoro e dall’altro di acquistare la forza lavoro degli artigiani divenuti salariati, restando assoluti possessori e proprietari di tutto il prodotto del lavoro.
A questa seconda condizione corrisponde il fatto della primitiva accumulazione del capitale, di cui l’origine è studiata in altri contributi alla conoscenza del marxismo, e che risale a molteplici fattori storici ed economici.
Che il solo avvicinamento degli operai basti a rendere superiore il nuovo sistema e lo conduca a soppiantare il vecchio, è spiegato dal diminuito onere dei trasporti e rifornimenti e dalla migliore utilizzazione del tempo che i produttori dedicano alle fasi, tuttora tecnologicamente assai semplici, della lavorazione. Abbiamo un primo superamento in rendimento dell’artigianato a botteghe ed officine isolate. Ma questo viene definitivamente battuto cogli ulteriori sviluppi dovuti alla divisione del lavoro. Non è più il singolo artefice, aiutato da uno o due garzoni, che allestisce il prodotto manifatturato, ma questo sorge da interventi successivi di lavoratori di diverso mestiere, ognuno dei quali da solo non saprebbe né potrebbe farlo. Più avanti ancora molte delle più difficili operazioni prima fatte a mano dopo un lungo tirocinio vengono effettuate da una macchina, e lo stesso risultato produttivo è ottenuto da molto minori sforzi di lavoro, nel senso fisico e mentale, dell’operatore.
Seguendo questo processo vediamo ingigantire la massa di impianti della fabbrica, che naturalmente non appartengono giuridicamente al lavoratore, come già non gli appartenevano più in generale nemmeno i semplici utensili manuali nello stadio iniziale. Ma la appartenenza giuridica di questi grossi impianti al capitalista e datore di lavoro non è una condizione necessaria; lo abbiamo provato ricordando che già prima che essi fossero apparsi avevamo nella prima manifattura un capitalismo economico e sociale vero e proprio, e ci restano da esaminare molti casi in cui nella economia moderna gli impianti produttivi non sono di proprietà giuridica del proprietario dell’azienda. Basti per ora ricordare affitti, concessioni, appalti e così via, nell’industria, e nell’agricoltura la grande affittanza capitalistica.
La vera circostanza che ci fa constatare l’avvento del capitalismo sta dunque oltre che nella accumulazione primitiva nella «violenta separazione del produttore dagli strumenti e dai prodotti del suo lavoro».
Il capitalismo, economicamente e socialmente, appare come una distruzione della facoltà di appropriazione dei prodotti da parte dei lavoratori, ed una appropriazione di essi da parte dei capitalisti.
Con la perdita di ogni diritto sui beni prodotti, ovviamente il lavoratore perse tutti i diritti sugli attrezzi, sulle materie prime, sul luogo di lavoro. Tali diritti erano un rapporto di proprietà individuale che il capitalismo ha distrutto, per sostituirvi un nuovo diritto di appropriazione, di proprietà, che necessariamente è un diritto sui prodotti del lavoro, ma non è altrettanto necessariamente un diritto sui mezzi di produzione. La titolarità giuridica di questi può anche mutare senza che cessi il carattere capitalistico dell’azienda. Di più il nuovo tipo di appropriazione non è necessariamente, ossia perché si abbia diritto in lingua marxista di parlare di capitalismo, un diritto a tipo individuale e personale, come lo era invece nella economia artigiana, che sorpassava di rado i limiti familiari.
Il capitalismo, in Marx – poiché non facciamo che esporre la dottrina quale sempre è stata professata – non solo si instaura con una espropriazione ma fonda una economia e quindi un tipo di proprietà sociale. Potevamo parlare classicamente di proprietà personale quando era dato riunire nella titolarità di uno solo tutti gli atti produttivi ed economici, ma quando il lavoro diviene funzione collettiva cd associata di molti produttori – carattere questo fondamentale e indispensabile del capitalismo – la proprietà su tutta la nuova azienda è un fatto di portata e di ordine sociale, anche se la intestazione giuridica menziona una sola persona.
Questo concetto, essenziale nel marxismo, si svolge direttamente in quello di lotta di classe e di antagonismo di classe insito nel sistema capitalistico. L’appropriazione dei prodotti da parte del datore di lavoro, che ha di fronte a sé non più schiavi e servi ma lavoratori salariati «liberi», è un rapporto spostato sul piano sociale che non interessa più solo l’unico padrone e i cento operai, ma tutta la classe lavoratrice contrapposta al nuovo sistema di dominatori, e alla forza politica che esso ha fondata col nuovo tipo di Stato. Questa funzione sociale si rende chiara nella legge marxista della accumulazione e della riproduzione progressiva del capitale. Il padrone di schiavi e il feudale signore di terre traevano dal sopralavoro fornito dai loro dipendenti il loro reddito personale, ma potevano benissimo consumarlo tutto senza che il sistema economico cessasse di funzionare alla scala sociale. La parte dei prodotti del loro lavoro lasciata agli schiavi e ai servi bastava a farli sopravvivere e perpetuare il sistema. Perciò il diritto di proprietà del padrone di schiavi e di servi della gleba è un vero diritto individuale. Non meno individuale è quello del contadino libero e dell’artigiano, che non rendono sopralavoro a nessuno (non è qui ancora quistione del fisco – e in quei regimi lo Stato era «a buon mercato») e possono consumare tutto il frutto del loro lavoro, che coincide con quello del loro ristretto possesso su poca terra e sulla piccola bottega (intesa come azienda e non come locale). Il capitalista trae bensì un profitto dal sopralavoro non pagato ai suoi operai, cui corrisponde solo quanto basta per vivere, ma il tratto fondamentale della nuova economia non è che egli, in teoria e secondo la legge scritta, può consumare tutto il profitto personalmente; è invece il fatto generale e sociale che i capitalisti devono riservare una parte sempre più grande del profitto ai nuovi investimenti, alla riproduzione del capitale. Questo fatto nuovo e fondamentale ha più importanza di quello del profitto consumato da chi non lavora. Se questo rapporto è più suggestivo e si è sempre prestato di più alla propaganda di ritorsione sul terreno giuridico o morale contro gli apologisti del regime borghese, la legge fondamentale del capitalismo è per noi l’altra, ossia la destinazione di una gran parte del profitto alla accumulazione del capitale.
Caratteristiche distintive della comparsa dell’economia capitalista sono quindi l’accumulazione, in alcune mani di singoli, di masse di mezzi di acquisto con cui si possono avere sul mercato materie da lavorare e strumenti, e la soppressione per larghi strati di produttori autonomi della possibilità di possedere materie, strumenti e prodotti del lavoro.
Nel nostro linguaggio marxista ciò vale a spiegare la genesi del capitalista industriale da un lato, e dall’altro delle masse di lavoratori salariati nullatenenti.
E ciò, siamo soliti a dire, è stato il risultato di una rivoluzione economica sociale e politica.
Non pretendiamo tuttavia che i borghesi e i neo-capitalisti abbiano realizzato il processo conquistando il potere nella guerra civile, e poi promulgando una legge che diceva: è vietato a chi non appartiene alla vincitrice classe capitalistica di comprare materie prime e arnesi e macchine e di vendere prodotti manufatti. La cosa è andata ben altrimenti. Oggi ancora non è vietato dalla legge fare l’artigiano, non solo, ma oggi, mentre l’accumulazione capitalistica accelera sotto i nostri occhi il suo ritmo veramente infernale, vediamo fare a gara nell’apologia della economia artigiana fascisti, socialisti nazionali e socialcristiani, a coro con un vecchio béguin di mazziniani. E altrettanto va detto per il produttore agricolo autonomo proprietario del suo lotto di terra.
Il vero processo dell’accumulazione primitiva è stato altro, e lo si può presentare col linguaggio della filosofia e dell’etica corrente, con quello del diritto positivo, con quello del marxismo ben altrimenti calzante.
La proprietà come diritto a disporre del prodotto dell’opera propria, ai primi albori del capitalismo era ancora difesa da ideologi conservatori e da teologi, satireggiati da Marx nel loro imbarazzo dinanzi al passaggio della proprietà nelle mani di chi non aveva fatto nulla. Comunque tutte le loro teorie sulla giustificazione del profitto capitalistico da risparmio, astinenza, lavoro personale precedente, non riuscirono a moralizzare il fatto che il fabbricatore di spilli non può intascarne uno nell’uscire dall’officina senza rendersi reo di furto qualificato.
Nel sistema giuridico contingente il rapporto di proprietà su una bottega, una fabbrica, uno stock di materie da lavorare e di prodotti, da parte di una persona singola, non era escluso né dai vecchi codici del regime feudale né da quelli che elaborò la rivoluzione borghese.
Il rapporto economico sociale è messo però in chiaro alla luce del marxismo dalla considerazione del valore del prodotto in rapporto alla quantità di forza-lavoro necessaria a realizzarlo. Se nella manifattura quel prodotto si ottiene in quattro ore mentre l’artigiano lo ottiene in otto, l’artigiano rivestito del suo pieno diritto di proprietà potrà portarlo al mercato, ma ne ritirerà un prezzo ridotto alla metà, col quale non potrà acquistare le sussistenze per la sua giornata. Non potendo fisicamente lavorare sedici ore al giorno, per pareggiare il suo bilancio sarà costretto ad accettare le condizioni del capitalista, ossia lavorare, poniamo, dodici ore per lui e lasciargli i prodotti, ricevendo in salario l’equivalente di sei ore di lavoro, con le quali, sia pure più miseramente, potrà campare.
Questo trapasso brutale e feroce contiene in sé la condizione necessaria per il progresso della tecnica produttiva: solo sottraendo all’artigiano asservito al capitale quel margine di valore di sua forza di lavoro, si possono creare le basi sociali della accumulazione del capitale, fatto economico che accompagna quello tecnico del diffondersi di impianti e mezzi produttivi caratteristici della nuova epoca scientifica e meccanica.
Perché adunque la affermazione del nuovo sistema di produzione e di appropriazione dei frutti del lavoro dovè, per trionfare, spezzare determinati ostacoli nelle forme della produzione, ossia nei rapporti di proprietà del vecchio regime? Perché esistevano una serie di sanzioni e di norme limitative contraddittorie alle nuove esigenze, ossia alla libertà di movimento dei capitalisti, ed alla disponibilità di una massa di offerenti di lavoro salariato. Da un lato il monopolio del potere statale da parte degli ordini dei nobili e degli ecclesiastici poneva i primi accumulatori di capitale, mercanti usurai o banchieri, al rischio di vessazioni continue e talvolta di spoliazioni, dall’altro le leggi e i regolamenti corporativi lasciavano agli organismi dei maestri artigiani delle città dei privilegi di monopolio sulla produzione di dati articoli manufatti e quindi sul loro smercio in dati territori. E le massa di lavoratori dell’industria non si sarebbero potute formare se non svincolando dalla gleba i servi e dalle botteghe i garzoni e i rovinati padroni artigiani.
La rivoluzione non condusse dunque ad un nuovo codice positivo della proprietà, ma fu indispensabile per abolire le vecchie leggi feudali che inquadravano i rapporti di produzione e di commercio nelle campagne e nelle città.
Considerando il sistema capitalistico come contrapposto al regime feudale sulle cui rovine esso sorse, non dobbiamo vedere come sua linea caratteristica la fondazione di un diritto di proprietà nuovo sulla macchina, la fabbrica, la ferrovia, la canalizzazione o altro, attribuito alla persona fisica o giuridica.
Dobbiamo vedere invece chiaramente quali sono le linee discriminanti, i veri connotati della economia capitalistica, perché altrimenti non potremo seguire sicuramente il processo della sua evoluzione e giudicare i caratteri del suo superamento.
Rispetto all’evolversi dei rapporti di proprietà, e restando per ora nel campo del diritto di proprietà sulle cose mobili, in quanto diremo subito dopo della proprietà del suolo e degli impianti stabili, le caratteristiche essenziali e necessarie del capitalismo sono le seguenti:
Primo: la esistenza di una economia di mercato, per cui i lavoratori devono fare acquisto di tutti i mezzi di sussistenza, nel senso generale.
Secondo: la impossibilità per i lavoratori di appropriarsi e di recare direttamente sul mercato le cose mobili costituite dai prodotti del loro lavoro, ossia il divieto della proprietà personale del lavoratore sul prodotto.
Terzo: la corresponsione ai lavoratori di mezzi di acquisto e più in generale di beni e servizi in una misura inferiore al valore aggiunto da essi ai prodotti e l’investimento di una gran parte di tale margine in nuovi impianti (accumulazione).
Sulla scorta di questi criteri di base occorre cercare se la titolarità personale della proprietà sulla fabbrica e sugli impianti produttivi sia indispensabile per la esistenza del capitalismo, e se non possa esservi non solo una economia puramente capitalistica senza una tale proprietà, ma perfino se in date fasi non convenga al capitalismo dissimularla sotto altre forme.
Ad una tale indagine andrà premessa qualche notevole considerazione sulla importanza economica e la evoluzione giuridica del diritto di proprietà sul suolo, il sottosuolo e il soprasuolo da parte di persone e ditte private nell’epoca contemporanea.
Prima di addentrarci nel tema di questa ricerca, che riguarda gli istituti giuridici della proprietà che accompagnano l’economia capitalistica nel suo corso storico, è tuttavia necessario ricordare ancora quali sono sempre stati i veri termini della grande rivendicazione socialista.
Questa consiste storicamente, lasciando da parte gli accenni letterari e filosofici di comunismo sui beni che si ebbero in regimi preborghesi fin dalla antichità e che anche si riconnettevano a speciali riflessi dei rivolgimenti di classe, nel movimento che investe fin dal suo sorgere i cardini sociali del regime e del sistema capitalistico. Movimento di critica e di combattimento la cui forma completa non è separabile dall’effettivo intervento nelle lotte sociali della classe operaia salariata e dalla sua organizzazione in partito di classe internazionale facente propria la dottrina del «Manifesto dei comunisti» e di Marx.
La rivendicazione socialista, milioni di volte enunciata nelle pagine di volumi di teoria o nelle modeste parole di discorsi e giornaletti di propaganda, non può essere viva e reale se non si applica il metodo dialettico del marxismo, al tempo stesso nella sua semplice immediatezza e nella possente sua profondità.
Non basta il grido di protesta contro le assurdità, le ingiustizie, le disuguaglianze, le infamie di cui il regime capitalistico borghese è materiato, a costruire la rivendicazione socialista proletaria. E in tal senso insufficienti furono le innumeri posizioni pseudo-socialiste o semi-socialiste di filantropi umanitari di utopisti di libertari di apostoli più o meno eccitati da nuove etiche e mistiche sociali.
Il grido del proletariato e del marxismo al regime borghese non è un «Vade retro Satana!» È al tempo stesso un benvenuto ed in data epoca storica una offerta di alleanza, ed una dichiarazione di guerra ed un annunzio di distruzione. Posizione incomprensibile a tutti quelli che fondano la spiegazione della storia e delle sue lotte su credenze religiose e su sistemi morali, come in genere su metodi non scientifici ed anche inconsciamente metafisici, cercando in ogni vicenda e in ogni stadio della storia della società umana il gioco di criteri fissi debitamente maiuscolati come il Bene il Male la Giustizia la Violenza la Libertà l’Autorità…
Delle caratteristiche di organizzazione sociale che il capitalismo ha col suo avvento attuate, alcune sono acquisizioni che il socialismo proletario accetta non solo, ma senza delle quali non potrebbe esistere, altre sono forme e strutture che, dopo il loro espandersi, si prefigge di annientare.
Le sue rivendicazioni vanno quindi definite in rapporto ai vari punti nei quali abbiamo riordinato gli elementi tipici, i caratteri distintivi del capitalismo al momento della sua vittoria. Questa è una rivoluzione, ed è una prima premessa storica generale all’avvento del regime per cui i socialisti lotteranno. La quasi immediata presa di posizione anticapitalista, per quanto radicale e cruda, non ha il carattere di una restaurazione, apologetica di condizioni e forme precapitalistiche generali. Occorre oggi ristabilire chiaramente tutto questo; sebbene sia più di un secolo che i reiterati sforzi della nostra scuola tendano allo stesso fine, in quanto ad ogni passo della storia della lotta di classe pericolose deviazioni hanno dato luogo a movimenti e a dottrine che falsificavano importantissime posizioni del socialismo rivoluzionario.
Nel capitolo precedente abbiamo dapprima richiamate le note caratteristiche tecnico-organizzative della produzione capitalistica contrapposta a quella artigiana e feudale. Nel loro complesso tali caratteristiche sono conservate e integralmente rivendicate dal movimento socialista. La collaborazione di numerosi operai nella produzione di uno stesso tipo di oggetto, la successiva divisione del lavoro, ossia lo smistamento dei lavoratori tra diverse e successive fasi della manipolazione che conduce a rendere finito uno stesso prodotto, l’introduzione nella tecnica produttiva di tutte le risorse della scienza applicata con le macchine motrici ed operatrici, sono apporti dell’epoca capitalistica ai quali non si propone certo di rinunziare e che saranno anzi la base della nuova organizzazione socialista. Non meno importante e irrevocabile acquisizione è lo svincolo dei processi tecnici dal mistero, dal segreto e dalle esclusività corporative, base sicura, nella visione determinista, del difficile sviluppo della scienza dalle pastoie antiche di stregonerie, religioni, filosofismi. Resta sempre fondamentale la dimostrazione che la borghesia ha attuato questi apporti con metodi sopraffattori e barbari e precipitando le masse produttrici nella miseria e nella schiavitù del salariato. Ma non si propone certo con questo il ritorno alla mera produzione dell’artigiano autonomo.
Nel momento in cui questo, ed anche il piccolo contadino, veniva spogliato di ogni possesso e ridotto a operaio salariato, si aveva il suo immiserimento e si superavano le sue resistenze con la violenza. Ma i nuovi criteri di organizzazione dello sforzo produttivo permettevano di esaltarne il risultato e il rendimento nel senso sociale. Malgrado i prelievi del padrone industriale, alla scala generale le masse venivano messe in grado di soddisfare collo stesso tempo di lavoro nuovi e più svariati bisogni[1]. Prima ancora di considerare gli enormi vantaggi nella resa produttiva a cui condussero la divisione del lavoro e il macchinismo, noi riteniamo un vantaggio definitivo e da cui non si postula di recedere la semplice economia di trasporti di operazioni commerciali e di gestione a cui conduce la manifattura rispetto alle semplici botteghe. Ogni artigiano era il contabile il cassiere il piazzista il commesso di sé medesimo con enorme sciupio di tempo di lavoro, mentre nel grande opificio un solo impiegato fa questo stesso servizio ogni cento operai. Ogni proposta di nuovo sminuzzamento delle forze produttive concentrate dal capitale è per i socialisti reazionaria. E parliamo di forze produttive non solo a proposito degli uomini addetti al lavoro di cui ora si è discorso, ma naturalmente delle masse di materie da lavorare e lavorate, degli strumenti del lavoro, e di tutti i complessi impianti moderni utili alla produzione in massa ed in serie.
Non sembri un digressione il rilevare che l’accettazione nella rivendicazione socialista del progressivo concentrarsi degli impianti e delle sedi di lavoro come contrapposto alla economia a piccole aziende, non significa affatto accettazione di quella conseguenza del sistema capitalistico che consiste nella accelerata industrializzazione tecnica di date zone lasciandone altre in condizioni retrograde, e ciò tanto come rapporto di paese a paese che come rapporto di città a campagna. Tale rapporto sussiste storicamente finché il regime borghese non ha esaurita la sua fase di spoliazione e di riduzione a salariati nullatenenti dei vecchi ceti produttivi. La rivendicazione socialista dialetticamente non può non far leva sulla funzione rivoluzionaria dirigente degli operai che il capitalismo ha urbanizzato in masse imponenti, ma tende alla diffusione in tutti i territori delle moderne risorse tecniche e della moderna vita più ricca di manifestazioni, come enunciato fin dal «Manifesto», punto 9 del programma immediato:
«misure per togliere gradatamente le differenze tra città e campagna»
senza contrasto con tutte le altre misure di carattere nettamente accentratore nel senso organizzativo. Lo stesso criterio guida la presa di posizione socialista a proposito dei rapporti tra metropoli e colonie, che si vogliono sottrarre allo sfruttamento delle prime, senza dimenticare che solo il capitalismo e i suoi sviluppi potevano accelerare di secoli e secoli questo risultato, pur avendo in questo campo superato tutti i limiti nell’impiego dei metodi spietati di conquista.
Ereditato dunque dalla rivoluzione capitalista l’enorme sviluppo delle forze della produzione, i socialisti si propongono di sconvolgere il corrispondente apparato di forme, di rapporti di produzione, che si riflette negli istituti giuridici, e ciò dopo aver accettato che i proletari, il quarto stato, combattessero in alleanza della borghesia quando questa infranse le forme e gli istituti del regime precedente, per fondare e consolidare i suoi propri, e per estenderli nel mondo progredito ed arretrato. Ma in quale preciso senso la nostra rivendicazione storica comporta l’abbattimento e il superamento di quelle forme?
La rivoluzione produttiva capitalistica ha separato violentemente i lavoratori dal loro prodotto dal loro arnese di lavoro da tutti i mezzi della produzione, nel senso che ha soppresso il loro diritto di disporne direttamente, individualmente. Il socialismo condanna questa spoliazione, ma non postula certo di restituire ad ogni artefice il suo arnese e l’oggetto di consumo che con questo ha manipolato, perché vada sul mercato a scambiarlo con le sue sussistenze. In un certo senso la separazione brutalmente attuata dal capitalismo è storicamente definitiva. Ma nella nostra prospettiva dialettica tale separazione sarà superata su un piano più lontano e più ampio. L’arnese e il prodotto stavano a disposizione individuale dell’artefice libero e autonomo; sono passati a disposizione del padrone capitalista. Dovranno tornare a disposizione della classe dei produttori. Sarà una disposizione sociale, non individuale, e nemmeno corporativa. Non sarà più una forma di proprietà, ma di organizzazione tecnica generale, e se volessimo fin da ora affinare la formula anticipando sul procedimento dovremmo parlare di disposizione da parte della società e non di una classe, poiché tale organizzazione tende ad un tipo di società senza classi.
Comunque, senza per ora parlare di disposizione e di «proprietà» da parte dell’individuo sull’oggetto che sta per consumare, non possiamo includere nella rivendicazione socialista l’arbitrio personale del lavoratore sull’oggetto che ha manipolato.
Se l’operaio di una fabbrica di scarpe in regime borghese porta via una scarpa, non eviterà la galera dimostrando che corrispondeva bene alla misura del suo piede, e tanto peggio se intendeva invece venderla per averne poniamo del pane. Il socialismo non consisterà nel consentire che il lavoratore esca con un paio di scarpe a tracolla, ma ciò non perché siano state rubate al padrone, bensì perché costituirebbe un sistema ridicolmente lento e pesante di distribuzione delle scarpe a tutti. E prima di vedere in questo un problema di diritto o di morale vi si veda un problema concretamente tecnico per cui basterà pensare agli addetti a una fabbrica di ruote ferroviarie, o, per venire con esempi ovvi ancora più avanti nel sottolineare le rivoluzioni a cui conduce l’innovarsi della tecnica e della vita, a chi lavori in una centrale elettrica o in una stazione radiotrasmittente, e non ha motivo, come in cento altri casi, di essere perquisito all’uscita.
Ora la quistione del diritto di proprietà sul prodotto completo o anche semilavorato è in realtà quella cruciale, ed è molto più importante della proprietà dello strumento di produzione, sulla fabbrica, officina o impianto che sia.
La vera caratteristica del capitalismo è l’attribuzione ad un padrone privato dei prodotti e della conseguente facoltà di venderli sul mercato. In generale all’inizio dell’epoca borghese questa attribuzione deriva da quella dell’opificio, della fabbrica, dello stabilimento ad un titolare privato, il capitalista industriale, in una forma trattata giuridicamente come quella che attribuisce la proprietà del suolo agrario o delle case.
Ma tale proprietà privata individuale è un fatto statico, formale, è la maschera del vero rapporto che ci interessa, che è dinamico e dialettico, e consiste nei caratteri del movimento produttivo, nell’innestarsi degli incessanti cicli economici.
Quindi la rivendicazione socialista, mentre doveva accettare la sostituzione del lavoro associato a quello individuale, propose di sopprimere la attribuzione in possesso privato dei prodotti del lavoro collettivo ad un proprietario unico, capo dell’azienda, libero di smerciarli a suo beneplacito. Logicamente espresse tale postulato relativo a tutta la dinamica economica come abolizione del libero diritto privato dell’industriale sull’impianto produttivo.
Tale formulazione è però incompleta, anche sul piano a cui in questo paragrafo ci atteniamo, ossia del contenuto negativo e distruttivo della posizione economica socialista, non trattandosi ancora del tipo di organizzazione produttiva e distributiva del regime socialistico, e della via da percorrere per arrivarvi, nel campo delle misure economiche e della lotta politica.
La formulazione è incompleta in quanto non dice che cosa si chiede che avvenga delle altre forme proprie dell’economia capitalistica, dopo aver chiarito che si vuole superare quella della attribuzione di tutti i prodotti manipolati in una azienda complessa ad un padrone solo di quelli e di questa.
Infatti l’economia capitalistica si rese possibile in quanto la separazione dei lavoratori dai mezzi e dai prodotti trovò una macchina distributiva mercantile già in atto, sicché il capitalista poté recare i prodotti al mercato e creare il sistema del salario, dando agli operai una parte del ricavato perché si procurassero su quello stesso mercato le sussistenze. L’artigiano adiva il mercato come venditore e compratore, il salariato lo può adire solo come compratore, e con mezzi limitati dalla legge della plusvalenza.
La rivendicazione socialista consiste classicamente nell’abolire il salariato. Solo l’abolizione del salariato comporta l’abolizione del capitalismo. Ma non potendo abolire il salariato nel senso di ridare al lavoratore l’assurda retrograda figura di venditore del suo prodotto al mercato, il socialismo rivendica fin dai primi tempi la abolizione della economia di mercato.
L’inquadratura mercantile della distribuzione ha preceduto come già abbiamo ricordato il capitalismo ed ha compreso tutte le precedenti economie differenziate, risalendo fino a quella in cui vi era mercato di persone umane (schiavismo).
Economia mercantile moderna vuol dire economia monetaria. Quindi la rivendicazione anti-mercantile del socialismo comporta parimenti la abolizione della moneta come mezzo di scambio oltre che come mezzo di formazione pratica dei capitali.
In ambiente di distribuzione mercantile e monetaria il capitalismo tende inevitabilmente a risorgere. Se questo non fosse vero converrebbe stracciare tutte le pagine del «Capitale» di Marx.
La enunciazione anti-mercantilistica sta in tutti i testi del marxismo e specialmente nelle polemiche di Marx contro Proudhon e tutte le forme di socialismo piccolo-borghese. È merito del programma comunista redatto, sia pure in testo assai prolisso, da Bucharin di aver rimesso in piena luce questo vitalissimo punto.
Ma alla fine ad precedente paragrafo abbiamo allineato un terzo punto distintivo del capitalismo rispetto ai regimi che vinse: la decurtazione del prodotto dello sforzo di lavoro degli operai di una forte quota volta al profitto padronale, e soprattutto la destinazione di una parte importante di questa quota alla accumulazione di nuovo capitale.
È ovvio che la rivendicazione socialista, se voleva togliere al padrone borghese il diritto di disporre del prodotto e di recarlo al mercato, gli toglieva il diritto sulla proprietà della fabbrica, e gli toglieva al tempo stesso anche la disponibilità della plusvalenza e del profitto. Proclamò oltre un secolo fa che si poteva abolire il salariato, e questo volle dire superare il tipo di economia di mercato finora conosciuto. Distruggendo il mercato dei prodotti su cui arrivava timido il piccolo artigiano medioevale con pochi articoli manufatti, e sul quale i prodotti del lavoro associato moderno arrivano col carattere capitalistico di merci, è non meno chiaro che si distrugge anche il mercato degli strumenti di produzione e il mercato dei capitali, quindi la accumulazione del capitale.
Ma tutto questo non basta ancora.
Abbiamo già detto che nel processo della accumulazione vi è un lato sociale. Abbiamo ricordato che nella propaganda sentimentale – e chi di noi socialisti non ne ha abusato?… – ponevamo avanti la nequizia, di fronte ad una astratta giustizia distributiva, del prelievo di plusvalenza che andava a consumo del capitalista o della sua famiglia, per vivere di ben altro tenore di vita che quello dei lavoratori. Abolizione del profitto, gridammo quindi, ed era giustissimo. Tanto giusto quanto poco. Gli economisti borghesi da cento anni ci rifanno il conto che, tutto il reddito nazionale di un paese diviso per il numero dei cittadini dà di che vivere appena appena più su dell’umile operaio. Il conto è esatto ma la confutazione è vecchia quanto il sistema socialista, anche se non si troverà mai un Pareto o un Einaudi capace di capirla.
I vari accantonamenti che il capitalista compie prima di prelevare il suo ultimo utile con cui si spassa sono per una parte razionali e a fini sociali. Anche in una economia collettiva si dovranno accantonare prodotti e strumenti in quote, atte a conservare e far progredire l’organizzazione generale. In un certo senso si avrà una accumulazione sociale.
Diremo dunque noi socialisti che vogliamo sostituire la accumulazione sociale a quella personale privata? Non ci saremmo ancora. Se il consumo da parte del capitalista di una quota di plusvalenza è un fatto privato, che chiediamo sia abolito, ma è tuttavia di poco peso quantitativo, la accumulazione anche capitalistica è già un fatto sociale, ed un fattore tendenzialmente utile a tutti sul piano sociale.
Vecchie economie che tesaurizzavano soltanto sono rimaste immobili per millenni interi, la economia capitalistica che accumula ha in pochi decenni centuplicato le forze produttive, lavorando per la nostra rivoluzione.
Ma l’anarchia che Marx imputa al regime capitalistico risiede nel fatto che il capitalista accumula per aziende, per intraprese, le quali si muovono e vivono in un ambiente mercantile.
Questo sistema, e vedremo meglio questa non facile ma centrale tesi tecnico-economico in qualche esempio dal seguito, questo sistema non si sforza che di ordinarsi in funzione del massimo profitto della azienda, che molte volte si attua sottraendo profitti ad altre aziende. In partenza, e qui gli economisti classici della scuola borghese avevano ragione, la superiorità della grande azienda organizzata sulla superanarchia della piccola produzione conduceva ad un tanto maggiore rendimento che, oltre al profitto del capitalista singolo e ad un ottimo accantonamento per nuovi impianti e nuovi progressi, l’operaio della industria evoluta poneva sul suo desco piatti ignoti al piccolo artigiano.
Ma correndo ogni azienda, chiusa in sé e con la sua contabilità di versamenti e ricevimenti dal mercato, al massimo del suo profitto, nel corso dello sviluppo i problemi di rendimento generale del lavoro umano sono risolti male e addirittura al rovescio.
Il sistema capitalistico impedisce di porre il problema di rendere massimo non il profitto ma il prodotto a parità di sforzo e di tempo di lavoro, in modo che prelevate le quote di accumulazione sociale, si possa esaltare il consumo e deprimere il lavoro, lo sforzo di lavoro, l’obbligo di lavoro. Preoccupato solo di realizzare la vendibilità del prodotto aziendale ad alto prezzo e pagare poco i prodotti delle altre aziende, il sistema capitalistico non può giungere verso l’adeguamento generale della produzione al consumo e precipita nelle successive crisi.
Quindi la rivendicazione socialista si propone di abbattere non solo il diritto e la economia della proprietà privata ma al tempo stesso la economia di mercato e la economia di intrapresa.
Solo quando si andrà nel senso che conduce a superare tutte e tre queste forme della economia presente: proprietà privata sui prodotti, mercato monetario, e organizzazione della produzione per aziende, si potrà dire di andare verso la organizzazione socialista.
Si tratta nel seguito di vedere come sopprimendone un solo termine la rivendicazione socialista decade. Il criterio dell’economia privata individuale e personale può essere largamente superato anche in pieno capitalismo. Noi combattiamo il capitalismo come classe e non solo i capitalisti come singoli. Vi è capitalismo sempre che i prodotti sono recati al mercato o comunque «contabilizzati» all’attivo della azienda, intesa come isola economica distinta, sia pure molto grande, mentre sono portate al passivo le retribuzioni del lavoro.
L’economia borghese è economia in partita doppia. L’individuo borghese non è un uomo, è una ditta. Vogliamo distruggere ogni ditta. Vogliamo sopprimere l’economia in partita doppia, fondare l’economia in partita semplice, che la storia conosce già da quando il troglodita usci per cogliere tante noci di cocco quanti erano i suoi compagni nella caverna, e uscì recando le sole sue mani.
Tutto questo lo sapevamo già nel 1848, il che non ci impedisce di seguitarlo dire con giovanile ardore.
Vedremo che per cento anni sono successe molte cose nel gioco dei rapporti che abbiamo considerati, tutte cose che ci hanno resi ancora più duri nel sostenere le stesse tesi.
Dopo avere avvertito il lettore che anche il pronome generale diviene nel sistema socialista un pronome sociale.
Sono beni immobili, nella accezione corrente, la terra e le costruzioni ed trapianti attuati dall’uomo su di essa e non trasportabili di luogo in luogo. All’epoca dell’avvento del regime capitalistico la proprietà immobiliare poteva avere per proprio oggetto principalmente i terreni agrari, i fabbricati di abitazione, i fabbricati per opifici; e solo successivamente col diffondersi di macchinismi fissi o trasportabili, e poi ancora di reti di comunicazione di trasporto e di trasmissione e distribuzione di energie diverse si ebbero casi sempre più complessi in cui la distinzione tecnica sociale e giuridica tra beni immobili e mobili dà luogo a maggiori sottigliezze.
Ci soffermeremo per chiarezza dapprima sulla proprietà del suolo. La distribuzione di questa negli ultimi tempi del regime feudale era piuttosto complessa, avendosi zone di demanio collettivo appartenenti ai comuni o allo Stato, grandi feudi assegnati dai poteri politici centrali alle famiglie della nobiltà, ed anche piccoli possessi indipendenti di contadini agricoltori. La prima forma era una derivazione di antichissime gestioni comuniste della terra soggetta a continui attacchi e dei signori, e dei contadini, e della nascente borghesia; essa traeva le sue origini soprattutto dai popoli e dai sistemi di diritto germanico, presso i quali all’epoca delle migrazioni ed invasioni nel sud si svolse nel feudalesimo militare e dinastico.
La terza forma del piccolo possesso autonomo derivava dall’impero e dal diritto romano, in quanto l’ordinamento di Roma nella madre patria e nei paesi conquistati si fondava sulla spartizione del suolo agrario ai cittadini liberi, soldati in tempo di guerra, mentre sussistevano poi altri molto più grandi lotti di suolo in possesso del patriziato, che li sfruttava col lavoro delle masse di schiavi, privi questi del diritto politico ma anche esenti dall’obbligo del servizio militare. Nel sistema romano, mancando sia la gestione in comune della terra sia l’istituto di un diritto sovrano che potesse spostarla ad arbitrio da un signore all’altro, salvo il controllo dello Stato nella suddivisione dei nuovi territori occupati, si era pervenuti ad una precisa delimitazione e parcellazione dei lotti fondiari, classicamente disciplinata dal diritto civile vigente in tutto l’impero e storicamente ordinata anche in quello d’Oriente. Accennato così alle due forme collaterali alla proprietà feudale, osserviamo ora quali siano le caratteristiche di questa. È il condottiero vincitore, l’eletto di un gruppo di capi e principi alleati, poi il monarca assoluto ed anche la gerarchia ecclesiastica, che compie assegnazioni e spartizioni di autorità tra i vari signori e vassalli distribuiti in successivi ordini di gerarchia, fissando o mutando anche frequentemente e ad arbitrio i limiti delle circoscrizioni. Entro queste forme più o meno intricate tutta l’impalcatura di signori di guerrieri e di sacerdoti vive del lavoro della massa contadina vincolata a non abbandonare il feudo cui appartiene.
Come più volte osserva Marx, prevale in questo sistema sociale più che il rapporto giuridico fra il proprietario e la terra, quello tra il titolare del feudo, e del titolo nobiliare che lo accompagna, e la massa delle famiglie dei suoi servi. Non interessa al signore avere molta terra quanto molti servi, essendo a sua disposizione una certa parte del prodotto del lavoro di tutti costoro. Un altro cardine dell’ordinamento feudale è quello che il signore, comunque vada la sua gestione economica, non può perdere il suo feudo; esso non è alienabile, non è espropriabile, ed il sistema del maggiorasco ne evita anche la suddivisione ereditaria, istituto così importante invece nel sistema romano. Per conseguenza, ed almeno quanto alle enormi estensioni di terra oggetto di investitura feudale, non vi è mercato dei suoli, la terra non può essere scambiata con la moneta.
Questa valutazione del regime preborghese da cui partiremo nel valutare la posizione del capitale trionfante rispetto alla proprietà fondiaria è fondamentale nell’analisi marxista. È detto nel capitolo 24 del «Capitale» con riferimento all’epoca della servitù della gleba:
«In tutti i paesi d’Europa la produzione feudale è caratterizzata dalla ripartizione del suolo fra il più gran numero possibile di vassalli. La potenza del signore feudale, come quella di qualsiasi altro sovrano, non poggiava sull’ammontare dei livelli percepiti, bensì sul numero dei suoi sudditi, e quest’ultimo dipendeva dal numero dei contadini stabiliti sui suoi domini».
Poiché non vorremmo che sembrassero nuovi od originali gli svolgimenti che trarremo da queste premesse, richiamiamo anche, circa il rapporto tra il suolo e la moneta, un passo fondamentale del capitolo 2:
«Gli uomini hanno spesso fatto dell’uomo stesso, nella figura dello schiavo, il materiale primitivo della moneta; ciò non è mai avvenuto per il suolo. Una tale idea non poteva nascere che in una società borghese già sviluppata. Essa data dall’ultimo terzo del secolo decimo settimo, e la sua applicazione non venne tentata su grande scala, da tutta una nazione, se non un secolo più tardi, durante la rivoluzione del 1789, in Francia».
Il capitale moderno non è dunque la stessa cosa della proprietà in generale, e non basta abolire questa, in teoria e nel diritto, per averlo debellato. Il capitale è una forza sociale la cui dinamica ha aspetti ben più complessi di un platonico diritto di proprietà. Esso si presenta come contrapposto alla proprietà fondiaria tradizionale, ed uno dei principali elementi dell’antitesi è che la seconda è veramente personale, il primo esce dai limiti della facoltà del privato: «Quando si studia storicamente il capitale nelle sue origini, lo si vede ovunque star di fronte alla proprietà fondiaria nella sua forma di moneta come patrimonio monetario o come capitale usurario», dice Marx al capitolo IV, per stabilire che la circolazione mercantile ha per prodotto finale il denaro e che questo è la prima forma sotto cui appare il capitale (che incontreremo poi come opificio, come macchinario, come provvista di materie prime, come massa di salari). In una delle suggestive note al testo è poi detto:
«La opposizione che esiste tra la potenza della proprietà fondiaria (feudale) basata sopra rapporti personali di dominio e la potenza impersonale del denaro, si trova chiaramente espressa nei due motti francesi: «non c’è terra senza padrone il denaro non ha padrone».
Il senso poi della economia moderna che succede alla distruzione dei rapporti feudali è racchiuso in un’altra citazione che trarremo dal capitolo ventiduesimo:
«Noi arriviamo perciò a questo risultato generale, che il capitale, incorporandosi la forza lavorativa e la terra, queste due fonti primigenie della ricchezza, acquista una potenza di espansione che gli permette di aumentare i suoi elementi di accumulazione oltre ai limiti apparentemente fissati dalla sua grandezza, vale a dire dal valore e dalla massa dei mezzi di produzione già prodotti nei quali esso consiste».
Quando poi Marx tratta diffusamente dell’interregno di benessere che si pone nella storia inglese tra la soppressione della medioevale servitù della gleba e l’avvio brutale della grande accumulazione capitalistica, che fonda la ricchezza borghese sul dilagare di una spietata miseria delle masse, un’altra nota ricorda che la società giapponese del tempo, con una organizzazione feudale della proprietà fondiaria fiancheggiata da una piccola proprietà rurale assai diffusa, offriva una immagine più fedele del medio evo europeo che i libri di storia imbevuti di pregiudizi borghesi.
Sul corneo volto dei contemporanei opportunisti che inorridiscono ogni qualvolta pretendono (nella loro incommensurabile asinità) che stiano per ritornare gli ordinamenti medioevali ponendo in pericolo le civili conquiste dell’era capitalistica, che non sanno più in quale altro modo impastare le bastarde combinazioni tra gli ideali della borghesia e le rivendicazioni socialiste, si applichi come un ceffone la battuta finale di questa nota di Marx:
«È davvero troppa comoda essere liberali a spese del Medioevo». (vedi la «Nota: Il preteso feudalismo nell’Italia meridionale»)
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Negli ultimi tempi dell’antico regime, quando la potenza della borghesia nel campo economico è già rilevante, il capitale liquido radunato nelle mani di mercanti e banchieri esercita una violenta pressione per sopprimere gli ostacoli che gli impediscono di impossessarsi delle proprietà immobiliari. Indubbiamente il fatto centrale dell’accumulazione capitalistica consiste nell’approvvigionare col danaro ammucchiato materie prima da sottoporre al lavoro degli operai salariati e sussistenze da corrispondere a questi. Ma occorre pure per la formazione dei primi opifici disporre di luoghi di lavoro ed acquistare fabbricati da ridurre a stabilimenti manifatturieri e suoli per poterveli costruire. Inoltre, la nuova classe padrona di ricchezze è spinta a gareggiare con gli antichi signori feudali che aspira a superare e spossessare anche nel disporre delle case dei palazzi e della terra agraria, mentre i fittavoli arricchiti tendono a togliersi da una posizione di dipendenza acquistando la proprietà del locatore ed esercitando da assoluti padroni l’impresa agricola, che, come Marx nota più volte, è una vera e propria industria.
Tutta la storia e la stessa letteratura degli ultimi periodi antecedenti alla rivoluzione borghese è piena delle manifestazioni di questa lotta che i borghesi, gli arricchiti, i parvenus conducono per gareggiare anche in prestigio con i nobili. Questi anche quando sono a corto di danaro e devono ricorrere ad affaristi ed usurai per mantenere il proprio lustro di vita non solo disprezzano ed umiliano colui che vive di mercatura e di traffici, ma lo stesso diritto vigente li aiuta nel difendersi da loro, nel negare la restituzione dei prestiti, ed è tradizionale la scena del creditore molesto cui i servi del signore spianano le spalle a legnate.
Da questo stato di soggezione e di inferiorità il terzo stato non potrà liberarsi completamente che con la conquista rivoluzionaria del potere politico, e fino ad allora invano gareggerà stupidamente, profondendo i frutti delle sue speculazioni, con la grandezza dei suoi rivali di classe.
Nella commedia di Moliére «Il borghese gentiluomo» vediamo ferocemente satireggiato il mercante che vuole atteggiarsi a nobile. L’autore lo fa vedere beffato in una finta cerimonia di investitura cavalleresca da una troupe di comici che gli cantano in quella specie di italiano proprio della commedia dell’arte:
«Ti star nobile, non star fabbola, pigghiar schiabbola».
Il borghese, quasi a dimostrare con molto anticipo la tesi marxista che non è il lavoro che permette di accumulare capitale, vorrebbe far dimenticare di aver maneggiato il martello del fabbro, e cingere la spada del cavaliere.
Ma ben presto la classe dei capitalisti si rifece delle umiliazioni delle nerbate e delle derisioni sconfiggendo nella rivoluzione sociale le classi dei nobili e dei preti, instaurò il proprio dominio e non trovò freni alla espansione delle sue forze economiche. Cadde allora il sistema della proprietà feudale e dilagò l’acquisto di beni immobili da parte dei portatori di capitale monetario che fino ad allora assai difficilmente avevano potuto soddisfare questa particolare esigenza. Tale fu uno dei caratteri più importanti della rivoluzione capitalistica, ed essa, sempre nelle lapidarie frasi di Carlo Marx, pervenne a «fare della terra un articolo di commercio» e, come poté vantarsi di avere liberato i lavoratori della campagna dalla servitù feudale e i lavoratori della città dai vincoli corporativi, per poterne fare i suoi dipendenti e i suoi sfruttati, poté egualmente menare il vanto di avere «incorporato il suolo al capitale».
Potremmo indicare questo primo periodo di consolidamento del capitalismo vincitore come periodo di immobilizzazione del capitale mobile, intendendo per immobilizzazione l’investimento su larga scala nell’acquisto di proprietà e fondi agrari e di edifizi urbani, necessario complemento economico del possesso dei grandi mezzi industriali di produzione. E questa necessità economica diveniva al tempo stesso una necessità di ordine politico, poiché per debellare completamente gli antichi signori e le pretese di restaurazione dell’ordine feudale conveniva mortificarli anche nelle posizioni di prestigio da loro assunte nelle grandi metropoli che erano sorte per effetto del prorompere delle forme capitalistiche e nelle quali tuttavia re, cortigiani, militari ed ecclesiastici occupavano le dimore più imponenti, mentre era altra pretesa di dominio e di prestigio di tali classi il conservare larghissime estensioni di terreno coltivabili della provincia per le varie finalità di lusso, di svago, di caccia, di soggiorno, di comunità religiose e così via, laddove urgeva alla economia borghese mettere il tutto a reddito sia per ulteriori investimenti affaristici di capitale che per l’intensificata produzione di sussistenze necessarie all’esercito dei lavoratori industriali.
Abbiamo voluto ricordare questo primo periodo di conquista della proprietà immobiliare da parte del capitale perché spingendoci innanzi vedremo che ad esso si contrappone un periodo modernissimo nel quale il capitale intraprenditore tende invece sempre più a svincolarsi dalla titolarità dei possessi immobiliari, poiché ben può esplicare con intensità massima le sue funzioni e realizzare il prodursi di profitti vertiginosi senza bisogno di detenere il possesso locale degli immobili, e senza d’altra parte avere più alcun motivo storico di preoccuparsi che questi ricadano nelle mani delle classi aristocratiche terriere ormai scomparse.
Nel periodo intermedio di un capitalismo stabile, che ci conviene esaminare un poco prima di venire all’analisi di questo terzo periodo modernissimo a cui per chiarezza dell’esposizione abbiamo accennato, i rapporti tra proprietà ed intrapresa si pongono in modi svariati. Quando però si esaminino attentamente le varie forme economiche e le corrispondenti forze sociali, riesce sempre ben chiaro che il carattere distintivo dell’epoca capitalistica deve rinvenirsi nell’intrapresa e non nella proprietà.
Il borghese del primo periodo, il romantico Padrone delle Ferriere non lo potremmo concepire se non come una specie di unico patrono nelle cui mani si concentrano tutti gli elementi e i fattori della produzione. La terra, su cui sorge la fabbrica, gli appartiene, così pure la miniera che gli dà il minerale, lo stabilimento in cui lo si lavora, le macchine e gli utensili. Egli acquista tutte le materie prime e tutte quelle accessorie che entrano nella lavorazione ed acquista la forza di lavoro assoldando i suoi operai. Egli è padrone esclusivo di tutto il prodotto e lo colloca ove crede o gli torna più utile sul mercato. Egli stesso è un tecnico del ramo di produzione in cui lavora, tuttavia stipendia egualmente come suoi impiegati dei tecnici e dei contabili. In un primo periodo le cosiddette spese generali sono limitate, poiché l’officina deve tutto prodursi da sé, luce, calore, forza motrice; le stesse tasse che si pagano allo Stato sono assai ridotte perché nei primi regimi liberali la borghesia applica in pieno la politica economica di lasciar fare, lasciar passare, e sopprime tutti i limiti e i balzelli che possono essere di ostacolo alle iniziative di produzione e di commercio. La registrazione contabile riesce quindi semplice e unitaria e tutto l’utile risultante dall’eccesso delle entrate sulle spese fluisce nelle tasche del capitalista che non deve prelevarne affitti e canoni per gli spazi, gli impianti, gli edifizi di cui fa uso. In questo caso classico, iniziale, il capitalista dispone anche di abbastanza abbondante liquido per poter fare il banchiere di se stesso e quindi non si addebita interessi del capitale numerario che gli occorre per i suoi acquisti di merci e le anticipazioni di salario.
Se volessimo considerare nell’agricoltura il parallelo di questa azienda modello, lo troveremmo in un caso in cui il gestore è nello stesso tempo proprietario fondiario del suolo e di tutte le scorte morte e vive, ossia macchine, attrezzi, provviste di sementi e di concimi, mandre di bestiame ecc. ed inoltre dispone di sufficiente capitale contante per anticipare i salari dei lavoratori giornalieri o ingaggiati ad anno. In tutti questi casi l’unica differenza attiva, che il padrone realizza come premio tra il ricavato della vendita dei prodotti e la somma di tutte le anticipazioni, comprende in sé la rendita fondiaria propria della terra, l’interesse del capitale finanziario, e l’utile dell’intrapresa, elementi economici che possono considerarsi distinti tra loro.
L’economista borghese li considera distinti perché pretende che sorgano da pretese fonti bastevoli ciascuna a generare ricchezza: la terra generatrice di rendita fondiaria, il danaro generatore di un frutto d’interesse, l’intrapresa generatrice di un profitto che viene a compensare l’attività capacità e accortezza di colui che ha saputo mettere insieme razionalmente i vari elementi della produzione.
Per l’economia marxista, tutti questi margini sono prodotti dal lavoro umano e rappresentano la differenza attiva tra il valore che questo ha prodotto e la minor somma che i salariati hanno ricevuto in cambio della loro forza lavoro.
La distinzione tra i vari elementi del guadagno padronale è tuttavia una distinzione storica, corrispondendo ad una spartizione della plusvalenza estorta alla classe lavoratrice tra proprietario fondiario, capitalista prestatore di danaro, ed intraprenditore. La distinzione è di natura storica perché anche prima che sorgesse la vera e propria industria capitalistica che occupa salariati, la terra era suscettibile di dare una resa utile al proprietario fondiario, come il danaro bruto poteva dare un frutto a chi ne disponeva, banchiere o strozzino.
Trattasi ora di vedere quale sia la vera caratteristica della produzione capitalistica rispetto a questi vari elementi quando essi anziché trovarsi riuniti nelle mani di un unico titolare si trovano separati, quando cioè il proprietario giuridico del suolo o della fabbrica, il banchiere anticipatore del numerario, e l’intraprenditore, che dopo aver soddisfatto i due primi e tutti gli altri svariati enti di natura pubblica e semipubblica che vanno accavallandosi nell’economia moderna resta arbitro di incassare a proprio compenso e benefizio il prezzo commerciale dei prodotti rovesciati sul mercato, sono persone diverse.
In tutti questi casi il proprietario del terreno, dell’area, del fabbricato e perfino, in dati casi, del macchinario viene compensato con adeguati canoni di locazione, il banchiere anticipatore riceve un adeguato interesse per le somme prestate, allo Stato o ad altri enti eventualmente concessionari si corrispondono tasse e diritti diversi, e tutto quanto rimane costituisce un utile della intrapresa pura che la contabilità capitalistica tende a mettere falsamente in evidenza come qualche cosa che sorge dopo aver già remunerato i vari capitali, immobili e mobili.
Il marxismo venne a stabilire che questa terza forma, orpellata nelle apologie di classe come esponente di pregresso, di scienza, di civiltà, è più delle altre due velenosa e virulenta, esaltatrice di sfruttamento di estorsione e di miseria. Il socialismo è tutto nella negazione rivoluzionaria dell’impresa capitalistica, non nella conquista di essa al lavoratore aziendale.
Questi vari elementi ed i loro rapporti si smistano nelle forme capitalistiche moderne in modi diversissimi, ma è già un rapporto economico tutt’altro che nuovo quello in cui rinveniamo aziende capitalistiche cui non corrisponde più nessuna forma di proprietà immobiliare, ed in taluni casi nemmeno una sede fissa ed un apprezzabile macchinario e utensilaggio, mentre tuttavia la dinamica del processo capitalistico sussiste in pieno e nella sua forma più squisita. Si avvia così una specie di divorzio tra proprietà e capitale per cui il secondo si smobilizza sempre più e la prima si diluisce, si dissimula, o viene anche presentata come una proprietà di enti collettivi nelle statizzazioni, socializzazioni e nazionalizzazioni che pretendono di essere considerate forme di gestione non più capitalistiche.
Un formidabile repugnante «chiodo» del peggiore opportunismo che regna nel movimento socialista e comunista italiano è quello della deprecata esistenza e sopravvivenza del feudalismo nel sud d’Italia e nelle isole, specie a proposito dell’abusata questione del latifondo agrario meridionale, vero cavallo di battaglia dell’istrionismo retorico e del ruffianesimo politico italiano, il dedurre da quest'immaginaria e inventata constatazione una tattica politica bloccarda e di collaborazione coi partiti borghesi radicali anche dell’Italia del nord (cui sì e no si concede da questi signori la patente di paese capitalistico) sul piano e nel quadro del limaccioso Stato unitario di Roma, bastava e basterebbe a qualificarli di rinnegati della dottrina e dell’azione rivoluzionaria. Ma essi, i socialcomunisti nostrani, campioni della collaborazione demoborghese, mostrano ogni disprezzo per il rispetto ai principii, rivendicando l’impegno dell’arma generale del compromesso e tutto fanno derivare dalla contingente valutazione delle situazioni. È quindi il caso di mettere in tutto rilievo che quel loro giudizio sulla situazione semifeudale del meridione calpesta qualunque seria conoscenza della reale situazione dell’economia e dell’agricoltura meridionali, di quelle che sono le caratteristiche distintive della gestione feudale della terra, ed infine dei grandi tratti delle vicende storiche delle Due Sicilie.
Quella che banalmente si considera come arretratezza dello sviluppo sociale del Mezzogiorno, analogamente alla pretesa scarsa e deficiente evoluzione sociale dell’Italia in generale, non ha nulla a che fare con un ritardo storico nell’eliminazione di istituti feudali, ed anche dove presenta le famose zone depresse è invece un diretto prodotto dei peggiori aspetti ed effetti del divenire capitalistico, nell’Europa specie mediterranea, nell’epoca postfeudale. In pochi paesi come nel reame delle Due Sicilie, se guardiamo alla storia delle lotte politiche, il feudalesimo come influenza dell’aristocrazia fondiaria fu combattuto, fronteggiato e debellato dai poteri dell’amministrazione centrale dello Stato, sia sotto il regno dei Borboni e la dominazione spagnuola, che sotto le precedenti monarchie, e si possono prendere le mosse fin da Federico di Svevia. La lotta fu a molte riprese appoggiata da moti delle masse contadine ed urbane, e ben presto arbitri della situazione del regno furono gli intendenti e i governatori dei solidi ed accentrati poteri di Palermo e di Napoli. I risultati della lotta si tradussero in una legislazione anticipata di molto rispetto a quella degli altri staterelli italiani, compreso l’arretratissimo Piemonte, e lo stesso può dirsi nei riguardi del controllo a cui si sottoponevano le comunità religiose e la chiesa secolare da parte dell’autorità politica; né occorre colorire questa ovvia rievocazione con le lotte in Napoli degli eletti del popolo e la impassibilità di stabilire in quella città il tribunale dell’inquisizione, il processo storico e giuridico, dopo la rivoluzione repubblicana del 1799 condotta da una borghesia audace e cosciente, si perfezionò sotto il robusto potere di Murat, e i restaurati Borboni ben si guardarono dall’intaccare la compatta e avveduta legislazione lasciata da quel regime nel diritto pubblico e privato. È quindi un errore triviale confondere la storia sociale del Mezzogiorno d’Italia con quella dei boiardi e degli Junkers dell’Europa nord-orientale, che seguitarono a governare in feudi autonomi i loro servi, a taglieggiarli e giudicarli ad arbitrio, quando da secoli gli abitanti dell’Italia mediterranea erano cittadini di un sistema giuridico statale moderno, per quanto assolutistico.
Quanto alla struttura economica agraria, il quadro di un paese feudale ci presenta il rovescio di quello a cui si collegano le deficienze delle zone latifondistiche del Mezzogiorno italiano. Quel quadro presenta una agricoltura sia pure non decisamente intensiva ma omogenea e diffusa in piccoli esercizi con la popolazione lavoratrice allogata con uniformità sulla superficie coltivata, in abitazioni sparse e in piccoli casali. Il villaggio, che il nostro mezzogiorno purtroppo ignora, è la cellula di base della ricchezza agraria dei tanti paesi di Europa che i signori feudali sfruttavano per le loro grandezze e su cui si precipitò lo strozzinaggio del borghesi, facendo talvolta il deserto e la brughiera, come descrive Marx a proposito dell’Inghilterra, lasciando altra volta vivere tale ricco cespite e limitandosi a smungerlo, come nella campagna francese.
I latifondi del sud e delle isole sono grandi zone semi-incolte su cui l’uomo non può soggiornare, e non vi si incontrano case coloniche e villaggi, in quanto la popolazione è stata ammassata da un urbanesimo preindustriale e tuttavia dottamente antifeudale in grossi centri di diecine e diecine di migliaia di abitanti come in Puglia e in Sicilia. La popolazione. sovrabbonda, ma la terra non può essere occupata per difetto di organizzazione e di un investimento di lavoro e di tecnica che da secoli nessun regime statale riesce a realizzare, o trova conforme alle esigenze della classe dominante, sia tale regime nazionale o meno. Non vi è casa, non vi è acqua, non vi è strada, la montagna è stata denudata, la pianura ha le acque naturali sregolate e vi domina la malaria. L’origine di questo decadimento della tecnica agricola è molto lontana, più lontana del feudalesimo che, ove fosse stato forte, l’avrebbe contrastato (come il bonificamento tecnico ed economico avrebbe meglio consentito nei secoli di mezzo un vero regime di signoria feudale decentrata ed autonoma). Se si pensa che tali plaghe all’epoca della Magna Grecia erano le più floride e civili del mondo conosciuto, che restarono sotto Roma fertilissime, si deve considerare che le cause del loro scadimento si trovano sia nella posizione marginale rispetto al dilagare del germanesimo feudale con la caduta dell’impero romano (che le espose alle alternative di invasioni e distruzioni dei popoli del nord e del sud) sia alla depressione dell’economia mediterranea con le scoperte geografiche oceaniche, sia appunto al prorompere del moderno regime capitalistico industriale e coloniale, che fu condotto a localizzare altrove, giusta la ubicazione delle materie prime di base dell’industrialismo, i suoi centri di produzione e le sue grandi vie di traffico, sia infine alla costituzione dello Stato unitario italiano la cui analisi ci condurrebbe malto lungi e che istituì un rapporto tipicamente moderno, capitalistico e imperialistico, perfino precursore dei tempi più recenti.
Tuttavia, prima e dopo tale unificazione, il gioco delle forze e dei rapporti economici fu più che conforme ai caratteri dell’epoca borghese, costituendo un settore essenziale dell’accumulazione capitalistica in Italia, la cui limitatezza è in quantità e non in qualità.
Infatti, prima e dopo il 1860, malgrado lo scarso sviluppo industriale (su cui non va dimenticato che l’influenza dell’unità nazionale fu gravemente negativa, determinando il decadimento e la chiusura d’importanti opifici), l’ambiente economico è stato di natura completamente borghese. Si può dire del Mezzogiorno d’Italia e del suo preteso feudalesimo ciò che disse Marx per la Germania del 1849 parlando al processo di Colonia – si? noti bene – proprio per mettere in rilievo che la rivoluzione politica borghese e liberale doveva ancora trionfare:
«L’antico grande possesso fondiario era realmente la base della società feudale medioevale. La moderna società borghese (corsivi del testo), la società nostra, quella in cui viviamo, poggia invece sull’industria e sul commercio. Anzi la proprietà fondiaria ha perduto tutte le caratteristiche d’esistenza di una volta, e dipende dal commercio e dall’industria. Oggi giorno l’agricoltura è gestita industrialmente e gli antichi signori feudali si sono abbassati a divenire produttori di bestiame, lana, grano, barbabietole, acquavite e così via, gente cioè che fa commercio di questi prodotti come ogni altro mercante Per quanto ancora possano essere attaccati ai loro vecchi pregiudizi di classe, praticamente essi si trasformano in borghesi, che cercano di produrre il più possibile ai più bassi costi possibili, che comprano dove i prezzi sono più bassi e vendono dove sono più alti. Il modo di vivere, produrre ed acquistare di questi signori mostra già la menzogna delle loro affettate e tradizionali fantasticherie. La proprietà fondiaria, come elemento sociale dominante, presuppone il modo di produzione e di scambio del medioevo».
Se la disposizione soprattutto del carbone e del ferro minerale ha fatto sì che dopo quel tempo (e dopo anche la stesura del «Capitale», che a modello di una società pienamente capitalistica dovette prendere l’Inghilterra) la Germania è divenuta un grande paese di industria estrattiva e meccanica, oltre che di agricoltura condotta al modo economico e più moderno, riesce tuttavia evidente come quel giudizio di ambiente e di situazione sociale si applichi ancora più radicalmente al mezzogiorno d’Italia dopo un secolo, e dopo ben 90 anni di regime politico del tutto borghese liberale e democratico, regime che, dopo le sconfitte del ’48, la Germania attese fino al 1871, e, secondo i soliti sgonfioni chiacchieroni sul feudalesimo teutonico, fino a molto più tardi.
Nel sud d’Italia vige un attivissimo mercato del suolo, con frequenza di trapassi certamente molto più alta che in provincie di alto industrialismo; ed è questa il criterio discriminante cruciale tra economia feudale ed economia moderna. Vi si accompagna un non meno attivo mercato del grande e piccolo affitto e naturalmente dei prodotti del suolo. Proprio dove la coltura è latifondistica ed estensiva, essa si fa per grandi unità economiche con impiego esclusivamente di lavoratori giornalieri salariati e braccianti, e da molti decenni primeggia, economicamente, su quella del proprietario fondiario spesso in gravi difficoltà di cassa e oberato di ipoteche, la figura del grande affittuario capitalista, largo possessore di contanti e di scorte. Sia laddove il prodotto si riduce al grano, sia dove prevale l’allevamento zootecnico di tipo arretrato e perfino brado, non solo il capitale mobile è nelle mani dei grandi fittavoli e non dei proprietari fondiari, ma molti dei primi incettano e sfruttano a fondo, talvolta determinandone non la bonificazione ma il deperimento, le proprietà appartenenti a titolari diversi.
A considerazioni analoghe conduce l’esame della gestione della proprietà urbana. Anche a prescindere dalla attività industriale diffusa nelle zone più evolute, attorno alle città principali ed ai porti, tutto questo movimento di mercati ormai a giro e ciclo moderno determina da decenni e decenni un’accumulazione di capitali che è servita largamente di base alle industrie libere, semiprotette e protette del Nord (l’Italia, molto prima di Mussolini, era un paese protezionista di avanguardia), Non solo i depositi in banca di borghesi meridionali, proprietari, intraprenditori e speculatori, hanno alimentata sempre con forti correnti la finanza privata nazionale, ma alle risorse del sud ha largamente attinto il fisco, che raggiunge assai più facilmente la ricchezza immobiliare ed ogni movimento economico legato alla terra che non i profitti e sovraprofitti industriali commerciali «affaristici. L’economia capitalistica italiana sta dunque a cavallo di questi rapporti di carattere del tutto moderno, e che è semplicemente risibile voler paragonare ad una situazione feudale, e presentare, anziché come una solida alleanza, sotto la maschera di un conflitto inesistente tra una borghesia evoluta e cosciente, avida tuttora di perfezionate e rinnovate rivoluzioni liberali o meridionali, e i leggendari «ceti retrivi» e «strati reazionari» della sporca demagogia alla moda.
In rapporto a questa chiara inquadratura di legami economici sta la spregevole funzione della classe dirigente del sud, i resti della storica aristocrazia depauperata vivacchiano in qualche palazzo semicrollante delle città maggiori; in tutta la regione spadroneggiano non signori feudali ma borghesi arricchiti, proprietari, mercanti, banchieri, affaristi, di taglio più cafonesco che signorile. Al margine del movimento della costoro ricchezza, la così detta «intelligenza» è discesa al rango d’intermediaria e mezzana del potere centrale dello Stato borghese di Roma, cui offre il meglio del suo pletorico personale, succhione delle forze produttive di tutte le provincie, dal commissario di pubblica sicurezza al giudice togato, dal deputato sostenuto da tutti i prefetti e che vota per tutti i governi, all’uomo di stato pronto a servire monarchie e repubbliche capitalistiche.
La lotta sociale nel Mezzogiorno, non meno che quella nel quadro dello Stato italiano in generale, ha posto per i veri marxisti all’ordine del giorno, prima durante e dopo l’abusatissimo ventennio, il superamento delle ultime e più recenti forme storiche dell’ordine capitalistico e mai più l’aggiornamento a modelli oltremontani di rapporti e istituti rimasti «indietro».
Questa tesi della sopravvivenza feudalistica meridionale merita di essere appaiata con l’altra che interpretava il movimento fascista quale una riscossa delle classi agrarie contro la borghesia industriale. L’indirizzo del gruppo che tolse ai marxisti rivoluzionari il controllo del partito comunista d’Italia (il cosiddetto gruppo dell’Ordine Nuovo) poggia fino dai primi anni su queste due cantonate, su queste due piattonate basilari. Esse bastavano in partenza a costruire tutta una prassi e una politica di alleanza tra capitalisti industriali e rappresentanti traditori del proletariato, come si è poi vista in atto in Italia. Non era indispensabile la iniezione degenerante di virus disfattista da parte della centrale internazionale staliniana, nel suo indirizzo mondiale di patteggiamento e collaborazione tra i poteri del capitalismo e quello dello Stato falsamente definito socialista e proletario.
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Capitoli già pubblicati: «Prometeo» № 10: «1. Tecnica produttiva e forme giuridiche della proprietà».
Al fine di vagliare esattamente la tradizionale formula che definisce il socialismo come abolizione della proprietà privata, si richiamano i concetti marxisti sul succedersi delle rivoluzioni di classe quale conseguenza del contrasto tra le nuove forze ed esigenze della produzione e i vecchi rapporti di proprietà. Dei varii regimi di classe, fondati su istituti di proprietà individuale esercitata in oggetti diversi a seconda delle diverse caratteristiche della organizzazione produttiva e della tecnica del lavoro, il più recente è il regime capitalistico.
«Prometeo» № 11: «2. L’avvento del capitalismo e i rapporti di proprietà».
Il capitalismo trionfa in una rivoluzione che rompe una serie di rapporti. Tra questi il diritto del feudatario sui contadini servi, ed il diritto delle corporazioni sugli artigiani, sono rapporti tra persone, non rapporti di proprietà su cose.
Il capitalismo sopprime inoltre la proprietà dei lavoratori artigiani sui loro prodotti e sui loro strumenti, e in larga misura quella dei piccoli contadini sulla terra, per trasformarli, come gli ex-servi della gleba, nelle masse di nullatenenti salariati.
«Prometeo» № 11: «3. I termini della rivendicazione socialista».
La lotta della classe dei salariati contro la borghesia capitalista ha per obiettivo, conservando la divisione tecnica del lavoro e la concentrazione di forze produttive arrecate dal capitalismo, di abolire insieme all’appropriazione padronale dei prodotti ed alla proprietà privata sui mezzi di produzione e di scambio, il sistema di produzione per intraprese e quello di distribuzione mercantile e monetaria, poiché solo sopprimendo tali forme può cessare il sistema di sfruttamento e di oppressione costituito dal salariato.
«Prometeo» № 12: «4. La rivoluzione borghese e la proprietà sui beni immobili».
Nell’epoca pre-capitalistica il possesso della terra è diviso tra la forma comune, quella feudale, e quella privata libera, il capitale mobile conquistando il diritto di acquisto degli immobili raggruppa nelle mani della borghesia dominante le tre forme di sfruttamento; rendita fondiaria, interesse del danaro anticipato, profitto dell’intrapresa.
«Prometeo» № 12: Nota al cap. 4: «Il preteso feudalesimo nell’Italia meridionale».
La tesi centrale degli opportunisti che in Italia vi siano avanzi di rapporti feudali, predominanti del tutto nel Mezzogiorno, non rispecchia soltanto una tattica politica di compromesso e di rinnegamento del socialismo classista, ma si fonda su di una triplice serie di madornali errori di fatto, circa la natura dell’economia e delle relazioni sociali feudali, la storia politica del sud d’Italia, e la situazione dell’agricoltura meridionale.
La rivoluzione borghese sistemò il possesso della terra ripristinando il concetto giuridico di libertà della terra che era la base del diritto civile di Roma. «Nel basso medioevo quasi tutta l’Europa, occupata dai conquistatori germanici, aveva veduto ridursi a minime proporzioni il concetto della libertà della terra, che aveva fatto la prosperità economica dell’impero romano. Vi si era poi sovrapposto il feudalesimo, dettato dalla necessità di difesa dei deboli dalle invasioni di Normanni, di Ungari e di saraceni onde quelli si accomandavano ad un potente, riconoscendo da lui il possesso proprio con l’obbligo di canone e anche di servigi personali, purché egli li difendesse da guai maggiori; da che era venuta di buon’ora la massima: Nulle terre sans seigneur. Invece il diritto romano riconosceva unica origine del possesso il titolo, ossia il contratto liberamente stipulato fra gli aventi diritto al medesimo».
Al detto francese, che abbiamo già trovato citato da Marx in contrapposto al motto della economia mobiliare «il danaro non ha padrone», si oppone, nei paesi ove il feudalesimo non dilaga, il motto romano: «nessuna proprietà senza titolo». Non sarà male notare che il paese dove la secolare parentesi dei diritti personali propri del feudalesimo è stata meno profonda è proprio l’Italia.
«La nostra lingua non ha mai avuto infatti una parola che corrispondesse al vocabolo francese Suzeraineté, significante il dominio del signore feudale sulla terra. In Italia non tutte le forme del diritto romano perirono, anzi, in alcune parti del mezzogiorno dovettero permanere senza interruzione, perché non occupate dai barbari e rimaste all’impero bizantino, custode della tradizione romana, o ritornatevi dopo lo smembrarsi del ducato beneventano».
«Il godimento della terra in libertà assoluta da parte dei suoi possessori non data altrove da tempo tanto antico. In Francia per esempio esso ebbe completa applicazione soltanto dalla abolizione delle prestazioni feudali nella famosa notte del 4 agosto 1789. Allora e con leggi successive, l’Assemblea Nazionale aboliva semplicemente le servitù personali (corvées) ma rendeva i diritti reali (Cens, champarts, lods, ventes, rentes foncières ecc.,) riscattabili di diritto. Sennonché le insurrezioni dei contadini e gli incendi di diversi castelli signorili costrinsero ad abolirli senza compenso, sebbene molti non avessero origine feudale; le piccole e medie proprietà già esistenti vennero così liberate da una infinità di vincoli e cointeressenze inceppatrici».
Lasciando ora l’autore fin qui citato, un economista agrario di indirizzo non socialista, citeremo ora le parole con cui questa rivoluzione agraria francese è ricordata da Marx nelle «Lotte di classe in Francia»:
«La popolazione della campagna, cioè due buoni terzi dell’intera popolazione francese, è composta in massima parte di proprietari fondiari così detti liberi. La prima generazione, sollevata gratuitamente dai pesi feudali nella rivoluzione del 1789, non aveva pagato prezzo alcuno per la terra. Ma le generazioni successive pagarono sotto forma di prezzo del terreno ciò che i loro antenati semi-servi avevano pagato sotto forma di rendita, di decime, di prestazioni personali ecc. Quanto più da una parte cresceva la popolazione, quanto più dall’altra parte si moltiplicava la divisione della terra tanto più rincarò il prezzo dell’appezzamento, che col diventar più piccolo fu più ricercato.»
Questo passo di Marx continua (pagg. 84–85, ed. «Avanti!», 1902) con un serrato esame del depauperamento del contadino nel sistema parcellare, che deprime la tecnica agraria ed il prodotto lordo, esalta il costo della terra e tutte le passività per ipoteche, interessi bancari ed usurari, imposte ecc. e riduce l’apparente proprietario a perdere a beneficio dei capitalisti perfino una parte del salario che competerebbe al suo lavoro ove egli fosse un nullatenente giuridico, e conclude:
«Non v’era che la rovina del capitale, che possa far rialzare il contadino; non v’è che un governo anticapitalista proletario, che possa spezzarne la miseria economica, la degenerazione sociale. La repubblica costituzionale non è che la dittatura dei suoi sfruttatori riuniti; la repubblica sociale, la repubblica rossa, questa è la dittatura dei suoi alleati.»
Questa posizione politica è quella che Marx, scrivendo nel 1850, attribuisce ai socialisti rivoluzionari francesi del 1848. Ed è in questo passo la classica frase:
«le rivoluzioni sono le locomotive della storia».
A riprova del fatto che la corretta valutazione marxista considera la estrema parcellazione della proprietà contadina come uno dei tanti veicoli della espropriatrice accumulazione capitalistica e non come un avviamento a postulati di pretesa giustizia sociale, sta anche questo passo, relativo all’Inghilterra, tratto da uno scritto di Engels del 1850:
«La tendenza di ogni rivoluzione borghese a spezzare il grande possesso fondiario poteva far ritenere per un certo tempo dagli operai inglesi questa suddivisione per qualche cosa di rivoluzionario, con tutto che essa era regolarmente accompagnata dalla immancabile tendenza al concentrarsi e disperdersi dei piccoli possessi di fronte alla grande agricoltura. Il partito cartista oppone a questa richiesta della suddivisione quella della confisca dei beni, e chiede che essi non vengano suddivisi, ma restino beni nazionali.»
Invece la rivoluzione borghese in Francia aveva rovesciato sul mercato immensi beni nazionali provenienti da confische e da incameramenti di proprietà ecclesiastiche.
Sul diverso processo che in Inghilterra, nettamente dopo la sconfitta del feudalesimo e la oppressione della servitù, condusse alla formazione della grande proprietà agraria borghese degli odierni landlords, vedasi Marx nel «Capitale», Cap. XXIV, e nella esposizione, che questa rivista va pubblicando, sugli elementi di economia marxista.
Al posto delle apologie democratiche delle Grandi Rivoluzioni, il linguaggio marxista, sulla base della dialettica accettazione delle nuove condizioni che esse produssero, denuda le infamie del sorgere del regime capitalistico, sia dove esso allignò sulla parcellazione fondiaria, sia dove fondò invece il grande possesso borghese, «liberi» l’una e l’altro.
«La spoliazione dei beni della chiesa, l’alienazione fraudolenta dei domini dello Stato, il saccheggio dei terreni comunali, la trasformazione usurpatrice e terroristica della proprietà moderna e privata, lo sterminio delle casette dei contadini, ecco i metodi idilliaci dell’accumulazione capitalistica».
La citazione è fondamentale e tante volte ripetuta, ma il socialistame odierno, sia detto alla Scelba, vede reazione usurpazione e terrore, e suona le campane alla salvezza della libertà capitalistica, solo quando sotto l’azione delle droghe stupefacenti della demagogia elettorale, sogna un freudiano ritorno del feudalesimo su da una storia infrauterina della nostra società moderna, tanto di quello più oscena.
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La vantata conquista borghese della libertà della terra e della liberazione dei servi della gleba, equivalente in concreto alla conquista da parte del capitale pecuniario della illimitata possibilità d’acquisto dei cespiti immobiliari, trovò la sua sistemazione nel diritto civile col ritorno al classico meccanismo romano, in quel codice napoleonico che, decantato come monumento di sapienza, servì di modello per la legislazione di tutti gli stati moderni. Tutto il sistema gira intorno al principio della proprietà derivante da titolo ed accessibile ad ogni cittadino, al famoso «chiunque» con cui si iniziano tutti gli articoli dei codici borghesi. Non è più necessario che il signore della terra appartenga ad una casta o ad un ordine privilegiato ed oligarchico. Per munirsi del titolo è sufficiente a «chiunque» apportare una adeguata soma di danaro liquido. Allorché la locomotiva della rivoluzione borghese si mise rombando in moto bastò tuttavia come titolo di partenza la materiale occupazione del lembo di terra da parte di chi per anni e per generazioni l’aveva duramente lavorata. Ma non appena la rivoluzione consolidò la propria vittoria in un nuovo sistema a regole stabili, fu necessario, per l’acquisto della proprietà e del suo titolo, o la derivazione ereditaria, ovvero il pagamento di un prezzo di mercato. La terra fu dunque libera poiché chiunque poteva comprarla, s’intende chiunque possedesse il denaro sufficiente.
Questo ritorno all’impalcatura giuridica propria del diritto romano, seguito all’abolizione dei sistemi di diritto feudale e germanico, non significò affatto, come è ovvio, un ritorno ai rapporti di produzione e alla economia sociale dell’evo antico. Basta ricordare che in Grecia, a Roma, e nei paesi dominati da esse, a lato della democrazia che rendeva eguali dinanzi al diritto i cittadini liberi, vigeva lo schiavismo, esistendo quindi tutta una classe obbligata al lavoro della terra, i cui componenti non solo non potevano aspirare a possederne, ma erano essi stessi considerati una proprietà altrui, permutabile contro denaro e trasmessa con l’eredità familiare dei padroni. Pur esistendo, tra i cittadini liberi dinanzi alla legge, le diverse classi dei grandi proprietari patrizi, dei contadini proprietari di piccoli lotti, per lo più senza schiavi e quindi lavoratori diretti, degli artigiani e anche dei mercanti e dei primi capitalisti padroni di numerario, è chiaro ché la presenza di una classe sfruttata al basso della scala sociale creava ben altri rapporti; conducendo fino ai grandi tentativi rivoluzionari degli schiavi.
Per conseguenza il classico diritto scritto disciplinante la proprietà titolare della terra ed in genere degli immobili, e la trasmissione per eredità, per compravendita, ecc., con tutti gli altri complessi rapporti prediali, deve leggersi con la riserva che il soggetto cui si riferisce il solito pronome chiunque non è, neppure virtualmente, un qualunque membro del complesso sociale, ma deve appartenere alla limitata e privilegiata classe superiore dei cittadini liberi, dei non-schiavi.
Ciò vuole dire che il diritto reale, espressione teorica di un rapporto fisico tra uomo e cosa, e nel nostro caso tra uomo e suolo, solo in astratto sembra cedere il passo ad un preminente sistema di diritti personali propri dell’evo medio e feudale, diritti che sono l’espressione di un rapporto di forza tra uomo e uomo (come il vietare l’abbandono del fondo lavorato o il mutamento di mestiere). In effetti nel mondo romano il diritto personale domina il largo campo sociale costituito dalla produzione schiavistica, estendendo il rapporto da padrone a schiavo fino alla facoltà di privazione della vita. Tuttavia il padrone ha diretto interesse alla vita, alla forza, alla salute dello schiavo, ed è suggestivo il rilievo di Marx che nell’antica Roma il villicus, come massaio a capo degli schiavi agricoli riceveva una razione minore di quella che ricevevano questi, in quanto il suo lavoro era meno pesante (citazione da Teodoro Mommsen).
La rivoluzione che si pose tra le due ere sociali, nell’aspetto economico del cessato rendimento del lavoro degli schiavi rispetto al loro costo, in quello politico delle grandiose rivolte, tra cui classica quella di Spartaco caduto dopo due anni di guerra civile nella battaglia presso il Vesuvio allorché seimila dei suoi seguaci vennero trucidati, in quello ideologico della eguaglianza morale degli uomini predicata dai cristiani, eliminò invero in larga misura il gioco dei diritti personali, vietando che la persona dell’uomo potesse essere trattata come una merce.
La ripresa quindi del diritto romano teoretico, fatta dalla rivoluzione borghese per la disciplina dei rapporti tra l’uomo e gli immobili, presentò questa sostanziale innovazione, che il nuovo diritto reale riguarda tutti i cittadini componenti della società e non soltanto una parte privilegiata come nell’antichità. Questo diritto moderno fa vanto di aver integrato la conquista della libertà dalla schiavitù con quella della libertà dalla servitù deva gleba e dai ceppi corporativi, fa vanto di aver reso tutti i membri della società uguali e liberi da vincoli personali di fronte alla legge. Nel campo che tuttora ci occupa della proprietà del suolo e degli immobili, i nuovi codici dettati dai giuristi napoleonici, o copiati secondo la dialettica legge della storia dai giuristi dei poteri avversari che Napoleone …[manca una riga a pag. 579]… dinanzi alla terra libera.
Ma in realtà le forme giuridiche garantite dal potere statale e dalle sue forze materiali sanciscono e proteggono sempre rapporti di forza e di dipendenza tra uomo e uomo, e il diritto reale dell’uomo sulla cosa rimane una forma astratta. Il cittadino Tizio ha potuto divenire proprietario del fondo Tulliano poiché ha disposto della somma di denaro sufficiente a conseguire il titolo, pagandola al cittadino Sempronio, in quanto vigendo la libertà della terra il fondo Tulliano poteva essere alienato ad arbitrio del precedente padrone. Che significa il titolo di diritto reale di Tizio, libero cittadino in libera repubblica borghese, sul libero fondo che ha comprato? Significa che egli può chiuderlo e, perfino senza sostenere la spesa di una recinzione materiale, può tenere tutti i liberi cittadini, Sempronio compreso, fiori dal confine, e se trasgredissero, il titolo gli consente di chiamare le forze dello Stato è, sotto certe condizioni, anche di ammazzarli. La libertà di Tizio e il suo libero diritto di proprietà portati fuori dalla filosofia o dal diritto teorico si esprimono nel rapporto personale di limitare, anche con mezzi violenti, le iniziative altrui.
Il nuovo regime di libertà borghese è un regime di proprietà riconsacrato nelle tavole del diritto, sia pure proprietà non più preclusa a caste di schiavi, dì servi o di borghigiani. Esso è quindi sempre un regime di rapporti di forza tra pomo e uomo, e socialmente parlando, tutti i «chiunque» del codice si dividono in due classi, quella dei possessori di suolo e quella dei non possessori di suolo, forniti di titolo giuridico e sforniti dei mezzi economici necessari a procurarselo.
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Il cristianesimo abolì le caste, la rivoluzione liberale abolì gli ordini, rimangono non nel diritto scritto ma nella realtà economica, le classi. Marx scoprì non la loro esistenza e la loro lotta, nota e constatata prima di lui ma il fatto che, più e peggio che tra le antiche caste e i medioevali ordini corre tra esse divario economico, antagonismo, e guerra sociale.
Nel capitolo II, paragrafo 3, di «Stato e rivoluzione» Lenin ha posto fondamentalmente in evidenza che Marx, in una lettera del 5 marzo 1853, precisa egli stesso il contenuto originale della sua teoria con queste precise parole:
«ciò che io ho fatto di nuovo, è di aver dimostrato: 1) che l’esistenza delle classi si riferisce solo a certe fasi doriche di sviluppo della produzione; 2) che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato; 3) che questa stessa dittatura non è se non la transizione alla soppressione di tutte le classi e alla società senza classi».
Stabilisce a questo punto Lenin, a base del suo storico stritolamento degli opportunisti, che l’essenziale nella dottrina di Marx non è la lotta di classe, ma la dittatura del proletariato.
«Su questa pietra d’assaggio bisogna provare la comprensione e il riconoscimento effettivo del marxismo».
Non meno essenziale è il terzo punto nella sua relazione col primo, in quanto la dialettica di Marx perviene à stabilire che i grandi fatti storici della lotta delle classi, della dittatura di classe, non sono immanenti ad ogni società e ad ogni periodo storico, non essendo stati dedotti da vuote speculazioni sulla «natura dell’uomo» o sulla «natura della società». L’uomo non è per sua natura né buono né cattivo, né proprietario né servo, né autoritario né libertario, la sua specie non è per predestinazione insuperabile classista o egualitaria, statale o anarchica! Ben al di fuori e al di là di tutte queste melensaggini filosofiche la teoria marxista, con l’indagare i successivi sviluppi delle fasi produttive, stabilisce che la moderna classe proletaria, dati i rapporti sociali in cui si muove è condotta a servirsi della lotta di classe, della violenza rivoluzionaria, dello Stato dittatoriale, per rendere possibile lo svolgimento verso un sistema di produzione e dì vita collettiva sempre più scevro di servitù di violenza e di impalcato statale autoritario.
Ritornando alla iniziale costituzione della società capitalista, quanto abbiamo detto sul cambiamento rivoluzionario nei rapporti tra il capitale monetario e la proprietà terriera sta a stabilire che si avrebbe una visione unilaterale del processo storico ove, trascurando questo campo fondamentale, si richiamasse solo la vittoriosa diffusione della manifattura e dell’industria capitalistica e il costituirsi in classe dominante nella società e nello Stato del ceto degli intraprenditori.
I vecchi socialisti, e ricorderemo fra tutti il buon Costantino Lazzari sebbene egli non fosse un teorico, come evitavano di parlare genericamente di abolizione della proprietà, così non si limitavano al solo contrasto tra gli operai salariati delle officine e i loro padroni, ed usavano la formula (le formule hanno la loro grande importanza, e basti a provarlo la chiarificazione ora citata di Lenin) di: lotta contro l’ordine costituito della proprietà e del capitale.
Marx, nella sua lettera a Bracke di fiera critica al programma di Gotha della socialdemocrazia tedesca, condanna la espressione:
«nella società presente gli strumenti del lavora sono monopolio della classe dei capitalisti».
Marx risolutamente obietta:
«nella società odierna gli strumenti di lavoro sono monopolio dei proprietari della terra (il monopolio della proprietà fondiaria è anzi base del monopolio del capitale) e dei capitalisti. Lo statuto dell’Internazionale al quale la proposizione, falsa in questa edizione migliorata, è improntata, non menziona nel passo relativo né l’una né l’altra classe dei monopolizzatori. Esso parla del monopolio degli strumenti di lavoro, cioè delle fonti della vita. L’aggiunta fonti della vita mostra à sufficienza che il suolo e la terrà sono compresi negli strumenti di lavoro».
In questo passo vi è una frase di Marx di straordinaria importanza per la analisi che abbiamo preso ad istituire:
«in Inghilterra il capitalista, per lo più, non è proprietario del suolo su cui sta la sua fabbrica».
Il richiamo è diretto contro Lassalle che in Germania trascurava la lotta contro i proprietari fondiari, perfino pensava che lo Stato di Bismarck potesse non contrastare la lotta degli opeai contro gli industriali di fabbrica. Tutta la lettera è dettata dalla preoccupazione della confusione teorica sorgente dalla unificazione di partito coi lassalliani: «si sa che il semplice fatto dell’unione appaga gli operai, ma si sbaglia pensando che questo successo momentaneo non costi troppo caro». Il bilancio della previsione fatta da Marx il 5 alaggio 1885 può trarsi dalla condanna dell’opportunismo dei socialdemocratici firmata dà Lenin il 30 novembre 1917, nell’interrompere lo scritto su «Stato e rivoluzione» per l’impedimento della rivoluzione russa.
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Il regime borghese è dunque costituito dal dominio della classe degli intraprenditori di fabbrica, dei capitalisti del commercio e della Banca, dei proprietari di immobili. Questi ultimi sono borghesi quanto gli altri, nulla hanno a che fare con l’aristocrazia feudale, già dispersa socialmente e politicamente; derivano da antichi possessori di denaro, mercanti, finanzieri, strozzini, che hanno finalmente potuto comprare la terra divenuta giuridicamente accessibile al capitale, e accentrare successivi acquisti di lotti di varia estensione.
Come dice il «Manifesto», il proletariato non può sollevarsi senza spezzare tutta la massa degli strati superiori che costituiscono la società ufficiale.
Abbiamo già ricordato che la stessa economia borghese distingue qualitativamente i tre proventi: rendita fondiaria, interesse del capitale monetario, profitto dell’impresa. Il loro insieme costituisce per noi marxisti il prodotto dello sfruttamento del lavoro proletario. A fine di questo capitolo sulla regolazione giuridica borghese del privilegio fondiario porremo una distinzione qualitativa essenziale sulla portata dei tre elementi del guadagno padronale, che sta a dimostrare come la terza forma, ossia l’utile di intrapresa, oltre ad essere la più moderna, è la più efficiente e virulenta e viene sempre più quantitativamente a costituire la massa centrale dell’oppressione capitalista.
Il gettito della rendita fondiaria ha un limite assai basso in rapporto ella entità del patrimonio, (ammontare del danaro convertito nella compera, valore venale in libero commercio), e tale limite è dato dalla natura stagionale della produzione agricola. Il prodotto lordo nel tempo non può essere aumentato che fino ad un limite, ridotto anche per i pochi terreni fertilissimi e le colture più intensiva L’economia deve quindi parlare sempre di rendita lorda e netta annuale, e la seconda nella generalità non supera il 5–6 % del valore capitale, patrimoniale, del fondo.
Per riflesso dell’attuata convertibilità fra possessi fondiari e moneta, anche l’interesse che ricava il possessore di un capitale liquido quando si limita a prestarlo a speculatori, a proprietari, allo Stato stesso non può superare quel limite temporale, e quei saggi annui del 5–6 %, salvo casi di eccezione e speciali alee di perdita del patrimonio.
Le due forme tradizionali che caratterizzano il borghese proprietario o rentier hanno dunque una limitata potenza di sfruttamento e di estorsione di plusvalore, e sono legate all’insuperabile ostacolo del ciclo annuale.
Ben diversa è invece la potenza di riproduzione del capitale e l’altezza dell’utile nell’intrapresa moderna, che dobbiamo intendere con ampiezza ancora maggiore della semplice organizzazione produttiva in grandi stabilimenti ed aziende. Nessun limite stagionale e temporale è qui messo al ciclo generatore del prodotto lordo e quindi del profitto netto. Il rapporto tra questo e il valore patrimoniale dell’intrapresa può superare qualunque limite, e la rigenerazione di tutti i fattori del ciclo riproduttivo può avvenire molte e molte volte entro classico termine annuale.
Marx quindi sconvolse radicalmente l’algebra dell’economia borghese quando nella sua possente indagine pose in rapporto il profitto non con la comoda borghese finzione del valore patrimoniale della fabbrica, ma col valore dello stesso prodotto lordo, e successivamente con la sola parte di questo valore costituita da pagamenti per salari ai lavoratori.
Una determinata quantità di prodotto (ci siamo già soffermati sul criterio ché la vera caratteristica del privilegio capitalistico, più che la proprietà del suolo dell’edificio e della macchina, che possono subire discipline svariatissime, è la proprietà sul prodotto) che sia per esempio del valore di un milione sul mercato, potrà contenere e, poniamo, novecentomila lire di costi (affitti, interessi, logorii, spese generali, stipendi e salari) e allora il profitto d’impresa sarà di cento mila lire, e quindi in parti di prodotto del 10 %; il saggio del plusvalore secondo Marx sarà, se i salari rappresentarono duecentomila lire, del 50 %.
Ma il ciclo che ha condotto a questa massa di prodotti può ripetersi innumeri volte in un anno d’esercizio, e l’utile dell’imprenditore salirà vertiginosamente, restando la stessa la spesa annua per affitti di immobili e per interessi bancari. Il valore patrimoniale di questa azienda è un’entità difficilmente definibile tra gli innumeri trucchi ed inganni contabili della moderna speculazione affaristica, esso scompare addirittura poiché il valore degli impianti e quello del fondo di cassa appaiono già remunerati dai canoni e dagli interessi portati in passivo.
Il borghese intraprenditore speculatore può quindi trarre un milione da nulla (dalla sua abilità!), il borghese proprietario fondiario o contantista deve per raggiungere pari benefizio avere intestati circa venti milioni, e per di più deve aspettare un anno, mentre l’altro può alle volte chiudere il suo ciclo nei termini più stretti, e perfino talvolta anticipare il realizzo nella produzione.
Con questi criteri di distinzione tra i bilanci patrimoniali e i bilanci di gestione occorre decifrare, cosa non facile, la tendenza storica della azienda mobiliare capitalistica nella sconvolgente complessità delle moderne sue forme, ed i rapporti di essa con le forme di proprietà titolare fondiaria e le fonti di finanziamento, forme già note ad economie, da un lato più antiche dall’altro meno ferocemente sfruttatrici delle classi povere e meno apportatrici di disordine, di contrasto, di incessante distruzione di mezzi socialmente utili nel meccanismo produttivo, come furono basi di tipi di società non così briganteschi, sanguinari e feroci come questo del modernissimo capitalismo
Un equivoco fondamentale sta in tutto quanto si scrive e dice a fine politico sulla trasformazione agraria, sia quando viene presentata come una rivoluzione parallela a quella borghese o a quella operaia, sia quando viene avanzata cauta una riforma nel quadro di vigenti ordinamenti.
Le rivoluzioni spezzano antichi rapporti di proprietà e di diritto che impedivano a forze produttive già presenti, con premesse tecniche già sviluppate, di muoversi nella loro organizzazione. Riforme possiamo chiamare in un grande senso storico le radicali misure successive che un recente potere rivoluzionario attua per rendere praticamente possibile questo trapasso tecnico, ma nel senso comune ed attuale sono le rabberciature promesse di continuo per smussare e nascondere contraddizioni conflitti ed inceppamenti di un sistema vivente da tempo nel quadro conformista suo proprio.
In agricoltura come in ogni altro settore economico va distinto tra proprietà ed azienda, comunque e da qualunque angolo visuale voglia dipingersi un programmi innovatore. La proprietà è un fatto di diritto, tutelato dallo Stato, sistema di imposizioni sovrapposto alle cose sociali. L’azienda e il suo funzionamento sono un fatto di organizzazione produttiva determinato alla base dalle condizioni e possibilità tecniche.
Il feudalesimo spazzato via dalle grandi rivoluzioni agrarie non era una rete di organizzazione aziendale, non disponeva e gestiva tecnicamente la produzione rurale, la sfruttava soltanto prelevando tangenti dovute dai contadini che provvedevano a tutti gli elementi della produzione, lavoro, strumenti, materie prime e così via. I feudi erano grandi e anche immensi, le aziende piccolissime in quanto tenute da famiglie rurali, medie in quanto messe su dai primi contadini possidenti, i primi borghesi della terra, anche essi allora classe oppressa.
La rivoluzione che fu in alcuni paesi solo una grande riforma affrontò alla base il problema giuridico spazzando via il diritto dei signore a prelevare quelle tangenti. Nulla mutò nella tecnica organizzazione dell’azienda in quanto ad essa nessun apporto organizzativo dava il signore, che nulla sapeva e praticava di agronomia, di commercio, e se aveva compiti personali erano militari di corte o di magistratura.
Cominciò una evoluzione e in dati paesi una serie di riforme della tecnica di esercizio, non in quanto la piccola proprietà si smosse molto dai metodi culturali secolari, ma in quanto il capitale apportato sulla terra permise il formarsi della nuova proprietà borghese e su più vaste aree si ordinarono aziende medie e grandi condotte da affittaioli capitalisti possessori di scorte e macchine, e in dati casi dagli stessi proprietari gestori disponenti al tempo stesso della terra e del capitale mobile.
Come grande fatto rivoluzionario lo scrollo dalle spalle dei rurali del peso feudale avvenne di un colpo solo nella Francia del 1789 e nella Russia del 1917, accompagnando nel primo caso la rivoluzione dei capitalisti, nel secondo quella degli operai. Da quel punto di partenza lo svolgimento dell’ordinamento agricolo avvenne in modo diverso e sotto l’influenza di diverse forze, e particolarmente interessante è l’indagare su quello russo; le sue avanzate e i suoi ritorni. Qui ci basti ricordare che la formala giuridica rivoluzionaria fu in Francia libertà di commercio della terra, in Russia proprietà nazionale della terra e concessione in gestione ai contadini. Ma anche nel secondo caso non si impedì il sorgere di una classe di borghesi agrari ricchi e medii, e la lotta con essi ebbe alterne vicende, partite dal fatto che si dovette tollerare il libero commercio delle derrate, in misura dominante.
Un altro dato distingue i due grandi fatti storici: per la Francia produzione intensiva e alta densità di popolazione, per la Russia produzione estensiva e bassa densità. Un dato forse li assimila: armonica diffusione della popolazione rurale sulla superficie coltivata.
In Italia, come abbiamo già detto, non si ebbe una grande e simultanea liberazione da un feudale servaggio della gleba che mai fu socialmente dominante. A seconda dei dati tecnici delle varie zone, tutti i tipi di azienda rurale vissero in relativa libertà, dalle piccole alle medie e grandi, da quelle fondate sulla cultura intensiva a quelle estensive, e si incrociarono tutte le forme di proprietà privata, minima media e grande, collettiva, in demanii comunali e comunità rurali. Una grande battaglia per sollevare le aziende e le classi rurali dal peso di sistemi di diritto signorile non fu necessaria e non si ebbe; ove tali forme si affacciarono furono a volta a volta fronteggiate e da Comuni e da Signorie e da Monarchie e dalle stesse amministrazioni straniere.
La vicenda fu assai complessa, e ci limiteremo a citare ancora l’autore, non certo marxista, il cui nome non importa, non avendo egli lavorato l’intera vita sui problemi dell’agricoltura italiana – mostrando che essi sono quelli degli agricoltori – al fine di posti politici per sé o per i suoi.
«Si hanno numerose prove storiche della continuazione del regime fondiario in Italia colla applicazione del diritto romano… È indubitato che a contatto di possessi retti dal diritto romano doveva esservi una vasta estensione soggetta a vincoli feudali, i cui possessori erano trattenuti dal migliorarla, perché avrebbero dovuto far partecipi dei benefizi terzi che non ci davano alcun contributo, ed invero residui di queste servitù furono liquidati persino con legislazioni dei secoli XVIII e XIX. Però la massima parte delle terre venne prosciolta dai vincoli predetti, come lo furono i servi della gleba, nel periodo comunale, per cui furono possibili le grandi trasformazioni agrarie di bonifica e di irrigazione nella Valle Padana e le piantagioni nella Toscana, che appunto assunsero così largo sviluppo dal secolo XII al XV. In quel periodo si svolse e si fortificò l’istituto del consorzio fondiario, inapplicabile senza l’assoluta libertà detta terra, la quale poi ora, salvo scarse eccezioni, si può dire completa in tutti i paesi civili, eliminando così l’ostacolo della cointeressenza di un terzo dei soli benefici del miglioramento fondiario e culturale (lo scrittore, aperto fautore della proprietà personale del suolo, insiste sul dato che la forma feudale di privilegio dovette saltare perché impediva lo sviluppo delle forze produttive agrarie, ossia dell’investimento di capitale e lavoro in migliorie fondiarie, matura per quel tempo, e ci fornisce così un buon argomento della validità del metodo marxista)».
«L’applicazione del codice napoleonico consolidò questo regime in tutto il nostro paese e vi contribuì del pari l’abolizione del regime feudale nel mezzogiorno nel 1806, in Sicilia nel 1812, e in Sardegna dal 1806 al 1838. La legislazione civile della nuova Italia affermò maggiormente codesto indirizzo col sopprimere fidecommessi e maggioraschi e poi col cercar di liquidare tutte le forme di compartecipazione ad un solo possesso. Permasero tuttavia estesi avanzi di proprietà collettiva, pur prevalendo la tendenza al proscioglimento di ogni promiscuità nel dominio della terra; e l’esazione della rendita fondiaria fu resa dalla legge particolarmente privilegiata. (Tutte misure caratteristiche della rivoluzione borghese e liberate di cui i superasini rinnovano ancora le istanze e attendono gli effetti!) Così la liberazione della proprietà fondiaria secondò particolarmente il miglioramento colturale, iniziato nel nostro paese fino dal secolo XII (senza attendere il ministro Segni e l’esperto di opposizione Grieco Ruggero, guardate che roba!) rendendo possibile la formazione di una agricoltura capitalistica (ca-pi-ta-li-sti-ca, copiato soltanto e non aggettivato da chi ha come noi la fobia del capitalismo al punto di fare l’occhietto alla feudalità signorile nelle brevi parentesi di contingentismo) da redditi elevatissimi, che un altro regime non avrebbe certamente consentito».
Speriamo di non avere scocciato col metodo storico, ma che si vuole, quando il gazzettume di ogni tinta stampa, ogni dieci righe, di baronato, di feudalità, e di borghesia, poverella, e capitalismo, infelice, non arrivati a liberamente svilupparsi in questo paesaccio medioevale (magari!), i chiodi vanno battuti e ribattuti… e vediamo oggi nelle cose essenziali a che punto ne siamo.
«La ricchezza agraria proviene dalla terra che produce per la sua estensione una certa quantità di derrate aventi valori fissati dal mercato rispettivo. In ciò agisce il fenomeno prevalente della sua limitazione, ed infatti ad esempio nel nostro paese, prima delle annessioni del 1918, della estensione di 287 mila chilometri quadrati erano o naturalmente improduttivi o sottratti per scopi diversi alla coltura 22 600, restandone a questa circa 264 mila ossia il 92 per cento… La popolazione era in quei confini, coi dati del 1921, di oltre 37 milioni di abitanti, ossia di 130 a chilometro quadrato di territorio e di ben 141 a kmq. di superficie agraria e forestale. Noi abbiamo infatti una forte proporzione di zona di monte (oltre gli 800 a 1000 metri di altitudine) la quale nelle Alpi ha vaste distese occupate da nevi perpetue, e quivi e anche nello Appennino altre dai 1500 ai 2500 e più, suscettive soltanto di magri pascoli e boschi. La zona di collina comprende del pari estesi tratti di lembi franosi, le pianure lembi litoranei di sabbie e dune, zone pantanose, etc, Cosicché si riduce notevolmente la parte più fruttuosa, su cui si concentra la maggior parte della nostra popolazione, con territori che alimentano 3–4–500 abitanti su un Kmq., e taluni anche 700 e 800.»
«Perciò la non rara affermazione di orecchianti, dell’esservi ancora da noi estese terre suscettibili di proficua colonizzazione, va accettata con assai largo beneficio d’inventario. Certamente non mancano terre mal coltivate e la produzione agraria italiana è tuttora suscettibile di aumenti. Però le cifre suesposte dimostrano come la quistione delle cosiddette «terre incolte» abbia una importanza molto relativa, altrimenti non potrebbe vivere da noi una così fitta popolazione».
Anche gli orecchiantoni sanno che dal 1921 al 1949 le cifre sono mutate. Infatti su 301 mila Kmq, sono produttivi 278 mila ossia nello stesso rapporto del 92 per cento circa, mentre gli abitanti sono oramai 45 milioni, e le cifre di densità sono salite a 150 e 162, ossia del 15 per cento!
Tra i sacrifici alimentari degli anni di guerra e le pelose donazioni di derrate agrarie in tempi di UNRRA ed ERP, pare evidente che la produttività agricola della scarsa polpa e del molto osso costituenti lo stivale abbia raggiunto qualche altro aumento di resa di cui era capace, allo stato della sua attrezzatura. Quanto alla popolazione, essa non si sogna di fermare il proprio aumento, che nell’anno 1948 ha passato il mezzo milione di unità, raggiungendo l’incremento relativo del 10–11–12 per mille. L’eccesso annuo dei nati sui morti passava di poco l’otto per mille al tempo delle esortazioni demografiche di Mussolini cui si attribuiscono dal bagolame odierno facoltà e potestà buone o cattive di cui fu del tutto innocente. Egli passò per colui che vietava l’emigrazione, misura che non fu che una debole ritorsione tattica di fronte ai grandi poteri capitalistici che batterono le porte sul muso ai lavoratori italiani. Comunque anche questa valvola di sicurezza non funzionò come in passato: tra il 1908 e 1912 l’emigrazione toccò massimi di 600 000 lavoratori in un anno, (venti per mille), dopo la guerra negli anni 1920–1924 riprese sui trecentomila ed oltre, per poi deprimersi fortemente; sembra che nell’ultimo anno 1948 sia ritornata a 137 000, ma in gran parte di temporanei (tre per mille).
Per quanto riguarda la parte di popolazione dedita all’agricoltura, essa è di circa il 25 % secondo le statistiche del primo anteguerra (1911) e sarebbe oggi di almeno dieci milioni, ma va notato che trattasi di dieci milioni di unità produttive, con esclusione di ragazzi di meno di dieci anni, di vecchi inabili, di parte delle danne, sicché è evidente che la gran maggioranza delta popolazione italiana tuttora vive dell’economia agraria. Più importante è vedere la ripartizione della popolazione agricola attiva, che dopo l’altra guerra si riteneva all’incirca la seguente: 19 % proprietari – 8 % fittavoli – 17 % mezzadri – 56 % giornalieri e braccianti. Questi costituivano dunque la maggioranza, e deve tenersi conto che la più gran parte dei proprietari, fittavoli e mezzadri sono in condizioni economiche che confinano con la nullatenenza. È importante notare che la proporzione degli agricoli proletari puri era più forte nel mezzogiorno che nel nord e nel centro, nelle Puglie circa il 79 %, in Sicilia il 70 %, in Calabria il 69 %.
Questa situazione quasi originale dell’agricoltura italiana rispetto agli altri paesi d’Europa, oltre a mostrare il grave errore sociale e politico di trattarla come pre-borghese, basta a fare intendere come il problema di modifiche (minime o massime) nel dinamismo delle aziende produttive sia impostato sullo assurdo quando lo si riduce artatamente a quello di una redistribuzione generale o eccezionale della giuridica e personale proprietà della terra.
Non è facile passeggiare per il giardinetto delle statistiche… Nelle recenti discussioni della riforma Segni e sui contratti agrari i contraddittori si sono scambiati l’accusa di non saperci leggere. Bisognerebbe sapere come si manipolano. Al tempo della battaglia del grano il ministero dell’agricoltura chiedeva agli ispettorati provinciali i dati della superficie messa a grano e del raccolto, mentre il partito comminava ai federali le cifre da raggiungere. Federale ed ispettore non avevano alcuna voglia né di rompersi la testa né di perdere la carica. In questo tutto il mondo è paese e tutti gli «uffici del Piano» pasteggiano bugie. Che cosa possano valere poi le statistiche messe insieme oggi in Italia dalla disarticolata pletorica e ondeggiante pubblica amministrazione, è facile intendere. Basti pensare che siamo in regime multi-partitico, e il grado di falsità nei pubblici affari cresce come il quadrato del numero dei partiti in campo.
Cifre più recenti del Serpieri, indubbiamente fonte autorevole se si consultava prima e dopo il risorgimento, aumentano molto il numero dei proprietari cui aggiungono una forte quota di usufruttuari enfiteuti e simili e dopo aver più o meno confermata la proporzione di fittavoli e mezzadri ribattono quella dei giornalieri e braccianti al solo 30 per cento degli agricoli.
Se si parte dai censimenti della popolazione bisogna rifarsi a quelli fascisti che tentarono un rilevamento corporativo-sociale delle professioni e posizioni economiche. Ma non è facile leggere nelle dichiarazioni il numero dei proprietari, non è facile smistare tra quelli urbani e rurali, non è facile calcolare se per lo stesso possesso tutti i membri della famiglia del proprietario, donne e minorenni compresi, sono dichiarati agricoltori proprietari.
Se poi si risale al catasto, istituito indubbiamente con elementi esatti, si ha in mano una statistica non di individui ma di ditte. Tra queste vi sono enti morali svariatissimi, comuni, cooperative, società, e via. Restano le ditte private, ma mentre da un lato in molti casi ad un possesso ancora indiviso o di cui non è trascritta la divisione corrispondono complicate intestazioni collettive agli eredi familiari, non è assolutamente possibile sapere se un singolo possessore ha diverse proprietà in vari comuni dello Stato, in quanto le rubriche dei possessori esistono comune per comune. I comuni sono 7800 e ognuno registra migliaia di ditte. Se si volesse formare il ruolo nazionale dei possessori di terre il lavoro sarebbe tale da poter stabilire con qualche piacevolezza di calcolo combinatorio che gli impiegati del superufficio a ciò addetto consumerebbero una percentuale sensibile del prodotto agricolo del paese. Come nella spiritosa osservazione fatta al Fanfani-case e al Tupini-case: costruirete solo i fabbricati per gli uffici dei relativi piani.
Perciò i trattatisti migliori per spiegare il senso della statistica sulla estensione dei possessi in rapporto al numero di possessori, con le relative aliquote di teste, di superficie, o di valore agrario, che si prestano al solito giochetto propagandistico: l’uno per cento possiede il cinquanta per cento della terra e via via l’ottanta per cento deve dividersi appena il venti per cento della superficie, o simili, formano specchietti di paesi immaginari. Ponete il sistema della proprietà titolare del suolo, del libero commercio della terra e della trasmissione ereditaria, e non potrete avere una distribuzione diversa da quella, o tendente irresistibilmente a riprendere quella forma se ne viene allontanata da interventi estranei, sicché quella progressione allarmante del moltissimo a pochi e pochissimo a molti, da una parte è un effetto aritmetico di prospettiva, dall’altra è la caratteristica del civile regime della terra libera in un libero paese.
La variabilissima distribuzione del possesso agrario in Italia, in rapporto ai vari tipi di azienda organizzata presenta il ben noto quadro regionale, che talvolta avvicina a pochi chilometri il grande possesso estensivo alla minutissima proprietà familiare, il grande e medio podere moderno ben attrezzato alla piccola azienda di collina. La varietà della scelta da regione a regione è pacifica, se ne vuole indurre la necessità di trattare il problema tecnico razionalmente, ma, anche senza voler prendere sul serio la politica agraria contingente di oggi, si potrebbe rilevare che appunto la varietà della gamma regionale e le strane sue alternanze sono un motivo per combattere gli inconvenienti dei casi estremi con un programma unitario nazionale…
Sembrando pacifico che le tenute poderali di media estensione ed alto valore della valle padana, con la loro fiorente zootecnia e la coltura irrigua, come i poderi un poco meno estesi dell’Italia media con prevalenza di colture arborate di alto reddito, e non poche aziende analoghe del sud e di Sicilia, si avvicinano all’optimum di resa produttiva, non resta da affrontare il solo problema del famigerato «latifondo», ma ne restano due, quello del latifondo, che non spianteranno i poveri untorelli attuali, e quello della estrema polverizzazione, della minuta proprietà inseparabile dalla minima azienda, vera mallatìa della nostra agricoltura, causa massima di depressione, di miseria, di conformismo sociale e politico, come di dispersione incommensurabile di penosi sforzi di lavoro.
Prima di vedere per un momento i due malanni coi loro dati reali rileviamo subito quanto sia assurdo che all’indirizzo del dominante partito democristiano per il frazionamento dei possessi, per quella stupida utopia del «tutti proprietari» con la vuota prospettiva di quotizzare ai contadini poveri le terre incolte – che sono quelle incoltivabili, e che ogni agricoltore magari analfabeta ma dotato dei rudimenti del mestiere rifiuterà anche se regalate – la opposizione non sa contrapporre, neppure a fini di manovra e di sabotaggio polemico, la critica ben altrimenti fondata della dispersione della terra in aziende troppo minute e forme a metodi secolari di gestione primitiva.
Tutti proprietari; prendiamo dunque i 270 mila chilometri quadrati e ripartiamoli tra i 45 milioni di italiani. Ognuno avrà tre quinti di ettaro, uno spazio che se fosse quadrato sarebbe di poco meno che ottanta metri per ottanta. Il reticolato imbecille che il regime della libera proprietà e il rilevamento geometrico catastale segnano sulla superficie della terra, misurerà 300 metri per ogni possesso, e se si volessero porre delle chiusure anche semplici il loro costo economico si avvicinerebbe al valore reale della poca terra. E non è questo che uno dei motivi di distruzione di produttività per angustia del campo da lavorare, che curva l’uomo alla sudata servitù della zappa.
Il ragionamento non sembri assurdo, poiché la effettiva statistica dà saggi di frammentarietà anche più spinta.
La statistica della estensione media della particella catastale, ossia della zona di terreno che non solo appartiene alla stessa ditta ma ha pari coltura e pari classe di merito, dà naturalmente superficie inferiore a quella media della partita, insieme di particelle della stessa ditta, ma dà una migliore idea della polverizzazione nel senso di gestione tecnica. Mentre noi abbiamo supposto che ogni italiano abbia 0,60 ettari, ossia 60 are, vi sono provincie in cui la particella media è ancora minore: Aquila e Torino 35 are, Napoli 25, Imperia 22.
Ecco quanto l’autore, che difende il regime di libero acquistò della terra ed il possesso familiare poiché
«rappresenta uno stimolo efficacissimo al miglioramento della terra e della sua coltura colla massima utilizzazione del lavoro del proprietario e dei suoi familiari» e perché «determina miglior divisione della ricchezza e minor proporzione di nullatenenti e… quanto proviene dal piccolo coltivatore possidente, a differenza della rendita e talora anche del profitto di capitalista agrario nel grande possesso, rimane tutto in paese e concorre al miglioramento della terra e dei suoi coltivatori»
– e quindi senza nessun sospetto di tendenza socialista – dice dello sminuzzamento fondiario.
«Allo sminuzzamento del possesso corrisponde quello analogo della cultura, di regola col lavoro del proprietario medesimo e dei suoi, il che così accentua l’insufficienza della rendita e del profitto a costituire il minimo necessario all’esistenza… La classe dei minimi possessori, come in generale tutte quelle lavoratrici, ha natalità molto elevata, onde alle eredità concorre in media un maggior numero di condividenti che non nei grandi possessi, e poi la vita media di cotesti agricoli, lavoratori assidui e che non si risparmiano punto, è per necessità minore che nelle classi agiate. Sono quindi più frequenti i trapassi per eredità, le quali poi si partiscono in modo che ogni erede abbia la sua quota di terra, mancando d’altra parte di regola la ricchezza mobiliare con cui nelle classi agiate si liquidano le parti di alcuni coeredi. Per queste ragioni il piccolo possesso tende a dividersi assai più rapidamente del grande, col grave inconveniente poi che ciascun coerede pretende la sua parte di seminativo, di vigna, di uliveto etc, cosicché si formano poco alla volta appezzamenti di poche are e perfino di metri quadrati, e possessi che ne comprendono diversi situati in punti molto lontani tra loro del territorio comunale. Si comprende subito quale enorme spreco di tempo, di energia, di lavoro determini tale polverizzazione».
«Vi è anche in tal modo una vera perdita di terreno produttivo lungo lo sviluppo delle linee di confine, la quale, a calcolarla di soli m 0,30 di larghezza per il calpestio delle persone, qualche chiusura, od altro, rappresenta nell’appezzamento quadrato di un’ara quella del 12 % mentre per quello di un ettaro è solo dell’ 1,20 per cento. Questo moltiplicarsi delle linee di confine accresce in equal proporzione le cause di litigi per usurpazioni, violazioni di confini, rimozioni di termini, piantagioni abusive etc. nelle quali si disperde improduttivamente gran parte delle rendite dei piccoli possessori. Non per nulla la Sardegna la quale, accanto alle vaste distese di pascoli, boschi, beni comunali etc., ha pure una proprietà veramente polverizzata, è la regione più litigiosa del nostro paese. Vi sono partite fondiarie così esigue in Sardegna, da aversi nell’anteguerra il caso di esproprio fiscale per debiti di 5 lire di tasse!».
Oggi lo Stato esproprierà i nababbi?!
«L’inevitabile polverizzazione della proprietà, conseguenza dei fatti ora esaminati, può essere sfavorevole all’aumento della produzione agraria, soprattutto perché il piccolo possessore non può formarsi un capitate d’esercizio per la miseria dei suoi redditi. Perciò di solito gli fa difetto bestiame da lavoro e da frutto, è vincolato alla vanga ed alla zappa, anche dove potrebbe impiegar l’aratro, è restio alla introduzione di migliori attrezzi, concimi artificiali o altri nuovi mezzi di produzione agraria, poiché dapprima non ha come provvederli e poi è di regola conservatore e misoneista per deficienza di cultura. Se arriva a creare risparmi preferisce comprare, a chissà quale prezzo, qualche frustolo di terra, anziché convertirlo in capitale di esercizio».
Interrompiamo per brevità il resto del quadro, colle inevitabili indebitazioni usurarie, la miseria, l’assenza di casa, e la descrizione delle regioni poverissime, che abbiamo non solo in zone della Campania, Abruzzo e Calabria ma anche dell’Emilia e del Veneto in monte
«che per la loro divisione di possesso potrebbero dirsi paesi di vera democrazia rurale».
Democrazia infatti molto adatta ad essere cristiana, terreno ottimo di semina politica per il governo di oggi.
Sullo scranno dei rei dovrebbe ora sedere l’altro incolpato, il latifondo. Anzitutto va rilevato che il latifondo presenta la grande proprietà titolare ma quattro volte almeno su cinque nessuna unità aziendale o colturale, essendo smistato in piccoli affitti o piccole mezzadrie. Tutti gli stessi reati o quasi relativi alla polverizzazione gli si possono egualmente contestare.
Ciò che non si vuole intendere è che, abolendo eventualmente la titolarietà giuridica del possesso, non si viene a creare una unità colturale migliore ed organizzata in appoderamenti produttivi, poiché persistono tutte le cause che al fenomeno del latifondo hanno dato origine. Si può solo ricadere in una polverizzazione, che già dannosa in terra buona, è bestiale in terra sterile e ricondurrebbe ad una condizione peggiore, e per lo più, se non si sopprime la libertà di comprare e vendere, alla ricostituzione del latifondo.
Le condizioni che hanno generato il latifondo sono complesse e non è qui il caso di approfondirle. Si parte da quelle naturali insuperabili perché dovute alla natura geologica dei terreni (ad esempio le vaste formazioni di argille eoceniche siciliane sono inadatte a colture legnose e permettono solo quella estensiva granaria; a breve distanza da queste plaghe la Provincia di Messina, giacente su formazioni granitiche, e quella vulcanica di Catania, vedono prevalere colture intensive e frazionate). Influisce il predominio della malaria dovuto al disordine idraulico di pendici montane e fiumi di pianura, la rada popolazione, e le ragioni storiche più volte ricordate, per invasioni dalle coste e poca sicurezza fino a tempi non remoti. Tanto poco remoti che gli stessi liberatori e benefattori americani, appena giunti in Calabria, liquidata per ovvie ragioni di morale democratica la milizia forestale fascista, dettero una potente sventrata da preda bellica alle secolari foreste dell’Appennino calabro; e aggravarono così irreparabilmente il malanno del rovinio delle acque non regolate verso le disgraziate e infette bassure litoraniche. Corsero poi col D.D.T. …
Economicamente il rapporto economico è definito dal fatto che il proprietario fondiario per lo più affida la gestione ad un affittuario capitalista speculatore, cui basta un ridotto capitale di esercizio e che sfrutta la terra attraverso una serie di subaffitti dei pascoli a pastori e dei seminativi a piccoli coltivatori, i quali per la concorrenza
«rinunziano a quasi tutto il profitto di impresa a favore dal grande affittuario… non dimorano mai sul terreno coltivato, vi si recano anche da molto lontano quando lo richiedono le esigenze della coltura e dei raccolti, rifugiandosi in pagliai, caverne, grotte, oppure in stanzoni o sottotettoie con le conseguenze ben note…».
Questi coltivatori sono in condizioni peggiori dei giornalieri, mentre d’altra parte non potranno mai pervenire ad organizzare, per mancanza di capitale di esercizio, una agricoltura meno estensiva.
La proposta di risolvere il problema del latifondo colle quotizzazioni forzate è vecchissima, ed ha una serie di precedenti, che giunsero fino dai primi tempi ad alcuni casi di esproprio per mancata miglioria di terre incolte. Ma quasi sempre si ebbero insuccessi e ciò soprattutto in periodi economicamente sfavorevoli. Non basta infatti espellere il proprietario negligente, cui tuttavia nell’attuale regime si paga sempre a carico del pubblico una forte indennità, ma bisognerebbe fornire ai quotisti non solo un capitale di esercizio ma un capitale impianti per opere che mancano e che supererebbe di molto per ogni quota il costo già pagato per l’esproprio. Occorre infatti prevedere e finanziare case, strade, bonifiche, acquedotti e così via, per rendere possibile il soggiorno del contadino sulla terra, e anticipare i valori di attesa della trasformazione che è a lunghissimo effetto. Un progetto Crispi si ebbe nel 1894 dopo i moti dei «fasci» siciliani, fin dal 1883 una legge per l’Agro romano aveva sancito l’odierno «rivoluzionario» principio di esproprio dei grandi terreni incolti passato poi dalle leggi Serpieri del 1924 a quella segni di oggi. Hanno tanto osato liberali, fascisti, democristiani, ma i casi di applicazione in tanti anni si contano sulla punta delle dita.
Omettiamo una rassegna delle proposte legislative italiane ed estere tendenti a mitigare invece la polverizzazione del possesso agrario, poiché non è certo nostro obiettivo proporre una riforma di senso contrario a quella governativa, ma solo rilevare che i concretissimi e contingentisti tecnici delle opposizioni non ci hanno pensato. Convinti che la rivoluzione agraria russa sia stata una quotizzazione di proprietà titolari, non vanno più oltre dei proprio naso e non sanno che chiedere di spartire terre ai contadini, anche ai braccianti, certo, anche ai braccianti, e senza equivoco, non in gestione collettiva, ma in proprietà personale, sì, in proprietà assoluta, questa è l’ultima consegna cominformista, come dai tanti articoli dell’«Unità» su quistione agraria e problemi meridionali. Che in Russia non si sia quotizzato ed espropriato un accidente ma solo aboliti i privilegi feudali della nobiltà e del clero sollevandoli come una cappa soffocante dalle esistenti piccole aziende rurali che in un primo momento non mutarono delimitazioni, e poi con dubbi successi si tentò ai raggruppare in aziende più grandi, di Stato o cooperative; che quindi il problema storico sia tutto un altro, non dice nulla a quegli scrittori, come nulla dice loro la proporzione di monte e di piano in Russia, la densità di popolazione che è di nove abitanti per kmq, e nella Russia europea di 30 al posto dei nostri 150, il rapporto delle terre coltivate al totale che al posto del nostro 92 è del 25 per cento malgrado l’immensa pianura e a parte la Russia asiatica, e solo nelle terre nere ucraine sale al 60 per cento, la pratica inesistenza della classe dei salariati agrari non fissi, eccetera eccetera eccetera, e ciò perché questi signori non seguono più obiettivi massimali e di principio, ma si sono dati allo studio delle immediata concrete condizioni di vita del «popolo»…!!
Fermandoci un momento sulla proposta democristiana – facile cosa fu il profetare a spaventati grossi proprietari che nessun mal di capo avrebbero dato loro i socialcomunisti, quando anche fossero stati al ministero, ma un certo colpo lo dovevano attendere dai democristiani – la sua vuota demagogia è del tutto evidente. Toccheremo, essi dicono, una ottantina di grandi proprietà, in Italia tutta, di plurimiliardari. Le asporteremo in parte. Si trattava di fissare i massimi… Bisognava tenere conto non solo della mole della proprietà ma anche della ricchezza che rappresenta, e per far questo pare che fissino un massimo non di superficie ma di imponibile catastale, che si presume sia indice del valore del fondo. Ma a parità di superficie un grande podere modernamente condotto può valere anche 15 volte di più di un tenimento montagnoso o pascolatorio, soprattutto in virtù della attrezzatura di impianti fissi. Non sarebbe giusto espropriare cento ettari dove nulla è da migliorare al posto di 1500 deserti o quasi. Ed allora due erano i criteri sul terreno giuridico, colpire le proprietà di più alto valore e quelle di minor gettito MEDIO, indice di trascurata coltura. I supertecnici dovevano dunque suggerire al Segni una graduatoria degli ottanta Cresi da macello, formata da un punteggio ottenuto moltiplicando l’imponibile totale del grande possesso per la sua estensione in ettari o, il che è lo stesso, dividendo il quadrato dell’imponibile totale per l’imponibile medio. Algebra? Algebra riformista e concretista.
Ma il criterio di scelta dei pochi ricconi da fregare importa poco. La quistione è che fare della terra loro tolta, sia pure in parte – nel qual caso è facile prevedere che prenderanno un buon indennizzo e si leveranno dallo stomaco lo scarto che affligge ogni grande tenimento – e come attrezzarla per renderne possibile la gestione al «libero» contadino, nella nuova democrazia rurale cristiana. Qualcuno dovrà apportare il capitale di esercizio e un capitate ancora più forte di miglioria, questo il punto. Il contadino assegnatario singolo o collettivo non potrà farlo di certo. Lo Stato rinvierà alle solite leggi speciali come quelle sul miglioramento fondiario, di scarsi stanziamenti, a disposizione dei soliti volponi, e d’altra parte lo Stato non è in grado di sovvenire, nonché nuovi investimenti di impianti nella terra, nemmeno la riparazione di quelli danneggiati in guerra. Il capitale internazionale e dei famosi fondi e piani americani tanto meno, poiché il criterio di base è di seguire cicli brevi – il pieno Marshall si chiude ufficialmente al 1952 – e totalmente remunerativi.
Il problema si riconduce a quistioni di economia generale e di politica mondiale. Il rimaneggiamento della proprietà titolare, anche se lo vedremo, nulla risolve. Le riforme agrarie si pongono come attuabili in periodi di prosperità e di offerta di capitali a tassi favorevoli e a lungo credito. Per un paese come l’Italia vi sono solo queste soluzioni. Primo. Autarchia economica, tentata dalla nostra borghesia dopo la guerra favorevole, che vincoli il capitale nazionale e lo obblighi parzialmente al miglioramento agrario. Tale eventualità, condizionata da autonomia politica, forza militare e solido potere interno, è storicamente liquidata; il fascismo ne trasse certi risultati tra cui decisivo quello della bonifica pontina, tentata tante altre volte nella storia dei Cesari e papi. Secondo. Dipendenza da un potere mondiale che abbia interesse ad una forte produzione di derrate alimentari per il popolo italiano sul mercato interno, a fini commerciali o militari. Non è il caso per l’America, che specie in vista di crisi produttive conta molto sulla pianificazione della produzione di alimenti, spostata oramai dai cicli locali di consumo diretto ad un vasto movimento mondiale fecondo di profitti speculativi quanto quello dei prodotti industriali, e che in caso di guerra lancerà bombe atomiche diffondenti scatolette ai suoi mercenari. Non è nemmeno il caso per la Russia che non avrà l’Italia nella sua sfera e non ha interessi economici ad averci paesi a forte densità di bocche, e comunque non esporta capitati ma deve importarne e gioca militarmente e politicamente a sfruttare già investimenti del capitale di occidente ai margini detta guerra fredda. Non è nemmeno poi il caso se l’Italia sarà assoggettata ad una costellazione mondiale derivata dall’intesa dei due o tre grandi, che andranno a colonizzare traverso tutti i continenti e gli oceani piuttosto che sulle ossute costole di Ausonia.
La riforma agraria oggi in Italia si basa dunque sulla propalazione di demagogiche sciocchezze, non si solleva dal basso gioco della schermaglia politica tra i gruppi e gli interessi che, assicurandosi influenze sulle correnti popolari interne, sperano vendere bene i loro servigi a mandanti forestieri.
Il ministro Segni si vanta che fabbricherà col suo famoso «scorporo» – degno termine di bassa taumaturgia – dei grandissimi possessi un altro paio di centinaia di migliaia di piccoli proprietari, ossia di italici straccioni buoni per la parrocchia e la caserma e il dileggio di tutti i civili paesi capitalistici sulle due rive dell’oceano. Egli fabbrica migliaia di ceri e di baionette nelle notti delle campagne italiche, come Napoleone in quelle di Parigi e Mussolini in quelle delle nostre città industriali poco demografiche hanno preteso di fare. Ma ammesso che riesca davvero a scorporare a polverizzare e a popolare i suoi appezzamenti, come conta di regolare il processo di trapasso e raggruppamento della proprietà? Che ne farà del sacro civile moderno canone del libero commercio della terra? Controllerà il concentramento, il «ricorporamento» di essa con limiti aritmetici da verificare ogni volta che un notaio rogherà una compravendita di terre o una eredità? Il solo pensiero di una simile bardatura dovrebbe bastare a far rizzare i capelli sulla testa al più fervido fautore del «dirigismo» economico.
Credete che i socialcomunisti, pure oggi per ben altre ragioni fieri nemici dei riformatori democristiani dopo la tresca di ieri, buttino sulla faccia ai Segni l’argomento che ogni ponzamento riformistico viene a confermare che il regime capitalistico non deve essere emendato ma annientato? Ohibò! Essi gridano loro che bisogna riformare di più, scorporare di più, polverizzare di più, fecondare maggiormente la generazione dei demorurali che, togliendo effettivi alle forze rosse della lotta di classe nelle campagne, gloria della storia proletaria italiana, creerà falangi di elettori per le liste di governo, eserciti di coscritti per lo stato maggiore di America nell’impresa di Russia.
La storia insegna che con capolavori di questo genere hanno sempre, i rinnegati, servito il nuovo padrone.
Non meno edificante della materia della riforma fondiaria è quella dei contratti agrari. Gli antifascisti di tutte le sfumature si presentarono, con tremende promesse di riformismo alla presa in consegna della sciancata Italia dalle mani del fascismo, non comprendendo che i soli tentativi possibili di riformismo nel mondo di oggi sono a base politica totalitaria. Né il nazifascismo né lo stalinismo sono rivoluzioni, sono però serii riformismi ed hanno dato esempi probanti. Il riformismo della nuova Italia fa soltanto sudare i rinoceronti. Avevano promesso lo studio di tre grandi settori: riforma dello Stato, riforma industriale, riforma agraria. Maggioranza ed opposizione, in cui si è scisso il blocco comiliberazionista di allora, con impostazioni contraddittorie ed incrociantisi in tutti i sensi, e col nullismo dell’attuazione, danno prova ogni giorno della loro vuotaggine e non arrivano nemmeno nell’accapigliarsi a seguire nel campo parolaio la bussola delle posizioni sociali e politiche.
Credono verbigrazia di difendere a fine di acchiappo di voti la tesi del lavoratore e danno dentro in quella del padrone, pensano putacaso di spezzare lance per quella borghese e medio-borghese e tirano sassi in piccionaia.
Il contratto di affitto agrario, per cui la tesi demagogica si batte sul semplicismo del blocco, ossia del divieto di mandare fuori l’affittuario da parte del proprietario, nasconde sotto lo stesso schema giuridico diversissimi rapporti economici e sociali. Plagiare la posizione della tesi del blocco dei fitti per le abitazioni – che, come si potrà mostrare a suo luogo, è un’altra castroneria – non significa aver dato un serio indirizzo in materia. Nei piccolo affitto si pone di fronte al proprietario fondiario, che può dal canto suo essere un grande o un medio o un piccolo proprietario, il fittavolo, che impiega oltre a un capitale minimo e inapprezzabile di esercizio il suo lavoro materiale, ed è quindi prestatore di opera, malgrado il fatto di versare moneta anziché riceverne: nel grande affitto di fronte al proprietario sta invece un capitalista imprenditore, che in aziende sviluppate impiega braccianti salariati, in possessi ad agricoltura arretrata subaffitta a piccoli coloni. Piazzare le batterie a difesa di costui anziché contro di lui è un errore spaventoso, un suicidio dei partiti operai sia pure moderati, un rinnegamento delle storiche lotte di classe dei lavoratori agricoli italiani che nei fasci di Sicilia si gettavano contro il gabelloto, versuriero, mercante di campagna, autentico e sporco borghese, e prima ancora, in Polesine, nel 1884, sorsero contro agli imprenditori al famoso grido di battaglia: La boje! – La bolle e deboto la va de fora – e sempre, come del resto anche oggi malgrado la bassezza dei capi, contro i moschetti del democratico nazionale Stato italiano.
Il capitalismo agrario italiano ha molto speculato, sia pure a danno del proprietario, borghese quanto lui, ma dalle unghie meno artigliate, sul protezionismo ai fitti agrari di una legislazione fatta senza capire un accidente. Esempio i celebri decreti Gullo che dimezzarono il canone dei cosiddetti contratti di affitto a grano. Cosa è questo contratto? Il canone di fitto al proprietario normalmente è pagato in denaro. Può essere però convenuto in derrate nel senso che il fittavolo consegna ogni anno una data – qualunque sia il prodotto lordo, e siamo perciò sempre nel caso dell’affitto e non della colonia parziaria – quantità di una o più derrate. Per tal modo il proprietario si mette al sicuro dalle oscillazioni del valore della moneta e dello svilimento reale del suo reddito che segue al generale aumento dei prezzi, come dopo le guerre. Ma a molti proprietari non fa comodo ricevere derrate dato che, trattandosi di grande affitto, si tratterebbe di una ingente massa di mercanzia non tacile a trasporto, conservazione etc. Volendo egualmente porsi al sicuro dai mutamenti di valore della moneta si stabilisce che il canone sarà pagato in danaro, ma in una somma non fissa, bensì corrispondente al corso dell’annata di un prodotto convenzionale – grano, risone, canapa, – per lo più di quelli ufficialmente quotati con prezzi di Stato, in una data quantità riferita alla estensione del fondo. Si sente dire che si è affittato a quattro quintali di grano per ettaro, ma non solo il fittavolo non consegna grano, quanto può perfino non aver coltivato e raccolto un chicco di grano, esercendo a zootecnia o a semina di altre piante, si poteva allo stesso fine pattuire il fitto in dollari o in libbre di oro, pure essendo sicuro che non si è trovato ancora l’albero che dà questi frutti. Ebbene; dimezzando questo canone nessun contadino lavoratore guadagnò nulla, poiché per la stessa sua natura il sistema non si applica quasi mai al piccolo al fitto, e incassarono milioni imprenditori agricoli molto più ricchi dei loro proprietari e talvolta proprietari essi stessi di immobili urbani e agrari immensi. Questo semplice rapporto i Soloni di oggi è da credere che ancora non l’abbiano capito.
Nel caso della mezzadria si sono da un lato spezzate tutte le lance popolaresche a favore dei mezzadri, senza tener conto che anche tra questi ve ne sono che tengono personale salariato, con figure di datori di lavoro. Per difenderli si è voluta aumentare la quota di prodotto del mezzadro. Ma i contratti di colonia parziaria sono in Italia a tipi svariatissimi secondo le colture, con varie quote di riparto e diversi oneri di anticipazioni spese e tasse per i contraenti, sicché si è creato un peggiore guazzabuglio. Da sinistra ad un certo punto si tuonò che questa forma di contratto deve sparire perché di tipo feudale. Siamo sempre li, al concetto che il partito proletario e socialista non sia fatto per volgere – a mezzo di carezze o di nerbate è altra quistione – il capitalismo in socialismo, ma per vigilare che il capitalismo non ridiventi feudalismo. Dunque non per svergognare ma per lodare il purificato idolo capitalistico… Comunque l’argomento, falso in principio, è falso anche in fatto.
«Il contratto di mezzadria è di origine antichissima e proprio di tutti i paesi di cui imperò il diritto romano, onde è particolarmente estero da noi e altresì nella Francia e nei paesi iberici…»
Si sviluppò molto dopo la liberazione dei servi della gleba e in Italia fin dal XIII secolo… Se poi la mezzadria conferisca o meno allo sviluppo tecnico agricolo e come influisca sui vari tipi di coltura è problema assai complicato; socialmente importa il punto che anche il mezzadro va visto non solo di fronte al proprietario terriero, ma in contrasto col lavoratore proletario; allora è un datore di lavoro, un borghese, un nemico; e trovi qualche altro per farsi fare le leggi a favore, che poi crede di fargliele a favore e senza volere lo frega… dopo averlo pigliato a vanvera vuoi per servo della gleba vuoi per compagno proletario.
Un altro grido all’avanzo feudale, un altro dagli all’untore, è venuto fuori quando i democristiani hanno proposto l’adeguamento dei canoni enfiteutici. Il rapporto di enfiteusi si ha quando il proprietario riceve un canone fisso perpetuo dall’esercente della terra, e non può mandarlo via né chiedere aumenti, anzi è l’enfiteuta che può riscattare pagando in moneta venti volte il canone quando lo creda. Il diritto si trasmette e si vende come quello di proprietà. Che accidenti ha a che fare col feudalesimo questo rapporto strettamente mercantile? È vero che alcune legislazioni borghesi nascenti vollero sopprimere questa forma insieme a tante altre feudali, ma
«l’enfiteusi sorse nei tempi del basso impero dalla trasformazione graduale delle concessioni di terre pubbliche sotto forma di vectigal, cioè a perpetuità al colono coll’obbligo di coltivarle e pagare un canone, ecc. ecc…».
Comunque questa del chiodo feudale può essere una svista storica da fobia infettiva, ma la svista più grossa è quella del riformatore che non vede che i benefizi vanno nella tasca opposta a quella che gli preme. I sinistri socialcomunisti votando contro l’aumento del canone in rapporto da uno a dieci erano convinti di fare azione a favore di una massa di contadini lavoratori che sono debitori del canone o livello verso grossi proprietari. Vi sono di questi casi, ma gli enfiteuti non sono che poche migliaia, e invero i canoni sono così bassi che in via di relativismo economico erano in effetti dei privilegiati in confronto a ogni altro tipo di amministrazione agraria, sicché il nuovo onere non è certo proibitivo. Ma nella più parte dei casi sono dei proprietari che posseggono altra terra a titolo di enfiteusi e la gestiscono in fitto o colonia come il restante. Il basso canone enfiteutico va a comuni, enti di assistenza, o comunità religiose, che hanno visto in molti casi annullata la loro rendita dalla inflazione. Se fosse stato possibile bloccare il logico decreto del governo, la gran massa dei canoni che da quest’anno saranno pagati in più sarebbe andata nelle tasche proprio della classe dei proprietari terrieri, cui invece si vuole fare il dispetto, che si vuole mortificare e colpire come ceto retrivo e parassitario…
Questi tecnicismi, riformismi, legislativismi, che si sono tanto vantati della loro oculata lungimiranza di fronte alla nostra cieca fedeltà ai principi massimi, dimenticano un solo particolare, di avere i globi visivi dietro la nuca, per non localizzare più sgarbatamente.
Scocciano da trent’anni che si son dati a scrutare i problemi concreti, ma in tutti i casi fanno la figura di questo; non sanno ad esempio quanti grossi possessi estensivi meridionali sono sorti accumulando quote enfiteutiche comprate a basso prezzo dai poveri contadini, e quanto comodo faceva ai proprietari che il canone si pagasse ancora in lire del primo anteguerra talvolta ancora annotato in frazioni di lira. Ogni modesto praticante di estimo agrario portava fin dai primi tempi in conto questo prevedibile adeguamento dei canoni. Tutti prodotti del civile regime della libertà della terra, tutti effetti che andranno così finché non salti il libero baraccone del capitalismo borghese.
Il gran ciarlatano di questo, dalle acque del Potomac, consacrò tutte le libertà. Una dimenticò di enunciarne, ma i suoi seguaci allievi ed alleati ben degni la praticano con larghezza, con entusiasmo, e quel che è peggio non poche volte con deliziosa buona fede: la libertà di fesseria.
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Invece del riepilogo delle puntate precedenti fin qui pubblicato, riportiamo una riduzione dello svolgimento in
Tesi
– Nelle rivoluzioni sociali una classe toglie il potere alla precedente quando il contrasto tra i vecchi rapporti di proprietà e le nuove forze produttive conduce ad infrangere i primi.
– La rivoluzione borghese, allorché le scoperte tecniche ebbero imposto la produzione in grande e l’industria meccanica, abolì i privilegi dei proprietari feudali sull’opera personale dei servi e i vincoli corporativi al lavoro manuale, espropriò in larga misura artigiani e piccoli contadini, spogliandoli del possesso del loro sito e dei loro arnesi di lavoro e dei prodotti della loro opera, per trasformarli, come i servi della gleba, in proletari salariati.
– La classe degli operai salariati lotta contro la borghesia per abolire, con la privata proprietà del suolo e degli impianti produttivi, quella dei prodotti dell’agricoltura e dell’industria, sopprimendo le forme della produzione per aziende e della distribuzione mercantile e monetaria.
4. – La rivoluzione borghese al posto delle gestioni comuni della terra agraria e della distribuzione di essa in circoscrizioni feudali istituì il libero commercio del suolo, facendone un processo borghese conseguibile non per nascita ma con danaro, al pari di quello delle aziende industriali e commerciali.
L’ordinamento borghese nel campo agrario, come in tutta Italia, è nel Mezzogiorno pienamente compiuto. La pretesa esigenza di una lotta contro privilegi baronali e feudali costituisce una deviazione totale dalla lotta proletaria di classe contro il regime e lo stato borghese di Roma.
5. – La disciplina giuridica applicata dalla classe capitalistica all’acquisto e al trasferimento dei suoli, aboliti i vincoli feudali, fu presa dal diritto romano, reggendo colle stesse norme formali la piccola proprietà contadina ed il grande possesso fondiario borghese.
I problemi dell’agricoltura italiana non sono risolubili con riforme giuridiche della distribuzione titolare dei possessi, ma solo con la lotta rivoluzionaria per abbattere il potere nazionale della borghesia, per eliminare il dominio del capitale sull’agricoltura e la polverizzazione della terra, forma miserrima di sfruttamento di chi la lavora.
La sistemazione dei rapporti economici e di diritto che si riferiscono ai fabbricati e ai suoli urbani nell’epoca del capitalismo moderno può sembrare di peso generale inferiore a quello rappresentato da una parte dal settore agricolo, dall’altra dalla produzione industriale.
A parte la considerazione che il volume del movimento economico rappresentato dalla gestione dell’abitazione non è trascurabile poiché rappresenta una frazione abbastanza alta del bilancio di ciascuna famiglia della media popolazione (in Italia in tempi normali e per determinati strati sociali perfino più di un quarto), la quistione risulta molto interessante, poiché il suo esame consente di delucidare in modo molto espressivo il gioco di elementi e di relazioni economiche fondamentali per intendere lo svolgimento odierno del capitalismo, specialmente per la distinzione tra i rapporti di proprietà titolare e patrimoniale, che in certo senso rappresentano la statica della economia privata, e i rapporti di gestione e di esercizio, di entrata e di uscita continue che ne costituiscono la dinamica.
Per l’ordine dell’esposizione facciamo cenno dell’origine storica del possesso urbano privato, argomento meritevole di lungo studio ed esposizione.
Il processo è ben diverso da quello che condusse alla definizione e limitazione dei possessi agricoli. Quando le tribù nomadi si fissarono su terre feraci si passò in vario modo dal godimento e dalla coltura in comune alla individuazione di campicelli singoli e familiari. Attraverso innumeri rivolgimenti e sconvolgimenti si pervenne al classico e ben codificato sistema romano, indi a quello feudale, finché, come abbiamo trattato nel quarto e quinto capitolo, con la vittoria della borghesia il suolo agrario divenne commerciale e la disciplina giuridica fu di nuovo copiata su quella romana.
Le vicende dell’abitazione non possono identificarsi con quelle del campo agrario. L’antico nomade o seminomade, cacciatore, pescatore, raccoglitore di frutto spontaneo, poi primordiale coltivatore, porta con sé la sua abitazione, carro, tenda di pelle, o facilmente la improvvisa nella rudimentale capanna o in naturali spelonche.
Col formarsi degli stabili poderi agrari privati, la popolazione dedita alla coltura si costruisce per lo più da se stessa le primitive abitazioni fisse campestri; fino ad oggi queste vanno trattate, dal punto di vista fondiario come da quello della gestione produttiva, alle stregua di impianti agricoli di cui l’opera umana ha arredata lungo i secoli la nuda terra vegetale. Vogliamo invece qui seguire il sorgere dell’abitazione urbana.
È palese che i primi agglomerati di fabbricati stabili non sorsero per dirette esigenze della tecnica produttiva non agricola, essendo in epoche meno sviluppate la iniziale manifattura ben compatibile con lo sparpagliamento della popolazione e l’utilizzazione dei margini giornalieri e stagionali del tempo dell’agricoltore. Più quindi che le prime forme dell’artigianato e della fabbricazione di prodotti non naturali, furono le esigenze della organizzazione sociale politica e militare a determinare il primo sorgere delle città. Può dunque ritenersi che l’area urbana nacque in un regime collettivo, e solo dopo si spezzò in dominii singoli, corrispondendo alle necessità di amministrazione, di difesa, di dominazione, in rapporto a masse sparpagliate e a turbe di invasori, e appartenendo quindi tutta la cinta urbana al re, al tiranno, al capitano militare, alle prime forme di stato, alcune volte ad associazioni sacerdotali. Ciò vuole dire la tradizione parlando di Romolo e Remo che tracciano la cinta delle mura di Roma trasformando il primo utensile rurale, l’aratro, in macchina edilizia. Influirono poi le esigenze di difesa fortificata; la polis greca aveva nel suo cuore l’acropolis o cittadella; uno dei termini latini per indicare la città è oppidum, che significa luogo fortificato, mentre civitas più che indicazione topografica è termine giuridico per designare lo Stato.
Nello stesso periodo romano, con l’ingrandire della città in cinte sempre più vaste di mura, col sorgere di una classe dominante di patrizi proprietari di vaste tenute agricole e di numerosi schiavi, si ebbero le aedes e le insulae private ed anche un frazionamento della proprietà urbana tra abitazioni dei ceti inferiori. Lo Stato tuttavia, repubblicano o imperiale, conservò su tutto il complesso urbano uno stretto controllo, dimostrato dalla grande importanza della magistratura degli edili; fino all’altro riflesso tradizionale che ci narra di Nerone, invasato da progetti grandiosi di rinnovamento urbanistico, che non avrebbe esitato dinanzi al mezzo radicale di dare alle fiamme i quartieri dell’urbe.
Nel medioevo lo sviluppo dei grandi centri ebbe un rinculo rispetto ai fasti delle capitali asiatiche e classiche. Sorsero i manieri feudali, attorno ad essi o ai loro piedi si aggrupparono i borghi, alloggio prima di servi e di domestici, indi a poco a poco di maestri artieri e di mercatori indipendenti. È con la borghesia moderna che nascono e ingrandiscono le città. Esse, superando ogni considerazione di difesa militare dei poteri signorili o dinastici, abbattono e travalicano le anguste cinte di mura e di bastioni, e si dilatano a formare gli enormi agglomerati contemporanei, entro la cui cerchia sono ammassati in opifici e stabilimenti giganteschi i milioni di lavoratori che la moderna tecnica produttiva ha concentrato.
Una tesi fondamentale marxista è la stretta relazione fra il dilagare della produzione industriale e dell’economia borghese e l’imponente fenomeno sociale dell’urbanesimo.
«La borghesia ha assoggettato la campagna alla città: ha creato città enormi aumentandone immensamente gli abitanti in confronto di quelli delle campagne; così una parte considerevole della popolazione è strappata all’ignoranza della vita rustica». («Manifesto»).
Forse è stata l’Italia, seguita dai Paesi Bassi, a dare i primi esempi, sul finire del medioevo, di grandi città di tipo moderno. I grandi palazzi, e gli imponenti complessi di case civili, non portano solo i nomi e gli stemmi delle grandi famiglie gentilizie, ma appartengono a ditte formate da gente plebea che ha accumulato nelle banche, nei commerci, nella navigazione i primi grandi capitali, e già ne investe una parte notevole nell’edilizia urbana, mentre i più importanti maestri artigiani si fanno padroni dello stabile che alloga il loro laboratorio, come lo fu il bottegaio di Roma della sua taberna.
Diffusosi il capitalismo moderno in altri stati, vi sorsero o città industriali giovani e nate borghesi come Manchester o Essen, o grossi agglomerati periferici delle storiche capitali che dopo la caduta degli antichi regimi alimentarono a dismisura il numero dei loro abitanti, divenendo le grandi Parigi, grandi Londre, grandi Burlino di oggi; mentre oltremare altre città borghesi si fondavano, spoglie di quartieri storici, riconoscibili nella planimetria dal monotono reticolato ortogonale, segnate dallo standard di questo tempo mercantile e dalle leggi disumane della corsa al profitto.
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Quanto al meccanismo giuridico, quello dei codici romani e giustinianei, come si prestò assai bene per la conquista da parte del capitale del suolo agrario, servì nei codici dei nuovi poteri borghesi a disciplinare egregiamente il possesso l’acquisto e il trapasso dei beni urbani, sia quanto a fabbricati esistenti sia quanto a suoli disponibili per l’edificazione. Una particolare disciplina legale servì allo smistamento dei diritti dei singoli privati su edifici distinti in proprietà singole di piani o di appartamenti, con l’istituto del condominio per parti divise. Se la speculazione capitalistica dei nuovi padroni della società ebbe sviluppi di vasto raggio nell’investimento in tenute agricole e nella loro trasformazione secondo le nuove richieste del consumo ed utilizzando i nuovi mezzi e forze produttive, esercitazioni ancora più clamorose essa riuscì a compiere ovunque col «libero» commercio dei suoli edificatori e la continua esaltazione del loro valore che nel vecchio e nel nuovo mondo raggiunse quote iperboliche.
Benché le stesse regole di diritto dicano come si deve svolgere il mercato dei suoli agrari e dei suoli urbani, stabilendo l’equivalenza fra il valore immobiliare fondiario e la somma di numerario in cui si converte, nella realtà economica i due fatti sono diversissimi.
Si attribuisce alla terra agraria un valore spettante al proprietario giuridico, restando immutato il quale corre il gettito annuo continuo di una rendita fondiaria. Le scuole economiche conservatrici hanno ritenuto, da quella fisiocratica, che voleva, in difesa del regime feudale, fare l’apologia della forza produttiva della terra in contrapposto a quella della manifattura e dell’industria, il concetto di una produttività base della terra, sia pure la meno attrezzata, che senza e prima dello sforzo di lavoro elargisce un prodotto. Le migliori colture rese possibili dall’apporto di ulteriori investimenti di lavoro sotto forma di impianti e costruzioni diverse ed anche di periodici interventi con dissodamenti concimazioni e così via, aggiungono, per l’economia ufficiale, a quella rendita base, un nuovo gettito che costituisce il profitto dell’impresa agraria,
A parte la diversa posizione marxista della quistione – per cui, come abbiamo visto, la terra non ha una forza produttiva di per sé ed è uno strumento di lavoro – la rendita fondiaria non può oltre certi limiti elevarsi rispetto alla data estensione del terreno e al tempo del suo ricavo. Le stesse grandi migliorie fondiarie, nel presente meccanismo economico, se permettono di aumentare notevolmente la produzione di derrate, esigono tuttavia l’investirsi di capitali ancora superiori al valore fondiario base ed impongono attese lunghissime e perfino sospensioni di rendita che si devono portare al passivo in uno agli interessi del capitale investito. Quindi in regime capitalistico i suoli agricoli possono aumentare di valore ma entro limiti abbastanza ristretti. La trasformazione agraria, che interesserebbe moltissimo per il benessere comune, fa raramente comodo alla borghese classe dominante, e non raggiungerà un grande sviluppo che dopo la fine del capitalismo.
Ben altri fenomeni determinano il mercato dei suoli urbani e di tutto quanto sopra essi si eleva. Nella produzione agraria abbiamo un certo equilibrio fra la sua importanza come patrimonio di colui che su di essa vanta il titolo, e come contributo alla produzione: i regimi terrieri non erano i più predatori. Nell’economia industriale abbiamo che, restando limitati i valori patrimoniali titolari, si esalta enormemente il valore dei prodotti e la massa del profitto.
Sarà svolgimento di questa indagine portare in luce la modernissima tendenza ad un capitalismo senza patrimoni ma con altissimi profitti. Ma ritorniamo al nostro suolo edificatorio e troveremo un esempio di un massimo di patrimonio concentrato su di una estensione piccola completamente inerte, ove non cresce una pianta di insalata e non si investe un’ora di lavoro umano. Finche il suolo non sarà venduto per costruzione, non vi è alcun bilancio di gestione o di esercizio, non occorre alcun capitale mobile. Non si pagano neppure imposte, finché appunto non fu istituita quella «patrimoniale». Questa voleva costituire una moderata confisca parziale di patrimoni privati, ma in realtà viene pagata anch’essa attraverso i vari redditi delle classi abbienti e nel caso del nostro lotto per costruzioni non è che minima sottrazione all’incessante aumento di valore patrimoniale e venale, di regola assai più forte di quello di un patrimonio monetario cui si lasciassero aggiungere gli interessi.
Ora questa speciale forma di arricchimento delle classi borghesi non è che un aspetto dell’accumulazione primitiva del capitale, che parte dal depauperamento e dalla cattura nei gorghi dell’urbanesimo industriale, imposti ai piccoli produttori liberi contadini o artigiani ridotti a proletari nullatenenti. Si tratta di un fatto sociale; attraverso il concentrarsi nei limitati spazi urbani di masse di forze produttive, che vanno dall’uomo alle macchine e alle complesse attrezzature moderne, condizione base dell’enorme profitto che l’industria offre al padronato è la disposizione di aree in quelle zone privilegiate per allogarvi opifici, uffici, abitazioni per le masse dei salariati. È dunque possibile che nel mercato di queste aree somme sempre più alte corrispondano alle stesse estensioni di suolo, e l’unità commerciabile non è più l’ettaro o l’acre ma il metro o il piede quadrato.
L’evoluzione del complesso organismo urbano si svolge in direzioni che tutte conducono ad aumentare il costo del suolo edilizio. Col progressivo aumento dell’intensità del traffico nelle strade, sebbene l’aumentata velocità dei mezzi meccanici faciliti il passaggio di un maggior numero di persone e volume di merci nel medesimo tempo, s’impone l’allargamento delle strade, e ad ogni trasformazione le isole fabbricate diventano più piccole. Nello stesso tempo il progredire della tecnica consente di aumentarne l’altezza, e quindi sulla stessa area si ha maggior numero di ripiani di ambienti e di abitatori. Aumentati con lo sfruttamento e la utilità del suolo, ne aumenta il prezzo che il proprietario pretende se lo aliena. Con i criteri della vigente economia si stima il valore di un suolo edificatorio calcolando quale sarà la rendita del massimo edifizio si deduce la spesa per eseguire la costruzione, la quale risulta in generale inferiore al valore, precedentemente detto, dell’edifizio. La differenza è un premio che compete al proprietario del suolo, è un valore fondiario, di natura diversa da quello degli immobili rurali, che tuttavia genera una rendita anch’esso quando il padrone del suolo resta padrone dell’edifizio.
Per chiarezza notiamo che nella locazione per abitazione delle case costruite non figura o risulta alcun profitto di intrapresa comparabile a quello dell’affittuario agricolo che passa un canone al proprietario del fondo e provvede poi all’esercizio e alla coltura di esso, restando padrone del prodotto.
Non è comparabile economicamente all’affittuario intraprenditore agrario l’impresa che ha costruito l’edifizio; questa viene soddisfatta nel suo avere e scompare dal rapporto: quando abbiamo parlato di calcolo della spesa di costruzione abbiamo considerato compreso in essa l’utile dell’impresa edilizia ed anche gli interessi commerciali spettanti al capitale liquido rimasto impegnato per il tempo della costruzione. In tutti questi processi economici le varie figure possono coincidere nella medesima persona, ma bisogna ben distinguerle per decifrare i processi che studia il determinismo economico. Cosi nell’agricoltura non sempre si distingue il proprietario fondiario, il fittavolo intraprenditore, il lavoratore manuale salariato. Il grande agrario coltivatore diretto riunisce le prime due figure in sé; il piccolo colono le ultime due, il piccolo proprietario contadino tutte e tre. Similmente nella proprietà edilizia il possessore di un suolo può costruirvi la casetta che abiterà, se non colle sue mani, per lo meno col sistema «in economia», e spendendovi denaro proprio: costui sarà non solo proprietario, ma insieme banchiere; impresa costruttrice, locatario di se stesso.
Vedemmo già che un testo marxista ricorda come in Inghilterra l’industriale spesso non è proprietario della fabbrica. In altra testo, del quale tra poco ci occuperemo assai ampiamente, è perfino rilevato che il proprietario della casa può non essere proprietario del suolo su cui è costruita. Determinati ordinamenti giuridici rendono infatti possibile la concessione di costruire sul suolo, il cui proprietario riceve un canone dal costruttore e possessore della casa. Simili forme molto interessanti, diciamo di passaggio, vanno diffondendosi per costruzioni ed impianti fatti a loro spese da privati speculatori su suoli non loro, ma demaniali ossia di proprietà di Enti pubblici (comuni, provincie, Stati), si ha così la concessione, istituto che sta estendendosi notevolmente, tipo di capitalismo senza proprietà.
Il senso del movimento economico del moderno tempo capitalistico è nella distinzione, separazione, sceveramento tra le figure economiche di un ciclo di produzione-consumo, e non nella loro sovrapposizione c confusione. Non solo questa è una tesi obiettiva fondamentale, ma va accompagnata all’altre per cui questo senso di sviluppo del mondo capitalistico è quello che noi marxisti, suoi implacabili avversari rivoluzionari, accettiamo e sviluppiamo come base del trapasso alla economia collettiva.
Riprendendo quindi l’edifizio testé costruito e appartenente a un titolare privato, e dopo aver visto come sorge e si trasmette nell’ordine presente la sua titolarità patrimoniale, esaminiamone l’esercizio e la gestione. Premettiamo tuttavia un concetto di economia urbanistica importante. Il patrimonio fondiario rurale è in un certo senso perpetuo poiché nel ciclo di esercizio la terra riproduce fisicamente la sua produttività base, a differenza per esempio di un giacimento minerario di cui si può calcolare l’esaurimento. Il fabbricato urbano invece non è eterno. È solo la letteratura che canta «exegi monumentum aere perennius», elevai un monumento più eterno del bronzo; ed anche i colossi edilizi di tempi passati hanno una vita, sia pure lunga, deperiscono e muoiono. Il normale fabbricato per abitazioni ha per diverse ragioni un limitato ciclo di vita. Da una parte il tempo ne logora le strutture, avvicinandole al cedimento e alla rovina, dall’altra il tipo cri abitazione si trasforma col progresso della tecnica, deve soddisfare nuove esigenze e lo fa talvolta con dispositivi meno costosi degli antichi. Come ricorda anche il testo cui ci riferiamo avviene ad un certo punto che il fabbricato vale economicamente meno del suolo che occupa, essendo le sue abitazioni meritevoli di bassi canoni, ed essendo cresciute le spese di esercizio. Il ciclo di vita di un fabbricato urbano per case di abitazioni può essere assai variabile, per dare un esempio che contrappone poveri a nababbi, vinti a vincitori, sarà a Napoli di 300 anni, a Nuova York di 30.
Il proprietario del fabbricato trae le sue entrate dalle pigioni o canoni di locazione che versano periodicamente gli inquilini. Tale gettito non è affatto eterno e costante, e non è per intiero a disposizione del padron di casa. Ad esso, che suol chiamarsi rendita lorda, si oppongono una serie di uscite: spese per la custodia del fabbricato (portiere), per la illuminazione e pulizia dei passaggi comuni agli inquilini (androni, scala ecc.); spese di manutenzione delle parti che vanno in logorio, spese generali per l’amministrazione e varie. Nei casi normali occorre aggiungere una quota media di sfitto o di pigioni non incassate. Ed infine per provvedere al deperimento del fabbricato occorre accantonare la così detta quota di ammortamento, ossia una annualità periodica tale che messa a risparmio possa accumulare alla fine dello stabile la somma da spendere per ricostruirlo a nuovo. Sommate tutte queste spese e dedotto il loro importa dall’entrata lorda, dedotte altresì le tasse che si pagano a pubblici enti, rimane l’effettivo reddito netto che il proprietario è libero di godere. I correnti estimatori traggono la cifra del valore patrimoniale dello stabile da quella del capitale che ai vigenti tassi di interesse riprodurrebbe la rendita netta. Una analisi più approfondita mostra che tale procedimento incorre in molte inesattezze perché implicitamente ammette la costanza in avvenire di molte condizioni che in effetti sono mutevoli.
Abbiamo ricordato tutto ciò per mostrare con un facile confronto le differenze economiche e sociali tra l’azienda che ha in gestione il proprietario di case, e le generali aziende produttive dell’agricoltura e dell’industria. Queste basano la loro entrata di esercizio sul realizzo di prodotti che di continuo generano e portano a vendere sul mercato. Con tale entrata lorda soddisfano le varie spese tra cui vi sono due categorie importantissime, che per il proprietario di case sono praticamente assenti: acquisto di materie prime da manipolare; remunerazione di lavoro salariato. Quindi il rapporto della locazione di casa manca di questi tre elementi: produzione di merci, salario, acquisto di materie prime. Vi è in realtà un logorio e un consumo della casa, ma è piccola frazione del bilancio annuo, minima della consistenza patrimoniale, e vi provvedono gli indicati accantonamenti economici. Invece nell’industria quelle tre partite (prodotti, salari, materie prime) non solo rappresentano la parte preponderante del bilancio annuo, ma possono raggiungere cifre più elevate, in certi casi, dello stesso valore di patrimonio degli impianti, pure avendo provveduto pel ciclo a conservarlo intatto. Nel diritto e nell’economia comune avviene tuttavia per la locazione di case un regolare e contrattuale scambio di prestazioni e di valori, come accade quando si danno delle monete contro un pezzo di pane. Che cosa ottiene l’inquilino in cambio del suo danaro? Non certamente qualcosa che possa asportare o consumare distruggendola. Nel linguaggio del codice borghese egli ottiene l’uso della sua abitazione, e lo paga ai prezzi correnti per unità di tempo. Adunque, il locatore vende all’inquilino semplicemente l’uso, il possesso della casa, il diritto di entrarvi e restarvi. Vedremo subito come questo scambio nell’economia marxista è considerato uno scambio commerciale, tra equivalenti, in cui può bene una delle parti danneggiare l’altra perché tutto il commercio borghese è una rete d’imbrogli, in cui è sempre probabile che sia il più abbiente a farla al più povero. Ma non vi è applicazione di forza lavoro alla trasformazione di materie e quindi non è questo un settore del campo in cui si genera, acquistando la particolare merce che è la forza-umana di lavoro, la formazione di plus valore e il profitto capitalistico.
Nella presente meccanica dei rapporti tra contraenti, queste peculiarità del rapporto locativo producono sensibili disparità pratiche e giuridiche. Esse si riducono al fatto materiale che il produttore agricolo o industriale tiene bene in pugno la sua merce e per fargli allargare le dita occorre di norma cavar fuori il danaro. Quella particolare merce che è il possesso della casa, anche se vogliamo chiamarlo un prodotto, sta nelle mani non del padrone ma dell’inquilino: se questi non paga ci vuole un complicato meccanismo giudiziario-poliziesco per metterlo fuori. È su ciò che si basano le baggianate e la demagogia della borghese legislazione sulle case in tempi di emergenza, e il suo sfruttamento da parte di partiti popolareschi e pseudo-socialisti. Prima tuttavia di delucidare questo punto ci corre l’obbligo, per illustrare la nostra tesi che il rapporto di locazione non è un rapporto capitalistico, di provare in primo luogo di non aver detto una eresia né una fesseria, in secondo luogo di non aver scoperto proprio nulla di nuovo.
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Lenin, nel suo scritto cardinale «Stato e rivoluzione» cita largamente le più note opere di Federico Engels come «Origine della proprietà della famiglia e dello Stato» e «La scienza sovvertita dal signor Eugenio Dühring», ma al capitolo IV si riferisce ad un lavoro dello stesso scrittore, molto a torto meno noto e meno adoperato nella propaganda socialista. Il titolo del lavoro è «La quistione delle abitazioni». Lenin si serve di quanto Engels dice sul programma dei comunisti in materia di alloggi per porre con l’abituale perspicuità in evidenza il compito dello Stato nelle mani del proletariato, le analogie e le differenze che corrono tra questo Stato di domani e l’attuale Stato della borghesia quanto alla loro forma e quanto al contenuto della loro attività. La preoccupazione di Lenin è di pervenire a due solidi caposaldi. Primo: lo stato che uscirà dalla rivoluzione è una macchina nuova e diversa che si formerà dopo avere abbattuta ed infranta quella dello stato attuale; secondo: le funzioni di questa nuova macchina di potere e il suo intervento di classe nel corpo della vecchia economia si svolgeranno in modo da non dare a temere (come liberali e libertari insinuano) che sul nuovo potere si edifichi una nuovi forma di sopraffazione, di sfruttamento sulle masse da parte di una cerchia di privilegiati. Il problema se finora la storia abbia dato conferma alla costruzione dottrinale marxista e leninista anche in questo punto, non può essere sicuramente abbordato senza una completa chiarezza nella indagine positiva sui rapporti economici e sociali di oggi. Il campo del settore abitazioni serve mirabilmente ad Engels e Lenin per far misurare l’abisso che corre fra le soluzioni proprie della critica rivoluzionaria marxista, e quelle smerciate o dai puerili utopismi, o dai riformismi legalitari e anticlassisti.
Lo studio di Engels porta la data del 1872 e raccoglie tre articoli pubblicati nel «Volksstaat» di Lipsia, che l’autore riunì con una prefazione del 1887. Engels li scrisse in replica a scritti di un certo Mülberger ospitati nella stessa rivista e completamente deviati dalla linea marxista in senso proudhoniano. Engels ne trae occasione per una critica della posizione piccolo-borghese del Proudhon, posizione che sotto vari nomi, prima e dopo di allora, incessantemente riaffiora e insidia la direttiva marxista. Si tratta di una esposizione condotta con mano di maestro nella quale, come sempre in Engels, stupisce la sicurezza teoretica accompagnata alla chiarezza cristallina dello svolgimento e della forma. Forse la letteratura marxista non possiede, per il settore della produzione agraria, un testo completo e sistematico, come questo che definisce ed esaurisce l’argomento della proprietà urbana. E pure l’impareggiabile uomo che era Engels tiene a chiarire, quasi scusandosi, che nella distribuzione del lavoro tra Marx e lui, perché il primo potesse dedicarsi tutto alla sua opera massima, toccava a lui, Engels, sostenere il loro indirizzo nella stampa periodica; ed aggiunge che egli ha voluto, prendendo occasione dalla quistione delle abitazioni, aggiornare la critica di Proudhon fatta nel 1847 con la «Miseria della filosofia», concludendo testualmente: Marx avrebbe fatto il tutto molto meglio e in modo più esauriente!
La posizione contro la quale sin dall’inizio Engels appunta la sua critica è quella che vuole risolvere la «crisi delle abitazioni», fenomeno moderno che ha colpito e colpisce in ripetuti periodi i più varii paesi, con una riforma attraverso la quale ogni inquilino diventa il proprietario della abitazione in cui vive attraverso un riscatto che ne paghi a rate il prezzo al proprietario. A questo grossolano errore programmatico l’articolista confutato perviene, naturalmente, attraverso madornali errori di economia, che Engels elimina traendone brillante occasione per rimettere in luce la interpretazione economica marxista. Una delle tesi sballate è questa:
«quello che è l’operaio salariato di fronte al capitalista è il locatario di fronte al possessore di case».
Marx avrebbe forse sprizzato fiamme e lanciato fulmini al sentire di queste tamburate; Engels dice con calma: ciò è del tutto falso. E pazientemente e limpidamente spiega come stanno le cose, richiamando i semplici criteri descrittivi che noi abbiamo esposti più sopra, Egli ne trae la confutazione del calcolo balordo per cui l’inquilino pagherebbe a furia di mesate, due, tre, cinque volte il valore della casa. Ne trae dippiù occasione non solo per sviscerare la critica economica al così detto socialismo piccolo borghese, ma anche i «chiodi», etico-giuridici di questo. L’articolista, che come migliaia di suoi compagni nel peccare si credeva marxista, si era lasciato sfuggire quest’altra scarola:
«La casa una volta costruita serve come un titolo perenne di diritto»;
secondo Proudhon infatti tutto consiste nel riuscire ad introdurre nella economia «l’eterna idea del diritto». Engels mostra la vacuità di un tale linguaggio che vorrebbe stigmatizzare l’esosità del lucro del padron di casa come una volta si scomunicava quello dello strozzino; e cita Marx:
«sappiamo noi qualcosa di più intorno all’usuraio se diciamo che egli contraddice alla eterna giustizia, alla eterna equità, alla eterna reciprocità e alle altre eterne verità, di quello che sapessero i padri della chiesa quando dicevano che contraddiceva all’eterna grazia, alla eterna fede e all’eterno volere di DIO?»
Tra il 1847 e il 1887 un avversario era messo a terra quando era convinto di teismo. Marx ed Engels, atleti della polemica, avrebbero oggi un compito più duro, perché gli scrittorelli marxisti non sono slittati solo fino a Proudhon, ma fino agli stessi Padri dalla chiesa. Praticano ormai il «catch as catch can»!
Poiché l’incauto articolista non si contenta di progettare la sua miracolosa «riforma di struttura» per le case abitate, ma vanta di possedere simile ricetta per tutti gli altri settori, Engels estende il campo della sua messa a punto sulla descrizione marxista del processo produttivo, anche alla quistione del saggio d’interesse del capitale, deridendo la pretesa di «prendere finalmente per le corna la produttività del capitale» con una legge transitoria per fissare gli interessi di tutti i capitali all’uno per cento! E pure ancora oggi quanti e quanti presentano la lotta socialista come una campagna per abolire l’affitto della casa, quello della terra e il frutto del denaro, pensando di avere così trasportato sulla terra il regno della morale, coll’impedire di guadagnare a chi non lavora; allorché invece si tratta di sradicare tutto un ingranamento di forme sociali protetto e difeso dalle mostruose impalcature di potere armato concentrato nello stato politico!
La risposta di Engels stabilisce che
«la produttività del capitale è una assurdità presa senz’altro dagli economisti borghesi».
In verità l’economista borghese classico è più serio di quello piccolo-borghese e riformista, poiché (dopo aver contestato ai fisiocrati che la ricchezza sorgesse dalla produttività della terra, ai mercantilisti che sorgesse dalla produttività dello scambio) affermò esattamente che è il lavoro la sorgente di ogni ricchezza e la misura del valore di tutte le merci. Per spiegare tuttavia come il capitalista, che impegna il suo capitale nell’industria, non solo alla fine dell’affare lo ricupera, ma in più ne trae un profitto, enunciò, avvolgendosi in mille contraddizioni, una certa «produttività del capitale». Per i marxisti invece è produttivo soltanto il lavoro, non il fondo o la casa del proprietario d’immobili o il danaro del banchiere. Il fondo, la casa, la fabbrica, la macchina sono forze produttive perché sono strumenti e mezzi di produzione ossia sono adoperati dall’uomo per lavorare. Nell’attuale ordinamento, e finché non sarà rovesciato, la facoltà del danaro e del capitale non è una facoltà produttiva ma è la facoltà sociale
«ad esso pertinente di potersi appropriare il lavoro non pagato dei lavoratori».
Pure essendo in possesso soltanto di una traduzione scadente, cessiamo di parafrasare e lasciamo parlare Engels:
«l’interesse del denaro dato a prestito è solo una parte del profitto; il profitto, sia esso del capitale industriale o del commerciale non è che una parte del plus-valore che la classe dei capitalisti sottrae alla classe dei lavoratori sotto forma di lavoro non pagato. Per ciò che riguarda la spartizione di questo plus-valore fra i singoli capitalisti, è chiaro che per l’industriale e commerciante, i quali hanno nelle loro imprese molto capitale anticipato da altri capitalisti, la quota del loro profitto crescerà in quanto cada la percentuale dell’interesse. Perciò il ribasso e la finale abolizione dell’interesse non afferrerebbero in alcun modo ‹per le corna› la così detta ‹produttività del capitale› ma solo regolerebbero altrimenti la divisione tra i capitalisti del plus-valore non pagato e sottratto alla classe dei lavoratori, e assicurerebbero un vantaggio non già al lavoratore di fronte al capitalista industriale, ma proprio a costui di fronte a chi vive di rendita».
Ritorna la tesi su cui in queste pagine stiamo battendo; non sono il rentier, il signore di terre e di palagi, che tanto ci fregano, questi poveri avanzi di un tempo che fu, ma il capitano d’industria, l’imprenditore, modernissimi e progressivi! e dinanzi a questi ultimi proclamiamo: ecco il nemico!
Il proudhonista immagina che questa compressione e finale soppressione dell’interesse del capitale comporti, oltre ad una generale meravigliosa panacea su tutte le altre questioni economiche e sociali: credito, debiti di stato, debiti privati, imposte, appunto l’abolizione per sempre della pigione delle case. Engels gli dimostra che anche se questo piano semplicistico fosse possibile, non ne verrebbe spostato il rapporto economico fondamentale capitalistico tra lavoratori salariati e padroni delle aziende di produzione; lo rimanda più e più volte alle basi dell’economia marxista e al «Capitale» di Marx:
«La pietra angolare della produzione capitalistica è il fatto che l’ordinamento attuale della società pone in grado di comperare la forza di lavoro dell’operaio al suo valore, ma di ricavarne molto più del valore stesso, facendo lavorare l’operaio più a lungo di quello che sia necessario per la riproduzione del prezzo pagato per la forza di lavoro. Il plus-valore in tal modo prodotto viene ripartito complessivamente tra la classe dei capitalisti e dei proprietari di fondi, unitamente ai loro servi, dal papa e dall’imperatore sino alle guardie notturne».
Ora il costo commerciale della casa come quello del pane del vestimento ecc. entra nelle spese di riproduzione della forza lavoro, nella parte di questa forza che il salario remunera, e costituisce il lavoro necessario, ed è oltre questi che veniamo nel campo del plus-valore o lavoro non pagato che compare nel prezzo dei prodotto insieme a quello pagato. Come in tutti gli scambi con danaro, l’operaio ed ogni altro compratore può essere truffato; nello scambio del suo lavoro col salario deve essere truffato. Il rapporto dove viene colto il carattere capitalistico dell’economia è quello in cui il lavoratore incassa la sua paga non quello in cui la esita tra panettiere, sarto, padron di casa eccetera.
Chiarita la quistione di analisi economica lo studio di Engels con non minore energia ribatte l’errore di natura sociale accusando i proudhonisti di ogni tipo di porre in evidenza sempre quelle rivendicazioni che sono comuni agli operai salariati e ai piccoli e medii borghesi, ma che, come classe, soltanto questi ultimi hanno interesse a difendere, e dimostra quanto una tale posizione sia reazionaria. Egli raccoglie dalla declamazione opportunista queste sciocche parole.
«Noi siamo di gran lunga inferiori ai selvaggi; il troglodita ha la sua tana, l’australiano la sua capanna di argilla, l’indiano il suo focolare, il proletario moderno sta di fatto sospeso nell’aria», ecc.
Va ancora riportata nel suo testo la magnifica confutazione di Engels che si riferisce anche alla non meno pestilenziale richiesta della parcellazione rurale.
«In questa geremiade abbiamo il proudhonismo in tutta la sua figura reazionaria. Per creare la moderna classe rivoluzionaria del proletariato, era assolutamente necessario tagliare il cordone ombelicale che teneva legati i lavoratori del passato al suolo e al fondo. Il tessitore a mano che oltre al suo telaio aveva la propria casetta, il proprio giardinetto e il proprio campicello, era, pur con ogni miseria e con tutta l’oppressione politica, un uomo tranquillo e contento; si cavava con tutta la beatitudine e riverenza il cappello davanti ai ricchi, ai parroci, agli impiegati dello stato, e nell’intimo era in tutto e per tutto uno schiavo. Per l’appunto la grande industria moderna, che del lavoratore incatenato al suolo fece un proletario al tutto privo di possesso, sciolto da ogni vincolo e veramente libero come un uccello, appunto questa rivoluzione economica è quella che ha creato le condizioni sotto le quali soltanto può venire distrutto lo sfruttamento della classe lavoratrice nella sua ultima forma, la produzione capitalistica. Ed ora viene questo lacrimoso proudhonista e si rammarica, come di un grande regresso, della cacciata dei lavoratori dalla casa e dal focolare, che appunto costituisce la prima fra tutte le condizioni della loro emancipazione».
Engels ricorda di avere per primo descritto nell’opera «Condizioni delle classi lavoratrici in Inghilterra» quanto fu feroce questa espulsione dei lavoratori dalla casa e dal focolare, e prosegue:
«ma poteva mai venirmi in mente di vedere un regresso al di là dei selvaggi in questo processo evolutivo, in quelle circostanze storiche del tutto necessario? Il proletariato inglese del 1872 è ad un livello infinitamente più elevato del tessitor campagnuolo con «casa e focolare» del 1772. E il troglodita con la sua tana, l’australiano con la sua capanna di argilla, l’indiano col suo proprio focolare avrebbero mai potuto produrre una insurrezione di giugno o una comune di Parigi?».
Indi Engels satireggia con un gustoso esempio che si direbbe formato dopo avere letto l’odierna legge sul piano Fanfani – le conseguenze del piano imbecille (che già a quei tempi si ventilava anche in America, come da una lettera di Eleonora figliuola di Marx circa l’esosa vendita di casette nei suburbi ai lavoratori) per far comperare a rate ad ogni operaio industriale la sua casetta, ed immagina un operaio che dopo aver lavorato in varie città possiede un cinquantesimo di casa a Berlino, un trentaseiesimo nell’Annover, ed altre frazioni ancora più complicate in Svizzera ed in Inghilterra, il tutto in modo che «l’eterna giustizia» non può dolersi.
In conclusione:
«tutti questi punti che ci vengono qui proposti come quistione interessantissima per la classe dei lavoratori, hanno in realtà un essenziale interesse solo per il borghese, ed ancor più per il piccolo borghese, e noi crediamo, nonostante Proudhon, che la classe lavoratrice non ha alcuna propensione a badare all’interesse di queste classi».
Naturalmente a questo punto viene chiesto ad Engels, a Lenin c a coloro che come noi sono tanto conservatori da non aver trovato nulla per superare posizioni vecchie di settantasette anni, che cosa si voglia fare, in ordine alle abitazioni. È appunto questo il passo che Lenin volle citare per dimostrare quanto poco vi sia di comune tra un estremismo utopista e le conseguenti posizioni del marxismo radicale, come a proposito delle prospettive sulla economia futura dice vivamente:
«neppure un granello di utopia vi è in Marx».
La conclusione di Engels è questa
«come dunque risolvere la questione degli alloggi? Nella società attuale, essa si risolve assolutamente allo stesso modo che qualunque altra questione sociale, attraverso l’equilibrio economico che si realizza a poco a poco tra la domanda e l’offerta; ora, è questa una soluzione che aggiorna continuamente il problema e, per conseguenza, non è una soluzione. In qual modo la rivoluzione sociale risolverà questo problema è un fatto che dipende non solo dalle circostanze di tempo e di luogo, ma che è anche legato a questioni che vanno assai più lontano, e delle quali una delle più importanti è la soppressione dell’antagonismo tra la città e la campagna. Poiché non siamo qui ad immaginare sistemi utopisti sull’organizzazione della società futura, sarebbe per lo meno ozioso il soffermarcisi. Tuttavia, una cosa sola è incontestabile, ed è che già attualmente, nelle grandi città, vi sono abbastanza immobili per mettere fin da ora riparo ad ‹ogni vera penuria di alloggi›, a condizione che vengano utilizzati razionalmente. Questa misura non è realizzabile, beninteso, se non a condizione di espropriare i proprietari attuali, e di ammettere nei loro immobili i lavoratori senza alloggio, o che vivono in alloggi soprapopolati. Dal momento che il proletariato avrà conquistato il potere politico, una tale misura, dettata dall’interesse pubblico «sarà realizzabile con la stessa facilità delle espropriazioni e requisizioni di alloggi operate ai nostri giorni dallo Stato».
Lenin illustra che questo esempio dimostra una analogia formale tra certe funzioni dello attuale stato borghese e quelle che eserciterà la dittatura del proletariato.
Ma una cosa è molto notevole. La legislazione di guerra degli stati borghesi si è spinta alla limitazione e al blocco dei canoni di affitto, al divieto della espulsione dei locatari, così come in dati casi il meccanismo legale presente prevede la espropriazione dietro indennità di stabili privati, per fini di utilità pubblica. Marx in altro punto rileva che la legge di espropriazione prevede il risarcimento del valore venale al proprietario, ma di nulla viene risarcito l’inquilino cacciato sul lastrico dai grandi rinnovamenti urbani moderni e che pure viene assoggettato a spese di trasporto, al pagamento di fitti più alti, oltre alla modernissima estorsione della così detta ceditura o buon ingresso nella nuova casa, se ha tanta fortuna da trovarla. Dippiù durante le operazioni militari è oggi ammessa la occupazione di appartamenti per usi bellici o servizi connessi.
La misura prevista da Engels per compensare la mallatìa sociale del sopraffollamento, ha però questo di radicale e di assolutamente originale rispetto a tutto quanto finora si è visto e rispetto a tutti i piani riformistici di mutamenti di titolarità giuridica e creazione di nuovi minuti proprietari. Si tratta di una revisione dell’uso delle case. I temuti commissari degli alloggi del dopoguerra, potevano immettere chi credevano in case disponibili, ma non ebbero facoltà di imporre coabitazione in appartamenti troppo grandi, e di sindacare il fatto che una famiglia ricca disponesse a titolo di proprietà o di locazione poco importa di cinque ambienti per individuo nelle città in cui i poveri occupano in cinque e più un ambiente solo. Ecco quello che sarà veramente un intervento dispotico, che darà un colpo terribile alla garanzia e sicurezza privata sinora esistite (parole del «Manifesto») e che farà strillare maledettamente alla violazione rivoluzionaria della santità del domicilio e del focolare!
Si prevede dunque come misura rivoluzionaria immediata la redistribuzione dell’uso delle case tra gli abitanti della città restando una prospettiva ulteriore il disaffollamento delle città congestionate.
Quello però che non mancherà di stupire molti che si credono marxisti, è il concetto economico di Engels secondo cui l’uso della casa non sarà immediatamente gratuito, per tutta quella fase che Marx chiama primo stadio del comunismo economico e su cui Lenin a suo luogo si trattiene illustrando la celebre lettera a Bracke sul programma di Gotha. Ecco l’altro passo di Engels:
«Va constatato che l’effettiva appropriazione da parte del popolo lavoratore di tutti gli strumenti di lavoro e di tutta l’industria è in completa opposizione col riscatto propugnato da Proudhon. Secondo quest’ultima soluzione ogni operaio diviene proprietario del suo alloggio, del suo campo, dei suoi utensili. Secondo la prima è il popolo lavoratore che rimane proprietario collettivo delle case, delle fabbriche e degli strumenti di lavoro. Il godimento di queste case, di queste officine etc, almeno nel periodo transitorio non sarà lasciato agli individui e alle ditte private SENZA IL PAGAMENTO DI UN CANONE. Allo stesso modo, la soppressione della proprietà fondiaria non implica lo soppressione della rendita fondiaria, ma la sua restituzione alla società, almeno sotto una forma modificata. L’appropriazione reale di tutti gli strumenti di lavoro da parte del popolo lavoratore non esclude quindi in alcun modo il mantenimento dell’affitto e della locazione».
Solo nella fase superiore del comunismo in cui non verranno remunerati con moneta gli oggetti di consumo e i servizii varii, sparirà anche il canone locativo, provvedendo una organizzazione generale anche il mantenimento e rinnovo degli edifici di abitazione per tutti.
Ben si vede il contrasto profondo tra tale chiara delineazione e i programmi progressivi delle democrazie popolari, tutti consistenti nel promettere frammentazioni di rendita fondiaria. Dove, stringi stringi non vi è da spartire la centesima parte di quanto pappano le intraprese, la millesima di quanto annienta il folle disordine della produzione.
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Quel tanto di reddito lordo della casa che non corrisponde ad inevitabili spese, senza le quali si resterebbe privi entro un certo termine di abitazioni servibili, e che si può considerare rendita fondiaria del suolo, funzione del privilegio sul ruolo, pure essendo questo come dicevamo improduttivo fisicamente di frutti, spetta, dice lo stesso Proudhon, alla società, e sta bene. Questo, risponde Engels, significa la abolizione della proprietà privata sul suolo, argomento che «ci porterebbe molto lunghi».
Engels voleva evidentemente dire che senza dubbio con la rivoluzione proletaria e la statizzazione successiva della rendita fondiaria resta abolita ogni titolarità di privati sul suolo, tuttavia per il suolo urbano una simile «riforma» non è da escludere che possa essere fatta prima dallo stesso Stato borghese. Sarebbe una cosa più seria del «riscatto» da parte del locatario individuale.
Vediamo infatti che oggi non pochi urbanisti, certamente non di scuola marxista, propongono la «demanialità delle aree urbane». Questa sarebbe dello Stato o del Comune nelle grandi città, dietro si capisce una piena indennità ai proprietari attuali. Questi urbanisti infatti partono dal fenomeno del rapidissimo aumento di valore dei suoli edificatori, in una cerchia ad anelli sempre più vasti attorno alle grandi città, da cui l’assurdo apparente notato da Engels che può convenire abbattere un fabbricato valido per speculare sul suolo. Ciò rende costosissime le operazioni di bonifica e risanamento urbano e fa sì che il capitale ne rifugge. Ora anche un buon borghese fautore del principio ereditario può affermare che quel premio enorme, realizzato in molto minor tempo, talvolta, di una generazione, non è accumulo di ricchezza che viene di padre in figlio, ma è palesemente risultato passivo di una serie di fatti sociali. Tutti i suoli della città sarebbero così fuori commercio, il Comune li smisterebbe nelle fasi opportune tra vie, piazze, edifizi pubblici e casamenti di abitazione; la costruzione di questi può essere data in «concessione», per un termine di varii anni, dopo dei quali ritornano all’ente, comunale.
È chiaro che un tale piano, mentre non esclude affatto il pagamento di canoni di locazione da parte dei cittadini, non sarebbe affatto rivoluzionario e non intaccherebbe i principi sociali capitalistici.
Ma può con questi ed altri piani la società borghese superare i problemi dell’urbanesimo? La corrente scienza urbanistica si pasce di esercitazioni tecnico-architettoniche e dimentica che il fondamento di tale disciplina è di natura storica e sociale.
Impotente a reagire al dato della concentrazione di un numero sempre maggiore di abitatori su minimo spazio, l’urbanistica dei Le Corbusier e degli altri che passano per avanzatissimi spinge gli edifizii ad altezze vertiginose e ad un numero inverosimile di piani, fantastica di città verticali ad atmosfere forzate, utilizzando le risorse dell’impiego di strutture metalliche che hanno trasformato la tecnica e conseguentemente la estetica delle fabbriche. Ma questa tendenza appare «avveniristica» solo in quanto non sa domandarsi se il migliore indirizzo della vita collettiva e le forme che assumerà in avvenire corrispondono a questo raccapricciante affollamento di gente sospinta in una vita sempre più febbrile malata ed assurda.
Nel secondo dei suoi articoli Engels pone appunto il tema: come la borghesia risolve la quistione dell’abitazione: e confuta la letteratura borghese ipocritamente filantropica a proposito dei quartieri malsani e affollatissimi delle moderne Metropoli.
Alla quistione è direttamente interessata la piccola borghesia, e tale punto è stato delucidato abbastanza. Ma vi è interessata, Engels dice, anche la grande borghesia. Anzitutto i pericoli di epidemie infettive tendono ad estendersi dai quartieri poveri a quelli signorili. L’ideale borghese, che in urbanistica chiamano zonizzazione, consiste nel selezionare bene tra case operaie e case ricche; ma nelle vecchie città si ha ancora traccia dell’organizzazione feudale che frammischiava palazzi e casette, nobili, popolani e servi.
«La signoria capitalista non può permettersi senza pericolo il piacere di suscitare malattie epidemiche nella classe dei lavoratori».
Valga questa vivace battuta per quelli che hanno dipinto un Engels vecchio incline ad attenuare le avversioni di classe.
Un secondo punto riguarda la polizia politica delle città e la repressione delle insurrezioni armate, che fino alla seconda metà dell’ottocento ebbero buon gioco nelle vie strette e tortuose delle capitali. Engels ravvisa in un motivo di classe il taglio delle grandi strade ampie e rettilinee lungo le quali la mitraglia e l’artiglieria possono spazzare via i rivoltosi. La posteriore esperienza, se conferma che centro di ogni sforzo insurrezionale è la conquista delle grandi capitali e città industriali, mostra pure che le formazioni armate illegali guerrigliano meglio e più a lungo nell’accidentata campagna. Un buon esempio tecnico lo danno le forze di Giuliano, in quanto deve ritenersi che non sono una propaggine avanzata di lontani stati maggiori di forze regolari.
In terzo luogo Engels illustra le grandi intraprese speculative capitalistiche appoggiate dai governi sotto il doppio aspetto della costruzione di alveari per allogare gli operai presso le colossali fabbriche, il che tende a trasformare il libero salariato in una specie di «schiavo feudale del capitale»; e della trasformazione edilizia e viaria dei quartieri centrali nelle grandi città, citando più volte il classico esempio nel metodo Haussman con la grande curée del secondo impero, che creò i boulevards parigini in una orgia speculativa. Di questo tutte le altre nazioni hanno offerto esempi suggestivi.
La base economica di questi rivolgimenti urbanisti, esaminata nel finanziamento statale, nel preteso selfhelp o auto-aiuto degli operai, scarnendone la mercede, nella intrapresa privata, conduce l’autore a concludere che il motore e lo sbocco di tutto è il consolidamento sociale e politico del capitalismo.
Le tesi fondamentali marxiste sulla quistione degli immobili urbani, sono così riepilogate da Engels medesimo in cinque punti della confutazione ai proudhoniani.
1) Il passaggio della rendita fondiaria allo stato significa abolizione della proprietà individuale del suolo, non del canone locativo.
2) Il riscatto dell’abitazione per trasferirne la proprietà all’attuale inquilino non tocca per nulla il modo capitalistico di produzione.
3) Questa proposta nell’attuale sviluppo della grande industria delle città, è tanto insulsa quanto regressiva.
4) L’abbassamento coattivo dell’interesse del capitale non intaccherebbe minimamente il modo capitalistico di produzione; al contrario, come lo provano le leggi sull’usura, è altrettanto antico quanto impossibile.
5) Con l’abolizione dell’interesse del capitale non si perverrebbe per nulla ad abolire la pigione delle case.
Rispetto poi all’indirizzo del grande capitalismo e degli urbanisti al suo servizio, circa la svolgersi della vita degli organismi urbani e circa la scarsezza delle abitazioni ecco in altri due punti, tratti dal testo, quali sono le tesi marxiste.
6) Non può sussistere senza difetto di abitazioni una società nella quale la grande massa lavoratrice è obbligata a rivolgersi al lavoro esclusivamente salariato per procurarsi i mezzi per vivere – nella quale il proprietario di case, nella sua qualità di capitalista, non solo ha il diritto, ma in virtù dello concorrenza, anche in certo modo il dovere di trarre dalla sua proprietà i più alti affitti. In una società simile il difetto di abitazioni non è un caso, esso è una istituzione necessaria e potrà essere rimosso solo quando tutto l’ordinamento sociale che ad esso dà luogo sia scalzato sin dalle fondamenta.
7) Ogni soluzione borghese della quistione dell’abitazione naufraga per il contratto tra città e campagna. La società capitalistica ben lungi dal poter togliere questo contrasto non può che acuirlo sempre dippiù. Voler sciogliere la quistione dell’abitazione e voler mantenere le moderne città è un controsenso. Ma queste saranno rimosse soltanto con l’abolizione del modo capitalistico di produzione, con l’appropriazione per parte della classe lavoratrice di tutti i mezzi di vita e di lavoro.
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Meritano una noticina a parte i capolavori dell’amministrazione pubblica italiana fascista e fascistoide a proposito di blocco dei fitti e ricostruzione di case, e i corrispondenti atteggiamenti di sporca demagogia da parte dei movimenti che, con la pretesa di rappresentarla, coprono tra noi di vergogna la classe operaia e le sue grandi tradizioni.
Speculazioni ciarlatanesche ed elettorali ne abbiamo viste e ne vediamo tutti i giorni innestarsi alla vicenda, molte volte tragica, della occupazione delle fabbriche e delle terre.
Non ancora abbiamo visto sperimentare l’invasione e l’occupazione delle case.
Il motivo è, tra l’altro, che non più i fantasmi dei baroni, non soltanto le persone degli affaristi super borghesi, ma anche troppi arrivati demagoghi e gerarchi, di là e di qua delle cortine di ferro, sarebbero disturbati nel loro tenore di vita da mantenuti.
Notes:
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In altra parte di questo stesso fascicolo il lettore potrà trovare ricordati i termini autentici delle tesi di Marx sulla crescente miseria che non contraddice la legge sull’aumento del saggio del salario reale, nella esposizione esplicativa del testo fondamentale della economia marxista. [⤒]