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LA TATTICA DEL COMINTERN 1926–1940


Content:

La tattica del Comintern 1926–1940
1. – Il Comitato anglo-russo
2. – La questione russa
3. – La questione cinese (1926 – 1927)
4. – La tattica dell’offensiva e del social-fascismo (1929–1934)
5. – La tattica dell’antifascismo e del fronte popolare (1934–38)
6. – La guerra di Spagna, premessa alla seconda guerra imperialistica mondiale (1936–1940)
Notes
Source


La tattica del Comintern 1926–1940

Nel marzo 1926 ha luogo a Mosca la Sessione del IV Esecutivo Allargato, e Bordiga conclude il suo intervento affermando che è giunta l’ora per gli altri partiti dell’Internazionale di rendere al Partito Russo quanto questo ha loro dato nel campo ideologico e politico, e chiedendo espressamente che la questione russa sia posta all’ordine del giorno dei successivi dibattiti dell’Internazionale.

Se, dal punto di vista formale, tale proposta ebbe esito favorevole, in quanto alla VII Esecutivo Allargato come pure alla successiva sessione plenaria dell’Esecutivo dell’Internazionale, la questione russa fu ampiamente dibattuta, dal punto di vista sostanziale le cose andavano invece ben diversamente, e tutti i partiti dell’Internazionale bloccarono con le soluzioni teoriche, politiche e disciplinari precedentemente date dal Partito Russo. Queste soluzioni colpivano in pieno i principi fondamentali su cui era stata costruita l’Internazionale Comunista e portavano alle basi stesse della rivoluzione russa quelle sostanziali trasformazioni, che dovevano condurre alla spietata repressione contro gli artefici della rivoluzione e al parallelo capovolgimento della Russia dei Soviet, destinata infine a diventare uno degli strumenti essenziali della controrivoluzione e della preparazione del secondo conflitto imperialista.

La verità è che, già nel 1926, e grazie al successo di quella «bolscevizzazione» che Zinoviev aveva fatto trionfare al V Congresso Mondiale del 1924, i quadri dirigenti di tutti i partiti erano stati radicalmente modificati. Alle correnti che nel 1920, al sorgere dell’Internazionale, avevano organicamente confluito verso lo stesso sbocco rivoluzionario affermatosi in modo decisivo nel trionfo dell’Ottobre russo, altre tendenze erano state sostituite; e queste tendenze, vere e proprie mosche cocchiere che avevano seguito il carro vittorioso della rivoluzione russa senza portare alcun contributo alla formazione dei partiti comunisti, e che sonnecchiavano in essi in attesa della loro ora non potevano che rispondere presente all’appello rivolto dalla controrivoluzione nascente in Russia e darle man forte nell’opera allora appena abbozzata di frantumamento dei quadri dell’Internazionale.

Se abbiamo ricordato le proposte fatte dalla sinistra italiana per bocca di Bordiga al VI Esecutivo Allargato dell’Internazionale, lo abbiamo fatto per sottolineare che questa corrente aveva già presenti tutti i grandi avvenimenti in maturazione ed il punto centrale di essi: lo spostamento radicale che si preparava nella politica della Russia Sovietica.

Era l’ultima volta che la sinistra italiana poteva farsi sentire nel seno dell’Internazionale e del Partito: un anno dopo, non solo essa, ma ogni altra corrente d’opposizione era definitivamente espulsa dall’Internazionale e condizione per l’appartenenza a questa diventava il riconoscimento di quella teoria del «socialismo in un solo paese» che rappresentava una palese rottura di principio sui programmi su cui la stessa Internazionale si era costituita.

L’asservimento del Comintern agli interessi dello Stato Russo si era ormai verificato e i partiti comunisti delle varie nazioni, anziché muoversi verso l’unico reale obiettivo della lotta rivoluzionaria contro il loro capitalismo, venivano manovrati come pedine del gioco diplomatico impegnato dalla Russia con le altre potenze e portati, quando queste esigenze lo richiedessero, ai più fallimentari compromessi con le forze dell’opportunismo centrista e della borghesia.

Questo studio, che ha solo un carattere di informazione sulla tattica del Comintern dal 1926 al 1940, e che non può nemmeno esaurire un così ampio problema, deve ridursi a offrire gli elementi essenziali di questa tattica nelle sue tappe fondamentali, che qui elenchiamo:
1° Comitato anglo-russo (1926);
2° Questione russa (1927);
3° Questione cinese (1927);
4° Tattica dell’offensiva e del social-fascismo (1929–1933);
5° Tattica dell’antifascismo e del Fronte Popolare (1934–1938);
6° Tattica dei partiti comunisti nel corso del secondo conflitto imperialista mondiale.

1. – Il Comitato anglo-russo

Nel 1926, un avvenimento di grande importanza sconvolgerà sia l’analisi della situazione, data dal V Congresso dell’Internazionale (1924), sia la politica che ne era conseguita in Russia e negli altri paesi. La situazione mondiale era stata caratterizzata dalla formula della «stabilizzazione», la quale evidentemente non escludeva la possibilità di una ripresa dell’ondata rivoluzionaria, mar – per il riflesso tattico che comportava – lungi dal facilitare l’orientamento dell’Internazionale verso una ripresa della lotta proletaria, doveva renderla prigioniera di formulazioni tattiche e di organismi, che non si modificano o rompono dall’oggi al domani.

In effetti, il processo politico non è un conglomeramento difforme di espedienti tattici, a tal segno che il partito possa applicare ad ogni situazione quello che vi corrisponde come farebbe un medico dopo aver diagnosticato la mallatìa. Il partito, che è un fattore dirigente dell’evoluzione storica, non può che plasmarsi in funzione della tattica e della politica che applica, e sarà abilitato ad intervenire in una situazione rivoluzionaria nella sola misura in cui avrà saputo prepararvisi nelle fasi che l’hanno preceduto. In mancanza di questa preparazione, è evidente che il partito, incastratosi in un opposto processo politico, non potrà non restarvi incuneato, interdicendosi così ogni possibilità di dirigere la lotta proletaria.

Ora, quando nel 1924 si era parlato di «stabilizzazione», non ci si era evidentemente limitati ad un puro esame statistico e tecnico dell’evoluzione economica, ma, dall’indiscutibile constatazione della discesa dell’ondata rivoluzionaria in seguito alla disfatta della evoluzione tedesca del 1923, si era fatta discendere una discussione politica che era d’altronde in perfetta armonia con le decisioni tattiche dell’Internazionale.

Queste decisioni erano imperniate sull’obiettivo fondamentale del mantenimento dell’influenza comunista sulle grandi masse. E poiché, nella detta situazione sfavorevole, il contatto con le grandi masse non era possibile che attraverso lo sviluppo di rapporti politici con le organizzazioni socialdemocratiche che del riflusso rivoluzionario profittavano, la formula della «stabilizzazione» comportava la tattica del «noyautage» delle direzioni dei partiti e dei sindacati socialdemocratici.

Quando, nel 1926, scoppio il gigantesco sciopero dei minatori inglesi, l’Internazionale non poteva dunque che trarre le conseguenze dalle permesse tattiche già stabilite. I capi trade-unionistici si affrettarono a stabilire accordi permanenti con i capi dei sindacati sovietici, e il Comitato anglo-russo fu costretto a esercitare la funzione che gli avvenimenti gli imponevano.

Lo sciopero divenne generale e, se tutta l’analisi economica fatta dal V Congresso andò in frantumi, non così avvenne della tattica che ne era risultata. L’Internazionale non solo si trovo nell’impossibilità di svelare alle masse il ruolo contro-rivoluzionario dei dirigenti tradunionistici, ma dovette andare fino in fondo e mantenere la sua solidarietà con loro nel corso di tutta questa importante agitazione proletaria in uno dei settori fondamentali del capitalismo mondiale.

Onde meglio afferrare la tattica dell’Internazionale in questa questione, occorrerà ricordare che, contemporaneamente, trionfava in Russia la tendenza di destra di Bucharin-Rykov. Questa tendenza si era sviluppata nel quadro generale di una tattica che, dopo aver assimilato la sorte dello Stato Russo alla sorte del proletariato mondiale, era passata in un secondo stadio a far dipendere la politica dei partiti comunisti dalle necessità di quello stato. E Bucharin potrà giustificare la tattica seguita nel Comitato anglo-russo con gli «interessi diplomatici dell’U.R.S.S.» (esecutivo dell’Internazionale del maggio 1927).

Quanto a questa tattica, basti ricordare che, dopo le Conferenze anglo-francese di Parigi del luglio 1926 e di Berlino dell’agosto 1926, alla Conferenza di Berlino dell’aprile 1927 i delegati russi, i quali avevano riconosciuto nel Consiglio generale «l’unico rappresentante e portavoce del movimento sindacale d’Inghilterra», si impegnarono a «non diminuire l’autorità» dei capi tradunionisti e a «non occuparsi degli affari interni dei sindacati inglesi». Dopo il tradimento aperto dello sciopero generale da parte della direzione socialdemocratica. E non è inutile ricordare che il capitalismo inglese, non appena potrà liquidare lo sciopero generale, ripagherà con la consueta gratitudine i dirigenti russi che gli erano stati così prodighi di servizi e che, direttamente a Londra, indirettamente a Pechino, il governo di Baldwin passerà all’offensiva contro le rappresentanze diplomatiche sovietiche.

La rivista «Lo Stato Operaio», edita dal Partito Comunista Italiano a Parigi, nel numero 5 del luglio 1927, in un articolo su «l’Esecutivo e la lotta contro la guerra» (si tratta dell’Esecutivo dell’Internazionale), polemizzando contro l’opposizione russa, scrive a proposito del Comitato anglo-russo:
«Questa tendenza (dell’opposizione – n. d. r.) viene alla luce ancor meglio nelle critiche alla riunione del Comitato anglo-russo. La riunione di Berlino del Comitato anglo-russo deve essere considerata e giudicata con attenzione senza precipitazione e senza partito preso. Il momento in cui il C.A.R. si riunisce a Berlino era internazionalmente assai grave. Il governo conservatore inglese preparava la rottura con la Russia. La campagna per l’isolamento della Russia da tutto il mondo civile si svolgeva in pieno. La delegazione dei Sindacati Russi fu bene o mal sconsigliata nel fare alcune concessioni allo scopo di non venire, in quel momento, a una rottura con la delegazione dei Sindacati Inglesi?».
Questo documento pone in forma interrogativa la questione sulla bontà della tattica seguita dalla delegazione dei sindacati russi alla riunione di Berlino ma, come abbiamo visto, Bucharin fu ben più esplicito nell’affermare che nell’interesse diplomatico dello stato russo era necessario non rompere il Comitato anglo-russo, Comitato che pur aveva servito da paravento ai capi tradunionistici per sabotare lo sciopero generale, mentre ufficialmente si riconosceva in esso gli «unici rappresentanti del movimento sindacale inglese».

Gli stessi documenti ufficiali pongono in modo inequivocabile il problema: un possente moto proletario sarà sacrificato perché così vogliono le esigenze di difesa dello stato russo.

Ecco d’altronde una nuova conferma del ruolo giocato dal C.A.R. in seno al movimento inglese. La rivista «L’Internazionale Communiste» (numero 17 del 15–8–28) reca in un articolo di R. Palme Dutt sull’assemblea plenaria del Partito Comunista Cinese del Febbraio 1928 le seguenti affermazioni:
«Ecco una svolta decisiva nell’atteggiamento del Partito Comunista verso le masse. Fino ad ora il Partito aveva giocato il ruolo di critico e di agitatore indipendente (e perciò di capo ideologico) nel movimento diretto dai riformisti. D’ora in poi il compito del partito comunista è di combattere i capi riformisti per mettersi esso stesso alla testa delle masse».
Ed in una nota dell’autore aggiunge:
«Si dice talvolta che noi siamo passati dalla parola d’ordine «lottare per la direzione» a quello di «cambiamento di direzione».
Non è esatto. Di fatto la parola d’ordine «cambiamento di direzione» era stata già attuata prima della tattica nuova, anche quando si combatteva questa tattica nuova, e non significa che una cosa: bisogna rimpiazzare alla testa del movimento la «destra» del partito laburista con la «sinistra» dello stesso partito. Attualmente il partito combatte per i suoi propri interessi, e non per correggere gli errori del partito laburista. Bisogna lottare per raggruppare le masse dietro il Partito Comunista e gli elementi che gli si sono associati (minoranza ecc.). É in questo senso che la parola d’ordine «cambiamento di direzione» è valida per il periodo attuale».

Il ruolo del Partito era stato dunque nel 1926 di agire in qualità di «capo ideologico» del movimento diretto dai riformisti e di «correggere gli errori del partito laburista». Quanto alla «nuova tattica», che sarà altrettanto deleteria per il movimento proletario quanto quella opposta del Comitato anglo-russo, ne riparleremo nel capitolo destinato all’«offensiva» ed al «socialismo».

2. – La questione russa

Nel 1926–27 la Russia attraversa una grave crisi economica. Sin dal 1923–24, due opposte posizioni erano state difese nel seno del Partito Russo: quella della destra Bucharin-Rykov che, rompendo con le condizioni pregiudiziali poste da Lenin nella Nep (vedere «L’imposta in natura»), preconizzava l’appoggio all’espansione degli strati capitalisti soprattutto nelle campagne; l’altra della sinistra trotzkista che, sulla base delle formulazioni di Lenin, tendeva alla istituzione di un piano economico centrato sul rafforzamento del settore statale e socialista a detrimento del settore privato e capitalista.

Il partito russo passa alla lotta contro Trotzky; ma il blocco dirigente che va da Bucharin-Rykov a Stalin-Zinoviev-Kamenev se procedeva unito nella lotta contro il preteso «trotzkismo», non raggiunge tuttavia un’unità di vedute sul piano positivo delle soluzioni da adottare nei confronti dei gravi problemi economici cui aveva dato luogo l’instaurazione della Nep. La destra lancia la parola «contadini arricchitevi» che minaccia apertamente il monopolio del commercio estero, ma né giunge ad impostare un piano economico e politico chiaramente orientato verso l’annientamento delle condizioni pregiudiziali poste da Lenin nella Nep, né si differenzia nettamente dal centro allora impersonato da Stalin-Zinoviev-Kamenev (per limitarsi ai più importanti capi russi). Come sempre, la destra non ha alcun bisogno di precisarsi in posizioni chiare e si affida soprattutto all’impulso diretto degli avvenimenti, i quali, in circostanze sfavorevoli al movimento rivoluzionario, non possono d’altronde che esserle propizi. L’essenziale è per essa la lotta contro la tendenza proletaria, e a questo scopo si serve del centro, che meglio di lei potrà svolgere questo compito contro-rivoluzionario.

Gli anni 1926 e 1927 che vedono una situazione in cui le diverse correnti in seno al Partito Russo non ci affrontano in vista di soluzioni particolari da adottare di fronte ai gravi problemi economici in cui si dibatte la Russia, ma i dibattiti vertono soprattutto sulle questioni generali e teoriche. Le soluzioni pratiche interverranno dopo, alla XVI Conferenza del Partito Russo (1929) in cui sarà deciso il primo piano quinquennale. Nel 1926–27 la lotta è circoscritta al compito essenziale dell’ora: disperdere ogni reazione proletaria nel seno del Partito Russo. Secondo la relazione della riunione plenaria del Comitato Centrale e della Commissione Centrale di Controllo del Partito Russo (vedi «Stato Operaio» del Settembre 1927) e
«l’opposizione si divide in tre gruppi:
1° un gruppo di estrema sinistra che fa capo ai compagni Sapronov e Smirnov;
2° il gruppo che accetta l’egemonia di Trotzky e di cui fanno parte, fra i più noti, Zinoviev, Kamenev, ecc.
3° un gruppo che si sforza di prendere una posizione intermedia tra le correnti di opposizione e il Comitato Centrale (Kasparova, Bielincaia, ecc.)«[1]
.

Quanto al primo gruppo il documento ufficiale caratterizza nei seguenti punti la sua analisi della situazione:
a) la lotta nell’interno del partito ha un carattere di lotta di classe, tra la parte operaia del partito e l’esercito dei funzionari;
b) questa lotta non può limitarsi all’interno del partito, ma deve interessare le grandi masse senza partito di cui l’opposizione deve conquistare l’appoggio;
c) è possibile che l’opposizione sia sconfitta; essa deve perciò costituire un quadro attivo, che difenda anche nell’avvenire la causa della rivoluzione proletaria;
d) il blocco Trotzky-Zinoviev non comprende questa necessità, tende al compromesso col gruppo Stalin, non ha una chiara linea tattica; avendo errato nel firmare la dichiarazione del 16 ottobre 1926 di ubbidienza al Partito deve calpestarne gl’impegni; le esitazioni di Trotzky e Zinoviev devono essere denunziate e smascherate come quelle del gruppo Stalin;
e) negli ultimi anni gli elementi capitalisti della produzione si sono sviluppati più rapidamente degli elementi socialisti; data l’arretratezza tecnica del paese e il basso livello della produttività del lavoro non è possibile passare ad una vera organizzazione socialista della produzione senza l’aiuto dei paesi tecnicamente progrediti o senza l’intervento della rivoluzione mondiale;
f) L’errore principale della politica economica del partito consiste nella riduzione dei prezzi, che va a vantaggio non della classe operaia, ma di tutti i consumatori, e quindi anche della borghesia e della piccola borghesia;
g) la liquidazione della democrazia di partito e della democrazia operaia, nel 1923, è il preludio dell’instaurazione di una democrazia di contadini ricchi;
h) per modificare questo stato di cose, bisogna passare all’organizzazione di grandi aziende di stato con una perfetta tecnica di produzione per la trasformazione dei prodotti dell’agricoltura;
i) la Ghepeu, invece di lottare contro la contro-rivoluzione, lotta contro il giustificato malcontento degli operai; l’esercito rosso minaccia di trasformarsi in uno strumento di avventure bonapartiste; il C.C. è una frazione «stalinista» che, iniziando la liquidazione del partito porterà alla fine della dittatura del proletariato; bisogna «restaurare» il sistema dei Soviet.

Questa corrente è considerata dal C.C.
«un gruppo di nemici del partito e della rivoluzione proletaria».
Lo stesso C.C. afferma che esso
«è costituito solidamente in frazione illegale non solo nel senso del Partito, ma nel senso stesso della frazione Trotzky-Zinoviev. Risulta che uno dei gruppi di questa frazione, il gruppo di Omsk, si era posto come programma la preparazione di uno sciopero generale in tutta la Siberia e l’arresto dell’attività delle grandi aziende elettriche della regione».

Quanto al gruppo Trotzky-Zinoviev, lo stesso documento del C.C. del Partito russo scrive:
«Il gruppo Trotzky-Zinoviev è responsabile dei più violenti attacchi contro il C.C. e contro la sua linea politica, e della più sfacciata attività di frazione sviluppata nel corso del 1927, infrangendo apertamente i solenni impegni presi con la dichiarazione del 16 ottobre 1926.
Negli ultimi tempi questo gruppo ha concentrato i suoi attacchi contro la linea del partito nella politica internazionale (Cina, Inghilterra) speculando sulle difficoltà sorte in questo campo. Esso ha risposto alla preparazione della guerra contro l’U.R.S.S. con dichiarazioni le quali rappresentano un sabotaggio dell’azione che il Partito svolge per la mobilitazione delle masse contro la guerra e per la resistenza. Di questo genere è l’affermazione che il C.C. del Partito è su un piano di degenerazione termidoriana, che il corso della politica del partito è «nazional-conservatore», che la linea del partito è una linea da ‹contadini vecchi›, che il più grande pericolo che minaccia la Russia non è la guerra, ma il regime interno del partito ecc. Queste affermazioni furono accompagnate da atti di violazione della disciplina e di aperto frazionismo: edizione di documenti di frazione, organizzazione di frazione, di circoli, di conferenze ecc., discorso di Zinoviev contro il C.C. in un’assemblea di senza partito, atteggiamento di Trotzky alla riunione dell’Esecutivo, accusa di «termidorismo» portata da Trotzky contro il Partito in una riunione della C.C. di controllo, dimostrazione pubblica contro il Partito alla partenza di Smilga da una stazione di Mosca. Da ultimo venne organizzata una campagna di petizioni contro il C.C. facendo circolare un documento firmato dagli 83 principali esponenti dell’opposizione. Inoltre il gruppo Trotzky-Zinoviev si e mantenuto in rapporto col gruppo di estrema sinistra escluso dal Partito tedesco (Maslow-Fischer).
Tutto ciò mostra che il gruppo Trotzky-Zinoviev non solo ha violato tutti gl’impegni assunti con la dichiarazione del 16 ottobre 1926 ma: 1) si è posto su una via che porta ad essere contro la difesa incondizionata dell’U.R.S.S. nella lotta contro l’imperialismo; le accuse di termidorismo lanciate contro il C.C. hanno come conseguenza logica di proclamare la necessità della difesa dell’U.R.S.S. solo dopo che questo C.C. sia stato rovesciato; 2) si è posto sulla via che porta alla scissione del Comintern; 3) si è posto sulla via che porta alla scissione del Partito russo ed alla organizzazione in Russia di un nuovo partito«
.

Quanto al gruppo intermedio, il C.C. del Partito russo lo considera
«un gruppo di larvata opposizione, indice probabilmente di un certo smarrimento sorto in alcuni elementi meno sicuri di sé di fronte alle gravi difficoltà del momento».

Tutta questa citazione permette di rendersi conto della gravità della situazione esistente in Russia, in questo periodo. Benché vi siano evidenti esagerazioni nel modo di presentare i punti di vista della frazione di estrema sinistra e della frazione Trotzky-Zinoviev è chiaro che neppure quanto scrive il C.C. accusatore autorizza la conclusione che i due gruppi oppositori potessero essere assimilati ai menscevichi e ai controrivoluzionari.

Quanto alle posizioni difese dalla destra, esse rappresentavano indubbiamente il veicolo per una restaurazione della classe borghese in Russia secondo il tipo classico della ricostituzione di un’economia basata sull’iniziativa e sulla proprietà privata. Ma la storia doveva escludere quest'eventualità. Nella fase dell’imperialismo monopolista e del totalitarismo statale, il capovolgimento della politica russa si svolgerà lungo l’altra via dei piani quinquennali, di cui parleremo in seguito, e del capitalismo di stato.

Ma, come dicevamo, prima di giungere a questo passo decisivo occorreva vincere definitivamente la battaglia contro i diversi gruppi di opposizione, battaglia che era in realtà diretta contro il Partito stesso e contro l’Internazionale, giacché verteva sul punto fondamentale della dottrina marxista: sulla nozione internazionale ed internazionalista del comunismo.

La citata risoluzione del C.C. rappresentava una «mezza misura» poiché le questioni non erano definitivamente risolte. È nel dicembre 1927, al XV Congresso del Partito russo, dopo l’insuccesso della prova di forza tentata dall’opposizione con la manifestazione di Leningrado, che i problemi saranno affrontati in pieno.

La grande battaglia del XV Congresso si svolse intorno alla nuova teoria del «socialismo in un solo paese» e all’incompatibilità fra l’appartenenza al Partito e all’Internazionale e la mancata accettazione di questa tesi.

Su questo punto fondamentale il VII Esecutivo Allargato (novembre-dicembre 1926) si era espresso in questi termini:
«Il Partito parte dal punto di vista che la nostra rivoluzione è una rivoluzione socialista, che la rivoluzione d’ottobre non rappresenta solo il segnale per un balzo in avanti e il punto di partenza della rivoluzione socialista in Occidente, ma: 1) rappresenta una base per lo sviluppo futuro della rivoluzione mondiale; 2) apre il periodo di transizione dal capitalismo al socialismo nell’Unione dei Soviet (la dittatura del proletariato), nel quale il proletariato ha la possibilità di edificare con successo, mediante una giusta politica verso la classe dei contadini, la società socialista completa. Questa edificazione verrà ad ogni modo realizzata solo se la forza del movimento operaio internazionale da una parte, e la forza del proletariato dell’Unione Sovietica dall’altra, saranno così grandi da proteggere lo Stato dei Soviet da un intervento militare».

Si osservi come la realizzazione della «società socialista completa» non dipenda più, come ai tempi di Lenin, dal trionfo della rivoluzione negli altri paesi, ma dalla capacità del movimento operaio internazionale di «proteggere lo Stato dei Soviet da un intervento militare». Gli avvenimenti hanno provato che a «proteggere» la Russia dei Soviet saranno invece i due più potenti stati imperialisti: la Gran Bretagna e gli Stati Uniti.

Sia al VII Esecutivo Allargato, che alle altre numerose riunioni del Partito Russo e dell’Esecutivo dell’Internazionale, il proletariato russo e internazionale perdette la sua battaglia. La consacrazione di questa disfatta si ebbe al XV Congresso del Partito Russo (dicembre 1927) quando fu proclamata l’incompatibilità fra l’appartenenza al Partito e la negazione della «possibilità della costruzione del socialismo in un solo paese».

Ma tale disfatta doveva avere conseguenze decisive sia nel seno della Russia, sia nel movimento comunista mondiale. La battaglia delle classi non ammette vie intermedie, soprattutto nei momenti culminanti, come quelli della nostra epoca. La proclamazione della teoria del socialismo in un solo paese, poiché praticamente non poteva risolversi nell’estrazione della Russia da un mondo in cui – dopo la sconfitta della rivoluzione cinese – il capitalismo passava ovunque al contrattacco e, per il fatto stesso di spezzare il legame necessario fra la lotta della classe lavoratrice di ogni paese contro il rispettivo capitalismo e la lotta per il socialismo nel seno della Russia, negava il fattore di classe proletario, doveva inevitabilmente ammetterne un altro, su cui la Russia sempre più andava basandosi: il capitalismo mondiale. Evidentemente, questo trapasso dello stato russo non era possibile che a due condizioni:
1) che i partiti comunisti cessassero di rappresentare una minaccia per il capitalismo;
2) che nell’interno della Russia il principio della economia capitalistica – lo sfruttamento dei lavoratori – fosse reistituito.

In questo capitolo tratteremo del secondo punto; nei capitoli successivi del primo.

• • •

Sulla base di una logica che vorremmo chiamare «cronologica», si è formata l’opinione che la linea della degenerazione dello stato russo parta dall’adozione della Nep nel marzo 1921 e giunga inevitabilmente al nuovo corso introdotto dopo il 1927.

Questa opinione è superficiale e non corrisponde ad un’analisi degli avvenimenti condotta secondo i principi marxisti.

Occorre mettere in chiaro che la manovra economica era necessariamente richiesta dagli avvenimenti, dalle difficoltà insormontabili in cui la dittatura proletaria si trovava, ed era possibile proprio perché si attuava in regime di dittatura proletaria. Questo evidentemente non vuol dire che le forze economiche borghesi non si accrescessero e che il rapporto di forze politico non tendesse a mutare: tuttavia questo mutare di rapporti a vantaggio delle forze borghesi, portato dalla Nep, poteva divenire pericoloso e letale per la dittatura proletaria in Russia solo ove il rapporto di forza internazionale si fosse spostato, come avvenne, verso il prevalere della reazione borghese e il deflusso dell’ondata rivoluzionaria. In caso contrario la momentanea ripresa delle forze borghesi sarebbe stata travolta dalla dittatura proletaria che aveva mantenute le sue posizioni politiche.

La posizione di Lenin, sin dal 1917, è basata su queste considerazioni principali:
1) una intransigenza politica assoluta che porterà il Partito Bolscevico a prendere le posizioni della lotta più aperta contro tutte le formazioni politiche borghesi, compresevi quelle della estrema sinistra socialdemocratica. È noto che, nel gennaio 1918, Lenin, dopo avere analizzato i risultati delle elezioni per la Costituente non secondo i criteri banali della democrazia parlamentare, ma secondo gli opposti criteri classisti, e dopo di avere constatato che i bolscevichi erano minoranza dal punto di vista aritmetico e globale nel paese, erano però maggioranza nei centri industriali, passò alla dispersione violenta di questa Assemblea eletta sulla base dei principi democratici.
2) un’avveduta politica economica che delimitava le possibilità del proletariato – e per conseguenza del Partito di classe – in connessione con le possibilità concrete offerte dal modesto grado di sviluppo delle forze e della tecnica di produzione. Il programma di Lenin comportava il semplice «controllo della produzione», ciò che significava la permanenza dei capitalisti alla testa delle industrie.

Questa apparente contraddizione fra una politica economica di concessioni ed una politica generale estremamente intransigente è inspiegabile se non ci si pone – come costantemente fece Lenin – sul piano internazionale e non si considera quindi la rivoluzione russa in connessione con lo sviluppo della rivoluzione mondiale. Se, dal punto di vista nazionale russo, le concessioni nel campo economico sono inevitabili a causa dell’arretratezza dello sviluppo industriale del paese, dal punto di vista politico invece – poiché l’esperimento della dittatura proletaria è funzione degli avvenimenti internazionali – la politica più intransigente diventa non solamente possibile ma necessaria, giacché si tratta in definitiva di un episodio della lotta mondiale del proletariato.

Lenin agiva in funzione di principi marxisti sia nel 1917 quando si limitava al «controllo delle industrie», sia durante il comunismo di guerra fra il 1918 ed il 1920, sia quando preconizzò nel marzo 1921 la politica della Nep. Tutta la sua politica discende da un’impostazione internazionale del problema russo e la stessa Nep sarà considerata inevitabile a causa del ritardo della ascesa rivoluzionaria del proletariato mondiale, mentre d’altra parte si preciseranno le condizioni fondamentali nel quadro delle quali dovranno strettamente mantenersi le concessioni contenute nella politica della Nep.

È noto che Lenin, sostituendo l’imposta in natura (il contadino diventava libero di disporre del prodotto rimanente dopo la cessione della quota devoluta allo stato) al sistema delle requisizioni (che toglieva al contadino ogni possibilità di disporre del suo prodotto) ed autorizzando il ristabilimento del mercato e della piccola industria, suddivideva l’economia russa nei due settori socialista e privato. Il primo settore – quello statale – doveva ingaggiare una corsa di velocità nei confronti del secondo al fine di sconfiggerlo nel campo economico grazie alla superiorità del rendimento del lavoro e dell’aumento di produzione.

Tuttavia la qualifica di socialista data al settore statale non significava affatto che la forma statale fosse sufficiente a determinare la natura socialista di questo settore. A mille riprese Lenin insistette sul fatto che le possibilità di successo del settore statale non risultavano in alcun modo dal fatto che, invece del privato, fosse lo stato a gestire l’industria, ma dal fatto che questo era uno stato proletario strettamente collegato al corso della rivoluzione mondiale.

Lenin instaura la Nep nel marzo 1921. È nel 1923–24 che i primi risultati della Nep si manifestano e contemporaneamente la lotta nel seno del Partito Russo dimostra che le previsioni poggianti su uno sviluppo del settore socialista a detrimento di quello privato non erano confermate dagli avvenimenti. Mentre Trotzky preconizzerà provvidenze destinate allo sviluppo del settore socialista ed alla lotta contro la borghesia rinascente soprattutto nelle campagne, la destra di Bucharin non vedrà altra soluzione ai problemi economici che una più grande libertà in favore degli elementi capitalistici dell’economia sovietica.

Nel 1926–27 la battaglia prende, nel seno del Partito e dell’Internazionale, le proporzioni che abbiamo ricordate e la sconfitta sarà totale per gli elementi di sinistra che non potranno restare nel partito che alla condizione di abiurare il principio internazionale ed internazionalista della lotta per il socialismo.

L’evoluzione storica non obbedisce a criteri formalistici a tale punto che una restaurazione dei principi economici del capitalismo non potesse essere considerata possibile in Russia che attraverso il ristabilimento della forma classica della proprietà individuale. La Russia si troverà nel 1927 e successivamente sempre più in una situazione mondiale caratterizzata, come nel secolo scorso, non dal riflesso dei principi economici liberisti nella appropriazione privata dei mezzi di produzione e del plusvalore, ma in un’altra situazione che conosce il totalitarismo statale e la soggiogazione a questo di tutte le forme dell’iniziativa privata.

Dopo la sconfitta della sinistra nel seno del Partito russo, non assistiamo – a causa delle indicate caratteristiche dell’evoluzione storica generale – ad un trionfo della destra, ma al fatto che la soluzione dei problemi economici non potrà essere ottenuta che attraverso una lotta contro le stratificazioni capitalistiche sorte durante la Nep.

Ma fra la politica della Nep e quella che doveva poi trionfare, dei Piani quinquennali, esiste o no una soluzione di continuità? Per rispondere a questa questione vi è dapprima da considerare che, come dimostra Ch. Bettelheim nel suo libro «La Pianificazione sovietista», la Nep non aveva raggiunto i suoi obiettivi né nel campo politico giacché essa aveva portato ad un’ipertrofia della burocrazia, né nel campo economico giacché invece di avere assicurato la vittoria del settore socialista, aveva condotto ad un rafforzarsi del settore privato, né infine nel campo più generale economico poiché il 1926–27 aveva conosciuto una grave crisi economica in Russia.

In presenza di quello che Bettelheim qualificherà «il fallimento della Nep» si pone la questione se il 1927 doveva ineluttabilmente segnare l’ora della resa dei conti e se, a causa delle sfavorevolissime circostanze internazionali, nessuna ulteriore possibilità esisteva di mantenere al proletariato lo stato russo. Ma non di questo problema dobbiamo occuparci, il nostro compito essendo prevalentemente informativo sul corso degli avvenimenti.

Il fatto indiscutibile è che la reistituzione del principio economico dello sfruttamento capitalista viene consacrata dai Piani Quinquennali, il primo dei quali sarà deciso alla XVI Conferenza del Partito Russo dell’Aprile 1929 ed approvato dal V Congresso dei Soviet del Maggio 1929; il punto fondamentale di questi Piani è quello del raggiungimento prima e del continuo superamento poi degli indici di produzione prendendo come punti di riferimento sia il periodo precedente al 1914, sia i risultati ottenuti negli altri paesi. In una parola, quale sarà la sostanza della nuova ricostruzione sovietica? I documenti ufficiali non ne fanno mistero: si tratta di ricostruire un’economia dello stesso tipo di quella capitalista ed essa sarà qualificata tanto più come «socialista» quanto più alti saranno i vertici raggiunti dalla produzione.

Il piano economico concepito da Lenin e approvato al IX Congresso del Partito Comunista Russo nell’aprile 1920 impostava tutto il problema sull’aumento dell’industria di consumo: ciò voleva dire che scopo essenziale dell’economia sovietica era il miglioramento delle condizioni di vita delle masse lavoratrici. Per contro, la teoria dei Piani quinquennali mira al più alto sviluppo dell’industria pesante a scapito di quella di consumo. Lo sbocco dei Piani quinquennali nell’economia di guerra e nella guerra era perciò altrettanto inevitabile quanto l’assetto corrispondente dell’economia nel resto del mondo capitalista.

Corrispondentemente alla modificazione sostanziale che si verificherà negli scopi della produzione, che saranno unicamente quelli di una costante accumulazione di capitali nell’industria pesante, un’altra modificazione si farà nella concezione dell’«industria socialista» il cui criterio distintivo sarà stabilito nella forma non privata e statale: lo Stato padrone diventerà il dio al quale saranno immolati non solamente i sacrifici dei milioni di lavoratori russi che dovranno rivalizzare di zelo nella quantità e nella qualità della produzione per non incorrere nell’accusa e condanna di «trotzkisti», ma anche i cadaveri degli artefici della rivoluzione russa.

Il principio economico del crescente sfruttamento dei lavoratori proprio del capitalismo, sarà reistituito in Russia parallelamente alle leggi generali dell’evoluzione storica che portano ad un intervento crescente e totalitario dello stato. Anche il destro Bucharin ed il suo compagno Rykov saranno giustiziati. Chi trionfa in Russia è chi dovrà poi trionfare in tutti i paesi: il totalitarismo statale; e la conseguenza non potrà essere che la stessa anche in Russia: la preparazione e la gigantesca partecipazione al secondo conflitto mondiale.

La sinistra italiana, scorgendo fin dall’inizio la sostanza dell’evoluzione politica in Russia, non si lasciò – come Trotzky – accalappiare dalla forma statale della proprietà in Russia e fin dal 1933 sollevò la necessità di assimilare la Russia Sovietica al mondo capitalista preconizzando la stessa tattica nel corso del conflitto imperialista, dove ineluttabilmente essa sarebbe stata condotta dalla teoria del «socialismo in un solo paese» e dalla teoria dei Piani quinquennali.

3. – La questione cinese (1926 – 1927)

«Se i sindacati reazionari inglesi sono disposti a formare con i sindacati rivoluzionari del nostro paese (la Russia. n.d.r.) una coalizione contro gli imperialisti contro-rivoluzionari del loro paese, perché non si approverebbe questo blocco?»
(Stalin alla seduta comune del C.C. del Partito Russo e della Commissione Centrale di Controllo, Luglio 1926). Giustamente Trotzky replicava:
«se i sindacati reazionari fossero capaci di lottare contro i loro imperialisti, essi non sarebbero reazionari».

Se Chiang Kai-shek ed il Kuomintang fossero disposti a lottare per la rivoluzione… Ma le cataste degli assassinati che conclusero l’epica lotta dei lavoratori cinesi dovevano lugubremente provare che Chiang Kai-shek e Kuomintang non potevano essere altra cosa che i boia del proletariato e dei contadini di quel paese.

Nel suo libro «L’Internazionale Comunista dopo Lenin», Trotzky caratterizza giustamente la situazione generale in Cina nei seguenti termini: «La proprietà fondiaria, grande e media, vi si intreccia nel modo più intimo con il capitalismo delle città, ivi compreso il capitalismo straniero» (pag. 277 dell’edizione francese Rieder), «Uno sviluppo interno estremamente rapido dell’industria basato sul ruolo del capitalismo commerciale e bancario che ha assoggettato il paese, la dipendenza completa dal mercato delle regioni contadine più importanti, il ruolo enorme e il continuo sviluppo del commercio estero, la subordinazione totale delle campagne cinesi alla città; tutto ciò conferma il predominio incondizionato, il dominio diretto dei rapporti capitalisti in Cina» (op. citata pag. 305).

Nello studio che sarà dedicato al trotzkismo, la rivista spiegherà le ragioni che dovevano portare Trotzky, malgrado un’analisi che metteva in luce i rapporti determinanti di tutto l’assetto economico cinese (ivi compresi i rapporti feudali e pre-feudali numericamente molto superiori a quelli capitalistici), a conclusioni tattiche assolutamente insufficienti quali quelle della partecipazione al Kuomintang e della sollevazione di quell’insieme di parole d’ordine democratiche che Trotzky difese contro Stalin dopo la definitiva sconfitta della rivoluzione cinese, dopo cioè il fallimento di quella che il Comintern qualificò: «l’insurrezione di Canton» (Dicembre 1927).

La nostra corrente, per contro, dipartendosi da un’analisi collimante con quella di Trotzky difese la tesi di principio della non adesione al Kuomintang e, mentre combatté la tattica del Comintern dell’«offensiva rivoluzionaria», mantenne integrali le sue posizioni precedenti contro le «parole d’ordine democratiche», restando ferma sulla tesi che la sola parola da sollevare nella questione del potere era quella della dittatura proletaria.

Gli avvenimenti dovevano infatti confermare che né una situazione rivoluzionaria si presentava più in Cina dopo il 1927, né un’era democratica di indipendenza borghese ed anti-imperialista della Cina poteva aprirsi dopo e malgrado la sconfitta rivoluzionaria del 1926–27.

È nel 1911 che la dinastia manciuriana abdica in favore della Repubblica. Ed è di quest'epoca la fondazione del «Partito del Popolo», del Kuomintang. La politica di Sun Yat-sen, il fondatore del Partito, seppure proclama delle rivendicazioni anti-imperialiste, per «l’indipendenza della Cina», è costretto tuttavia a doversi limitare ad affermazioni verbali che non inquieteranno affatto gli imperialismi stranieri. La storia condannerà la Cina a non potere assurgere alla funzione di un grande stato nazionale e Sun Yat-sen ne è talmente convinto che, dopo che la Cina avrà preso posizione per l’Intesa nel corsa della guerra del 1914–18, nel 1918 si rivolge ai vincitori per essere aiutato nello sviluppo economico della Cina, e cerca di appoggiarsi sull’imperialismo più vicino ed allora meno invadente, il Giappone, per allentare la morsa dell’imperialismo inglese che deteneva le posizioni più importanti.

Nel predominio dei rapporti capitalistici nell’interno del paese e nel quadro storico dell’imperialismo finanziario del capitalismo, che non apre alcuna prospettiva all’elevazione a stati nazionali indipendenti dei paesi coloniali e semi coloniali, gli avvenimenti cinesi iniziano nel 1925, si sviluppano nel 1926, per conchiudersi nel soffocamento violento della cosiddetta «insurrezione di Canton».

Questi avvenimenti, che prendono soprattutto l’aspetto militare di una marcia che parte dal Sud e va di vittoria in vittoria verso il Nord, fino a conquistare tutto il paese, possono essere caratterizzati come una «guerra democratico-rivoluzionaria, anti-imperialista della borghesia cinese»? Evidentemente, nel corso di questi tumultuosi eventi vi sono stati attacchi contro le concessioni straniere, ma, a parte il fatto che ogni volta questi attacchi non rispondevano mai a decisioni del centro del Kuomintang, ma erano il risultato di iniziative locali le quali d’altronde col decrescere degli avvenimenti venivano persino sconfessate dalla direzione centrale del Kuomintang, il problema è altro e si tratta di caratterizzare l’insieme per quello che esso si è realmente rivelato e non di addizionare gli episodi che non hanno avuto alcuna influenza decisiva sul corso generale degli avvenimenti.

Alla fine del 1927 la vittoria della controrivoluzione è decisiva, e questa vittoria non è disgraziatamente di corta durata poiché venti anni dopo ci troviamo nella stessa situazione e, malgrado la disfatta giapponese, non si assiste affatto ad un’affermazione in stato autonomo della borghesia cinese, la quale, se può disputare con la Francia il rango del IV o del V tra i cinque Grandi, non può però evitare che la Cina, dopo la sconfitta del movimento rivoluzionario del 1926–27 sia ridotta a diventare un immenso territorio dove l’urto si manifesta fra i grandi capitalismi esteri, ma non su un fronte che veda la borghesia cinese ergersi contro l’insieme di questi capitalismi. Contro Stalin ed anche contro Trotzky, la risposta della storia è assolutamente inequivocabile; non si trattò, nel 1926–27 di una guerra rivoluzionaria anti-imperialistica suscettibile di evolvere in un movimento schiettamente proletario e comunista, ma di una gigantesca sollevazione di centinaia di milioni di sfruttati i quali potevano trovare solamente nell’avanguardia proletaria la guida che, instaurando la dittatura proletaria in Cina, si sarebbe intrecciata con lo sviluppo della rivoluzione mondiale.

Il ruolo di Chiang Kai-shek e del Kuomintang non poteva essere quello che spettò alla borghesia francese del 1793, ma quello stesso che avevano esercitato, nei paesi più avanzati, i Noske e compagnia. Sin dall’inizio essi rappresentarono l’argine di difesa contro la gigantesca rivolta degli sfruttati cinesi ed il Kuomintang fu lo strumento efficace di questa crudele e vittoriosa resistenza della controrivoluzione cinese e mondiale.

Quanto alla borghesia cinese, al pari d’altronde delle borghesie dell’India e degli altri paesi coloniali e semi-coloniali, la sua funzione si è rilevata non quella di tendere ad un’autonomia nazionale, ma di incastrarsi con l’organamento delle dominanti borghesie imperialiste ed estere. Chiang Kai-shek doveva mostrare una brutalità terribile contro i proletari cinesi non appena le circostanze (la discesa del flusso rivoluzionario) glielo permisero, nello stesso tempo che una capacità di genuflessione angelica nei confronti dei più potenti imperialismi stranieri.

D’altronde, al VII Esecutivo Allargato della fine del 1926, il delegato cinese Tang Ping-sian dichiarava nel suo rapporto a proposito di Chiang Kai-shek:
«Egli ha nel campo della politica internazionale, un contegno passivo, nel senso completo della parola. Non è disposto a combattere contro l’imperialismo inglese; quanto agli imperialisti giapponesi, in certe condizioni, è disposto a stabilire un compromesso con essi».

E Trotzky precisa suggestivamente:
«Chiang Kai-shek fece la guerra ai militaristi cinesi, agenti di uno degli stati imperialisti. Non è affatto la stessa cosa che fare la guerra all’imperialismo» (Trotzky, op. cit., p. 268).

Sul fondo della lotta fra le masse rivoluzionarie e la controrivoluzione, la guerra che si faranno i generali del Sud e del Nord non troverà, fondamentalmente, altra spiegazione che quella di attanagliare il proletariato insorto e in secondo luogo di tendere all’unificazione della Cina dispersa nelle mille provincie sotto un’autorità centrale. Autorità centrale, lo ripetiamo, senza alcuna prospettiva di ergere la Cina all’altezza di un grande stato nazionale ed indipendente.

Gli imperialismi d’altronde non fisseranno le loro preferenze in modo decisivo sull’uno o l’altro generale, ma, coscienti della realtà rivoluzionaria in Cina e del pericolo che essa rappresenta per il loro dominio di classe nel mondo, lasceranno svilupparsi in pieno l’intervento contro-rivoluzionario dell’Internazionale. Dopo l’interruzione causata dagli avvenimenti bellici si ristabilirà quell’intreccio di rapporti capitalistici che parte dalle metropoli, si annette la borghesia cinese e prolunga il sua dominio sull’immensità delle terre cinesi.

• • •

Dal punto di vista programmatico, l’Internazionale disponeva, quale documento fondamentale, le Tesi del secondo Congresso (settembre 1920). L’ultimo paragrafo della 6° Tesi «supplementare» dice:
«Il dominio straniero ostacola il libero sviluppo delle forze economiche. Perciò la sua distruzione è il primo passo della rivoluzione nelle colonie. Ed è per questa che l’aiuto portato alla distruzione del dominio straniero nelle colonie non è, in realtà, un aiuto portato al movimento nazionalista della borghesia indigena, ma l’apertura del cammino per lo stesso proletariato indigeno».

Lo si vede, la prospettiva che impregna molteplici documenti della fondazione dell’Internazionale, che è contenuta d’altronde nello stesso «Manifesto» (quando Marx parla della borghesia che apre la sua stessa fossa estendendo il suo dominio a tutti i paesi) questa prospettiva non è stata confermata dagli avvenimenti. In effetti di fronte ad un movimento della portata di quello della Cina del 1926–27, che vedrà delle centinaia di migliaia di operai e contadini armati, ad un movimento che ha i connotati indiscutibili delle indomabili forze storiche, se il presunto obiettivo della liberazione dal dominio straniero fosse stato suscettibile di determinare gli avvenimenti avremmo assistito ad una lotta di queste masse che, sotto la direzione della borghesia indigena, sarebbero giunte ad un urto decisivo contro gli imperialismi esteri, oppure a questo stesso movimento che, scavalcando la primitiva direzione borghese, avrebbe assunto la forza di una rivoluzione proletaria intercalantesi con la rivoluzione mondiale.

Ora non solamente l’urto contro gli imperialismi non si verificò, ma la funzione storica della borghesia cinese si è rivelata esclusivamente quella di un potente bastione contro-rivoluzionario per domare con una terribile violenza le masse insorte, e questa mentre gl’imperialismi stranieri non potevano che rallegrarsi dell’ottimo lavoro fatto dai loro commissionari: il Kuomintang e tutte le sue tendenze, la destra di Chiang Kai-shek, il centro di Dai Jitao, come la sinistra sedicente comunista diretta dai delegati dell’Internazionale Comunista in Cina.

Le stesse Tesi non si limitano a formulare una prospettiva, ma, dopo avere formulato il criterio di guida per l’analisi delle situazioni storiche, determinano delle garanzie che, è superfluo sottolinealo, sono state vergognosamente tradite dall’Internazionale.

Quale criterio di guida, nel Punto 2 delle «Tesi» citate si legge:
«Il Partito Comunista interprete cosciente del proletariato in lotta contro il giogo della borghesia, deve considerare come chiave di volta della questione nazionale, non dei principi astratti e formali ma: 1° una nozione chiara delle circostanze storiche ed economiche; 2° la dissociazione precisa degli interessi delle classi oppresse, dei lavoratori, degli sfruttati, contro la concezione generale dei sedicenti interessi nazionali, che significano in realtà quelli delle classi dominanti; 3° la distinzione altrettanto netta quanto precisa delle nazioni oppresse, dipendenti, protette, da quelle oppressive e sfruttatrici, godenti di tutti i diritti, contrariamente all’ipocrisia borghese e democratica che dissimula con cura l’asservimento (specifico del capitale finanziario dell’imperialismo), attraverso la potenza finanziaria e colonizzatrice, dell’immensa maggioranza delle popolazioni del globo ad una minoranza di ricchi paesi capitalistici».

Quanto alle garanzie, la Tesi 5° dirà:
«È necessario combattere energicamente i tentativi fatti da certi movimenti di emancipazione, che non sono in realtà né comunisti né rivoluzionari, per inalberare dei colori comunisti: l’Internazionale Comunista non deve sostenere i movimenti rivoluzionari nelle colonie e nei paesi arretrati che alla condizione che gli elementi dei più puri partiti comunisti – e comunisti di fatto – siano raggruppati ed educati per i loro compiti particolari, cioè per la loro missione di combattere il movimento borghese e democratico. L’Internazionale Comunista deve entrare in relazioni temporanee e formare così delle unioni con i movimenti rivoluzionari nelle colonie e nei paesi arretrati, senza tuttavia mai provocare la fusione con essi e conservando sempre il carattere indipendente del movimento proletario anche nella sua forma embrionale».

L’applicazione di queste direttive fondamentali nel corso degli avvenimenti cinesi avrebbe certamente determinato una progressiva precisazione di alcuni degli elementi ipotetici contenuti nelle Tesi, ciò che era d’altronde nettamente previsto nel prima allinea della 2° Tesi che abbiamo riportato, laddove si parla della necessità di «una nozione chiara delle circostanze storiche ed economiche». Questa nozione non poteva condurre ad altro che a riconoscere il carattere esclusivamente controrivoluzionario del Kuomintang e l’assenza di ogni possibilità storica di lotta anti-imperialista in funzione della sviluppo di quelle forze economiche (Tesi 6°).

La nostra corrente, in violenta opposizione can la direzione dell’Internazionale e contro lo stesso Trotzky, sostenne la tesi della non adesione al Kuomintang fin dal principio, qualificando questo «Partito del Popolo» per quello che esso era in realtà e per quello che esso doveva poi crudelmente rivelarsi dopo i massacri dei proletari e dei contadini del 1927. Essa si ricollegava così a quanto diceva Lenin, nel 1919, quando scriveva:
«La forza del proletariato in qualunque paese capitalista è molto maggiore di quanto comporti la proporzione tra proletariato e popolazione totale. Questo perché il proletariato comanda economicamente il centro e i nervi di tutto il sistema dell’economia del capitalismo ed anche perché nel campo economico e politico il proletariato esprime sotto il dominio capitalista gli interessi reali dell’enorme maggioranza dei lavoratori» («Opere Complete», vol. XVI, pagine 458, citata da Trotzky ne «L’Internazionale dopo Lenin»). E quanto alla natura capitalista dei rapporti economici in Cina, si ricordi quanto abbiamo già detto marcando il nostro accordo con l’analisi fatta da Trotzky.

Vediamo ora, succintamente. l’impostazione tattica dell’Internazionale. Essa può essere sintetizzata nella formula del «blocco delle quattro classi» (borghesia, contadini, piccola borghesia urbana, proletariato), formula che fu d’altronde espressamente redatta nelle risoluzioni dell’Internazionale.

La rivista dell’Internazionale Comunista nel suo n. 5 del 10 marzo 1927 (si noti, un mese dopo soltanto Chiang Kai-shek scatenerà il terrore contro i proletari di Shanghai), contiene un articolo particolarmente suggestivo di Martynov. Dopo avere premesso che
«la liberazione nazionale della Cina deve necessariamente, in caso di successo, trasformarsi in rivoluzione socialista, che il movimento liberatore della Cina è anche parte integrante della rivoluzione proletaria mondiale, differendo in ciò dai movimenti liberatori anteriori che erano parte integrante del movimento democratico generale»,
dopo avere dunque dato di questo movimento, che è di «liberazione nazionale» solamente nella testa dei dirigenti dell’Internazionale, una caratteristica ben più avanzata di quelli che lo precedettero nella storia della formazione degli stati nazionali borghesi in Europa. Martinov giunge alla confusione che mentre
«in Russia, nel 1905, l’iniziativa della direzione emanava dal partito proletario» e «la borghesia liberale russa, durante un certo tempo, si trascinava al suo seguito sforzandosi ad ogni sosta temporanea del movimento di concludere un accordo con l’autocrazia czarista», in Cina «l’iniziativa emana dalla borghesia industriale e dagli intellettuali borghesi» e dunque «il Partito Comunista cinese deve sforzarsi di non creare ostacoli (sottolineato da noi) all’armata rivoluzionaria contro i grandi signori feudali, contro i militaristi del Nord e contro l’imperialismo».

Dal canto suo Stalin, in un articolo polemico contro l’opposizione russa (vedi Stato Operaio del maggio 1927) scriverà:
«Nel primo periodo della rivoluzione cinese, nei periodo della prima marcia verso il Nord, quando l’esercito nazionale avvicinandosi allo Yang-Tze passava di vittoria in vittoria, non si era ancora sviluppato un potente movimento di operai e di contadini e la borghesia indigena (ad esclusione dei «compradori») marciava insieme con la rivoluzione. Questa era dunque la rivoluzione di un fronte unico che si estendeva a tutta la nazione (sottolineato da noi). Questo non vuol dire che vi fossero dei contrasti fra la borghesia indigena e la rivoluzione. Questo significa soltanto che la borghesia indigena dando il suo appoggio alla rivoluzione si sforzava di sfruttarla per i suoi scopi dirigendo lo sviluppo di essa essenzialmente sulla linea delle conquiste territoriali e cercava di limitarne gli sviluppi in un’altra direzione».

Gli avvenimenti dovevano crudelmente provare attraverso lo scatenamento del terrore, a partire dall’Aprile 1927, che la «rivoluzione del fronte unico di tutta la nazione» era in realtà l’incorporazione delle masse insorte che saranno sottoposte alla direzione dei generali, e che infine vi era opposizione netta, stridente, violenta, fra la «marcia militare verso il Nord sotto la direzione del Kuomintang» e le lotte di classe degli operai e dei contadini cinesi. Tutta la lattica del Comintern si riassumerà infine nella direttiva che Martinov aveva precisato:
«non creare ostacoli all’armata rivoluzionaria» (vedi citazione più sopra).

Per terminare, quanto all’impostazione tattica dell’Internazionale, ricordiamo la dichiarazione di Tang Ping-sian al VII Esecutivo Allargato:
«Appena sorse il trotzkismo, il Partito e la Gioventù Comunista cinesi adottarono immediatamente, all’unanimità, una risoluzione contro di esso».
È noto che sotto l’etichetta di trotzkismo erano comprese tutte le tendenze che si opponevano alla direzione dell’Internazionale. Se abbiamo riportato questa citazione è per provare che il Partito cinese era stato energicamente «epurato» per potere svolgere, con pieno successo, la sua politica contro-rivoluzionaria.

• • •

Il secondo semestre del 1926 e il primo trimestre del 1927 conosceranno l’esplosione massima degli avvenimenti cinesi. Durante tutto questo periodo – che è schiettamente rivoluzionario – l’Internazionale si oppone violentemente alle tendenze che si manifestano nel seno dell’avanguardia proletaria verso la costituzione dei Soviet; essa è ferma sulla direttiva del blocco delle quattro classi.

La delegazione russa in Cina, che viveva al contatto diretto con gli avvenimenti, scriverà una lettera[2] diretta al Centro di Mosca, dove si fa la critica della politica del Partito cinese e dalla quale appare con quanta vigilanza controrivoluzionaria siano state eseguite le disposizioni tattiche che dovevano condurre allo sfacelo di questo grandioso movimento. Vi si legge:
«Secondo il rapporto del Partito Comunista cinese del 13 dicembre 1926 sulle tendenze pericolose del movimento rivoluzionario, la dichiarazione afferma che ‹il più grande pericolo consiste in questo: che il movimento delle masse progredisca verso la sinistra›» (corsivo dell’autore).

Sulla questione dei rapporti fra Partito e masse, si può dedurre quali essi fossero da questo passaggio:
«I rapporti fra la direzione del Partito, gli operai e i contadini furono formulati nel miglior modo possibile, dal compagno Petrov, membro del C.C., all’occasione dell’esame della questione del reclutamento degli studenti per il corso speciale (università comunista dei lavoratori dell’oriente). Sarebbe stato necessario ottenere la ripartizione seguente: 175 operai e 100 contadini. Il comp. Petrov ci ha dichiarato che il Comitato Centrale decise di designare solamente degli studenti e degli intellettuali».

Sulla questione contadina:
«Al Plenum di dicembre (1926 n. d. r.) del C.C., con la partecipazione del rappresentante del C.E. dell’I.C., fu adottata una risoluzione relativa alla questione contadina. In questa risoluzione non figura alcuna parola relativa al programma ed alla lotta agraria. La risoluzione risponde solamente ad una delle questioni più irritanti, la questione del potere contadino, ed essa vi risponde negativamente: essa dice che non bisogna lanciare la parola del potere contadino al fine di non spaventare la piccola borghesia. Da questo proviene che gli organi del Partito hanno ignorato il contadiname armato».
(In effetti non lo ignoravano poiché spingevano i contadini armati nelle braccia dei generali del Kuomintang, n. d. r.).

Sulla questione del movimento operaio:
«Più di un milione di operai organizzati sono privati di un centro dirigente. I sindacati sono staccati dalle masse e, in gran parte, restano delle organizzazioni di stati maggiori. Il lavoro politico e di organizzazione è rimpiazzato sempre e dovunque dalla costrizione ed il fatto principale è che le tendenze riformiste crescono all’interno come all’esterno del movimento sindacale rivoluzionario. Familiarità cordiale con gl’imprenditori, partecipazione ai benefici, partecipazione all’elevazione della produttività del lavoro, subordinazione dei sindacati agli imprenditori ed ai capi, tali sono i fenomeni abituali».

D’altra parte, rifiuto di difendere le rivendicazioni economiche dei lavoratori. Avendo paura dello sviluppo elementare del movimento operaio, il Partito ha consentito all’arbitraggio obbligatorio a Canton ed in seguito a Hankou (l’idea stessa dell’arbitraggio appartiene a Borodin, delegato ufficiale dell’I.C.). Particolarmente grave è la paura dei dirigenti del Partito del movimento degli operai non industriali. D’altronde la maggioranza schiacciante degli operai organizzati in Cina è formata dagli operai non industriali.

Il rapporto del C.C. al Plenum di dicembre 1926 dice:
«È estremamente difficile per noi di definire la tattica nei confronti della media e della piccola borghesia, perché gli scioperi degli operai che lavorano presso gli artigiani e gli scioperi degli impiegati non sono che dei conflitti all’interno della stessa classe. E l’una e l’altra delle parti in lotta (cioè gl’imprenditori e gli operai) essendo necessarie per il fronte unico nazionale (il fronte della rivoluzione, come dice Stalin, vedere citazione più sopra n. d. r.), noi non possiamo né sostenere l’uno dei due contendenti, né restare neutri».

Sull’esercito:
«La caratteristica del contegno del Partito verso l’esercito è stata data dal comp. Tchou En-lai [Zhou Enlai] nel suo rapporto. Egli dice ai membri del Partito: ‹andate in quest'esercito nazional-rivoluzionario, rinforzatelo, elevate la sua capacità di combattimento, ma non conducetevi nessun lavorò indipendente›. Fino a questi ultimi tempi non vi erano cellule nell’esercito. I nostri compagni consiglieri politici si sono occupati esclusivamente del lavoro politico-militare del Kuomintang».
E più oltre:
«Il Plenum del C.C. di dicembre ha preso la decisione di creare delle cellule nell’esercito, cellule formate solamente di comandanti con l’interdizione di farvi entrare i soldati».

Il laccio intorno alle masse dei lavoratori cinesi insorti è solido e, disgraziatamente, indistruttibile. L’insieme del movimento è incorporato nel quadro dell’unità di tutti, sfruttati e sfruttatori, per la insussistente guerra di «liberazione». Nel seno del Partito «epurato» si rigettano i proletari all’ultimo rango, dopo gli intellettuali, nei sindacati si proclama che la lotta fra imprenditori capitalisti e proletari è un conflitto «all’interno della stessa classe», i contadini armati devono essere disciplinatamente inquadrati nell’esercito «nazionale», mentre le cellule «comuniste» sono riservate agli ufficiali.

Il nodo scorsoio era pronto. Esso sarà tirato a Shanghai il 12 aprile 1927 quando Chiang Kai-shek scatenerà il terrore contro le masse.

Prima di passare alla trattazione degli avvenimenti successivi occorre mettere in evidenza l’accoppiamento spontaneo, dovrebbe dirsi (per riprendere la terminologia impiegata da Engels nello studio sulla linea di svolgimento della lotta di classe) naturale tra il movimento delle masse e l’Internazionale Comunista. Questo per rispondere ai molteplici costruttori di rivoluzioni, di partiti e di Internazionali che pullulano un po’ dappertutto negli altri paesi, e che in Italia non arrivano fortunatamente a manifestarsi, i quali vorrebbero dare ad intendere che la Sinistra avrebbe commesso l’errore di non separarsi prima dall’Internazionale e fondare un’altra organizzazione.

Il movimento rivoluzionario cinese fa parte dello stesso complesso storico che aveva avuto la sua origine e nell’Ottobre russo e nell’Internazionale Comunista. I precedenti (la disfatta tedesca del 1923 e gli avvenimenti nel seno del partito russo) spiegano perché questa direzione contro-rivoluzionaria era diventata una necessità storica ineluttabile. E questa stessa direzione contro-rivoluzionaria doveva non evocare direttamente la forza antagonista suscettibile di sobbalzarla, ma solamente determinare le premesse per una ben più lontana ricostruzione dell’organismo internazionale del proletariato, tanto lontana che ancor oggi le possibilità storiche non se ne presentano, né possono essere determinate dai militanti rivoluzionari.

L’azione violenta di Chiang Kai-shek del 12 aprile 1927 chiude la fase della maggiore intensità rivoluzionaria in Cina. L’ottavo Esecutivo Allargato dell’Internazionale del maggio 1927 ed il Plenum del C.C. del Partito Cinese del 7 Agosto 1927 inaugureranno una svolta nella tattica dell’Internazionale.

Quando la situazione va a sinistra, come fino all’aprile 1927, blocco delle quattro classi, convogliamento del movimento delle masse sotto la disciplina del Kuomintang. La situazione si sposta, essa va a destra, l’Internazionale andrà a sinistra e nelle due riunioni indicate si vedono già i prodromi di quella che fu qualificata l’«insurrezione» di Canton del dicembre 1927.

Il Kuomintang unito sbocca nel terrore anti-operaio dell’aprile 1927. Una scissione si farà nel «Partito del Popolo» ed un Kuomintang di sinistra si forma a Ou-Thang. I comunisti entrano persino nel governo mentre Stalin proclamerà che il
«fondo della rivoluzione cinese consiste nello sconvolgimento agrario».
Il C.C. del Partito cinese nella seduta citata dichiara che
«si è in presenza di una situazione economica politica e sociale favorevole all’insurrezione e che poiché nelle città non è più possibile (Chiang Kai-shek, grazie alla tattica del Comintern, si era incaricato di realizzare quest'impossibilità n. d. r.) scatenare delle rivolte, bisogna trasportare la lotta armata nelle campagne. È qui che si trovano i focolai della sollevazione mentre la città deve essere una forza ausiliaria».
Ed il detto C.C. concluderà:
«bisogna, dovunque questo è obiettivamente possibile, organizzare immediatamente delle insurrezioni».

Il risultato di questa svolta caratterizzata da un lato da un’analisi che considera l’esistenza di una situazione rivoluzionaria nello stesso tempo che la nega per quanto riguarda la città, e dall’altro lato dalla partecipazione dei comunisti al governo, non doveva tardare a manifestarsi attraverso il terrore del Kuomintang di sinistra contro i contadini che continuavano la lotta.

• • •

Ci si incammina così verso «l’insurrezione» di Canton del dicembre 1927. Elementi politici di valutazione, precedenti questa «insurrezione» li troveremo nel Plenum del C.C. del Partito Cinese del novembre 1927, a proposito del quale la risoluzione del Cantone della Provincia di Kiang Sou del Partito Comunista cinese, dei 7 maggio 1929, fornisce delle interessanti indicazioni.

Ricordiamo che il sacrificio delle masse al Kuomintang aveva condotto allo schiacciamento violento del movimento operaio nelle città, che il sacrificio delle masse contadine al Kuomintang di sinistra aveva condotto ad un’analoga violenta repressione dei contadini nell’Hounan. Ed è così che ci si era avviati verso il capitolo conclusivo del Dicembre 1927.

Si trattava realmente di una «insurrezione»? Il IX Esecutivo Allargato dell’Internazionale che si terrà poco dopo, nel febbraio del 1928, renderà
«il comp. N. responsabile del fatto che a Canton non vi fu un soviet eletto» (sottolineato nel testo della risoluzione).
Nel movimento comunista nessun dubbio poteva esistere sul fatto che i soviet appaiono solamente nel corso di una situazione rivoluzionaria e che quindi o esistono delle condizioni politiche che li determinano, ed allora essi non possono che essere eletti, (a parte la questione formale e banale dell’elezione, quello che interessa è che essi sono il prodotto spontaneo del movimento delle masse insorte), oppure essi non esistono e l’appellativo di Soviet che sarà attribuito a degli organismi artatamente costituiti, non corrisponderà affatto ad una reale possibilità dell’esercizio del potere da parte del proletariato.

Ma, in effetti, non si assisteva che alla maturazione della nuova svolta dell’Internazionale i cui elementi primitivi si trovano nell’VIII Allargato e nella riunione del C.C. del Partito Cinese dell’agosto 1927. L’«insurrezione» sarà decisa dagli organi centrali proprio quando le possibilità per il suo trionfo non esisteranno più. È allora solamente che si parlerà di Soviet, di quella stessa parola che era stata rigorosamente interdetta nel pieno dell’offensiva rivoluzionaria delle masse, nel secondo semestre del 1926 e nel primo trimestre del 1927. I proletari di Canton (si noti che si tratta precisamente della città meno proletaria della Cina) si urteranno contro tutte le tendenze del Kuomintang e l’«insurrezione» limitata ad un solo centro, storicamente isolato (poiché il movimento rivoluzionario era in evidente discesa), non poteva che essere rapidamente liquidata. Frattanto l’Internazionale poteva conseguire una terza decorazione contro-rivoluzionaria (dopo quelle di Chiang Kai-shek e dell’Hounan) giacché un colpo mortale sarà dato all’aspirazione rivoluzionaria delle masse cinesi le quali dovranno oramai convincersi dell’impossibilità della realizzazione del loro potere soviettista.

Si ha qui, nella tattica seguita a Canton, un’anticipazione della tattica che sarà poi seguita in tutti i paesi, a partire dal 1929 e fino al 1934, di quella tattica dell’«offensiva rivoluzionaria» di cui parleremo nel prossimo capitolo. La nostra corrente non poté in quel momento che limitarsi, da un lato, a mettere in evidenza che il movimento proletario non poteva urtare, anche nella Cina coloniale, che nell’opposizione violenta di tutte le classi possidenti del paese e di tutte le loro formazioni politiche, dall’altro, a sottolineare le ragioni della sconfitta immediata dovuta non al fatto dell’inattuabilità del potere proletario, ma al fatto che queste direttive erano state date non quando le condizioni obiettive per la vittoria rivoluzionaria esistevano ma quando esse erano state sacrificate dalla tattica controrivoluzionaria della disciplina alla borghesia cinese.

A partire dal 1928 la situazione in Cina farà un salto indietro. Lo spezzettamento diverrà ancora più grave di quello che preesisteva al movimento rivoluzionario del 1926–27, i generali costituiranno le loro zone particolari, e sorgerà altresì la «Cina comunista». Si tratta delle regioni fra le più arretrate della Cina dove sussistono, insieme con le forme rudimentali dell’economia primitiva, le necessità di uno sfruttamento delle masse ancora più intenso di quello in vigore nelle altre zone. Il clan dirigente «comunista» stabilirà insieme con il pagamento in natura dei salari (un mercato vero e proprio non vi esiste ed il sistema corrente è quello del baratto), la coscrizione obbligatoria estesa a tutta la popolazione, poiché l’esercito ha non solo il compito militare di difendere «il paese comunista», ma anche l’altro economico e sociale della ripartizione dei prodotti. E non può essere attualmente esclusa l’ipotesi di vedere una mobilitazione delle masse in difesa di questi regimi extra-reazionari, se l’evoluzione del mondo capitalista dovesse traversare una fase di conflitto fra di Stati Uniti e la Russia nei territori dell’Asia.

Nella situazione apertasi dopo l’«insurrezione di Canton» una violenta polemica si istituirà fra la nostra frazione e Trotzky. Le rispettive posizioni fondamentali non sono nuove, ma prolungano, nella questione cinese, le divergenze che si determinarono al IV e V Congresso dell’Internazionale. Nelle nuove circostanze che evidentemente non permettevano più di lanciare là parola della dittatura proletaria, Trotzky sosteneva che una parola intermedia dovesse essere sollevata nella questione del potere: quella dell’Assemblea Costituente e di una costituzione democratica in Cina. La nostra corrente, per contro, sosteneva che se la situazione non-rivoluzionaria non consentiva di sollevare la parola fondamentale della dittatura, se dunque, la questione del potere non si poneva più in forma immediata, non per questo si doveva rabberciare il programma del partito che doveva essere invece riaffermato integralmente sul piano teorico e della propaganda, mentre la ritirata non poteva effettuarsi che sulla base delle rivendicazioni immediate delle masse e delle loro organizzazioni di classe corrispondenti.

Nel corso di tutta questa polemica delle voci giunsero alla nostra corrente che una opposizione si era determinata nel seno della stessa organizzazione trotzkista, ma non si ebbe nessuna possibilità di stabilire dei collegamenti con questi militanti; mentre infatti si estendono le possibilità delle comunicazioni, si estendono altresì le forme della solidificazione claustrale delle organizzazioni non e contro-rivoluzionarie e queste formeranno una muraglia contro l’istituzione dei collegamenti fra le forze della rivoluzione.

Abbiamo tenuto a dare – nei limiti ristretti di un articolo – la più documentata relazione su questi formidabili avvenimenti che, svoltisi in un ambiente economico estremamente arretrato, avevano mostrato le possibilità rivoluzionarie della classe proletaria anche nella lontana Cina. Come nella progredita Inghilterra, con il Comitato anglo-russo, così anche in Cina l’Internazionale mostrò di essere lo strumento decisivo della controrivoluzione giacché essa sola si trovava ad avere l’autorità e la possibilità di controbattere un movimento rivoluzionario di incalcolabile portata storica e che doveva concludersi in un disastroso fallimento del movimento comunista.

4. – La tattica dell’offensiva e del social-fascismo (1929–1934)

Nel seno dei partiti socialisti della Seconda Internazionale, sia prima del 1914, sia quando, nell’immediato dopoguerra, fra il 1919 ed il 1921, si fondavano i partiti comunisti in tutti i paesi, il riflesso nel campo organizzativo, delle posizioni politiche della destra riformista e della sinistra rivoluzionaria, era opposto e consisteva in un atteggiamento unitario della prima, scissionista della seconda. In Italia fu la frazione astensionista che – in stretta concordanza con le decisioni del 2° Congresso dell’Internazionale Comunista del Settembre 1920 – prese l’iniziativa della scissione del «vecchio e glorioso Partito Socialista». Mentre tutte le correnti di questo partito, destra riformista e sinistra massimalista, compreso Gramsci e l’Ordine Nuovo, erano per l’unità «da Turati a Bordiga».

L’Internazionale Comunista – sotto la guida di Lenin – seguiva correttamente il metodo di Marx nella costruzione dell’organo fondamentale della classe proletaria: il partito di classe. Questo non può sorgere che sulla base della rigorosa definizione di un programma teorico e di una corrispondente azione politica la quale trovi nell’organizzazione del Partito, esclusivamente limitata a coloro che a questo programma ed a quest’azione aderiscono, lo strumento atto a determinare quello spostamento delle situazioni che è consentito dal grado della loro maturazione rivoluzionaria. Che tanto la destra quanto tutte le altre correnti politiche intermedie siano per l’unità, questo non deve stupire giacché in definitiva esse agiscono sulla linea della conservazione del mondo borghese. Al contrario la sinistra marxista non può tendere allo sconvolgimento di questo mondo borghese che alla condizione di realizzarne la premessa nel campo ideologico, teorico ed organizzativo attraverso quella decisiva scissione che determina l’autonomia storica della classe proletaria.

Nel seno della Terza Internazionale il processo si manifesta in modo differente. L’influenzamento dapprima, l’accaparramento in seguito di quest’organizzazione da parte del capitalismo si compie attraverso l’espulsione dal suo seno di ogni corrente che non si pieghi alle decisioni controrivoluzionarie del centro dirigente. Il fatto che determina questa modificazione è la presenza dello stato proletario il quale – nell’attuale fase storica di totalitarismo statale – non può tollerare alcun inciampo, ostacolo od opposizione. Se è vero che lo stato borghese-democratico può ancora tollerare quelle discussioni od opposizioni le quali, poiché si svolgono alla periferia della sua attività, non potranno mai turbarne l’evoluzione determinata dal fulcro trovantesi nel processo di sviluppo de monopolismo finanziario, per quanto concerne invece sia lo stato proletario in via di degenerazione, sia lo stato borghese a tipo fascista (risultante dalla fase più avanzata rispetto a quella democratica della lotta fra le classi), la dittatura del centro dirigente si completa con l’esclusione di ogni possibilità di opposizione di tendenze agenti anche nel campo periferico.

É noto che, al tempo di Lenin, il Partito russo conobbe un’intensa attività di discussioni nel suo seno e che, fino al 1920, poterono esistere nel suo seno persino delle frazioni organizzate. Ma si trattava allora del periodo in cui era affannosamente ricercato l’adeguamento della politica dello stato proletario alle necessità della rivoluzione mondiale. Poi il problema fu capovolto e si trattava di adeguare la politica del Partito a quella dello stato il quale obbediva sempre più alle necessità contingenti mutevoli e contraddittorie del suo allinearsi col ciclo generale dell’evoluzione storica del regime capitalista internazionale, nel quale esso si avviava ad essere incorporato.

Il centro dirigente deve disporre in modo assoluto e monopolistico di tutti gli organi dello stato; comincia con le espulsioni dal partito, e finirà con l’esecuzione sommaria non solo di coloro che si oppongono irremovibilmente all’instaurato corso della controrivoluzione ma persino di coloro che tentano di salvare la vita con l’abiura della loro precedente opposizione. Malgrado le capitolazioni, le differenti opposizioni nel seno del Partito russo, sono annientate con la violenza e col terrore. Trotzky, dal canto suo, resta fermo nella sua intransigente opposizione a Stalin; ma, poiché ricalca sul corso della rivoluzione russa lo schema della rivoluzione francese, considera che il capovolgimento della funzione dello stato russo da rivoluzionaria in controrivoluzionaria non può realizzarsi che con l’apparizione del Bonaparte russo. Fino a questa apparizione, poiché esiste un’impossibilità di intensa industrializzazione della Russia e si presenta l’ineluttabilità dell’attacco militare del resto del mondo capitalista contro la Russia, esistono anche le condizioni per «raddrizzare» l’Internazionale sia dall’interno sia, quando questo si rivelerà impossibile a causa del regime di epurazione vigente nell’Internazionale, anche attraverso le sinistre socialiste.

La sinistra italiana, invece, in stretta connessione con le stesse posizioni di Marx, Lenin e con l’indicato procedimento seguito per la fondazione del Partito a Livorno, non entrò mai sia nella via delle capitolazioni di Zinoviev sia nella via del raddrizzamento di Trotzky, ma dalla opposizione programmatica nel campo politico fece discendere il conseguente procedimento frazionista sollevando costantemente il problema della sostituzione del corpo politico controrivoluzionario con quello opposto che restava nell’orientamento della rivoluzione mondiale.

In una parola, nei partiti socialisti della Seconda Internazionale la corruzione progressiva si affermava sotto la suggestione della forza d’inerzia delle forze storiche della conservazione borghese le quali cercavano di attirare nel loro girone anche la tendenza marxista e proletaria trattenendola nel seno del «Partito unito». Invece nei partiti comunisti, a causa dell’esistenza dello stato «proletario», l’inquinamento borghese non poteva realizzarsi che grazie all’eliminazione disciplinare prima, violenta poi di ogni tendenza che non si adeguasse alle necessità mutevoli dell’evoluzione controrivoluzionaria di questo stato: di quelle orientate verso la sinistra come anche delle altre di destra; dopo il processo di Zinoviev si avrà anche quello dei destri Rykov e Bucharin.

Sul piano politico poi, mentre il processo di sviluppo della destra riformista segue una concatenazione logica che ci permette di ritrovare, nell’assalto teorico di Bernstein e del revisionismo della fine del secolo scorso, le premesse del tradimento del 1914 e dei Noske nel 1919, per quanto concerne invece il corso degenerativo dell’Internazionale Comunista vedremo un succedersi di posizioni politiche in violento contrasto l’una con l’altra. Trotzky vede, all’alba del «terzo periodo» di cui ci occupiamo particolarmente in questo capitolo, (all’epoca del Sesto Congresso nel 1928), un orientamento di sinistra suscettibile di evolvere verso un «raddrizzamento» dell’Internazionale; la nostra corrente invece vi vede un momento di quel processo di sviluppo che doveva condurre i partiti comunisti a diventare uno degli strumenti essenziali del capitalismo mondiale, processo che era destinato a giungere al suo compimento a meno di non spezzarsi grazie alla vittoria delle frazioni della sinistra marxista nel seno dei partiti comunisti.

Inoltre la nostra corrente non faceva discendere dall’accrescersi della distanza fra la politica degenerante dell’Internazionale ed i programmi e gli interessi della classe proletaria la conclusione della necessità della costruzione dei nuovi partiti. Il fatto che questa distanza si aggravava mentre il processo storico non determinava l’opposta riaffermazione della classe proletaria, ci spingeva a non commettere avventure del tipo di quella preconizzata da Trotzky che giunse fino a sostenere, dopo la presa del potere da parte di Hitler nel gennaio 1933, l’entrata dell’opposizione nei partiti socialisti. La nostra frazione continuava a preparare le condizioni della ripresa proletaria, attraverso la reale comprensione dell’evoluzione del mondo capitalista, nella cui orbita era entrata anche la Russia Sovietica.

Abbiamo già visto nel capitolo destinato agli avvenimenti cinesi del 1926–27 che la caratteristica della tattica dell’Internazionale è data non da posizioni soltanto opportuniste, ma da posizioni che si oppongono in modo violento agli interessi immediati e finalistici del proletariato. L’Internazionale non può restare a mezza strada, essa deve andare fino in fondo: questo è richiesto dalle necessità dell’evoluzione controrivoluzionaria dello stato che è nel suo seno e che, dopo il trionfo della teoria del «socialismo in un solo paese», dopo avere rotto con gli interessi del proletariato mondiale non può restare sospeso in aria, e deve volgersi direttamente e violentemente verso gli opposti interessi della conservazione del mondo capitalista.

Quando le possibilità rivoluzionarie esistevano in Cina, fino al marzo 1927, si preconizza la politica e la tattica della disciplina del proletariato alla borghesia; quando queste possibilità non esistono più ci si orienta verso l’insurrezione di Canton del dicembre 1927; portando così a compimento quel corso politico che doveva condurre allo schiantamento del proletariato cinese.

Nel 1928 matura la formidabile crisi economica che scoppierà l’anno seguente in America e si estenderà successivamente a tutti i paesi. La tattica dell’Internazionale resta; nel 1928, ancora impregnata dei criteri seguiti in Inghilterra con il Comitato Anglo-russo ed in Cina col blocco delle quattro classi.

L’«insurrezione» di Canton non è ancora che un episodio, che come abbiamo visto nel capitolo precedente, viene persino criticato – sebbene in sordina – all’Esecutivo Allargato del febbraio 1928. Gli avvenimenti dovevano però mostrare che non si trattava affatto di un episodio incidentale ma di un prodromo che caratterizza bene la tattica del «terzo periodo» che si instaura solo nell’anno successivo. Frattanto si applica in Francia la tattica della «disciplina repubblicana» (che va sotto il nome di «tattica di Clichy») e che porta i comunisti ad assicurare l’elezione dei senatori socialisti e radical-socialisti contro la destra di Poincaré e Tardieu; in Germania la politica del referendum «popolare» contro le indennità ai principi; mentre il Partito italiano – in correlazione con la politica seguita nel primo periodo dell’Aventino nel giugno-novembre 1924 – lancia la direttiva dei «Comitati Antifascisti» (blocco che postula l’adesione di socialisti, riformisti e di tutti gli oppositori del fascismo). Il C.C. del Partito scrive d’altra parte in una lettera diretta alla nostra corrente e pubblicata nel n. 4 del 1° agosto 1928 di «Prometeo» (edizione estera):
«Noi dobbiamo anche metterci alla testa (sottolineato nell’originale) della lotta per la repubblica, ma dare a questa lotta, subito, un contenuto di classe. Si, dobbiamo dire, anche noi siamo per la repubblica garantita da una assemblea di operai e contadini».
La repubblica italiana è venuta ed essa – come tutti sappiamo – è «garantita» dall’assemblea di operai e contadini, i quali nel baraccone di Montecitorio vegliano affannosamente al successo della ricostruzione della società capitalista dopo gli sconvolgimenti occasionati dalla guerra e dalla disfatta militare.

Nel 1928 l’Internazionale resta dunque nel quadro della tattica del 1926 e 1927 ed agisce in quanto ala sinistra delle formazioni politiche della democrazia borghese.

Poi si passa ad una radicale modificazione.

Cominciamo con l’esaminare l’aspetto teorico della nuova tattica che in una scala progressiva sarà decisa dal IX Esecutivo Allargato (marzo 1928), dal VI Congresso Mondiale dell’Internazionale e dal contemporaneo IV Congresso dell’Internazionale Sindacale Rossa dell’estate 1928, dal X Esecutivo Allargato del Luglio 1929 ed infine dall’XI Esecutivo Allargato del 1931.

Nella «Risoluzione sul ruolo del Partito Comunista nella Rivoluzione proletaria» il 2° Congresso dell’Internazionale aveva ammonito:
«Le nozioni di Partito e classe devono essere distinte con la più grande cura».
La «tattica del terzo periodo», dopo avere completamente falsato i criteri di delimitazione della classe, giunge fino alla demagogica identificazione della classe nel Partito.

Nel campo economico e sociale il Marxismo delimita la classe in funzione delle basi del regime capitalista del salariato e considera che ne fanno parte quelli appunto che vivono del loro salario.

La trasformazione è ora radicale: chi compone la classe in modo prevalente è la parte dei lavoratori colpita dalla violenta crisi economica, cioè i disoccupati ai qual si rivolge anche la demagogia nazista. Il Partito, in conseguenza, non stabilisce un piano di mobilitazione totale del proletariato, ma limita la sua azione alla mobilitazione dei disoccupati. Corrispondentemente i disorganizzati vengono considerati più coscienti dei lavoratori inquadrati nei sindacati e si fonda l’«Opposizione Sindacale Rivoluzionaria» mentre si trascura ogni lavoro nel seno dei sindacati diretti dai «social-fascisti». Il proletariato si trova così spezzato in due: la parte controllata dal Partito, che comprende poi l’avanguardia, è scissa dal resto della classe lavoratrice e lanciata in azioni offensive, che dovevano offrire le migliori condizioni al successo della repressione capitalista.

Nel campo più schiettamente politico la nuova tattica non mira a colpire la classe capitalista nel suo complesso, ma ne isola una delle forze, quella socialdemocratica che sarà qualificata «social-fascista». In Germania, dove allora è il perno dell’evoluzione del capitalismo mondiale e dove si prepara la liquidazione del personale democratico per sostituirvi quello nazista mentre è in corso la modificazione corrispondente della struttura dello stato capitalista, il Comintern invece di impostare l’azione di classe del proletariato contro il capitalismo, chiama le masse a combattere isolatamente il «social-fascismo» come nemico numero uno, il che doveva fare del Partito Comunista un fiancheggiatore dell’attacco di Hitler. E quando questi prende l’iniziativa di un referendum «popolare» per rovesciare il governo socialdemocratico di Prussia, il Partito tende di fatto alla stessa meta poiché non fa del suo intervento al referendum un momento dell’azione generale contro la classe capitalista, ma resta nel quadro d’ella lotta contro il «social-fascismo».

Sul piano politico più generale la politica del Partito è sintetizzata nella formula di «classe contro classe». La classe proletaria è oramai costituita dal Partito da cui promanano tutte le formazioni annesse (opposizione sindacale rivoluzionaria, Lega anti-imperialista, Amici dell’U. R. S. S. ed i molteplici altri organismi collaterali): tutto quanto è al di fuori del Partito e dei suoi annessi (e non si dimentichi che dal Comintern erano state espulse tutte le correnti marxiste) è la classe borghese o più esattamente il «social-fascismo». Gli organismi di massa non derivano più dalle basi dell’economia capitalista ma risultano dall’iniziativa del Partito, mentre le frazioni sindacali sono praticamente eliminate e mancano della loro ragione di essere, dato che i sindacati – agendo fuori dell’orbita del Partito, – sono degli organismi «social-fascisti».

È in questo periodo che sorge la grande divinità della «linea politica del Partito». Come si era lontani dal tempo di Lenin quando le posizioni tattiche del Partito erano sottoposte alla verifica degli avvenimenti e si cercava affannosamente di determinarne la validità! Ormai la «linea politica» era consacrata un’istituzione divina e diventava un delitto non solamente contestarne l’infallibilità, ma anche non comprenderne il nascosto significato. Cosa, questa, assolutamente impossibile giacché la «linea politica del Partito» obbediva unicamente alle indicate necessità dell’adeguazione dello stato russo al suo nuovo ruolo di strumento della contro-rivoluzione mondiale e chi poteva rifletterne le vicissitudini era unicamente il centro direttivo che si trovava alla testa di questo stato. Ne conseguivano le svolte brusche e ripetute che lasciavano regolarmente cadere nell’inferno dei colpevoli quei dirigenti del Partito che, per il fatto di non avere completamente abbandonata la facoltà di ragionare e di riflettere, dimostravano di non essere dei «veri» bolscevichi poiché non giungevano a difendere oggi con eguale calore l’opposto di quanto dicevano ieri.

Si potrebbe, in forza di un’analisi superficiale, considerare che i successi realizzati nel campo dell’industrializzazione in Russia, il rafforzamento economico e quindi militare dello stato russo ed il contemporaneo scatenamento dell’offensiva «rivoluzionaria» negli altri paesi avrebbero dovuto determinare una replica violenta da parte del capitalismo contro lo stato russo. Non solamente questo non avvenne, ma poco dopo la vittoria di Hitler in Germania gli stati Uniti riconoscevano ufficialmente la Russia che – secondo le affermazioni stesse dei dirigenti del Comintern – conseguiva così una importantissima vittoria diplomatica, mentre le porte della Società delle Nazioni – quella che Lenin qualificò con esattezza «la società dei briganti» – si aprivano all’ingresso della Russia dei Soviet. Era questo il logico epilogo del corso seguito dalla politica del Comintern.

In effetti esisteva una concomitanza strettissima tra i successi dei piani quinquennali (resi possibili anche grazie al concorso del capitalismo il quale importava in Russia materie prime contro esportazione di grano, mentre le razioni di pane erano assolutamente insufficienti) e la politica dell’offensiva «rivoluzionaria». In Russia le «colossali vittorie del socialismo» erano in realtà il risultato dell’intensificato sfruttamento dei proletari, e negli altri paesi la classe proletaria era messa – grazie alla tattica del «terzo periodo» – nell’impossibilità di reagire all’offensiva capitalista. E la vittoria della Russia nel campo dell’industrializzazione ed in quello diplomatico. come la conquista del potere da parte di Hitler in Germania, sono due aspetti di uno stesso corso: del corso vittorioso della controrivoluzione del capitalismo mondiale, sia in Russia che negli altri paesi.

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Passiamo ora ad una succinta analisi dei documenti ufficiali del Comintern e degli avvenimenti che caratterizzano la tattica del «terzo periodo». Perché «terzo»? Il VI Congresso mondiale precisa così:
1° periodo (1917–23), compreso tra la vittoria rivoluzionaria in Russia e la disfatta rivoluzionaria in Germania. Quello della «crisi acuta» del capitalismo e delle battaglie rivoluzionarie;
2° periodo (1923–28). Quello della «stabilizzazione capitalista»;
3° periodo (iniziatosi nel 1928 e che doveva terminale nel 1935, quando si fece il capitombolo dal «social-fascismo» al Fronte Popolare). Quello della «radicalizzazione» delle masse.

Cominciamo col rimarcare che questa schematizzazione delle situazioni non ha nulla a vedere con il marxismo che non distingue «compartimenti» ma si rappresenta il processo di sviluppo che collega strettamente le situazioni e nel quale i criteri marxisti della lotta delle classi permettono di scorgere le fluttuazioni favorevoli e sfavorevoli. Queste si muovono, nel periodo che va dal 1917 al 1927, dalla vittoria rivoluzionaria in Russia, ed al suo riflesso nella fondazione dell’Internazionale Comunista, – vittoria del principio internazionale ed internazionalista – alla negazione di questo principio, quando, sulle orme della sconfitta della rivoluzione in Cina, trionferà la teoria nazionale e nazionalista del «socialismo in un solo paese».

La classificazione del VI Congresso lascia per esempio nel primo periodo dell’avanzata rivoluzionaria il novembre 1922 in Italia, avvenimento che ebbe un’importanza eccezionale non solo per il settore italiano ma per tutta l’evoluzione politica del mondo capitalista.

Quanto alla caratterizzazione del «terzo periodo», il VI Congresso dettaglierà così la sua analisi:

La guerra è imminente. Chi si azzarda a negare quest'imminenza non è un «bolscevico». Guerra non solo fra gli imperialismi (a quest'epoca la costellazione fondamentale è presentata nel quadro dell’opposizione violenta dell’Inghilterra e degli Stati Uniti). Guerra altresì di tutti gl’imperialismi contro la Russia: vi sarebbero «ineluttabilmente» portati sia l’Inghilterra che vi vedrà la «condizione pregiudiziale per la sua ulteriore lotta contro il gigante americano», sia gli Stati Uniti i quali, se non hanno un interesse così urgente ad abbattere il «socialismo in Russia», non possono che mirare ad estendere il loro dominio anche in questo paese.

L’aggravamento della lotta di classe.
«Il proletariato non resta sulla difensiva, ma passa all’attacco».
Le masse sono tanto più «radicalizzate» quanto più sono disorganizzate.

Il nuovo ruolo della socialdemocrazia divenuta «social-fascista». Nel 1926–27 la socialdemocrazia è un’alleata alla quale (vedi Comitato anglo-russo) il Comintern abbandona la direzione dei movimenti proletari. Oggi è il nemico numero uno. I nazisti scatenano l’offensiva in Germania: il Partito non imposterà un piano di lotta contro il capitalismo e sulla base della lotta di classe, ma esclusivamente contro il «social-fascismo». Nello stesso tempo, poiché le organizzazioni sindacali di massa sono inquadrate da un apparato organizzativo «social-fascista», ne consegue la necessità di abbandonare le masse che vi si trovano e di passare alla costruzione di un’altra organizzazione: l’«Opposizione sindacale rivoluzionaria», che difende «la linea politica del Partito».

Si noti la contraddizione flagrante esistente fra le due imminenze: quella dalla rivoluzione e quella della guerra. È eretico chi ne ammette una sola. È eretico quindi il marxista il quale, in forza dell’interpretazione materialista della storia, se constata una imminenza, non può che escludere l’imminenza opposta e si fonda quindi sul capovolgimento delle situazioni nel corso del processo storico che conduce la guerra al suo opposto: alla rivoluzione.

Gli avvenimenti provavano che, punto per punto, i capisaldi della nuova tattica dovevano essere completamente smentiti. In effetti:

La guerra non era affatto imminente nel 1919 e, quando essa scoppiò nel 1939. le costellazioni furono completamente diverse, l’Inghilterra diventando l’alleata degli Stati Uniti e questi due imperialismi – i più ricchi – diventando a loro volta alleati del «Paese del Socialismo».

Non la classe operaia ma il capitalismo passa all’offensiva che ottiene i suoi successi nella vittoria di Hitler nel gennaio 1933 ed infine nello scatenamento della seconda guerra imperialista mondiale.

Non si entra in un’epoca «social-fascista», ma in Germania sarà il fascismo che trionfa. Il capitalismo liquida temporaneamente la socialdemocrazia, salvo a richiamarla nel corso della guerra, quando, in combutta con democratici e nazional-comunisti da una parte, fascisti e nazionalsocialisti dall’altra, il mondo capitalista precipiterà nella guerra del 1939–45.

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Passiamo ora ad una rapida rassegna dei fatti più importanti, che contraddistinsero la «tattica del terzo periodo».

Abbiamo già indicato che il fatto politico predominante fu l’avvento al potere di Hitler nel gennaio 1933. Numerose altre furono le manifestazioni politiche in occasione delle quali la detta tattica ebbe occasione di mostrare le sue «virtù», ma, nel quadro ristretto di quest’articolo, non possiamo che limitarci all’essenziale e cioè agli avvenimenti in Germania. É nel settembre 1930, solamente cinque mesi dopo che il capitalismo tedesco ha licenziato il governo di coalizione presieduto dal socialdemocratico Mueller, che comincia l’avanzata fascista. Contrariamente a quanto si verificò in Italia nel 1921–22, il nazismo tedesco segue una tattica prevalentemente legalitaria. Il meccanismo democratico si dimostra perfettamente idoneo a realizzare la conversione dello stato capitalista da democratico in fascista, cosa che non stupisce affatto un marxista e che sanno anche gli attuali imbroglioni nazional-comunisti e socialisti che sono al governo in Italia e altrove. Invece di attaccare, come fecero i fascisti in Italia, con la violenza e sotto la protezione della polizia democratica i fortilizi di classe del proletariato, i nazisti tedeschi impiegano il metodo del progressivo smantellamento legalitario dell’apparato dello stato delle posizioni direttive detenute dai loro complici: i partiti della democrazia e della Socialdemocrazia tedesca. Questo solo fatto, della possibilità che si offre al capitalismo di non fare ricorso esclusivo all’azione extralegale delle squadre fasciste, prova la profonda modificazione effettuatasi nella situazione, nella quale non agisce più la minaccia del partito di classe del proletariato.

Questa realtà sarà naturalmente capovolta dal Comintern. In un articolo di Ercoli («Stato operaio» del settembre 1932) si legge fra l’altro:
«la prima differenza (fra l’assalto nazista in Germania e quello fascista in Italia – N. d. R.), la più importante, quella che salta agli occhi immediatamente, è quella che passa fra il periodo in cui si è compiuta la marcia su Roma ed il periodo attuale. Allora eravamo alla fine del primo periodo del dopoguerra ed alla vigilia del periodo di stabilizzazione del capitalismo. Oggi siamo nel cuore del terzo periodo, nel cuore di una crisi economica di ampiezza e di profondità non mai vedute, di una crisi che ha avuto e ha le sue manifestazioni più gravi precisamente nella Germania… In secondo luogo è necessario fermare l’attenzione sulla linea di sviluppo del movimento delle masse» (…) «Linea discendente» (in Italia), mentre in Germania «i combattimenti decisivi stanno ancora davanti a noi e il movimento delle masse si sta sviluppando sopra una linea ascendente, nella direzione di questi combattimenti decisivi».
In realtà i combattimenti decisivi delle masse non stavano né avanti né indietro e appena un anno dopo Hitler si vedeva consegnare il governo da Hindenburg. Il Partito, che qualche giorno prima aveva organizzato una «colossale» manifestazione allo Sportpalast di Berlino, si sfalderà completamente lo stesso giorno della salita al potere di Hitler.

I momenti essenziali dell’avanzata nazista sono: Il 9 agosto 1931, il plebiscito contro il governo social-democratico di Prussia, plebiscito richiesto da Hitler.

Le elezioni per la presidenza del Reich del 13 marzo 1932. Sul piano della tattica elettorale la questione dell’intervento del partito sia al plebiscito organizzato dai fascisti, sia alle elezioni con un candidato proprio, contro Hindenburg e Hitler, non può offrire alcun dubbio. I Comunisti non potevano prestarsi alla manovra socialdemocratica e dovevano intervenirvi; ma vi erano due modi di intervenire. Quello marxista di fare di queste due manifestazioni elettorali due occasioni di propaganda miranti a mobilitare il proletariato su basi di classe e contro il regime capitalista, il che portava come conseguenza la lotta contro l’evoluzione che era in corso nello stato capitalista da democratico in fascista, evoluzione che non poteva essere combattuta se non dal proletariato e dal suo partito contro tutte le forze capitaliste (democratiche e fasciste) solidamente unite per il trionfo del nazismo; e quello discendente dalla «tattica del terzo periodo», consistente nello staccare queste due manifestazioni elettorali dal processo reale nel quale esse erano incastrate facendone due episodi di convalida della «linea politica del partito» che combatte non più la classe borghese ma una sola delle sue forze: il «social-fascismo». Il plebiscito che i fascisti organizzano per sbalzare il governo socialdemocratico prussiano di Braun-Severing diventa il «plebiscito rosso» da volgere a convalida della «politica del partito». Nelle elezioni presidenziali si chiamano le masse a votare contro Hitler e Hindenburg e per il capo del partito Thälmann, ma non per la dittatura proletaria. Bensì per la realizzazione del «programma di emancipazione nazionale». Ora, poiché le dette elezioni erano altrettanti momenti della trasformazione dello stato borghese da democratico in fascista, la partecipazione del Partito non in funzione della lotta contro il capitalismo, ma della lotta contro il «social-fascismo», non poteva che condurre a facilitare la detta trasformazione dello stato. Si trattava cioè nel primo caso di realizzare la cacciata dei socialisti dal governo prussiano, nel secondo caso di affidare al partito l’obbiettivo della «emancipazione nazionale». Appare chiaro quindi che il Partito prendeva una posizione concorrente a quella nazista e, se gli avvenimenti dell’epoca portarono alla vittoria del nazismo, nulla esclude che nella situazione attuale lo stesso programma sarà inalberato dal «partito socialista unificato» di Germania il quale, sotto l’egemonia dell’imperialismo russo, parla di «emancipazione nazionale» contro la stessa «emancipazione nazionale» che l’imperialismo anglosassone vuole realizzare a suo profitto.

Quanto alla politica del partito nel campo sociale, essa discendeva dai surricordati criteri della lotta contro il «social-fascismo», della moltiplicazione delle scaramucce, della «politicizzazione degli scioperi».

Ovunque la violenta crisi economica determini un movimento di resistenza dei lavoratori e particolarmente dei disoccupati, il partito interviene immediatamente per farne un episodio di realizzazione «rivoluzionaria» con la conseguenza che, mentre la minoranza viene mitragliata, il resto della massa assiste scoraggiata all’incedere vittorioso dell’offensiva capitalista. L’episodio più caratteristico di questa tattica si ha nella manifestazione del primo maggio 1929 a Berlino quando Zörgiebel – il questore socialista degno successore di Noske – può stendere al suolo ventinove proletari senza che si determini un movimento delle masse, che peraltro non parteciperanno affatto alla manifestazione contro il «social-fascismo».

Mentre il movimento nazista progredisce a passi giganteschi, «L’Internationale Communiste» nel suo numero del primo maggio 1932, dopo le elezioni presidenziali, constata
«il rinculo particolare del partito nelle regioni industriali, rinculo che si manifesta proprio in quelle regioni dove i nazionalsocialisti conseguono una serie di grandi vittorie».

Ma non per questo la grancassa della demagogia tacerà. Thälmann dichiara:
«noi semineremo la disgregazione nel campo della borghesia. Noi allargheremo la breccia nelle file della socialdemocrazia e accresceremo il processo di effervescenza nel seno di questo partito. Noi formeremo delle brecce ancora più profonde nel campo hitleriano».

Questa tattica che, come abbiamo visto è in definitiva di affiancamento della politica nazista, non riceve altra giustificazione da parte dell’Internazionale al di fuori della rievocazione del ruolo giocato precedentemente dai socialdemocratici. «Stato operaio» del luglio-agosto 1931, in un articolo destinato a giustificare la politica del partito tedesco, scrive:
«chi accusa i comunisti di essere gli alleati del fascismo?… Sono i ministri di polizia di Prussia, fucilatori di operai, e il signor Pietro Nenni, fascista della prima ora. Basterebbero queste considerazioni per giudicare la causa»[3].

Quando Hindenburg, il 30 gennaio 1933, consegna il potere ad Hitler, si assiste in sostanza alla replica in Germania di quella vittoria del capitalismo internazionale che era stata consacrata in Russia nel dicembre 1927, quando trionfò la «teoria del Socialismo in un solo paese». Una semplice inversione di termini in una stessa formula. In Russia socialismo nazionale, in Germania nazional-socialismo. Sono così stabilite le premesse per avviare il mondo verso la seconda guerra imperialista mondiale, dopo le tappe intermedie di Abissinia e di Spagna.

La sconfitta inferta al proletariato internazionale in Germania non determina nessuna reazione nel seno dell’Internazionale contro la tattica seguita dal Comintern. Manuilskij se ne rallegra e dichiara alla riunione plenaria dell’Esecutivo dell’Internazionale (vedi «Stato Operaio» del febbraio 1934):
«L’atteggiamento sulla questione tedesca è stato una pietra di paragone del grado di bolscevizzazione delle sezioni dell’Internazionale Comunista, della loro tempra bolscevica, della loro capacità di affrontare a testa alta le brusche svolte della situazione. Si deve riconoscere con soddisfazione a questo Plenum che le Sezioni del Comintern hanno superato con onore questa prova. Riflettete a quello che sarebbe avvenuto se questi avvenimenti si fossero prodotti alcuni anni or sono quando la bolscevizzazione dei Partiti dell’Internazionale si compieva attraverso crisi continue. Essi avrebbero provocato senza dubbio una profonda crisi del Comintern».
Non si poteva essere più cinici e nel contempo più espliciti sul significato della «bolscevizzazione». Manuilskij ce lo dice in modo inequivocabile: è il pieno successo della bolscevizzazione che immunizza l’Internazionale da qualsiasi reazione contro il successo della tattica di affiancamento all’attacco di Hitler in Germania. Dopo questa prova decisiva, il Comintern non può che rivelarsi perfettamente idoneo per la successiva fase della politica guerrafondaia in Spagna, in attesa di diventare il complice delle forze democratiche e fasciste nel corso della seconda guerra imperialista mondiale.

Gli avvenimenti tedeschi dovevano accentuare il divario fra le posizioni politiche di Trotzky e quelle della nostra corrente, divario che si era già manifestato non solo sulle questioni internazionali nella critica che fece Trotzky della politica del Comintern durante gli avvenimenti tedeschi del 1923, critica che Bordiga giudicò insufficiente (vedi «La questione Trotzky» di A. Bordiga), ma anche – come abbiamo visto nei capitoli precedenti – sulla questione russa e su quella cinese.

Trotzky, ricalcando sulla situazione tedesca la tattica seguita dal Partito Bolscevico tra il 1905 ed il 1917 e particolarmente quella applicata nel settembre 1917 all’epoca della minaccia di Kornilov contro il Governo di Kerenski, partiva dalla premessa che la socialdemocrazia era storicamente una forza di opposizione all’attacco fascista, e concludeva che si dovesse preconizzare il fronte unico per opporsi all’attacco nazista. E la nostra corrente fu accusata da Trotzky di «stalinismo» perché essa ripeté, nei confronti della situazione tedesca del 1930–33, la politica seguita dal Partito d’Italia nel 1921–22, che consisteva nel fronte unico sindacale per le rivendicazioni parziali sfociante in una mobilitazione della classe lavoratrice, nel suo insieme, contro la classe capitalista. D’altra parte sulla questione del potere, per noi la posizione centrale della Dittatura proletaria doveva restare immutata e non poteva conoscere alcun surrogato. Trotzky non solamente non accettò la polemica con la nostra corrente, ma insofferente delle critiche che questa muoveva all’opposizione Internazionale, non poté trovare altra soluzione che quella amministrativa della nostra espulsione dalla detta Opposizione internazionale, sanzionata nel 1932. Trotzky non comprese che non era possibile giudicare l’evoluzione dello stato capitalista del 1930–33 in funzione dell’evoluzione che si era determinata nel periodo precedente alla prima guerra imperialista mondiale. Se prima lo stato capitalista evolveva secondo il procedimento democratico, questo dipendeva dalle particolarità storiche dell’epoca. Nel periodo dell’imperialismo finanziario, e dove la lotta fra le classi aveva raggiunto il punto culminante, lo stato era portato – dalle nuove circostanze storiche – ad evolvere nel senso totalitario e fascista, e tutte le forze politiche del capitalismo non potevano che favorire e solidalmente concorrere a questo sbocco. Ne risultava quindi che la socialdemocrazia, benché destinata ad essere una delle vittime di questo processo, non poteva essere che un fattore del suo sviluppo mentre solo la classe proletaria ed il suo Partito di classe potevano determinare la rottura di questo corso dello stato capitalista. Corso spiegabile non in funzione dei precedenti storici ma della dialettica della lotta fra le classi nella sua fase più avanzata.

L’Internazionale, fondata per il trionfo della rivoluzione mondiale, stabilisce dunque la «tattica del terzo periodo», che facilita ed affianca il trionfo del nazismo in Germania. Il cammino che aveva avuto inizio nel 1927 prosegue tragicamente e sole restano sulla breccia, a difendere le posizioni marxiste, le sparute pattuglie della sinistra italiana.

5. – La tattica dell’antifascismo e del fronte popolare (1934–38)

L’avvento di Hitler al potere (30 gennaio 1933) non determina immediatamente un mutamento radicale nella tattica del Comintern che continua a concentrarsi nella formula dell’antifascismo che abbiamo esaminato nel 4° Capitolo.

La Seconda Internazionale lancia la proposta del boicottaggio dei prodotti tedeschi ed invita il Comintern a partecipare ad una campagna internazionale destinata a sollevare l’indignazione del «mondo civile contro la tirannia nazista». Il Comintern rifiuta, ma non presenta nessuna obiezione di principio, ciò che d’altronde avrebbe potuto difficilmente fare poiché nel 1929 all’epoca in cui non era ancora abbandonata la tattica dell’alleanza con la socialdemocrazia – fu esso a proporre una vasta azione internazionale per il boicottaggio dell’Italia fascista. Ed a quell’epoca fu la Seconda Internazionale che impiegò l’espediente delle tergiversazioni, fornendo così il pretesto all’impiego dello stesso metodo da parte del Comintern dopo l’avvento di Hitler al potere.

Il «boicottaggio» dei prodotti tedeschi, poiché comporta l’incorporazione del movimento proletario nel seno del capitalismo «antifascista», resta pienamente nella logica della politica socialdemocratica, la quale sin dal 1914 aveva fatto appello alle masse lavoratrici perché si gettassero nella guerra fra gli stati capitalisti facendo causa comune con quella costellazione imperialista che dichiarasse di lottare «per la libertà e la civiltà». La classe che, sia nel campo della produzione, come in quello degli scambi internazionali, poteva decidere di boicottare o no un dato settore dell’economia mondiale, era evidentemente la classe borghese. L’appello a questa classe da parte della socialdemocrazia non rappresentava nulla di inedito, ma la confusione che regnava già nelle file dell’avanguardia proletaria doveva manifestarsi evidente nell’adesione che a questa campagna del boicottaggio diedero il movimento trotzkista, il quale si avvia verso la tattica che fu qualificata di «entrista» – cioè di adesione ai partiti socialisti per rinforzarvi l’ala sinistra –, ed il S.A.P. (Sozialistische Arbeiter Partei), nato dalla congiunzione delle correnti di sinistra dei partiti Comunista e Socialista tedeschi.

Abbiamo già detto che il Comintern non aveva preso una posizione frontale e di classe contro la proposta della Seconda Internazionale. E ciò è del tutto naturale se si tien conto che tutta la tattica del «social-fascismo» era stata in definitiva di affiancamento al movimento nazista, e che l’avvento di Hitler comportava una migliore organizzazione degli scambi economici russo-tedeschi. In corrispondenza all’accrescersi dell’intervento dello Stato anche nel campo economico, disposizioni particolari furono prese da Hitler per una garanzia dello Stato a favore dei gruppi industriali che ricevevano ordinazioni da parte della Russia e che dovevano attendere una scadenza assai lontana per il pagamento.

Sul piano internazionale la diplomazia russa agiva su una linea convergente e Litvinov si incontrava con le delegazioni italiana e tedesca alla Conferenza del Disarmo di Ginevra, per sostenere la tesi «pacifista» del disarmo per piani, di realizzazione immediata, contro la tesi francese, altrettanto «pacifista» e impostata sulla formula della preminenza della nozione della sicurezza (cioè della garanzia del predominio dei vincitori di Versailles) sulle nozioni dell’arbitrato e del disarmo.

Fu in questo momento che Mussolini concepì l’idea del Patto a Quattro (Francia, Germania, Inghilterra ed Italia); idea dei Quattro Grandi, che sarà ripresa dall’arcidemocratico Byrnes nel 1946 ed appoggiata dal laburista Bevin, pur essendo mutati gli attori.

Il Patto a Quattro firmato a Roma il 7 giugno 1933 sancisce:
«Le Alte Parti contraenti s’impegnano a concertarsi su tutte le loro questioni e a fare tutti gli sforzi per praticare, nel quadro della Società delle Nazioni, una politica di collaborazione effettiva fra tutte le potenze, in vista del mantenimento della pace».
Il Patto è firmato per dieci anni e contiene l’ipotesi di una revisione dei trattati. Quest'ipotesi era di già diventata una realtà, poiché, dopo la moratoria proclamata nel 1931 da Hoover, alla Conferenza di Losanna nel 1932, – e quando ancora vi era un governo «democratico» in Germania – la Germania era stata esplicitamente liberata dal pagamento delle riparazioni.

È noto che non attraverso la via delle consultazioni a tipo parlamentare, ma attraverso i grandi colpi di scena Hitler smantellò una ad una le clausole del Trattato di Versailles. Quattro mesi dopo la firma del Patto a Quattro Hitler esce dalla Società delle Nazioni ed indice un plebiscito spettacolare. Questo sistema del «fatto compiuto», del «pugno sulla tavola» rispondeva pienamente alle necessità della accentuata preparazione delle masse alla guerra ed Hitler era costretto a farvi ricorso dal fatto che l’economia tedesca non poteva trovare altra uscita alla situazione al di fuori di un’immediata intensificazione dell’industria di guerra. E, per questo, occorreva una contemporanea e plebiscitaria adesione delle masse. Le potenze «democratiche» lasciavano provvisoriamente fare, in attesa che la situazione internazionale raggiungesse il punto di saturazione voluto per lo scatenamento della seconda guerra mondiale.

Ma l’essenza del Patto a Quattro consisteva soprattutto in una manovra di allontanamento della Russia dall’Europa e contemporaneamente in un orientamento di appoggio alla Germania affinché questa straripasse non verso l’Ovest franco-inglese, ma verso l’Est russo e particolarmente verso l’Ucraina.

È in queste particolari contingenze internazionali che matura la nuova tattica del Comintern dell’antifascismo e del Fronte Popolare: la Russia si orienta verso le potenze «democratiche». Nell’autunno del 1933 gli Stati Uniti riconoscono «de jure» la Russia, e la «Rundschau» scrive un articolo così intitolato: «Una vittoria dell’U.R.S.S. – Una vittoria della rivoluzione mondiale».

Sul piano politico il primo sintomo del mutamento di tattica si ha nel processo di Lipsia nel dicembre 1933. Si doveva qui giudicare l’anarchico olandese van der Lubbe il quale aveva appiccato il fuoco al palazzo del Reichstag il 27 febbraio 1933, un mese dopo che Hitler aveva preso il potere. Comintern e Seconda Internazionale danno immediatamente sfogo ad una campagna oscena di demagogia: è il fascismo, il nazismo che ha distrutto il luogo sacro della democrazia tedesca; un contro-processo sarà organizzato nell’epicentro del capitalismo più conservatore, a Londra; un «Libro Bruno» sarà pubblicato dagli antifascisti ed Hitler, che ha magnificamente afferrato il senso reale di questa immonda farsa mondiale, aggiunge note supplementari alla sacrosanta indignazione universale contro l’attentato portato alla sede della democrazia borghese: la stampa estera sarà ammessa al processo di Lipsia dove uno degli imputati, il centrista Dimitrov, concluderà dicendo:
«Domando, in conseguenza, che van der Lubbe sia condannato in quanto ha agito contro il proletariato».
Ed i giudici nazisti «vendicano» il proletariato, poiché van der Lubbe è condannato a morte e quindi giustiziato, mentre gli altri imputati centristi saranno assolti e lavati dall’«infame accusa».

All’ombra di tutta questa cagnara internazionale si sviluppa intanto la repressione feroce di Hitler contro il proletariato tedesco. Mentre la campagna intorno al processo di Lipsia raggiunge il massimo della réclame solo poche righe sono dedicate al contemporaneo processo di Dessau (28 novembre 1933), ridotto ad un episodio insignificante di cronaca:
«Dieci condanne a morte sono state pronunziate dal Tribunale di Dessau contro i comunisti accusati di avere ucciso un milite hitleriano».

Abbiamo visto, nel 4° Capitolo destinato alla tattica del «social-fascismo», che Hitler, contrariamente alla tattica seguita dal fascismo in Italia nel 1921–22, aveva impostata la sua azione sul piano prevalentemente legalitario dello smantellamento progressivo dalle istituzioni democratiche tedesche dei suoi complici socialdemocratici. Quale occasione magnifica si presentava dunque ai rivoluzionari marxisti per impostare un’azione internazionale intesa ad arrestare la mano del carnefice nazista che si abbatteva sull’anarchico van der Lubbe responsabile di aver mandato alle fiamme una delle istituzioni fondamentali del capitalismo, che d’altronde aveva così bene servito a favorire l’ascesa di Hitler al potere! Ma i rivoluzionari marxisti erano ridotti alla ristretta cerchia della corrente della sinistra italiana che impostava la lotta su basi di classe sia contro il nazismo vincitore, sia contro la democrazia soccombente in Germania, mentre gli stessi trotzkisti correvano in sostegno della socialdemocrazia decidendo la loro entrata nei partiti socialisti.

Come abbiamo detto, è sul piano internazionale e degli interessi particolari e specifici dello Stato russo che si enuclea la nuova tattica del Comintern. Alla formula del «social-fascismo» succederà la formula opposta dell’antifascismo, del blocco democratico, della difesa della democrazia, della lotta contro i faziosi (i fascisti), tattica che passa attraverso la difesa del Negus di Abissinia, della lotta anti-franchista, e cade infine nell’istituzione del volontariato attraverso i movimenti della «Resistenza» nel corso della seconda guerra imperialista mondiale.

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In Russia, nel 1932, il primo Piano Quinquennale aveva ottenuto un successo completo. Realizzatosi in quattro anni invece di cinque, esso aveva, nell’industria pesante, sorpassato gli obiettivi stabiliti all’inizio. Nel 1° capitolo di questo esame della tattica del Comintern abbiamo messo in evidenza che se non si può immaginare una qualsiasi opposizione fra i primi piani concepiti da Lenin nel 1918 e le considerazioni di principio che indussero Lenin ad operare la ritirata che va sotto il nome di Nep, per contro un opposizione di principio esiste fra i primi piani economici di Lenin, la Nep e i piani quinquennali di Stalin. Sulle tracce di Marx e dei suoi schemi sull’economia capitalista, l’idea di Lenin sull’indispensabile pianificazione dell’economia era imperniata sullo sviluppo dell’industria di consumo alla quale doveva adeguarsi lo sviluppo dell’industria di produzione. La stessa Nep si muove su questa considerazione di principio e nessuna necessità vi sarebbe stata di realizzarla se l’obiettivo fosse stato non quello dell’elevazione delle condizioni di vita dei lavoratori, ma l’altro di tipo schiettamente capitalista – di una intensa accumulazione per lo sviluppo dell’industria pesante. Lenin non avrebbe avuto alcun bisogno di fare concessioni ai contadini ed alla piccola borghesia – elementi economici e politici non utili ma nocivi alle colossali realizzazioni industriali – ma queste concessioni egli doveva fare per mantenere l’orientamento dell’economia sovietica sulla linea di un costante miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Stalin rompe con i principi marxisti di Lenin sia sul terreno economico interno in Russia, quando istituisce i piani quinquennali i quali non possono raggiungere le vette dell’industrializzazione che grazie ad un intensificato sfruttamento dei lavoratori, sia sul terreno politico con l’espulsione dal Comintern di ogni tendenza che resti sul piano internazionale ed internazionalista e si opponga alla teoria ed alla politica nazionale e nazionalista del «socialismo in un solo paese».

Il 1° Piano quinquennale conosce un successo totale. Seguendo le orme dei suoi compari capitalisti di tutti i paesi, Stalin abborda il secondo Piano quinquennale (1932–1936) affermando che si tratta ora di realizzare obiettivi che in realtà saranno del tutto opposti a quelli dichiarati. Fin dalla sua ascesa al potere il capitalismo ha sempre detto che il miglioramento della condizione generale di vita dei lavoratori dipende dallo sviluppo dell’economia e che quanto più grande sarà il montante della produzione tanto maggiore sarà la parte riservata ai lavoratori. Quando si prepara il secondo Piano quinquennale, Stalin dirà la stessa cosa: l’industria pesante è ricostituita, si tratta ora di ricostituire le altre branche dell’economia sovietica e conseguentemente di migliorare il tenore di vita dei lavoratori. È nel corso del secondo Piano quinquennale che sorge la nuova divinità: Stakhanov; l’essenza del socialismo viene a consistere in una gara al massimo rendimento del lavoro ed al contemporaneo rafforzamento delle possibilità economiche e militari dello Stato sovietico, sull’altare del quale ogni rivendicazione salariale deve essere sacrificata.

Questo indirizzo economico non trova alcuna possibilità di reazione marxista nel seno del Partito russo e quando, sulla fine del 1934, Nikolaev fa ricorso ad un attentato uccidendo il segretario del Partito di Leningrado, una repressione feroce si abbatte sul «Centro di Leningrado». Stalin, anticipando i procedimenti che nazisti e democratici applicheranno durante la seconda guerra imperialista mondiale, passa alle rappresaglie. Nessun processo e 117 persone fucilate. Frattanto Litvinov si associa, a Ginevra, ad una mozione che condanna il terrorismo e sostiene argomenti «marxisti» secondo i quali marxismo e terrorismo si oppongono irrimediabilmente. La Russia, per finanziare il secondo piano e ottenere le materie prime indispensabili deve esportare grano. In forza delle invocate prospettive di miglioramento delle condizioni dei lavoratori, il C.C. del Partito russo abolisce il 1° gennaio 1935 la carta del pane ed il razionamento dei prodotti agricoli. Così i lavoratori sono costretti ad accentuare il loro sforzo di lavoro affinché i salari permettano di approvvigionarsi al mercato libero, giacche lo Stato «proletario» non garantisce più – attraverso i magazzini statali – il controllo dei generi di prima necessità.

È dunque in forza di considerazioni inerenti allo Stato sovietico sul piano internazionale, ed in crescente opposizione con gli interessi dei lavoratori russi, che matura il cambiamento della tattica del Comintern.

La crudele disfatta cinese del 1927 aveva definitivamente trascinato nel vortice del tradimento l’Internazionale Comunista: di quella che fu l’Internazionale della Rivoluzione non potevano oramai fare parte che coloro i quali volevano battersi per il programma nazionale e nazionalista del «socialismo in un solo paese». Gli altri, gli internazionalisti, sono dapprima espulsi e successivamente, in Russia e in Spagna, massacrati; negli altri paesi sono messi all’indice e nella misura in cui si accentua la connivenza dei Partiti Comunisti con l’apparato dello Stato borghese – si domanda a questo «Stato democratico» di provare con i fatti le sue virtù «antifasciste» nell’abbandono di ogni tergiversazione e nell’impiego della violenza repressiva contro i «trotzkisti». Tutti sono qualificati di trotzkisti quando si oppongono all’indirizzo controrivoluzionario dell’Internazionale. Come nell’epoca che succedette alla liquidazione della Prima Internazionale, la scena politica viene ora occupata da un contrassegno che non solamente moltiplica la dispersione e la confusione ideologica ma tende a polarizzare l’attenzione dei rari proletari rivoluzionari sopravvissuti a questa tragica ecatombe intorno ad un’insegna assolutamente inoffensiva.

Nel 1866–70 tutti erano chiamati anarchici, Marx compreso; ed è noto che la proposta di Marx del trasferimento della sede della Prima Internazionale dall’Europa in America rispondeva al suo convincimento che la nuova situazione storica determinatasi con la disfatta della Comune non conteneva la possibilità del mantenimento di un’organizzazione internazionale del proletariato. Il suo mantenimento non poteva che favorire la vittoria delle tendenze anarchiche contro quelle schiettamente proletarie e rivoluzionarie. Dopo il 1927 l’epiteto in voga era quello di «trotzkista». Il peggio fu che Trotzky stesso cadde in questo tranello e lasciò che l’organizzazione internazionale dell’Opposizione si qualificasse «trotzkista». Quando Marx aveva detto che egli non era un marxista, aveva voluto indicare che la teoria e la politica del proletariato si enucleano nel corso della lotta di classe, che esse costituiscono un metodo della conoscenza e della interpretazione della storia, non un insieme di versetti biblici da recitare dopo avere impiegato tutti i sacramenti necessari per stabilire le volontà del creatore. E Trotzky – rompendo definitivamente con quella che era stata la divisa di Marx, Engels e Lenin, sul problema fondamentale della costruzione del Partito della classe proletaria – constatò che la vittoria di Hitler annullava la possibilità di «raddrizzare» l’Internazionale Comunista e dopo una analisi della situazione dove la forma smagliante dell’esposizione prende il posto di una comprensione marxista della realtà, si lancia nell’avventura dell’entrata dell’Opposizione nei Partiti Socialisti. Sul piano politico egli si impunta nell’ipotesi storica che non Stalin ma Hitler è il super-Wrangel che concentrerà l’attacco del capitalismo internazionale contro la Russia portata allo sfacelo dall’impossibilità della realizzazione dei piani quinquennali. Mentre tale schema politico doveva essere pienamente smentito dagli avvenimenti, la concentrazione dell’avanguardia proletaria sul piano della difesa dello Stato russo, portato al disastro da Stalin, rendeva completamente inoffensivo il chiasso politico che Trotzky e la sua organizzazione facevano in ogni paese: non solamente Stalin, dal momento in cui aveva potuto piegare il proletariato russo a subire un intenso sfruttamento, poteva realizzare i piani quinquennali, ma lo Stato sovietico, incorporato nel sistema del capitalismo mondiale, doveva conoscere non già il disastro bensì la vittoria nel corso della guerra del 1939–45. Per il fatto di vedere dappertutto – anche quando Mussolini attaccò il Negus – un episodio della lotta del capitalismo mondiale contro la Russia, quando questo Stato russo era ormai – allo stesso titolo degli stati democratico e fascista – uno strumento della controrivoluzione mondiale, Trotzky, che era stato uno dei più grandi capi della Rivoluzione d’Ottobre, era diventato completamente inoffensivo per il capitalismo; e l’epiteto di trotzkista appioppato a tutti era un elemento supplementare della confusione ideologica in cui giaceva il proletariato; e tanto più lo era poiché Trotzky e la sua organizzazione vedevano un crescente successo rivoluzionario nel fatto che la loro merce politica conosceva i successi della grande pubblicità giornalistica.

Dopo lo scoppio della crisi economica mondiale del 1929, il Comintern aveva capovolto i termini di una manovra politica che aveva portato all’immobilizzazione della classe proletaria: prima alleanza con i tradunionisti e Chiang Kai-shek, poi lotta contro il «social-fascismo». Se i termini cambiano, la sostanza è la stessa. E, nel corso di queste due fasi della tattica dello smantellamento progressivo della classe proletaria sia in Russia che negli altri paesi, il Comintern si appoggia su una molteplicità di organismi sussidiari che favoriscono la dispersione ideologica e politica del proletariato. Nel corso del primo periodo questi organismi periferici sono polarizzati intorno alla parola dell’antifascismo, nel corso del secondo periodo – quello del social-fascismo – la polarizzazione si fa intorno alla formula della lotta contro la guerra e della difesa dell’U.R.S.S.

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Dopo la vittoria di Hitler ci si avvia verso la tattica del Fronte Popolare ed i social-fascisti di ieri diventano «democratici progressisti». Ma l’evolversi della situazione economica e politica impone un corrispondente avanzamento sulla via dell’inquadramento delle masse lavoratrici nelle maglie dello Stato capitalista. Fino al 1934 il Comintern trovava in tutti gli organismi periferici un veicolo sufficiente per fare avanzare le sue posizioni controrivoluzionarie; a partire dal 1934, quando il mondo capitalista non può trovare altra via d’uscita alla formidabile crisi economica che lo devasta che quella della preparazione del secondo conflitto imperialista mondiale, si deve andare oltre e fare accettare dalle masse come un obiettivo loro quello della modificazione della forma di governo della classe borghese. Il movimento delle masse deve essere ricongiunto e saldato intorno allo Stato capitalista ed è in questo che consiste la nuova tattica del Fronte Popolare il cui centro sperimentale si trova in Francia prima, in Spagna poi. E non deve affatto stupire che lo Stato Sovietico, il quale aveva decisamente e definitivamente rotto con gli interessi del proletariato russo ed internazionale nel 1927, possa con tanta disinvoltura operare cosi radicali e contraddittori mutamenti e che sulla stessa linea si svolga la politica del Comintern. Di già Mussolini, quando nel 1923 si vantava di essere stato il primo a riconoscere «de jure» lo Stato russo, metteva in evidenza che questo non lo impegnava ad operare la minima modifica alla sua politica ferocemente anticomunista. Hitler ribadì la stessa cosa dopo avere preso il potere.

In effetti, il punto di saldatura fra la politica degli Stati borghesi si trova su basi di classe ed a questo proposito la congiunzione è perfetta fra la politica anticomunista di Stalin e quella di tutti gli altri governi capitalisti che ristabiliscono le relazioni «normali» con lo Stato russo divenuto uno Stato «normale» della classe capitalistica internazionale. Il riflesso nel campo internazionale di questa politica anticomunista, che è comune sia agli stati democratici che a quelli fascisti ed al sovietico, solo formalmente si esprime in modo contraddittorio, mentre sostanzialmente la linea è unitaria e tende verso lo sbocco del conflitto imperialista dove tutte le «idealità» saranno magnificamente commercializzate per imbottire i crani e gettare gli uni contro gli altri i proletari dei differenti paesi.

Marx, nella «Critica del programma di Gotha», confuta l’idea lassalliana dell’esistenza di una sola classe borghese reazionaria, perché il semplicismo di Lassalle conduceva non solamente all’impossibilità di comprendere l’intricato processo sociale che il capitalismo riesce a polarizzare a suo vantaggio, ma anche a congiungere il movimento proletario con quelle forze schiettamente capitaliste che non appartengono alla categoria qualificata «conservatrice». Quelle che si spostano dunque sulla linea di Lassalle, che concepiva un socialismo statalista appoggiantesi su Bismarck, sono le forze politiche le quali affettano di volere «correggere» gli abusi del capitalismo quando invece assicurano il successo di queste forme abusive, le sole che hanno diritto di cittadinanza nella fase storica della decadenza del capitalismo imperialista e monopolista.

Che in Germania ed in Italia queste forze si chiamino fasciste, mentre in Francia esse si chiamano socialiste e comuniste, il programma politico è lo stesso, e se Blum non lo realizza, mentre Hitler soprattutto ottiene indiscutibili successi nell’interventismo statale, questo dipende dalle differenti particolarità dei due stati capitalisti e dal posto che essi occupano nel processo, del divenire del capitalismo nella sua espressione internazionale.

Quanto alla contrastante espressione formale di un processo che è internazionale ed unitario, quanto al fatto che uno stato si chiami fascista e l’altro democratico, che la dominazione borghese si eserciti in un paese sotto una forma determinata, in un altro paese sotto un’altra forma, la cosa non presenta alcuna difficoltà di comprensione per i marxisti. La classe borghese che è un tutto di cui – a meno di non uscire dal dritto cammino del marxismo – nessuna forza può essere avulsa dall’insieme e condannata o presentata in opposizione al tutto, ha visto, nel periodo di sviluppo coincidente con lo scorcio del secolo scorso, un urto fra le sue forze politiche e sociali di destra e di sinistra (le conservatrici e le democratiche), ma nella fase storica della sua decadenza non potrà servirsi dell’antica divisione in destra e sinistra che ai fini della propaganda e degli interessi del suo dominio sul proletariato.

Sia la Francia del Fronte Popolare che la Germania nazista sono sullo stesso piano imposto dalla storia al capitalismo e se l’una fa ricorso all’ideologia antifascista, l’altra a quella nazista, il fine è unico: inquadrare le masse sotto la ferma disciplina dello Stato per poi lanciarle nel massacro della guerra. I rapporti fra i differenti stati borghesi non hanno alcun carattere di fissità giacché essi dipendono dalla loro evoluzione nel campo internazionale e dall’impossibilità dell’intervento di un elemento di guida cosciente e volontaria delle differenti borghesie. Churchill è un esempio del come si possa restare coerentemente e ferocemente anticomunista passando con grande disinvoltura dalla lotta all’alleanza con la Russia o con la Germania.

In questo divenire del processo unitario dello Stato nella fase imperialista del capitalismo, si assiste al fatto che determinati Stati trovano negli Stati, che ad essi si oppongono per la difesa dei loro interessi, il materiale politico che facilita la mobilitazione delle masse per aggiogarle al loro carro e sganciarle dalle loro basi di classe. Nel gennaio 1933, in corrispondenza con l’ascesa al potere di Hitler, si assiste alla realizzazione in Francia della formula di governo che sembrava la più a sinistra, tenuto conto delle contingenze del momento, mentre Daladier è chiamato al Governo da un Parlamento che aveva conosciuto, nel 1932, una vittoria elettorale della sinistra.

Quanto alla politica dello Stato russo ed alla corrispondente tattica del Comintern essa è dovunque controrivoluzionaria ma prende espressioni contraddittorie nel tempo. È quella del «social-fascismo» nel l930–33, perché l’obiettivo del capitalismo internazionale si concentra allora nella vittoria di Hitler. Una volta che questa terribile disfatta fu inferta al proletariato tedesco e mondiale, e che questa vittoria fu solidamente stabilita, l’obiettivo si sposta verso altri paesi e particolarmente la Francia. Ne risulta la politica che si preciserà nella formula del Fronte Popolare, politica che farà gli affari sia del capitalismo francese, sia di quello tedesco e di quello di tutti gli altri paesi. E l’idea di patria sarà dagli uni e dagli altri validamente invocata giacché è manifesto che dall’una e dall’altra parte della barricata non si persegue oramai che un solo fine: quello di minacciare «l’integrità nazionale» con la guerra.

L’essenza della nuova tattica consiste dunque nell’inquadramento del proletariato negli apparati statali rispettivi, mentre l’alternarsi degli obiettivi internazionali del capitalismo determinerà l’antifascismo od il filo-fascismo dello Stato sovietico e l’espressione formale della tattica del Comintern: alleanza con la socialdemocrazia, social-fascismo, Fronte Popolare.

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Abbiamo visto nelle prime parti di questo capitolo, in che cosa consistesse l’essenza del nuovo capitombolo del Comintern dal «social-fascismo» all’«antifascismo». La crisi economica apertasi nel 1929 a New York e successivamente propagatasi a tutti i paesi non aveva, dopo il 1934, trovato altra soluzione che la preparazione della seconda guerra imperialistica. In corrispondenza con la realtà economica che imponeva al capitalismo l’estrema soluzione della guerra, estremo doveva anche diventare l’obiettivo dei partiti comunisti, divenuti strumenti della controrivoluzione e complici delle altre forze borghesi, fasciste, socialiste e democratiche. Se precedentemente i partiti comunisti orientavano le mosse verso una disfatta immancabile, ora essi le incanalano nell’alveo dei rispettivi stati capitalisti.

Come la teoria del social-fascismo non aveva alcuna portata diretta nei paesi non minacciati da un attacco fascista e il suo carattere internazionale risultava dal fatto che la Germania – dove questa tattica ebbe un’importanza decisiva – si trovava ad essere in quel momento il perno dell’evoluzione capitalistica mondiale, così la nuova tattica antifascista non ha alcuna portata diretta nei paesi dove il fascismo è saldamente impiantato (Germania, Italia), ma ha grande importanza in Francia dapprima, in Spagna poi, cioè nei due paesi in cui non si scontrano soltanto classi e partiti indigeni, ma si elabora un congegno d’ordine internazionale che doveva funzionare a pieno rendimento durante la guerra 1939–45.

Nel corso di questo periodo (1934–38) si manifesta per la prima volta il carattere particolare di un’evoluzione politica nella quale siamo ancora tuffati. Contrariamente a quanto avvenne in generale in tutti i paesi e particolarmente nel 1898–1905 in Russia, quando gli impetuosi scioperi generarono l’affermazione del partito di classe, i possenti movimenti austriaci, francesi, belgi e spagnoli non solo non determinano l’affermazione di un’avanguardia proletaria e marxista, ma lasciano in un fatale isolamento la sinistra italiana, rimasta fedele ai postulati rivoluzionari dell’internazionalismo contro la guerra antifascista e della distruzione dello stato capitalista e della fondazione della dittatura proletaria contro la partecipazione o l’influenzamento dello Stato a direzione antifascista.

Parallelamente al successo della manovra che doveva condurre lo stato capitalista a stringere i suoi tentacoli sulle masse e sui loro movimenti, si assiste al distacco fra questi movimenti e l’avanguardia, se non addirittura all’inesistenza totale di quest’ultima. Gli avvenimenti confermano così in modo inequivocabile la tesi magistralmente sviluppata da Lenin nel «Che fare?», che la coscienza socialista non può essere il portato spontaneo delle masse e dei loro movimenti, ma è il frutto dell’importazione nel loro seno della coscienza di classe elaborata dall’avanguardia marxista. Il fatto che quest’avanguardia non si trovi nella possibilità di influire su situazioni di grande tensione sociale in cui masse imponenti scendono nella lotta armata, come in Spagna, non altera in nulla la dottrina marxista la quale non considera che la classe proletaria esiste perché una costellazione sociale e politica passa alla lotta armata contro quella che è al potere, ma parla di classe proletaria solo se i suoi obiettivi ed i suoi postulati sono quelli dell’agitazione sociale in via di sviluppo. Nel caso in cui le masse scendono in lotta per obiettivi che, non essendo i loro, non possono essere che quelli del nemico capitalista, questa convulsione sociale non è che un momento del confuso ed antagonico sviluppo del ciclo storico capitalista il quale – per riprendere le parole di Marx – non ha ancora maturato le condizioni materiali della sua negazione.

L’analisi marxista permette di comprendere che se il social-fascismo fu una tattica che doveva inevitabilmente facilitare ed affiancare la vittoria di Hitler nel gennaio 1933, la tattica dell’antifascismo fu ancora più grave, in quanto il suo obiettivo andò ben oltre e da un falso allineamento delle masse nella lotta che restava però sempre diretta contro lo stato capitalista, si passa, con la tattica dell’antifascismo, a preconizzare l’inquadramento delle masse nel seno dello stato capitalista antifascista.

Nulla di strano che, di fronte ad una così possente e formidabile organizzazione capitalistica che comprende democratici, socialdemocratici, fascisti e partiti comunisti, la resistenza che oppone il proletariato austriaco nel febbraio 1934 e che prende a volta aspetti eroici non sia tuttavia suscettibile di portare la minima incrinatura ad un’evoluzione degli avvenimenti mondiali che era stata definitivamente consacrata dalla violenta involuzione prodottasi nello stato sovietico divenuto, sotto la guida di Stalin, uno strumento efficace della controrivoluzione mondiale.

Il 12 febbraio, quando i proletari di Vienna insorgono, è il cristianissimo Dollfuss che fa puntare i cannoni contro la città operaia di Vienna, il rione «Carlo Marx», ma dietro questi cannoni si trovava la Seconda e la Terza Internazionale. la prima aveva costantemente trattenuto le reazioni proletarie contro il piano di organizzazione corporativista di Dollfuss, la seconda, che precedentemente eccelleva nel montaggio di manifestazioni internazionali impostate sempre su basi artificiose, lascia scannare i proletari e si guarda bene dal lanciare un appello ai proletari di tutti i paesi perché manifestino la loro solidarietà in favore del proletariato austriaco.

Nei primi giorni gli organi dei partiti socialisti belga e francese cercano di appropriassi l’eroismo degli insorti di Vienna, ma qualche giorno dopo la sincronizzazione è perfetta.

Bauer e Deutsch, i dirigenti dello Schutzbund (organizzazione di difesa della socialdemocrazia austriaca) in un’intervista del 18 febbraio all’organo della socialdemocrazia belga, «Le Peuple», affermano:
«Da molti mesi i nostri compagni avevano sopportato provocazioni di ogni specie, sperando sempre che il governo non avrebbe spinto le cose all’estremo e che un urto finale avrebbe potuto essere evitato. Ma l’ultima provocazione, quella di Linz, portò al colmo l’esasperazione dei nostri compagni. Si sa, in effetti, che le Heimwehren avevano minacciato il governatorato di Linz di dimettersi dalle loro funzioni e di decapitare tutte le municipalità a maggioranza socialista. Si capisce che lunedì mattina, quando le Heimwehren attaccarono a mano armata la Casa del Popolo di Linz, i nostri compagni rifiutarono di lasciarsi disarmare e si difesero con energia. In conseguenza, la Direzione Centrale del Partito non poteva che obbedire a questo segnale di lotta. È per questo che lanciò l’ordine dello sciopero generale e della mobilitazione dello ‹Schutzbund›. Quest'esplosione schiettamente proletaria non era affatto nella linea politica della socialdemocrazia austriaca ed internazionale. Queste erano perfettamente allineate sul fronte di un’azione diplomatica del Governo francese di sinistra, il cui ministro degli Esteri Paul Boncour voleva far servire il movimento degli operai austriaci ai fini della difesa degli interessi dello Stato francese: questo voleva ostacolare l’espansionismo di Hitler e si appoggiava – in quel momento – persino su Mussolini che, nel luglio del 1934, quando Dollfuss fu assassinato dal nazista Planetta, fece la smargiassata senza conseguenze, nei confronti di Hitler, dell’invio delle divisioni italiane sul Brennero.
Qualche giorno prima della rivolta di Vienna, il 6 Febbraio 1934, Parigi è il teatro di avvenimenti importanti. La scena politica era da tempo imbrattata da tutta la pornografia scandalistica fatta intorno alle collusioni fra gli avventurieri della finanza, gli alti funzionari statali ed il personale di governo, particolarmente quello dei partiti di sinistra. Non vi sarebbe neanche bisogno di rimarcarlo: i partiti cosiddetti proletari – il partito socialista e comunista – si gettano in questa mischia scandalistica ed i proletari saranno sradicati dalla lotta rivoluzionaria contro il regime capitalista, per essere trascinati nella lotta contro alcuni avventurieri della finanza e principalmente contro Stavisky. La destra di Maurras e dell’Action Française prende la testa di una lotta contro il governo presieduto dal radicale Chautemps il quale, il 27 gennaio, cede il posto ad un più accentuato governo di sinistra diretto da Daladier e dove Frot, che aveva fino a poco tempo prima militato nella S.F.I.O. (Partito Socialista Francese, Sezione francese dell’Internazionale Operaia), occupa il posto di Ministro dell’Interno. Il prefetto di Polizia Chiappe, anche egli compromesso nello scandalo Stavisky, è scelto da socialisti e comunisti come capro espiatorio, viene defenestrato dalla Prefettura di Polizia e trasferito alla «Comédie Française». È questa l’occasione scelta dalla destra per una manifestazione di fronte al Parlamento dove saranno reclamate le dimissioni del governo Daladier.
Daladier cede, si dimette, malgrado il consiglio a resistere di Léon Blum, ed il 9 febbraio due manifestazioni di protesta hanno luogo: quella indetta dal Partito Comunista nel centro di Parigi dove sono reclamati l’arresto di Chiappe e lo scioglimento delle Leghe fasciste, l’altra indetta dal Partito Socialista e che si svolge a Vincennes dove si innalza la bandiera della «difesa della repubblica minacciata dalla sommossa fascista». Non era ancora definitivamente spento il ricordo della lotta contro il ‹social-fascismo› ma se vi sono due manifestazioni distinte, vi è tuttavia un’unica divisa: non si tratta più di affermare delle posizioni autonome di classe delle masse, ma di indirizzare queste verso quella modificazione della forma dello Stato borghese che si realizzerà solamente due anni dopo quando, in seguito alle elezioni del 1936, avremo il governo del Fronte Popolare sotto la direzione del capo della S.F.I.O., Léon Blum.
Ma immediatamente dopo queste due manifestazioni distinte, un’altra manifestazione unitaria ha luogo, quella della C.G.T. con parole d’ordine analoghe a quelle dei due cortei che l’avevano preceduta. Si reclamerà in effetti, attraverso lo sciopero generale, che siano respinti ‹i faziosi, provocatori di sommosse› perché ‹l’offensiva che si proietta da qualche mese contro le libertà politiche e la democrazia, è scoppiata›»
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Il Partito Comunista, il quale manteneva ancora una posizione di predominio nel centro industriale di Parigi, non se ne serve per dirigere le operazioni e lascia piuttosto l’iniziativa ai socialisti ed alla C.G.T. Quanto alla C.G.T.U. che aveva da tempo cessato di essere un’organizzazione sindacale suscettibile di inquadrare le masse per la difesa delle loro rivendicazioni parziali ed era diventata un’appendice del Partito Comunista, essa non si mette in evidenza in modo aperto nemmeno quando si prepara lo sciopero generale che ottiene un successo completo.

Frattanto si precisa il raggruppamento socialcomunista e un’evoluzione governativa che si accentua sempre più a sinistra.

Il 27 luglio 1934 un patto d’unità è firmato fra il Partito Comunista ed il Partito Socialista, sulla base dei punti seguenti:
a) difesa delle istituzioni democratiche;
b) abbandono dei movimenti di sciopero nella lotta contro i pieni poteri del governo;
c) autodifesa operaia su un fronte che comprenderà anche i radicali socialisti.

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E in campo internazionale si accentua il nuovo orientamento della politica estera dello Stato russo, il quale entra trionfalmente nella Società delle Nazioni.

Ecco cosa dicono le tesi di Osinskij [Obolenskij] del I° Congresso dell’Internazionale Comunista nel marzo 1919: I proletari rivoluzionari di tutti i paesi del mondo devono condurre una guerra implacabile contro l’idea della Lega delle Nazioni di Wilson e protestare contro l’entrata dei loro paesi in questa Lega di saccheggio, di sfruttamento e di controrivoluzione.

Ecco quanto quindici anni dopo, il 2–6–1934, scrive l’organo del Partito russo, la «Pravda»:
«La dialettica dello sviluppo delle contraddizioni imperialiste ha condotto al risultato che la vecchia Società delle Nazioni, che doveva servire di strumento per la subordinazione imperialista dei piccoli Stati indipendenti e dei paesi coloniali, e per la preparazione dell’intervento anti-sovietico, è apparsa, nel processo della lotta dei gruppi imperialisti, come l’arena dove – Litvinov lo ha spiegato alla recente sessione del Comitato Centrale Esecutivo dell’Unione Sovietica – sembra trionfare la corrente interessata al mantenimento della pace. Il che spiega forse i cambiamenti profondi che si sono prodotti nella composizione della Società delle Nazioni».

Lenin, quando parlava della Società delle Nazioni come «Società dei briganti», ci aveva di già insegnato che questa istituzione doveva servire a mantenere «in pace» il predominio degli stati vincitori sancito a Versailles.

Ma le frasi della «Pravda» non erano che retorica. Difatti Litvinov cambia immediatamente e radicalmente posizione. Dall’appoggio alle tesi tedesca ed italiana per il disarmo progressivo, egli passa all’aperta dichiarazione che non è possibile trovare una garanzia di sicurezza, e appoggia la tesi francese la quale, facendo dipendere la realizzazione del disarmo dalla sicurezza proclamata impossibile, sanziona la politica di sviluppo degli armamenti.

Contemporaneamente un altro mutamento radicale di rotta si verifica nel problema della Sarre. Il Partito Comunista, che aveva precedentemente lottato con la parola della «Sarre rossa nel seno della Germania Sovietista», preconizza, in occasione del plebiscito, lo status quo e cioè il mantenimento del controllo francese su questa regione.

Laval, il ministro degli esteri del Gabinetto Flandin, concepisce il piano dell’isolamento della Germania. Egli non ha potuto rivendicare questo titolo nazionalista in occasione del suo processo dove è stato condannato a morte: ma è certo che egli, mille volte di più e meglio dei suoi compari nazionalisti e sciovinisti della Resistenza francese, ha tentato la realizzazione della difesa della «patria francese» contro Hitler. Se la Francia è definitivamente degradata al ruolo di una potenza vassalla e di secondo ordine, questo dipende dai caratteri dell’evoluzione internazionale attuale, mentre tutto il baccano fatto intorno alla difesa della «terra della libertà e della rivoluzione» non poteva avere che un solo obiettivo pienamente raggiunto d’altronde: quello di massacrare il proletariato francese ed internazionale. La Terza Repubblica democratica francese, sorta sotto il battesimo dell’alleanza con Bismarck e dello sterminio dei 60 000 comunardi a Père-Lachaise, trova il suo degno e macabro epilogo nel Fronte Popolare solidamente assiso sul trinomio radicalsocialisti-socialisti-comunisti.

I punti essenziali della manovra di Laval per isolare la Germania sono:
1) L’incontro con Mussolini a Roma il 7 gennaio 1935.
2) L’incontro con Stalin a Mosca il 1° maggio 1935.

Nel primo si cerca di risolvere per via di compromesso, che doveva essere accettato poi dal ministro inglese Hoare, le rivendicazioni italiane in Abissinia.

Nel secondo il gesto di Poincaré, che doveva condurre all’alleanza franco-russa nella guerra del l9l4–17, sarà rinnovato, ed in occasione del nuovo patto franco-russo Stalin dichiara che si rende perfettamente conto della necessità della politica degli armamenti per la difesa della Francia.

Il 14 luglio 1935, alla manifestazione della Bastiglia per onorare la nascita della repubblica borghese, i capi comunisti, accanto a Daladier ed ai capi socialisti, portano una sciarpa tricolore; la bandiera rossa è accomunata al tricolore, mentre contro il «pericolo fascista» sono evocati Giovanna D’Arco e Victor Hugo, Jules Guesde e Vaillant e si giunge fino a riparlare del «sole di Austerlitz» delle vittime napoleoniche. Abbiamo già detto perché tutta questa sbornia sciovinista era inconcludente e senza portata giacché la Francia doveva, come l’Italia, la Spagna e tutte le altre ex-potenze al di fuori degli attuali Tre Grandi, scendere al ruolo di una concessione che è occupata ora dagli uni, ora dagli altri; soggiungiamo ora che quando la guerra scoppiò nel settembre 1939 tra la Francia e la Germania, il patto del Maggio 1935 non fu applicato dalla Russia.

Ma tutte queste sono questioni secondarie di fronte all’essenziale che è la lotta fra le classi su scala nazionale ed internazionale. E su questo fronte classista, la Manifestazione della Bastiglia, i suoi precedenti e gli avvenimenti che ne risultarono ebbero un’importanza capitale non solo per il proletariato francese ma per quello spagnolo ed internazionale.

Quando, nel marzo 1935, Mussolini passa all’attacco contro il Negus, tutto è pronto per scatenare una campagna internazionale impostata sull’applicazione delle sanzioni contro «l’Italia fascista». Un’azione simultanea contro Mussolini ed il Negus non doveva essere nemmeno considerata dai partiti socialista e comunista. Entrambi partono in lizza in difesa del regime schiavista del Negus: il che è, nel contempo, una magnifica difesa dello stesso regime fascista di Mussolini. In effetti, questi non poteva trovare migliore alimento alla formazione di quell’atmosfera di unità nazionale favorevole alla sua campagna di Abissinia che nell’applicazione di sanzioni d’altronde volutamente innocue.

Léon Blum propone alla Società delle Nazioni, supremo baluardo «della pace e del socialismo», l’arbitraggio del conflitto e vuole incaricarne Litvinov che, in quel momento, è Presidente in esercizio; dopo che il tentativo di compromesso Laval-Hoare fallisce, la Società delle Nazioni si schiera, nella sua stragrande maggioranza, contro Mussolini. Inutile dire che l’«emigrazione» italiana si allinea a questa azione in difesa del Negus e dell’imperialismo inglese: al Congresso di Bruxelles del Settembre 1935 è votata una mozione i cui termini sciatti e servili mostrano fino a qual punto – ad un anno di distanza dalla guerra di Spagna e a quattro dalla guerra mondiale – si era già arrivati nel saldare le masse al carro borghese. Eccone il testo:
«Al Signor Benes, Presidente della S.d.N.
Il Congresso degli italiani che, nelle circostanze attuali, ha dovuto riunirsi all’estero per proclamare il suo attaccamento alla pace e alla libertà, raggruppando in una comune volontà di lotta contro la guerra centinaia di delegati delle masse popolari d’Italia e dell’emigrazione italiana, dai cattolici ai liberali, dai repubblicani ai socialisti ed ai comunisti, constata con la più grande soddisfazione che il Consiglio della S.d.N. ha nettamente separato, per la condanna dell’aggressore, le responsabilità del governo fascista da quelle del popolo italiano; afferma che la guerra d’Africa è la guerra del fascismo e non quella dell’Italia, che essa è stata scatenata contro l’Europa e l’Etiopia senza alcuna consultazione del paese e in violazione non solo degli impegni solenni presi nei confronti della S.d.N. e dell’Abissinia, ma in violazione anche dei sentimenti e dei veri interessi del popolo italiano; sicuro d’interpretare il pensiero autentico del popolo italiano il Congresso dichiara che è nel dovere della S.d.N., nell’interesse tanto dell’Italia che dell’Europa di ergere una diga infrangibile alla guerra e si impegna a sostenere le misure che saranno prese dalla S.d.N. e dalle organizzazioni operaie per imporre l’arresto immediato delle ostilità«
.

Il Comintern disciplinato alle decisioni della S.d.N. ecco un risultato di cui Mussolini aveva tutte le ragioni di gloriarsi.

Frattanto si prepara l’atmosfera che doveva condurre alla dispersione dei formidabili scioperi di Francia, del Belgio ed alla caduta nella guerra imperialista e antifascista del poderoso sussulto dei proletari spagnoli nel luglio 1936.

Sul finire del 1935 il Parlamento francese, in una seduta qualificata «storica» da Blum, è unanime nella constatazione della sconfitta del fascismo e della «riconciliazione» dei francesi. Nello stesso tempo gli scioperi di Brest e di Toulon sono attribuiti, dallo stesso fronte unico dei «riconciliati», all’azione di «provocatori»; e nel Gennaio 1936 Sarraut – lo stesso che nel 1927 aveva proclamato «il comunismo, ecco il nemico» – beneficerà del fatto che, per la prima volta, il gruppo parlamentare comunista si astiene dal voto sulla dichiarazione ministeriale. L’attentato contro Blum del Marzo 1936 spinge il Partito Comunista a lanciare la formula della lotta «contro gli hitleriani di Francia», formula che gli sarà poi rinfacciata, dopo la firma del trattato russo-tedesco dell’agosto 1939.

Il 7 Marzo 1936 Hitler denuncia il Trattato di Locarno e rimilitarizza la Renania. Per contraccolpo, alla Camera francese, la foga sciovinista è altrettanto clamorosa per quanto innocua nei suoi riflessi internazionali.

Gli avvenimenti impongono al capitalismo francese di utilizzare la reazione al fatto compiuto di Hitler solamente nel campo della politica interna ed il Partito Comunista eccelle in questa azione: rievocando l’epoca in cui i legittimisti francesi fuggivano dalla Francia durante la rivoluzione, esso parla degli «emigrati di Coblentz, di Valmy», rievoca ancora «il sole di Austerlitz di Napoleone» e va fino a servirsi delle parole di Goethe e Nietzsche sulla «Germania ancora sommersa nello stato di barbarie», senza esitare a falsificare lo stesso Marx la cui frase «il gallo francese portatore della rivoluzione in Germania» è trasferita dal campo sociale e di classe del proletariato francese a quello nazionale e nazionalista della Francia e della sua borghesia.

La diplomazia russa rafforza la posizione patriottarda del Partito Comunista francese nello stesso tempo in cui resta però prudentissima – come d’altronde anche l’Inghilterra – quanto alla replica da dare al colpo di Hitler. Litvinov si limita a dichiarare che
«l’U.R.S.S. si assocerebbe alle misure più efficaci contro la violazione degli impegni internazionali» ed a spiegare che «quest’atteggiamento dell’Unione Sovietica è determinato dalla politica generale di lotta per la pace, per l’organizzazione collettiva della sicurezza e del mantenimento di uno degli strumenti della pace: la S.d.N.».
Molotov è ancora più prudente, e, in un’intervista al «Temps», dice:
«Noi conosciamo il desiderio della Francia di mantenere la pace. Se il governo tedesco giungesse anch’esso a testimoniare il suo desiderio di pace e di rispetto dei Trattati, particolarmente in ciò che concerne la S.d.N., noi considereremmo che, su questa base della difesa degli interessi della pace, un riavvicinamento franco-tedesco sarebbe augurabile».

I capi del Partito Comunista Francese ragionavano in questo modo: la Russia è in pericolo; per salvarla blocchiamo con il nostro capitalismo.

E con il consueto spudorato spirito demagogico non esitavano a suffragare questa teoria col richiamarsi all’azione di Lenin; proprio di Lenin che nel 1918 per salvare la Russia dall’attacco di tutte le potenze capitalistiche spingeva i proletari di ogni paese contro il capitalismo del paese rispettivo ed in un attacco rivoluzionario volto alla sua distruzione. L’opposizione fra le due posizioni è altrettanto violenta per quanto lo è quella che esiste fra rivoluzione e contro-rivoluzione.

È in quest’atmosfera di unione nazionale, di riconciliazione di tutti i francesi, di lotta contro gli «hitleriani di Francia» che matura l’ondata di scioperi che comincia l’11 maggio al porto di Le Havre e nelle officine d’aviazione di Tolosa. La vittoria di questi due primi movimenti si incrocia con l’immediata estensione dello sciopero alla regione parigina, a Courbevoie ed a Renault (32 000 operai), il 14 Maggio, a tutta la metallurgia parigina il 29 ed il 30. Le rivendicazioni sono: l’aumento dei salari, il pagamento dei giorni di sciopero, vacanze operaie, contratto collettivo. Gli scioperi durano, si estendono al Nord minerario dapprima ed a tutto il paese in seguito, e prendono un aspetto nuovo: gli operai occupano le officine malgrado l’appello della Confederazione del Lavoro, dei Partiti Socialista e Comunista. Si legge in un appello:
«risolute a mantenere il movimento nel quadro della disciplina e della tranquillità, le organizzazioni sindacali si dichiarano pronte a mettere un termine al conflitto dovunque le giuste rivendicazioni operaie siano soddisfatte».

Ma quale differenza dall’occupazione delle fabbriche in Italia, nel Settembre 1920! A Parigi bandiera rossa e tricolore sventolano assieme e nelle officine non si pensa che a danzare: l’atmosfera non ha nulla di un movimento rivoluzionario Fra lo spirito di unità nazionale che anima gli scioperanti e l’arma estrema dell’occupazione delle officine vi è un contrasto stridente. Tuttavia nessuna possibilità di equivoco: tanto la Confederazione del Lavoro che aveva già riassorbito la C.G.T.U., quanto i Partiti Socialista e Comunista non hanno nessuna iniziativa in questi grandiosi scioperi. Vi si sarebbero opposti se questo fosse stato possibile ed è unicamente il fatto che essi si sono estesi a tutto il paese che impone loro delle dichiarazioni di ipocrita simpatia per gli scioperanti.

Il fatto che il padronato sia arcidisposto ad accettare le rivendicazioni degli operai non determina la fine dei movimenti. Un gran colpo di scena è necessario. Le elezioni di maggio avevano dato una maggioranza ai partiti di sinistra e fra questi al Partito Socialista.

Eccoci così al Fronte Popolare: ben prima del termine fissato dalla procedura parlamentare, il Governo di Blum è formato il 4 Giugno. La Delegazione delle sinistre, l’organo parlamentare del Fronte Popolare, in un o.d.g. «constata che gli operai difendono il loro pane nell’ordine e nella disciplina e vogliono conservare al loro movimento un carattere rivendicativo dal quale non riusciranno a staccarli le ‹Croci di Fuoco› (movimento combattentistico del Colonnello La Rocque – n.d.r.) e gli altri agenti della reazione».
L’«Humanité» dal canto suo pubblica a titoli di scatola che l’«ordine assicurerà il successo» e che
«chi esce dalla legalità sono i padroni, gli agenti di Hitler che non vogliono la riconciliazione dei francesi e spingono gli operai a fare lo sciopero».

Nella notte dal 7 all’8 Giugno è firmato quello che sarà poi chiamato l’«accordo di Matignon» (la residenza del Presidente del Consiglio Blum) ed esso consacra:
a) il contratto collettivo;
b) il riconoscimento del diritto di sindacato;
c) l’istituzione dei delegati sindacali nelle officine;
d) l’aumento dei salari dal 7 al 15 % (che è poi il 35 % essendo stata ridotta la settimana di lavoro da 48 a 40 ore);
e) le vacanze pagate. Quest’accordo sarebbe stato firmato anche prima se in alcune fabbriche quelli che venivano qualificati «reazionari» non avessero proceduto all’arresto di alcuni direttori.

Il 14 Giugno Thorez, il capo del Partito Comunista francese, lancia la formula che lo renderà celebre:
«Bisogna sapere terminare uno sciopero dal momento in cui le rivendicazioni essenziali sono state raggiunte. Bisogna anche addivenire al compromesso al fine di non perdere alcuna forza e soprattutto per non facilitare la campagna di panico della reazione».

Dopo due settimane il capitalismo francese riesce a spegnare questo potente movimento, potente non per il suo significato di classe, ma per la sua estensione, l’importanza delle rivendicazioni professionali, l’ampiezza e il grado dei mezzi impiegati dai lavoratori per conseguire il successo.

Le organizzazioni pseudo-operaie che non avevano avuto nessuna responsabilità nello scatenamento del movimento, sono le stesse che si incaricheranno di mettervi un termine. Il Partito Comunista francese doveva giuocare un ruolo di primo ordine nel soffocamento di ogni possibilità rivoluzionaria che dovesse sorgere ed esso vi riuscì a meraviglia indicando al disprezzo dei lavoratori, e in quanto «hitleriani», i rari operai francesi che cercavano di far convergere l’occupazione delle fabbriche con un’impostazione rivoluzionaria della lotta. Ed in questo unicamente consisteva il problema tattico che il Partito francese doveva risolvere.

Quasi contemporaneamente scoppiano gli scioperi in Belgio. Essi iniziano al Porto d’Anversa e dilagano successivamente in tutto il paese. Il manifesto che lancia immediatamente il Partito Operaio Belga è significativo:
«Operai del porto, nessun suicidio. Vi sono delle persone che vi incitano ad arrestare il lavoro. Perché? Esse esigono un aumento di salario. Noi non diciamo nulla di diverso a questo proposito nel momento in cui l’Unione Belga degli Operai del Trasporto si occupa di discutere la sua politica di aumento dei salari. E noi non ci lasceremo sorprendere da gente senza responsabilità. Non vogliamo conoscere ad Anversa le stesse conseguenze disastrose che si produssero dopo lo sciopero di Dunkerque. Abbiamo un regolamento che deve essere rispettato. Quelli che vi incitano allo sciopero non si preoccupano delle conseguenze. Operai del porto, ascoltate i vostri dirigenti. Noi sappiamo quali sono i vostri desideri. Avanti per l’unione! nessuno sciopero irragionevole. Noi discuteremo ancora oggi con i padroni».
Malgrado un appello analogo della Commissione Sindacale (l’equivalente della Confederazione del Lavoro), il 14 Giugno il Congresso dei Minatori è costretto a subire la situazione e dare l’ordine di sciopero. Il giorno precedente l’organo del Partito Socialista comunicava il suo accordo con le decisioni governative per evitare l’occupazione delle officine.

Il 22 Giugno, nel Gabinetto del Primo Ministro van Zeeland, che presiede una coalizione con la partecipazione dei socialisti, si firma un accordo dove è stabilito:
a) un aumento di salari del 10 %;
b) la settimana di 40 ore per le industrie insalubri;
c) 6 giorni di vacanze annue.

Il Partito Comunista belga mette la scarsa influenza di cui dispone fra le masse a profitto di una tattica analoga a quella seguita dal Partito francese: esso blocca con il Partito Operaio e la Commissione Sindacale che monopolizzano la direzione dei movimenti. Non ha nessuna iniziativa nello scatenarsi degli scioperi e tutta la sua attività consiste nel reclamare l’intervento del Governo in favore degli scioperanti.

Quanto ai risultati, questi furono molto inferiori a quelli ottenuti dai lavoratori francesi. Ma, nei due paesi, questi successi sindacali, d’altronde effimeri, lungi dal significare una ripresa della lotta autonoma e classista del proletariato, favoriscono lo sviluppo della manovra dello Stato capitalista che, grazie all’arbitraggio dei conflitti, riesce a guadagnarsi la fiducia delle masse e di questa fiducia esso si servirà per stringere la rete del suo controllo egemonico su di esse.

La sanzione dell’autorità statale al contratto di lavoro rappresenta non una vittoria ma la disfatta dei lavoratori. In realtà questo contratto non è che un armistizio nella lotta di classe e la sua applicazione dipende dai rapporti di forza fra le due classi. Il solo fatto che sia accettato l’intervento statale inverte radicalmente i termini del problema giacché i lavoratori incaricano così della loro difesa l’istituto fondamentale del dominio capitalista: il posto dei sindacati di classe è ora occupato dal sindacato di collaborazione di classe intrecciantesi con i funzionari del Ministero del Lavoro che controllano l’applicazione della legge.

Gli scioperi francese e belga precedono di un mese appena lo scoppio delle agitazioni sociali in Spagna e l’apertura della guerra imperialista in quel paese. Di questo parleremo nel corso dell’ultimo nostro capitolo.

6. – La guerra di Spagna, premessa alla seconda guerra imperialistica mondiale (1936–1940)

La fase della degenerazione progressiva dello stato sovietico e dei partiti comunisti doveva inevitabilmente concludersi con una partecipazione di prima linea al massacro imperialista, localizzatosi dapprima in Spagna (1936–39), estesosi in seguito al mondo intero (1939–45). Questo processo degenerativo ha inizio, come abbiamo visto, nel 1926 con la costituzione del Comitato anglo-russo, e fu Bucharin ad esprimere chiaramente il sostanziale e radicale cambiamento intervenuto nei termini programmatici della politica dello stato russo e dell’Internazionale.

Tra fronte unico e Comitato anglo-russo la soluzione di continuità è inequivocabile, brutale. Il primo è inquadrato nei termini classici dell’antagonismo capitalismo-proletariato (il proletariato agendo attraverso il partito di classe e lo stato rivoluzionario), e la divergenza fra le opposizioni francese, austriaca, tedesca, ma particolarmente fra la sinistra italiana e la direzione dell’Internazionale resta nei quadri del problema della tattica da seguire per favorire lo sviluppo dell’azione di classe e del Partito. Il secondo, il Comitato anglo-russo, è inquadrato nella formula di Bucharin il quale dichiara che la sua giustificazione si trova nella difesa degli interessi diplomatici dello stato russo. Diplomatici, giacché non si tratta di una battaglia militare limitata ad avvenimenti determinati, ma di tutto un processo politico. L’impostazione programmatica non è più nel quadro «capitalismo-proletariato», ma nel quadro «stato capitalista-stato sovietico» Questa nuova contrapposizione non è evidentemente, né poteva essere, una semplice modificazione di formulazioni che esprimano tuttavia una sostanza analoga alla precedente. I criteri stessi della definizione dello stato capitalista e dello stato proletario non sono più quelli marxisti, ma gli altri, positivisti e razionalisti, imposti dall’evolvere della situazione.

Precedentemente le nozioni di classe e di stato capitalista erano unitarie, sintetiche e discendevano dall’analisi dei rapporti di produzione. A partire dal 1926 il Comintern procede ad una dissociazione della nozione della classe ed il problema non consiste più in un azione tendente alla distruzione dello stato che ne impersona il dominio, ma in un’azione tendente ad appoggiare od a scalzare una determinata forza capitalista (qualificata capitalismo per antonomasia). E quale forza capitalista? Quella che entra in conflitto con gli interessi «diplomatici» dello stato sovietico nel momento particolare dell’evoluzione internazionale.

All’epoca del Comitato anglo-russo i contorni di questa politica radicalmente opposta alla precedente non sono ancora bene definiti, ma il problema è già chiaro: abbiamo una divergenza fra la difesa degli interessi del proletariato inglese, impegnato in una grande battaglia di classe, e gli interessi dello stato russo che punta sull’Inghilterra per rafforzare le sue deboli posizioni nell’evoluzione antagonica degli stati sul campo internazionale. Se l’avallo dato ai tradunionisti, presentati ai proletari inglesi come i capi del loro sciopero ed i difensori dei loro interessi, si risolve poi in un risultato opposto a quello previsto, giacché il Governo inglese passa alla lotta contro il Governo russo, ciò non modifica in nulla l’alterazione fondamentale intervenuta nella politica del Comintern e che si precisa nel periodo del «social-fascismo» quando si passa alla lotta contro la socialdemocrazia come forza a sé stante. Non si muove più dagli obiettivi di classe del proletariato tedesco per dedurne una tattica di lotta simultanea contro socialdemocrazia e fascismo, ma poiché la prima è elevata al rango di nemico numero uno, si scivola in una posizione di fiancheggiamento della manovra di Hitler per il legalitario smantellamento delle posizioni detenute nello stato capitalista tedesco da democratici e socialdemocratici. In questo caso i benefici «diplomatici» non mancarono allo stato russo e la crudele disfatta del proletariato tedesco si accompagnò con un netto miglioramento dei rapporti economici fra Russia e Germania.

Dopo il social-fascismo, il Fronte Popolare e la guerra di Spagna prima, la guerra mondiale in seguito. Il processo di inversione subito dai partiti comunisti e dallo stato sovietico va ancora oltre i limiti raggiunti con la tattica del social-fascismo, giacché si tratta ora di ricollegare i lavoratori con l’apparato dello stato capitalista, pacificamente in Francia, con le armi in Spagna prima, in tutti i paesi poi.

La nuova politica si presenta non sotto l’aspetto coerente di lotta contro la forza politica capitalista, espressione della classe borghese nel suo insieme, ma sulla linea contraddittoria che solleva, volta a volta, al rango di nemico numero uno la socialdemocrazia od il fascismo, secondo le necessità dell’evoluzione dello stato sovietico nelle determinate situazioni internazionali.

Modificazione dapprima, falsificazione ed inversione in seguito, non si limitano alla caratterizzazione della classe capitalista ma investono anche quella dello stato proletario nel nuovo binomio, cui abbiamo accennato, di stato capitalista-stato proletario, e che, a partire dal 1926, sostituisce quello di capitalismo-proletariato. Lo stato proletario non è più quello che identifica la sua sorte con quella del proletariato mondiale, ma quello in cui si personifica la difesa dei lavoratori di tutti i paesi. Fino al 1939 i proletari di ogni paese vedono i loro interessi accomunarsi con i successi diplomatici dello stato russo, dal 1939 al 1945 i proletari dànno la loro vita per i successi militari di questo stato. Quanto alla situazione dei proletari russi essa è altrettanto tragica: prima l’intensivo sfruttamento in nome del socialismo, poi il loro massacro sotto la stessa bandiera. In definitiva quindi il bilancio degli avvenimenti di cui abbiamo trattato deve sollevarsi ad un piano ben più alto di quello limitato alla tattica dei partiti comunisti, e deve vertere non sull’aspetto formale ed organizzativo dei rapporti fra stato proletario e partito di classe, ma sul tipo concreto di questi rapporti che la storia ha presentato, per la prima volta, con la vittoria dell’ottobre 1917 in Russia. Stato proletario e partito di classe sono strumenti convergenti della lotta del proletariato rivoluzionario ed è da respingere come reazionaria l’ipotesi della loro separazione. Solamente è necessario trarre dalla formidabile esperienza russa gli insegnamenti per stabilire la loro organica convergenza in vista della futura rivoluzione. Questo è il problema centrale cui pensiamo dovrà dedicarsi la nostra rivista prendendo le mosse dalla politica seguita dallo stato russo anche nel periodo eroico, quando Lenin si trovava al suo timone, giacché la nostra illuminata ammirazione per il grande rivoluzionario non ci impedisce di affermare categoricamente che la sorgente della degenerazione ed inversione della rivoluzione russa si trova nell’insufficiente soluzione data al problema dei rapporti organici fra stato rivoluzionario e partito di classe in altri termini al problema della politica dello stato proletario su scala nazionale ed internazionale, insufficienza legata a sua volta in modo ineluttabile al fatto che la questione sorgeva per la prima volta nell’ottobre 1917.

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Per comprendere gli avvenimenti spagnoli occorre rifarsi innanzi tutto all’elemento fondamentale della concezione marxista, al punto vitale di quella che i francesi chiamano «démarche» del pensiero. Sceverare l’essenziale dall’accessorio.

È forse perché nel campo repubblicano ed antifascista si ciancia di socialismo perché centinaia di migliaia di proletari impugnano le armi in nome del socialismo, che si può affermare la esistenza delle condizioni reali per questa lotta? Nella nostra premessa abbiamo indicato che la lotta fra le classi fondamentali, fra il capitalismo ed il proletariato, si svolge, a partire dall’ottobre 1917, su un piano più elevato del precedente ed impone al proletariato di impiegare il suo stato rivoluzionario: questo è portato ad accentrare sul fronte proletario i movimenti sociali che si svolgono anche al di fuori delle sue frontiere geografiche; ma nella fase della sua degenerazione può procedere ad un analogo accentramento solo grazie ad una radicale modificazione che lo riporti alla sua posizione originaria. In caso contrario essa diventa il polo della politica della controrivoluzione, come avvenne prima nella zona antifascista della Spagna, poi nei paesi democratici quando sorse il movimento dei partigiani nel corso della seconda guerra imperialista.

Il ruolo essenziale nel settore antifascista della Spagna è stato giocato dallo stato russo, non dal quasi inesistente partito comunista spagnolo.

La nostra analisi degli avvenimenti dimostrerà che unicamente sul fatto centrale imposto dagli avvenimenti – la guerra – era possibile procedere alla discriminazione di classe e determinare in conseguenza la posizione del proletariato rivoluzionario, mentre questa discriminazione era impossibile sul fronte dei fenomeni accessori, quali quelli della eliminazione del padrone dalle fabbriche, dei partiti classici della borghesia dal governo e persino, nei giorni del più acceso tumulto sociale, dell’eliminazione dello stesso governo.

Se noi presentiamo succintamente il film degli avvenimenti spagnoli, con questo non intendiamo ammettere l’ipotesi che una diversa tattica del Partito Comunista o di qualsiasi altra formazione politica avrebbe potuto determinare un differente sbocco delle situazioni, ma lo facciamo unicamente per dimostrare in primo luogo che tutte le «iniziative operaie» erano in definitiva la sola forma attraverso la quale poteva sussistere – in quelle determinate circostanze – la classe capitalista (ed essa sussisteva politicamente e storicamente anche se fisicamente assente nelle fabbriche od abilmente dissimulata nel governo antifascista, perché raggiungeva il suo obiettivo fondamentale di impedire l’affermazione della classe proletaria sul problema della guerra e dello stato), in secondo luogo per mettere in evidenza gli elementi di un’evoluzione che – sia pure in forme meno accentuate – si è estesa negli altri paesi dopo la guerra mondiale e che si è espressa nella liquidazione del padronato dalle industrie nazionalizzate, provvisoriamente o definitivamente.

Il fatto che la sinistra italiana sia la sola corrente restata superstite dopo la crudele ecatombe che, dopo la prova generale della Spagna nel 1936–39, si estese poi al mondo intero nel 1939–45 non è dovuto a circostanze fortuite. Partiti socialisti e comunisti non potevano che esercitare un ruolo ferocemente controrivoluzionario man mano che le situazioni giungevano al punto termine della loro evoluzione. Ma la Spagna ha anche rappresentato la tomba del trotzkismo e delle variopinte scuole dell’anarchismo e del sindacalismo.

Trotzky, il gigante del «manovrismo», aveva dato perfino una giustificazione teorica della possibilità per il proletariato di incunearsi nell’antagonismo democrazia-fascismo, affermando che dall’inettitudine storica della democrazia a difendersi dal fascismo e dalla necessità sempre storica di opporsi ad esso, poteva nascere la condizione per un intervento del proletariato, sola classe capace di portare alla sua conclusione rivoluzionaria la lotta antifascista. Era perciò inevitabile che Trotzky prendesse un posto di prima linea nella difesa e nell’incremento delle «realizzazioni rivoluzionarie», ottenute nelle fabbriche e nei campi o nell’organizzazione dell’esercito combattente.

Gli anarchici, dal canto loro, se nei primi giorni poterono evitare di compromettere la loro «purezza antistatale», dovevano trovare in questi avvenimenti la terra di elezione per i loro esperimenti di «comuni liberi», di «cooperative libere», di «esercito libero». Tutte queste «libertà» si concludevano nell’altra «libertà», la fondamentale: quella di fare la guerra antifascista.

La fondazione del Partito in Italia si accompagno con una chiara presa di posizione non solamente sui problemi fondamentali dell’epoca, ma anche su quello che sorgeva come riflesso dello sviluppo dell’offensiva fascista: il dilemma democrazia-fascismo – disse il Partito – cade nei quadri della classe borghese e l’opposizione della classe proletaria non può svilupparsi che in funzione dei suoi obiettivi specifici. La lotta per questi obiettivi, anche nel momento dell’attacco legalitario od extra-legalitario del fascismo, impone la simultaneità della lotta contro la democrazia e contro il fascismo. La ferma posizione della nostra corrente fu confermata da tutto lo sviluppo degli avvenimenti spagnoli i quali videro nella lunga ed estenuante guerra di circa tre anni l’opposizione di due eserciti inquadrati nei rispettivi apparati statali entrambi capitalisti: quello di Franco appoggiantesi sulla struttura classica dello stato borghese, l’altro madrileno e catalano le cui ardite iniziative periferiche nel campo economico e sociale non potevano che incastrarsi in un’evoluzione contro-rivoluzionaria perché in nessun momento era stato posto il problema della creazione di una dittatura rivoluzionaria. Non poche furono le occasioni presentate dagli avvenimenti spagnoli per smentire le posizioni difese da Trotzky: dalle stesse battaglie militari vinte dal Governo antifascista risultava infatti non una situazione favorevole all’affermazione autonoma del proletariato ma una condizione per rafforzare il suo legame allo stato capitalista antifascista, giacché solo dalla efficienza di questo poteva esser garantito il successo contro Franco; argomento inconfutabile, dal momento che si ammette la partecipazione alla guerra.

La conferma della posizione marxista contro tutte le scuole anarchiche e sindacaliste non poteva essere più luminosa. In effetti, soprattutto nel primo periodo degli avvenimenti successivi allo stabilimento dei fronti militari, dall’agosto 1936 al maggio 1937, le condizioni erano le più favorevoli alla realizzazione dei postulati anarchici. Di fronte al disfacimento dell’apparato statale, particolarmente in Catalogna, alla fuga ed all’eliminazione dei padroni, tutte le iniziative spontanee ebbero libero corso. E gli anarchici erano in grande maggioranza alla testa dell’esercito, dei sindacati, delle cooperative agricole ed industriali, della stessa rete statale embrionale di Barcellona. Il fallimento non può quindi essere imputato ad un’incompiutezza delle condizioni obiettive, mentre il pretesto sempre invocato per giustificare l’insuccesso, e cioè l’appoggio dato a Franco da Mussolini ed Hitler, non può essere invocato dagli anarchici, giacché essi chiedevano, in replica all’intervento fascista in Spagna, non una lotta del proletariato degli altri paesi contro i loro rispettivi governi democratici, ma una pressione di questi proletariati per determinare l’intervento armato dei governi capitalisti in favore della Spagna repubblicana od almeno l’invio di armi per il successo della guerra antifascista.

Come abbiamo detto, la discriminazione di classe non poteva farsi che in funzione del problema centrale: quello della guerra. Questo fece la nostra corrente e quando, nell’agosto 1936, ad una riunione del Comitato Centrale del P.O.U.M. (Partito Operalo di Unificazione Marxista) – partito dell’estrema sinistra di Catalogna – il nostro delegato, che era presente in qualità di osservatore, espresse la sua opinione che si dovesse propagare non l’idea del massacro dei lavoratori irregimentati da Franco, ma l’opposta idea della fraternizzazione, i dirigenti di quest’organismo «marxista» affermarono categoricamente che simile propaganda meritava la pena di morte.

Come qualificare imperialista la guerra antifascista di Spagna, quando per sovrappiù era non solamente impossibile, ma inconcepibile determinare gli interessi imperialistici in antagonismo poiché si trattava di due eserciti dello stesso paese? È indiscutibile che gli avvenimenti spagnoli ponevano, per quanto concerne la caratterizzazione della guerra che vi si sviluppava, un problema inedito ai marxisti. Ma se precedenti storici calzanti non potevano essere trovati, il metodo di analisi marxista permetteva tuttavia di affermare che, per quanto fosse vero che contrastanti interessi specifici ed imperialistici non potevano essere individuati nel duello Franco-Frente Popular, il carattere imperialista sia della guerra di Franco, sia di quella del Frente Popular risultava in modo indiscutibile dal fatto che né l’una né l’altra si appoggiava sull’organizzazione dittatoriale e rivoluzionaria dello stato proletario. La cosa era analoga per quanto concerne la Catalogna dell’autunno 1936: il deperimento dello stato catalano precedente, non essendo superato dall’istituzione dello stato proletario, non poteva che conoscere una fase (d’altronde transitoria) nel corso della quale la persistenza della classe borghese al potere si affermava non fisicamente e direttamente, ma grazie all’inesistenza di una lotta proletaria diretta alla fondazione dello stato proletario.

Nei due casi, della caratterizzazione della guerra e dello stato catalano, la natura imperialista della prima, capitalista del secondo non risulta dagli elementi esteriori (la posta della guerra, l’apparato di costrizione dello stato), ma dagli elementi sostanziali che si condensano nell’inesistenza dell’affermazione della classe proletaria, la quale in Spagna non è in grado – nemmeno attraverso una sua sparuta minoranza – di porre il problema del potere. Si è già detto che il proletariato deriva dalla negazione della negazione del capitalismo, da una negazione che contiene cioè implicitamente l’affermazione dell’opposto.

Il Frente Popular resta allo stato di semplice negazione di Franco ed occorreva impostare la negazione dello stesso Frente Popular perché potesse affermarsi la classe proletaria. Questo processo di negazioni non si imposta evidentemente sul piano formale e formalista, razionale e razionalista, ma risulta dialetticamente dalla precisazione teorica e politica della classe proletaria. Solo la fissazione degli obiettivi di questa classe pone il corso della lotta rivoluzionaria contro lo stato di Franco, contro quello di Barcellona e Madrid e contro il capitalismo mondiale. È d’altronde su questo piano che si situa lo sciopero generale scoppiato in replica all’attacco di Franco.

Passiamo ora ad una succinta esposizione dei fatti più importanti.

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A differenza degli altri paesi la Spagna non conosce la rivoluzione borghese. L’organizzazione feudale della società spagnola si annette importantissimi territori d’oltre mare fornendo così la possibilità al clero ed alla nobiltà di accumulare ricchezze enormi. Il modo capitalista di produzione che si stabilisce nei centri minerari ed industriali del paese non determina la caduta delle caste feudali dominanti ma – contrariamente alla Russia dove lo stato czarista e la borghesia non si confondono e restano distinti anche se non in opposizione – nella Spagna tali caste e lo stato si adattano alle esigenze dell’economia industrializzata, localizzata solamente in alcuni centri. Quando poi, sulla fine del secolo scorso, scocca l’ora dell’avviamento verso l’industrializzazione delle vecchie colonie spagnole, i legami si spezzano e l’impero si sfascia.

D’altra parte, a differenza dell’Inghilterra, la Spagna non procede ad una intensa industrializzazione del paese in connessione con le possibilità offerte dal possesso delle colonie sicché, quando in Europa abbiamo la formazione dei possenti stati capitalisti, la borghesia spagnola è privata di ogni possibilità di affermazione nel campo delle competizioni internazionali.

Nobiltà e clero non solo restano i detentori delle proprietà terriere ma diventano anche proprietari di compagnie minerarie, di banche e di imprese industriali e commerciali, mentre i settori a più alto sviluppo industriale, la Catalogna e le Asturie, passano in gran parte sotto il controllo del capitale estero prevalentemente inglese.

Questi precedenti storici determinano un congegno particolare della società borghese spagnola in cui lo sviluppo dell’industrializzazione è arrestato dalla persistenza dei legami feudali. Il movimento operaio, in cui tanto all’epoca della Prima Internazionale, quanto ai nostri giorni, predominano gli anarchici, ne risente al punto che fino ad oggi non si sono presentate le condizioni per la costituzione di un partito fondato sulle concezioni marxiste. I sussulti sociali che vi si sono verificati trovano nelle dette condizioni obiettive la premessa per attingere un alto clima di lotta, ma l’impossibilità di una radicale modificazione dell’arcaica struttura sociale della borghesia condanna il proletariato a rimanere al di qua di un’affermazione specifica della sua classe. Marx già nel 1845 notava che una rivoluzione che richiedesse tre giorni in un altro paese d’Europa, domanderebbe nove anni in Spagna. Trotzky dal canto suo spiegava l’intervento dell’esercito nel campo sociale come risultante dal fatto che esso – al pari del clero e della nobiltà – tendeva a conquistare, senza mai, d’altronde, potervi giungere, una posizione di predominio sociale a lato delle altre due caste esistenti. In una parola dunque l’inesistenza delle condizioni storiche per la lotta borghesia-feudalesimo determina l’inesistenza storica delle condizioni per una lotta autonoma e specifica della classe proletaria ed esclude l’ipotesi che la Spagna possa giocare il ruolo di epicentro degli sconvolgimenti rivoluzionari internazionali.

Nel 1923, in relazione ai disastri della campagna del Marocco, Primo de Rivera prende il potere ed il regime che egli instaura è erroneamente qualificato fascista. Nessuna minaccia rivoluzionaria giustificava l’istituzione di una dittatura a tipo fascista e, in effetti, l’inquadramento corporativista comporta la partecipazione dei socialisti agli organi consultivi, alle Commissioni paritarie istituite per il regolamento dei conflitti di lavoro, e Largo Caballero, segretario dell’Unione Generale dei Lavoratori sotto controllo socialista, è persino nominato Consigliere di Stato. Sotto de Rivera la borghesia spagnola cerca invano di procedere ad una riorganizzazione dello stato su basi centralizzate del tipo degli altri stati borghesi. Questo tentativo fallisce e, nel folto della grande crisi economica mondiale scoppiata nel 1929, il capitalismo si trova a dovere fronteggiare una situazione sociale difficile e complessa. Lo stato del tipo de Rivera non conviene più giacché la situazione non consente la soluzione arbitrale dei conflitti del lavoro, e possenti movimenti di massa sono inevitabili. La conversione che allora si opera e che risponde agli interessi di dominio del capitalismo, è giudicata da tutte le formazioni politiche, ad eccezione della nostra, come l’avvento di un nuovo regime imposto dalla maturazione rivoluzionaria delle masse.

Nel gennaio 1930 de Rivera è liquidato. Un altro generale, Berenguer, ne prende il posto per assicurare il trapasso verso il nuovo governo. A S. Sebastiano, nell’agosto del 1930, è concluso il patto fra i successori e, dopo le elezioni municipali che danno la maggioranza ai repubblicani in 46 capoluoghi su 50, quando si presenta la prima minaccia di un movimento operaio (lo sciopero dei ferrovieri), nel febbraio 1931, il monarchico Guerra prende l’iniziativa di organizzare la partenza del re Alfonso XII.

È, come abbiamo detto, un periodo di intensi conflitti sociali che si apre. Questi conflitti sono inevitabili a causa dell’estrema debolezza della borghesia spagnola allo scoppio della crisi economica mondiale. Ma la borghesia, incapace di evitare questi conflitti, dimostra una grande sagacia nell’impedirne gli sviluppi rivoluzionari. La proclamazione della repubblica non è sufficiente ad evitare l’immediato scoppio dello sciopero telefonico in Andalusia, a Barcellona, a Valenza. Il movimento dei contadini di Siviglia prende forme violente: il governo di sinistra massacra trenta contadini ed il reazionario Maura, ministro degli Interni, felicita i socialisti per il contegno assunto in difesa dell’ordine e della repubblica. Accanto all’U.G.T. (l’organizzazione sindacale controllata dai socialisti), la C.N.T. (Confederazione Nazionale Lavoratori controllata in forma monopolistica dagli anarchici) circoscrive nel campo strettamente salariale e rivendicativo questi movimenti i quali non avrebbero potuto trovare uno sbocco che sul piano politico della lotta contro lo stato repubblicano.

Nel giugno 1931 le elezioni danno una stragrande maggioranza ai partiti di sinistra e Zamora cede li posto ad Azaña, il quale esclude la destra dal governo. Parallelamente ad un aggravarsi della tensione sociale si ha da una parte lo spostamento sempre più a sinistra del Governo, dall’altra l’accentuarsi della repressione dei movimenti. Il 20 ottobre 1931 il Ministero Azaña-Caballero sentenzia che la giovane repubblica è in pericolo e fa votare la legge di difesa che, nel capitolo consacrato all’arbitraggio obbligatorio, contiene la messa fuori legge di quei sindacati che non diano due giorni di preavviso prima di proclamare lo sciopero. La U.G.T., che è al governo, prende posizione aperta contro gli scioperi «anti-repubblicani», la C.N.T. mantiene il suo agnosticismo di fronte all’azione violenta e terrorista del Governo di sinistra e i due giorni di cui parla la legge non bastano ai dirigenti sindacali per evitare lo scoppio dei moti di rivolta. La C.N.T. riesce però a mantenere sotto il suo controllo tutti gli scioperi e si limita a non assumere la paternità di quelli che escono dai quadri della legalità repubblicana.

Dopo che, all’inizio del 1932, il governo a partecipazione socialista ottiene alle Cortès la unanime fiducia per il modo come combatte gli scioperi, si assiste nell’agosto 1932 al primo raggrupparsi delle forze di destra. Ma il momento non è ancora propizio, l’atmosfera è ancora troppo carica di esplosivi sociali e il colpo di mano di Sanjurjo per impadronirsi del potere fallisce.

Nel settembre 1932 è infine votata la riforma agraria. Le condizioni fatte ai contadini che diventano «proprietari» sono tali che essi dovranno attendere 17 secoli prima di liberarsi dagli impegni contenuti nell’atto di acquisto. Nel gennaio 1933 l’azione repressiva del governo raggiunge l’apice: gli operai scioperanti sono massacrati a Malaga, Bilbao, Saragozza. Dopo queste imprese, e quando una certa stanchezza si manifesta fra le masse, si presentano le condizioni per un nuovo cambio del personale di governo: l’8 settembre 1933 Azaña dà le dimissioni, le nuove elezioni del 19 novembre 1933 danno la maggioranza ai partiti di destra, e si forma il governo Lerroux-Gil Roblès sotto influenza dei ceti agrari. Quando, nell’ottobre 1934, scoppia l’insurrezione delle Asturie, il governo di destra non fa che seguire le orme dei predecessori di sinistra e il movimento è soffocato nel sangue. I socialisti avevano declinato ogni responsabilità per questa forma «selvaggia» di lotta e gli stessi anarchici avevano ordinato la ripresa del lavoro

Nel corso della pausa di tensione sociale (tragicamente interrotta dall’insurrezione delle Asturie) che va dal settembre 1934 al febbraio 1936 sono i governi di destra al timone dello stato borghese e la repressione si esercita soprattutto sul piano legalitario: al momento delle elezioni del 16 febbraio 1936, 30 000 sono i prigionieri politici.

In connessione con l’atmosfera internazionale che conoscerà ben presto i grandiosi movimenti di Francia e del Belgio, si apre in Spagna un periodo di tensione sociale ancor più alta di quella del 1931–33, e di conseguenza la borghesia spagnola richiama al potere i suoi servi di sinistra. In questo clima sociale più arroventato, gli stessi anarchici si allineano alle necessità della nuova situazione: i feroci astensionisti di ieri, in un comizio a Saragozza, dopo aver solennemente riaffermato l’apoliticità della C.N.T., lasciano liberi di votare i loro membri mentre il Comitato regionale di Barcellona, due giorni prima delle elezioni, fa aperta propaganda a favore delle liste del Frente Popular sotto il pretesto che propugna l’amnistia.

Le elezioni del 16 febbraio 1936 segnano un successo schiacciante per il Frente Popular che ottiene la maggioranza assoluta alle Cortès. Esso è composto della sinistra repubblicana di Azaña, dei radicali dissidenti di Martínez Barrios, del Partito Socialista, del Partito Comunista, del Partito sindacalista, di Pestaña e del Partito di unificazione marxista (il Poum, risultante dalla fusione del vecchio blocco «operaio e contadino» di Barcellona diretto da Maurin, che aveva sempre occupato una posizione di destra nell’Internazionale, e della tendenza trotzkista diretta in quel momento da Andrés Nin). Il programma elettorale contiene: amnistia generale, abrogazione delle leggi regressive, diminuzione delle imposte, politica di crediti agrari.

Dopo le elezioni si forma il governo di Azaña con soli rappresentanti della sinistra. Ma nella indicata situazione di aggravamento della tensione sociale, la borghesia non può limitarsi alla concentrazione in un solo governo; le altre sue forze restano in attesa e già nell’aprile del 1936, in occasione della commemorazione della fondazione della Repubblica, i partiti di destra organizzano una contro-manifestazione che viene qualificata di «rivolta». Alla seduta delle Cortès, Azaña dichiara:
«il governo ha preso una serie di misure, ha allontanato o trasferito i fascisti che si trovavano nell’amministrazione. Le destre sono prese dal panico, ma non oseranno più rialzare la testa».
Si è a meno di tre mesi dall’«insurrezione del fazioso Franco»: il Partito Comunista, entusiasta delle dichiarazioni di Azaña, vota la fiducia al Governo.

Nei primi giorni del luglio 1936, è assassinato il luogotenente Castillo aderente al Frente Popular e, per rappresaglia, il capo monarchico Sotelo è a sua volta ucciso. Il Frente Popular e tutti i partiti che lo compongono esprimono un sacro sdegno per l’accusa lanciata dalla destra di esserne responsabile, il Presidente del Consiglio Quiroga deve dar le dimissioni perché una frase del suo discorso aveva potuto essere interpretata come di incoraggiamento agli autori dell’assassinio.

Dal Marocco Franco lancia la sua offensiva, i cui obiettivi iniziali sono Siviglia e Burgos: due centri agrari, il primo dei quali, per avere conosciuto le più violente ma inconcludenti sommosse contadine, offre le condizioni migliori per il successo del colpo di mano.

È dunque nel seno stesso di un apparato statale sotto il controllo completo del Frente Popular che può essere minuziosamente organizzata l’impresa di Franco, i cui preparativi non potevano sfuggire agli stessi ministri di sinistra e di estrema sinistra. Di più, la prima reazione di questi partiti è manifestamente conciliante. Il radicale Barrios, che aveva già presieduto nel 1933 alla conversione del governo dalla sinistra alla destra, cerca di ripetere l’operazione in senso inverso e se essa non riesce non è perché il compromesso sia escluso in linea di principio, ma perché l’atmosfera sociale non lo consente.

In risposta all’attacco di Franco si scatena il 16 luglio lo sciopero generale che ha un successo completo soprattutto a Barcellona, Madrid, Valenza, nelle Asturie, mentre i due punti di appoggio di Franco, Siviglia e Burgos, sono saldamente tenuti dai rivoltosi.

Un nostro contraddittore non ha avuto torto di chiederci: ma infine, per voi tutti gli avvenimenti precedenti e successivi allo sciopero generale non contano nulla, mentre lo stesso sciopero generale non sarebbe stato che un’infezione momentanea di morbillo? In realtà, per quanto concerne il movimento proletario, lo sciopero generale non rappresentò che un’esplosione fulminea della coscienza di classe del proletariato spagnolo: solo in quei pochi giorni si assisté non ad una lotta armata fra due eserciti borghesi ma ad una fraternizzazione degli scioperanti coi proletari irregimentati nell’esercito, i quali, facendo causa comune coi proletari insorti, disarmano immobilizzano od eliminano il corpo dirigente dell’esercito stesso.

Immediatamente lo stato democratico e antifascista riprende in mano la situazione: a Madrid la gerarchia si stabilisce attraverso gli «Uffici di arruolamento» controllati dallo stato, a Barcellona in modo meno immediato: Companys (capo della sinistra catalana) dichiara, d’accordo coi dirigenti della C.N.T., che
«la macchina statale non deve essere toccata perché può essere di una certa utilità per la classe operaia»
e sono immediatamente creati i due organismi destinati ad assicurare il primo controllo statale; nel campo militare il «Comitato Centrale delle Milizie», nel campo economico il «Consiglio Centrale dell’Economia». Il C.C. delle Milizie comprende 3 delegati della C.N.T., 2 delegati della F.A.I. (Federazione Anarchica Iberica), 1 delegato della sinistra repubblicana, 2 socialisti, 1 delegato della Lega dei «Rabasseres» (piccoli affittuari sotto il controllo della sinistra catalana), 1 della coalizione dei Partiti repubblicani, 1 del Poum e 4 rappresentanti della Generalidad di Barcellona (il consigliere della difesa il commissario generale dell’ordine pubblico e due delegati della Generalidad senza incarico statale fisso). Tutte le menzionate formazioni politiche assicurano la continuità dello stato capitalista in Catalogna dal luglio 1936 al maggio 1937 ed è superfluo aggiungere che la schiacciante maggioranza detenuta dalle organizzazioni operaie viene presentata come garanzia di assoggettamento della classe borghese alle esigenze del movimento proletario.

Frattanto, fin dal principio degli avvenimenti, Saragozza cade nelle mani di Franco e la prossimità di questo centro militare permette a Barcellona di presentare la necessità della vittoria militare contro il «fascismo» come comandamento supremo dell’ora, cui tutto deve essere perciò subordinato.

Il Partito Comunista spagnolo, il quale prende una posizione di prima linea nella guerra antifascista, non può tollerare equivoci, ed è a Mosca che la sua funzione di punta controrivoluzionaria è brutalmente svelata. Ecco che cosa dice il seguente infame comunicato:
«L’Ufficio del Comitato Esecutivo dell’U.R.S.S. ha respinto il ricorso di grazia dei condannati alla pena capitale in data 24 agosto dal Collegio militare dell’U.R.S.S., nel processo del centro trockista-zinovievista unificato. Il verdetto nei confronti dei sedici condannati è stato eseguito».
L’«Humanité», nel suo numero del 28–8–36, commenta:
«Quando gli accusati approvarono la requisitoria di Vishinskij domandando di essere fucilati, non fecero che esprimere la loro convinzione di non potersi più attendere nessuna pietà. Essi ragionarono freddamente: noi volevamo assassinarvi, voi ci uccidete: è giusto. Questi sedici assassini sono dunque rimasti fino all’ultimo nemici accaniti del partito comunista, dello Stato e del popolo sovietico, e la loro morte ha epurato l’atmosfera del paese del socialismo che appestavano con la loro presenza».
Dal canto suo il procuratore Vishinskij concludeva così la sua requisitoria:
«domando che questi cani arrabbiati siano fucilati fino all’ultimo».

Sono questi stessi assassini dei proletari russi che si mettono all’avanguardia della guerra antifascista e scatenano l’offensiva per rispondere all’intervento di Hitler e Mussolini in favore di Franco con un analogo intervento degli altri paesi a favore del governo «legale repubblicano».

Nel pieno degli avvenimenti spagnoli, quando ancora non era cessato lo sciopero generale, e d’altra parte si sviluppava lo sciopero in Francia, il capo del governo del Fronte Popolare francese, Léon Blum, considerando che l’apertura della frontiera dei Pirenei può stabilire un pericoloso contatto fra gli scioperanti dei due paesi, decide di chiuderla. Nell’agosto 1936, è lo stesso Blum che prende l’iniziativa della costituzione del «Comitato di non intervento in Spagna», con sede a Londra e rappresentanti dei governi di tutti i paesi, fascisti e democratici, non esclusa la stessa Russia.

Il ruolo di questo «Comitato di non intervento» fu quello di evitare complicazioni internazionali, mentre ogni «Alta Parte Contraente» industrializzava i cadaveri dei proletari caduti in Spagna per farli servire al successo della controrivoluzione mondiale: in Russia per massacrare gli artefici della rivoluzione d’ottobre, nei paesi fascisti per preparare il clima alla guerra mondiale, in Francia per far divergere i movimenti operai dai loro obiettivi di classe. È noto infatti che la parola d’ordine centrale lanciata dai Partiti comunisti e dalla sinistra socialista fu: «aeroplani per la Spagna».

Le vicende militari conoscono in Spagna alterne vicende. Tanto le sconfitte quanto le vittorie militari nella guerra antifascista sono utilizzate sul piano della progressiva eliminazione di tutte le iniziative extra-legali e della ricostruzione della gerarchia classica dello stato antifascista. Le sconfitte perché presentate come derivanti dalla mancanza di una stretta disciplina militare intorno al centro dirigente, le vittorie perché presentate come conferma dell’utilità di una ferma centralizzazione intorno allo stato maggiore militare.

Quanto agli anarchici, essi abbandonano, brandello per brandello, il loro programma. Dapprincipio, immediatamente dopo la conclusione dello sciopero generale del luglio 1936, essi rispondono ai primi tentativi di incorporazione dei lavoratori in forma organica nelle Milizie controllate dalla Generalidad con la parola «militi si, soldati no», ma abbandonano bentosto questa posizione, di fronte alle necessità della lotta militare, per sloggiare i fascisti da Saragozza. Rinunciano poi all’opposizione al programma essenziale del Governo di estrema sinistra presieduto da Caballero: la costituzione del Comando unico esteso a tutto il territorio del settore antifascista coi capoluoghi di Madrid, Valenza e Barcellona. Le esigenze della lotta militare giustificavano pienamente sul piano strategico la necessità della centralizzazione nel comando unico, e gli anarchici giunsero fino alla partecipazione, attraverso i loro rappresentanti divenuti ministri, al governo Caballero. Questi – le parole tollerano ogni ingiuria – viene presentato come il Lenin spagnolo: lo stesso Caballero rimasto nel 1936–37 perfettamente coerente alla posizione che gli aveva valso la nomina a Consigliere di Stato sotto il regime di de Rivera!

Come abbiamo detto, nel periodo che va dalla liquidazione dello sciopero generale del luglio 1936 fino al maggio 1937, mentre lo stato madrileno può permettersi di mantenere persino il precedente apparato poliziesco delle «Guardie Civili», in Catalogna l’apparato statale classico della borghesia conosce una fase di «vacanza» nel corso della quale il controllo sulle masse si stabilisce indirettamente attraverso il «Comitato Centrale delle Milizie» ed il «Consiglio dell’economia». A questa fase di transizione succede l’altra dell’eliminazione di ogni elemento anche periferico che disturbi il regolare funzionamento dello stato capitalista antifascista. Nell’ottobre 1936, Caballero lancia il decreto per la militarizzazione delle milizie e la C.N.T., nella sua deliberazione del 14 ottobre, prescrive che non si potrà esigere il rispetto delle condizioni di lavoro né per quanto concerne il tempo di lavoro, né per i salari, né per le ore supplementari, in tutte le industrie collegate direttamente o indirettamente con la guerra antifascista, il che praticamente significa in tutte le imprese industriali.

Ci si avvia così al maggio 1937. Il 4 di questo mese, sotto pressione dello staliniano Comorera capo del P.S.U.C. (Partito Socialista Unificazione Catalana), la Generalidad di Barcellona decide di riprendere il controllo diretto della Compagnia dei Telefoni: è il segnale di un’azione generale tendente alla eliminazione di tutte le gestioni non direttamente inquadrate nello stato antifascista. Uno sciopero generale scoppia spontaneamente: tutte le formazioni politiche proclamano la loro innocenza da questo «delitto», ed è col piombo e con la mitraglia che si reprime nel sangue il movimento. È suggestivo il fatto che Franco, benché gruppi importanti di proletari abbiano abbandonato il fronte e siano scesi a Barcellona, non approfitti dell’occasione per scatenare un’offensiva militare: lascia fare i suoi compari antifascisti perché dal loro successo dipende anche il suo. L’operazione riesce in pieno: tutte le iniziative periferiche sono eliminate dopo la violenta repressione del movimento di sciopero del maggio 1937. Si costituisce poi il Governo Negrín della resistenza «jusqu’au bout» nel quale sono riposte le ultime speranze di tutti i settori dell’antifascismo, ed è questo Governo che, dopo avere abbandonato Madrid, e dopo la tappa intermedia di Valenza, si trasferisce prima a Barcellona poi a Parigi, lasciando al socialista Besteiro il compito di trattare con Franco per la conclusione della guerra nel corso della primavera del 1939.

È da notare che, con la sua abilità ed il suo consueto cinismo, la borghesia spagnola procede, dopo lo sciopero del maggio 1937, alla liquidazione di alcuni degli elementi che erano stati al suo servizio nel momento critico del luglio 1936. È il caso di Andrés Nin, Ministro della Giustizia nel primo governo antifascista di Barcellona. Questi, trasferito a Madrid, è poi prelevato da elementi «irregolari» (leggi staliniani) per essere assassinato in circostanze che non sono mai più state chiarite. È anche il caso dell’anarchico Berneri, arrestato dalla polizia di Barcellona, la quale seguendo la tecnica delle spedizioni punitive fasciste aveva precedentemente fatto una visita domiciliare per assicurarsi che la vittima era disarmata. Invece di essere condotto in prigione, Berneri è assassinato; gli anarchici protestano ma non sognano nemmeno di rompere la solidarietà che li lega al governo antifascista.

Abbiamo parlato del Comitato Internazionale di non-intervento. Esso era pienamente riuscito ad evitare sia le possibili complicazioni internazionali derivanti dalla guerra spagnola, sia l’eventualità di un intervento autonomo del proletariato internazionale e spagnolo nel corso di questi avvenimenti. Vogliamo osservare che la Russia, la quale lasciava ai partiti comunisti il compito di protestare contro la politica di quello stesso comitato al quale partecipava, non prese un’iniziativa di aperto intervento armato in Spagna se non dopo che la caduta di Irun, il 1 settembre 1936, e le sue conseguenze (costituzione del governo a tendenza centralizzata presieduto dal «sinistro» Caballero) le ebbero dato le necessarie garanzie. Il decreto sulla militarizzazione delle milizie e le «consegne sindacali» della C.N.T. per la totale e totalitaria disciplina alla guerra antifascista sono del 14 ottobre 1936, ed è alla stessa data che la nave sovietica «Zyrjanin» approda a Barcellona. Inutile dire che, da un lato tutte le misure per assicurare lo stroncamento del successivo sciopero del maggio 1937, erano già realizzate e, dall’altro, l’intervento aperto della Russia nella guerra spagnola era ancora più interessato di quello di Hitler e Mussolini, poiché tutte le armi dovevano essere pagate in oro dal Governo antifascista di Caballero prima, di Negrín poi.

La tragedia spagnola si conclude nella primavera del 1939 con la vittoria totale di Franco. Qualche mese dopo, il 3 settembre, scoppia la seconda guerra imperialista mondiale. Gli avvenimenti che la precedono sono:
il compromesso di Monaco del settembre 1938;
il patto russo-tedesco dell’agosto 1939.

Dopo la rimilitarizzazione della riva occidentale del Reno di cui abbiamo parlato nel capitolo 5° e l’assorbimento dell’Austria nell’inverno del 1938, era venuta la volta dello smembramento della Cecoslovacchia. Hitler prende la difesa e la direzione del movimento irredentista dei Sudeti che occupano la zona tedesca della Cecoslovacchia. L’Inghilterra invia un suo delegato, Runciman, per l’esame della questione ed il rapporto che questi stende è favorevole alle rivendicazioni dei Sudeti. La Francia, legata da un patto di mutua assistenza con la Cecoslovacchia, prende dapprima una posizione ostile al movimento dei Sudeti, ma si rassegna poi a partecipare alle Conferenze di Godesberg e di Monaco, dove i quattro Grandi dell’epoca (Germania, Italia, Francia, Inghilterra) sanciscono il compromesso che dà soddisfazione a Hitler.

Non sono ancora spente oggi le polemiche intorno a «Monaco». La Russia, e con essa i Partiti comunisti, sostengono che Monaco rappresentò la conclusione della politica degli stati imperialisti dell’isolamento del «paese del socialismo». Le personalità politiche francesi ed inglesi partecipanti all’accordo di Monaco, Daladier e Chamberlain, sostengono invece che questo compromesso permise di guadagnare un anno e di preparare così la guerra contro Hitler. Questi, dal canto suo, proclama che l’accordo rientrava nel piano della sua politica di riparazione «pacifica» e non bellica delle ingiustizie consacrate dal Trattato di Versailles.

Se si tiene conto degli avvenimenti ulteriori è indiscutibile che la tesi della messa a profitto di un anno per la migliore preparazione della guerra franco-inglese non regge, poiché nel 1940, quando, dopo la campagna di Polonia, Hitler lanciò il Blitz-Krieg contro l’Ovest, nessun ostacolo si oppose alla sua clamorosa vittoria. Analogamente non è confermata la tesi della Russia e dei Partiti Comunisti giacché il compromesso di Monaco non determinò affatto l’isolamento della Russia. Questa mantiene rapporti diplomatici in vista di un’alleanza militare con Francia e Inghilterra fino all’agosto 1939; in questo stesso agosto è essa che rompe di sua iniziativa tali trattative e, quando ancora i delegati alleati sono a Mosca, stabilisce l’accordo economico e militare con la Germania. Nel giugno 1941 si stringe l’alleanza militare con Francia, Inghilterra ed America che resta in vigore fino alla fine delle operazioni militari nel luglio 1945.

Il compromesso di Monaco va spiegato in forza di considerazioni diverse da quelle sostenute dagl’imperialismi che dovevano poi passare allo scatenamento della guerra. Sul piano europeo è certo che esso risponde alle esigenze dell’inevitabile predominio tedesco nel quadro dell’incrocio dei due bacini industriale ed agrario (quello germanico, questo balcanico) corrispondenti a loro volta all’allacciamento delle due grandi vie fluviali del Reno e del Danubio. Sul piano di un’eventuale costruzione dell’economia europea il compromesso di Monaco rappresenta una soluzione razionale che il capitalismo tende a dare alle esigenze naturali della struttura di questo continente. Sul piano poi dell’antagonico sviluppo degli stati borghesi di Europa e dei suoi riflessi sullo scacchiere internazionale, il compromesso doveva urtare contro ostacoli insormontabili perché né la Russia poteva adattarsi ad essere definitivamente eliminata dall’Europa, né gli Stati Uniti potevano tollerare l’istituzione di un’egemonia tedesca la quale avrebbe così potuto minacciare le sue posizioni non solo in Europa ma anche negli altri continenti.

Dopo avere realizzato a Monaco la soluzione del problema danubiano, la Germania si orienta verso un’analoga soluzione del problema polacco. Nel frattempo, Francia ed Inghilterra inviano in Russia le loro missioni militari in vista di concludere un’alleanza militare. Come abbiamo detto, queste missioni sono ancora a Mosca quando scoppia la bomba del trattato russo-tedesco.

Fino a questo momento, il 23 agosto 1939, la Russia preconizza in campo diplomatico misure punitive contro «l’aggressore» ed è Litvinov che definisce l’aggressore come quegli che, violando gli impegni contrattuali, invada un altro paese. L’aggredito – specifica Litvinov – deve beneficiare dell’appoggio economico e militare automatico della Società delle Nazioni. Ed è evidente che Hitler, col suo attacco contro la Polonia, si trovava nelle condizioni specifiche contemplate dalla diplomazia sovietica.

Ma, di colpo, la dottrina dell’aggressore è completamente abbandonata, la Russia si impegna a non fornire alcun appoggio alla Polonia, che sarà invasa qualche giorno dopo, e riceve in contropartita non solo una parte della Polonia, che si affretterà ad occupare alla fine di settembre, ma anche i paesi baltici e la Bessarabia.

L’accordo russo-tedesco ha la stessa sorte del compromesso di Monaco. Circa due anni dopo, il 21 giugno 1941, esso è lacerato dagli avvenimenti: Hitler invade la Russia. Ancora una volta, per spiegare questo avvenimento, non bastano le interpretazioni dei contendenti. Non quella dei Russi di avere così guadagnato due anni per prepararsi alla guerra, giacché il Blitz-Krieg fu altrettanto violento e rapido in Russia quanto lo era stato nel maggio-giugno 1940 nella campagna dell’Ovest, e d’altra parte meglio sarebbe valso affrontare la Germania nel 1939 quando esisteva ancora la minaccia franco-inglese e la Polonia non era ancora stata eliminata. Nemmeno regge la tesi tedesca giacché era manifesto – e gli avvenimenti attuali lo confermano – che se un compromesso era possibile con Francia e Inghilterra per uno straripamento della potenza tedesca verso l’est, questo compromesso era assolutamente impossibile con la Russia a causa dei suoi secolari interessi nell’Est europeo.

Su un altro piano il trattato russo-tedesco ha i suoi pieni effetti: nei paesi dell’Asse, in Germania ed in Italia, esso rafforza il fronte dell’inganno fascista per la guerra contro la plutocrazia internazionale, nei paesi democratici e soprattutto in Francia determina la frattura politica che doveva facilitare dapprima le vittorie militari tedesche, in seguito l’istituzione del regime d’occupazione militare.

Il Partito Comunista francese, che fino al settembre 1938 aveva bloccato col Governo per la difesa della patria in nome della lotta contro hitlerismo e fascismo, che era passato poi ad una opposizione violenta contro il compromesso di Monaco presentato come il «premio all’aggressore», cambia radicalmente di tono, mette in evidenza gli obiettivi imperialistici della Francia e dell’Inghilterra, ma non parla né degli obiettivi altrettanto imperialistici della Germania e dell’Italia, né del significato imperialista della guerra che frattanto si sviluppa.

Il capo del Partito Comunista francese, Maurice Thorez, diserta, e può raggiungere la Russia grazie all’appoggio delle autorità tedesche che facilitano il suo passaggio, ed i Partiti Comunisti francese e belga domandano alle autorità tedesche di occupazione la autorizzazione di pubblicare i loro giornali. Gli avvenimenti precipitano, Hitler invade la Russia il 21 giugno 1941 e si assiste di conseguenza a un nuovo radicale mutamento della politica dei partiti comunisti. Questi passano oramai all’organizzazione dei movimenti della Resistenza e del partigianismo.

• • •

La borghesia italiana dette il fascismo al proletariato in compenso della sua rinuncia alla lotta rivoluzionaria durante la prima guerra mondiale. Questa stessa borghesia, in compenso della frenetica partecipazione degli operai al secondo conflitto imperialista, ha dato al proletariato italiano un regime che aggrava le condizioni di sfruttamento imposte dallo stesso fascismo.

L’aperto tradimento dei partiti comunisti, che hanno partecipato alla guerra antifascista, può oggi valersi dell’appoggio di uno dei più potenti stati imperialisti del mondo per ostacolare la rinascita del movimento proletario, ma questo tradimento non ha potuto eliminare gli antagonismi su cui è basata la società capitalista. Questi antagonismi non solo sussistono ma tendono ad aggravarsi e la Sinistra Italiana può serenamente guardare al suo passato di lotta contro il capitalismo e contro l’opportunismo: essa che ha levato per prima la voce contro le deviazioni dell’Internazionale, che ha seguito tutta la tormenta degli avvenimenti senza mai deflettere, riprende la bandiera dell’internazionalismo e della lotta di classe per proseguire la sua lotta, quali che siano le difficoltà da superare e il cammino che dovrà essere percorso per giungere alla vittoria finale.

Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. I due nomi menzionati alla fine non possono essere verificati o altrimenti provati. (sinistra.net)[⤒]

  2. Questo documento sotto il titolo «La lettre de Shanghai» fu pubblicato da «L’opposition léniniste» francese, e la sua autenticità non è mai stata smentita. [⤒]

  3. Nenni, il «fascista della prima ora» è restato coerente al suo programma del 1919. Egli fu guerrafondaio nel 1914–18, lo resterà nel corso della guerra di Spagna ed in quella mondiale del 1939–45. Togliatti ed i suoi congeneri hanno raggiunto Nenni diventando, se possibile, più guerrafondai di lui per il successo della guerra imperialista in Spagna prima, e nel mondo intero in seguito. [⤒]


Source: « Prometeo», № 2 – 3 – 4 – 6 – 7 del 1946/1947.
I nomi delle persone sono stati corretti e/o adattati all’uso corrente. (sinistra.net, Marzo 2021)

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