Il «Filo del tempo» apparso nel № 14 di quest’anno era dedicato ad una certa insufficienza di visione anche dei piccoli gruppi comunisti antistalinisti sui due punti della questione agraria e nazionale, culminante nel negare importanza storica ai movimenti dei contadini proprietari e delle nazionalità soggette.
Della questione delle nazionalità, come di quella della razza strettamente connessa, si è occupato il rapporto alla riunione di Trieste del 29–30 agosto 1953. Richiesto dagli ascoltatori che fosse pubblicato subito per esteso il resoconto, questo ha occupato il posto dei «Fili del tempo» nei nn. 16, 17, 18, 19 e 20… e forse un po’ di posto in più!
Non è assolutamente garantito che tale molto vasta redazione contenga proprio tutto quello che fu detto a Trieste e neppure che tutto quello scritto nel resoconto sia stato verbalmente esposto. Ciò non dice nulla: non si trattava di un discorso storico e tanto meno di un oratore storico. Di questi ne trovate a tutte le cantonate.
Malgrado la mole delle parole e della stampa, il problema non è stato non diciamo esaurito, ma trattato fino alla fine. La questione storica delle lotte per le nazionalità e del contegno – in dottrina e in politica – dei comunisti rispetto ad esse, si è limitata all’area europea, il cui confine geografico abbiamo tuttavia assunto non agli Urali ma al Dnieper (verso sud e verso nord all’Onega, grosso modo, si intende), e il cui confine storico (quanto ad appoggio politico ai movimenti indipendentisti) al periodo 1789–1871. Resta da trattare l’area asiatica ed in genere il problema delle razze non bianche, per stabilire che un analogo periodo, apertosi circa quando l’altro si chiudeva, è da chiudere ancora. Con la notevole differenza che quel periodo bianco coincideva colla fase di capitalismo nascente, questo colorato accompagna quella di capitalismo imperialista e parassitario. Comunque non servirebbe fare i daltonici. Quindi la prossima riunione affronterà il tema: imperialismo e questione orientale e coloniale.
Non infrequente è l’osservazione che le trattazioni di questo tipo sono ostiche e seccanti, mentre tanto appetibili e allettanti sono gli argomenti "veramente politici" sul muoversi e comportarsi dei capi degli Stati e dei partiti e sul come il decorso dei loro personali processi fisiologici plasma il destino dell’umanità. Non possiamo che avere una risposta data da un termine della linguistica ormai internazionale e che tutti capiscono da quando i marinai americani frequentano le indigene veneri: sorry! Continueremo così, per quanto ci si suoni questa musica antica. Non abbiamo altra moneta da spendere.
Anche questo si riduce ad una questione di classe. Chi ha qualche poco lavorato alla propaganda e all’agitazione nelle file della classe lavoratrice sa come le posizioni tremendamente originali del marxismo rivoluzionario, con le loro conclusioni decisamente difformi da quanto hanno cacciato nella testa degli istruiti chiesa, scuola, esercito, cultura, letteratura e scienza, sono afferrate con incredibile sicurezza, mentre una volta su un milione entrano (provvisoriamente) nel cranio dell’intellettuale.
L’allarme fu dato in tempo quando si cominciò con l’andazzo che per fare più presto a propagandare ed agitare si dovessero usare nelle file proletarie termini e tesi comuni, scorrevoli, accettati da tutti, paralleli a quelli del parroco, del maestro, del caporale, del sapiente, dello scrittore e dello scienziato, per poi fare il comodo giochetto che, sulla piattaforma comune di inconcusse verità sacrosante, trovavamo tutti quelli in difetto e li prendevamo in castagna, con successo «veramente politico».
I risultati sono oggi palesi e non vogliamo con questo dire che cambiando metodo di propaganda, di oratoria o di stampa si dà diverso indirizzo agli eventi. Egli è che in una fase storica in cui la vecchia società puzza di cadavere ma i suoi arti purulenti camminano tuttora sui nostri corpi col loro peso immensamente cresciuto, è logico che si determini quel lurido modo con cui dirigenti venduti pretendono si parli al proletariato.
Chi più è imbevuto della cultura propria di questa società, più è imbevuto di putredine. Il fresco cervello dell’uomo che lavora coi muscoli e sente su questi il bruciore delle frustate dello sfruttamento resiste più a lungo. Oggi tuttavia il capitalismo, infetto ma gigante, è in grado di assalirlo con droghe e purtroppo con qualche maggiore offa. Ma il cervello dell’intellettuale, che ha sempre funzionato sia pure su ritmi obbligati, nella illusione di garantirsi «l’arte lieggia» – il mestiere poco pesante – in pochi decenni è una macchina logora. Un presbitismo della mente affetta gli odierni lavoratori intellettuali che hanno solo la forza di ripetere operazioni abitudinarie, di seguitare sui binari di un’annosa routine, non possono affrontare né risolvere un nuovo problema e anche quando avevano fatto nella loro vita precedenti sforzi in senso eversore della vecchia cultura, sono riassorbiti in essa e nelle sue potenti influenze. Presbitismo e sordità mentale: che obbligano a parlare fingendo di avere sentito e a scrivere fingendo di avere letto, il che si può fare solo rimasticando le vecchie canzoni.
La massa e la potenza, anche inerziale, del capitale nella storia sono giganti. Se ci dovesse salvare la luce del pensiero saremmo fottuti. Ma il fisico ricercare sul comportamento della materia, anche vivente, ci ha reso certi che – finalmente – i sordi sentiranno e i ciechi vedranno.
L’opinione molto corrente sulla "questione agraria" è questa: Marx aveva poggiata tutta la critica della società presente di economia privata e la via per attuare il programma della futura società comunista sull’urto delle forze dei capitalisti industriali e dei lavoratori salariati di fabbrica – in quanto tale forma con moto travolgente andava inghiottendo tutte le altre della produzione sociale. Lenin venne ad innovare e cambiare tutto, portando avanti l’urto di forze tra il piccolo contadino e il proprietario terriero e dimostrando che poteva prendere un posto eguale – se non superiore – a quello della lotta industriale, nella dinamica della rivoluzione. Naturalmente per il filisteo la cosa decisiva sappiamo qual è: Lenin non si è limitato a scriverlo e a dirlo, ma ha "fatta" una rivoluzione colle forze contadine, la sola che storicamente ha trionfato! E gli resta solo da scegliere tra queste due alternative: il leninismo è la rivoluzione contadina anteposta a quella operaia – ovvero: il leninismo è la scoperta del modo di fare fessi i contadini perché compiano la rivoluzione operaia (come il liberalismo fu la scoperta del modo di fare fessi e contadini e operai perché compissero la rivoluzione capitalista).
Ora noi diciamo che tutto questo è falso. Non lo diciamo noi, ma lo dice Lenin. Questi in tutte le sue storiche e potenti polemiche in materia agraria non fa che battersi contro pseudo-marxisti russi e di tutti i paesi che trattano la questione agraria e dimostra le loro bestialità incommensurabili su tutti i punti in cui pretendono di fare una teoria su problemi trascurati da Marx, o peggio ancora di correggere errori di Marx.
Lenin dice che Marx ha trattato in modo originale quanto completo la questione agraria. Non lo dice Lenin… lo dice Marx. Ed infatti col metodo proprio della nostra scuola, lo stesso servito ovunque a fustigare i socialtraditori del 1914–18, lo stesso servito a ribadire la dottrina dello Stato e della dittatura proletaria, Lenin schiaccia coloro sotto una valanga di citazioni dai capitoli di espressa trattazione della questione agraria che sono i fondamentali e non gli accessori, del terzo volume del «Capitale» e della storia delle «Teorie sul plusvalore», che doveva essere il quarto e oggi si diffonde col titolo di «Storia delle dottrine economiche». Ma dove mettere poi tutti i passi e interi paragrafi, del primo e secondo volume del «Capitale», delle opere storiche su Francia e Germania, degli scritti di Engels sulla Germania, sulla «Guerra dei contadini», ecc., e molte classiche lettere del Carteggio, come quella che spiegò il famoso «Quadro» di Quesnay, lungamente trattato nell’«Anti-Düring»? Hanno scritto sulla questione agraria certamente due volte più pagine che sulla questione industriale.
Se Lenin se la piglia coi «colmatori di vuoti» non è meno azzannante con i «rettificatori», poiché se i primi sono quelli che non hanno letto, i secondi sono quelli che hanno letto ma non hanno capito un bel corno. E con enorme pazienza e con lavoro pari nella mole e nella potenza, Lenin spiega instancabilmente ciò che non hanno capito in Marx, ribattendo ad ogni pagina la sua assoluta ortodossia.
Quei signori infatti per fare passare le proprie fesserie si servono della solita etichetta: essi non sono «dogmatici». Ci sono due modi di non essere dogmatici, quello di essere saliti al di sopra del dogma e quello di non essere arrivati all’altezza del dogma. Dei secondi noi, come Lenin, ne abbiamo visti miriadi, dei primi non diremo solo Lenin stesso, ma pochini pochini. E allora i primi fanno un passo avanti se ripetono bene a memoria la dottrinetta e la piantano con le arie.
«‹Dimostrare (…) che il marxismo dogmatico nel campo delle questioni agrarie è stato sloggiato dalle sue posizioni sarebbe sfondare una porta aperta›. Così dichiarava l’anno scorso il ‹Russkoie Bogatstvo› per bocca del signor V. Cernov» [il futuro smaccato opportunista. E Lenin prosegue:]
«Questo ‹marxismo dogmatico› è dotato di una strana proprietà! Già da molti anni le persone dotte e dottissime d’Europa dichiarano con aria d’importanza (e i gazzettieri e i giornalisti ripetono alla lettera o con altre parole) che la ‹critica› ha ormai sloggiato il marxismo dalle sue posizioni; tuttavia ogni nuovo critico ricomincia daccapo ad affaticarsi per bombardare queste posizioni che si dicono già distrutte. Il signor V. Cernov, per esempio (…) per ben 240 pagine ‹sfonda una porta aperta› (…). Il signor Bulgakov [ne riparleremo] (…) ha pubblicato un’analisi in ben due volumi [contro la «Agrarfrage» di Carlo Kautsky, allora marxista ortodosso]. Ed ora, probabilmente, nessuno riuscirà più a rintracciare neppure i resti del ‹marxismo dogmatico›, morto schiacciato sotto queste montagne di carta stampata critica».
Figuriamoci se dopo altri cinquant’anni di tiri di artiglieria e tanto più quando vediamo, oltre al cannone a proiettile atomico, venire in batteria quello a «fetecchia» (in termine parlamentare: a salve) noi siamo più che mai risoluti a dichiararci dogmatici e a schifare tutti, senza veruna eccezione, i candidati a «critici».
Quale differenza tra il linguaggio di Lenin e quello di Stalin su «i dogmatici, i talmudici», ovvero, con le solite geniali variazioni: «i talmudici, i dogmatici». Talmudici magari, ma non ruffiani, non rinnegati. Una volta una compagna israelita ci commise di trovarle una copia del «Talmud» in lingua ebraica. La pescammo sulle bancarelle di Napoli pagando per quella rarità pochi soldi; la recammo a Mosca: ci sentimmo alquanto fessi per il fatto che non sapevamo leggerne manco una lettera!
Nel 1899 Lenin scrisse una serie di articoli contro il citato Bulgakov, il quale aveva condotto un’aspra critica della «Questione agraria» di Kautsky, apparsa in Germania nel 1890, per lo studio «delle tendenze dell’agricoltura moderna e della politica agraria dei socialisti ».
Questo Bulgakov prima di mettersi a strigliare Kautsky si dedicava a stabilire che anche Marx aveva «qualche volta idee sbagliate». Questo sbaglio, di cui riparleremo a suo tempo, consisterebbe nel voler applicare all’agricoltura la legge della diminuzione del saggio di profitto attraverso il miglioramento della composizione organica del capitale (più capitale costante, meno capitale variabile – più macchine e materia, meno lavoro umano) valevole nell’industria. Lenin dimostra la validità della legge con un impegno tale, che viene in mente quanto in non cale volesse metterla Stalin nel suo noto ultimo scritto teorico.
Naturalmente il Bulgakov si fa forte in materia degli apporti degli specialisti, dei professori di «agronomia» e di «economia»:
«[Kautsky dà prova di] un’uguale povertà sia di vera agronomia che di vera economia…, Kautsky elude i problemi scientifici importanti con delle frasi.»[Kautsky] «non fa seguire a questi dati [sono quelli sul carattere dell’agricoltura nel tempo feudale] un’analisi [ci siamo!] economica. Tutti questi dati possono essere attinti in qualsiasi manuale di economia agraria».
Lenin smentisce Bulgakov a proposito dei manuali della scienza ufficiale, dopo essersi dato la pena di sorbirseli. Ne cita diversi; in nessuno si trova
«Un quadro del rivolgimento operato dal capitalismo nell’agricoltura, perché (…) non si propongono neppure di dare un quadro generale del passaggio dall’economia feudale all’economia capitalistica».
Qui veramente i due metodi vengono in contrasto. Mentre i tipi alla Bulgakov cercano nella scienza ufficiale, generale, che sarebbe una base comune a marxisti e non marxisti, gli elementi che loro bastano a tracciare la famosa analisi del processo quale intorno a loro si svolge e non si avvedono di cadere nel fondamentale inganno borghese di credere alle leggi eterne e razionali, comuni a tutte le economie, spezzato dal marxismo, la nostra scuola dinanzi ad ogni problema si ripiega anzitutto sulla ricerca della chiave del processo storico. Ed allora solo perviene a stabilire che le pretese leggi eterne sono invece solo leggi proprie di un dato e temporaneo modo di produzione, in ispecie di quello capitalistico.
Lenin nel modo più risoluto difende Kautsky e lo appoggia nell’avere anzitutto dato i caratteri discriminanti tra economia feudale ed economia capitalistica, fermandosi con grande insistenza sui caratteri di quel trapasso.
In ogni trattazione i marxisti procedono in tal modo: essi non descrivono, come in una fredda relazione burocratico-statistica, quello che intorno si scorge, ma vanno alla derivazione, allo svolgimento, allo sviluppo nel tempo, alle origini anche lontane, in modo da stabilire quanto vi è di transeunte e caduco, in quello che al comune studioso appare eterno e stabile.
Non mancano certo al marxista i dati del «trattato» universitario. Comunque se questi, presi sotto legittima suspicione, apportano dieci, la potenza originale del metodo marxista apporta almeno cento. Alla eventuale mancanza di quei dieci suppliscono poche ore di consultazione, ma la risorsa specifica del metodo determinista storico è rara conquista, cui occorrono intere generazioni.
Lo specialista quindi che è al corrente di tutti i manuali, trattati, riviste e monografia non ci incute soggezione veruna.
Non soltanto al Medioevo ma a tutto il ciclo storico umano va estesa, non vi ha dubbio, la ricerca sul mutarsi delle forme di produzione e di economia agricola che fino ad un tempo avanzatissimo rappresentano la parte preponderante di tutta l’economia sociale.
La scienza occidentale è oggi tanto conformista rispetto agli interessi del capitale, quanto poteva essere prona quella russa ai comandi dello zarismo. Tuttavia, quando una tale scienza era più giovane, qualche "trattatista" indipendente lo si poteva consultare: basta risalire molti decenni indietro e fare a meno di fare pubblicità all’autore, che se ne avesse in vita cercata avrebbe anche lui come gli odierni stampato balle. Noti il lettore, cui per la chiarezza daremo alcuni passi didattici, che si tratta di aperto fautore di una conduzione privata dell’azienda agraria, limitatamente controllata dal pubblico potere: tuttavia si ricorderà da «Proprietà e capitale», in «Prometeo», una decisa critica, davvero su sola base scientifica, della partizione molecolare della terra, causa di stasi e di infinita miseria. A noi qui importa stabilire la preminenza, in così complesso argomento del metodo storico.
«L’agricoltura è l’industria estrattiva per eccellenza, perché, agendo variamente sulla terra col lavoro umano e col capitale, determina l’unione dei componenti chimici del terreno con quelli dell’aria per la produzione di materie destinate, in prevalenza, all’alimentazione umana. Invece le altre industrie estrattive, cioè di caccia, pesca, cave, miniere, saline, ecc. sfruttano prodotti o materie già formate in natura, occupandosi soltanto di estrarli dal suolo o dalle acque grezzi o variamente modificati. A loro volta le industrie estrattive forniscono alle manifatturiere le materie prime che queste trasformano variamente in prodotti utili ai bisogni umani. A sua volta l’agricoltura alimenta coi suoi prodotti alcune di tali industrie (…).»
«L’industria agraria è caratterizzata dalla prevalenza nella sua opera delle forze naturali, rappresentate dalla produttività del terreno stesso (composizione, giacitura, esposizione, ecc.) e dalle condizioni di clima del luogo.»
«Mentre l’industria manifatturiera può recare ovunque i suoi impianti l’essere il terreno inamovibile e indistruttibile (in generale) crea un alto grado di limitazione (…). Questa ha un’importanza eccezionale (…) nella nostra disciplina (…) ha un’influenza capitale sulla costituzione economica della società, sulle condizioni ed il grado di benessere dei suoi componenti».
Qui il trattato che citiamo fa già cenno, oltre che al fattore della limitazione della terra, a quello della cosiddetta fertilità decrescente, di cui fu viva polemica tra Bulgakov e Lenin e che ricostruiremo a proposito delle teorie di Ricardo e di Marx. Presto l’elemento storico viene chiamato a chiarire quello sociale:
«Il godimento della terra avviene oggidì in grandissima prevalenza per mezzo della sua proprietà individuale, dimodoché non ve n’è porzione anche minima e pure affatto improduttivo, senza che vi sia qualcuno che abbia diritto a disporne liberamente. Si può dire sparita dai paesi civili o di dominio di nazioni che sono tali la terra libera, su cui un primo sopravveniente poteva stabilirsi senza alcun contrasto. Ove rimangono spazi colonizzabili, gli Stati se ne sono dichiarati proprietari, e non li concedono che a titolo oneroso. Però la costituzione della proprietà individuale tanto assoluta ed estesa, come è ora in molti paesi, può dirsi fatto abbastanza recente; e dappertutto, in un passato variamente remoto, la terra fu per la massima parte di godimento collettivo di gruppi familiari o demografici. Vi fu poi un tempo in cui la terra era, se non libera nel senso che ognuno poteva fissarsi ove meglio gli pareva, soggetta all’uso collettivo, sicché tutti partecipavano al suo sfruttamento senza dover pagarne una rendita qualsiasi o rilasciare a terzi una parte del ricavato».
Ometteremo la descrizione del trapasso presso i vari popoli, come i germani, con prevalenza dei terreni ad uso civico e demanio e del completo svolgimento del sistema allodiale (possesso privato) presso i latini.
Per lungo periodo, mentre la terra non era oggetto di valore, lo era il bestiame che ognuno faceva pascolare su spazio a tutti comune. La terra non era ancora articolo di commercio, il bestiame si: la prova sta anche nel fatto che la parola denaro (pecunia) deriva da pecus, che vuol dire bestiame.
I germani, essendo ancora poco numerosi su vaste terre, a differenza dei fitti e progrediti coloni romani, usavano il secolare e millenario sistema dei tre campi, di cui parla spesso Lenin. Esso consisteva nell’occuparsi a turno annuale, da parte di ciascun gruppo familiare, di tre appezzamenti di pari area: uno a grano, uno a segale o orzo od avena, uno a riposo (maggese). Per un anno la terra è sfruttata col più nutritivo dei cereali, il frumento, che le sottrae quasi tutti i suoi elementi utili, per un altro con la meno ricca coltivazione di cereali di minor potere alimentare, per un terzo anno non le si chiede nulla, perché si possano riprodurre le sue risorse di chimismo; in fase progredita la si lavora lo stesso per permettere all’aria atmosferica di circolare e si lasciano sul terreno senza raccoglierle le erbe spontanee.
Il testo ricorda poi che la proprietà privata, se nacque in alcuni casi da una spartizione del terreno collettivo tra famiglie, si generò anche per effetto di violenza, schiavitù e conquista. Come abbiamo tante volte ricordato in Engels, assai tardi sparisce presso i popoli germanici la coltura in comune: se in Italia invece la spartizione individuale è perfino preromana (e con essa il Dio Termine, che rendeva il possesso sacro ed inviolabile) ciò si deve alla lontanissima conoscenza di colture che superano quella cerealicola: la vite, l’ulivo, gli alberati fruttiferi, le prime irrigazioni.
Né citeremo di nuovo i passaggi storici sul rapporto medievale, sulle popolazioni accomandate al signore e guerriero, contro obbligo di personale servigio e nemmeno quelli sulla scarsa influenza e rapida sparizione delle forme feudali in Italia, restando ad esse troppo breve lasso tra la caduta dell’impero bizantino e l’epoca dei Comuni, che comportò agricoltura altamente intensa (orti e giardini) o addirittura pienamente capitalistica.
Lenin adunque rinfaccia a Bulgakov che abbia considerato superfluo lo studio di Kautsky sui rapporti feudali e lo riporta e commenta in molti brani, come egregio. Non è difficile vedere di quale peso sia la «discriminazione» tra la forma non capitalista e quella capitalista all’indietro: essa fa tanta luce sulla discriminazione in avanti. Col metodo, lo stile filo del tempo, noi abbiamo tanto fatto leva sullo «ieri» perché si capisse il "domani" e il gabellamento per domani di un comunissimo «oggi». Vediamo subito che molte tesi di Kautsky che Lenin rimette su contro le obiezioni di Bulgakov non sono se non quelle che nel «Dialogato con Stalin» abbiamo usato, mostrando il carattere capitalista della economia agraria russa.
Secondo la bella frase sintetica di Marx, il rapporto feudale differisce da quello moderno perché il servo arrecava al padrone – con giornate di lavoro nel suo giardino e con quote del prodotto del suo campicello – una rendita in derrate o in lavoro (ed eravamo per questo in un’economia naturale); mentre il moderno padrone della terra, il proprietario fondiario, gode di una rendita in denaro. Sopravvive è vero oggi la colonia parziaria, nella quale il contadino versa al proprietario non un canone in denaro ma una data aliquota del prodotto: non si vede come tale sistema sia tanto vantato dai pretesi e fanfaroneschi estirpatori di forme feudali, se esso è proprio un’esteriore forma semifeudale. Sta però di fatto che sempre più i proprietari si fanno dare dai coloni parziali, o mezzadri, non più gli scomodi generi ma il loro equivalente al prezzo di mercato. Tale sistema, appunto perché non del tutto capitalistico, è un poco più umano, in quanto il coltivatore è coperto dal rischio di dover pagare lo stesso contributo nell’annata grassa e in quella magra.
Comunque la rendita in denaro ha preso il posto della rendita in servizi e in derrate e al tempo stesso il possesso fondiario da inviolabile è diventato alienabile, il lavoratore agrario da vincolato alla terra è diventato «libero».
Un tale processo, al suo inizio, non è però determinato solo dalla inarrestabile esigenza di dare sfogo benefico alle forze produttive manifatturiere, ma anche accompagnato da pari esaltazione delle forze produttive agrarie.
Lenin cita da Kautsky:
«Nell’epoca feudale non c’era altra agricoltura tranne la piccola, poiché il signore coltivava le proprie terre con lo stesso inventario usato dai contadini. E' stato il capitalismo il primo a creare la possibilità di una grande produzione nell’agricoltura, tecnicamente più razionale della piccola».
Qui si sfiora la questione della piccola e grande coltura, su cui Lenin si scaglia non meno vigorosamente addosso alle critiche di Bulgakov.
Qui si sfiora la questione della piccola e grande coltura, su cui Lenin si scaglia non meno vigorosamente addosso alle critiche di Bulgakov. Lenin riferisce che nel quinto capitolo si espone la teoria marxista del valore, del profitto e della rendita, cui questa ricerca darà ampio richiamo a suo tempo. Ma Lenin, mentre deride Bulgakov che parla di agricoltura capitalistica solo in quanto la borghesia industriale e commerciale prese il potere al posto dell’aristocrazia terriera, stabilisce chiaramente che nel marxismo l’agricoltura attuale diventa capitalista nella sua interna struttura economica, perché da naturale la forma diventa mercantile.
Va riconosciuto che allora, giovane, Carlo Kautsky enunciava le tesi marxiste con esattezza magistrale:
«Senza denaro la produzione agricola odierna è impossibile, ossia, il che è lo stesso, essa è impossibile senza capitale. Infatti, dato l’attuale modo di produzione, ogni somma di denaro che non serve per il consumo personale può trasformarsi in capitale, cioè in un valore che genera plusvalore, e, di regola, si trasforma effettivamente in capitale. La produzione agricola odierna è per conseguenza una produzione capitalistica».
Dunque l’economia agraria feudale, caratterizzata fra l’altro dalla sovrapposizione del lavoro della terra all’industria minima domestica, come Kautsky bene sottolinea, tiene la produzione rurale lontana dal mercato. L’economia capitalistica trae la piccola azienda contadina nel vortice mercantile. E «quanto più l’agricoltura diventa capitalistica, tanto più essa sviluppa la differenza qualitativa tra la tecnica della piccola produzione e quella della grande produzione». «Tale differenza qualitativa – Lenin ribadisce – non esisteva nell’agricoltura precapitalistica».
L’analyse qui montre que la prétendue indépendance de la minuscule entreprise agricole ne conduit qu’à un immense surplus dans la charge de travail de la part du « propriétaire » du lopin de terre grand comme un mouchoir de poche, viendra en son lieu, et d’ailleurs, elle est quasiment évidente.
L’analisi che mostra come la pretesa indipendenza della piccolissima azienda non conduce che ad un immenso maggiore onere di lavoro per il «proprietario» del fazzoletto di terra, verrà a suo luogo, ed è del resto praticamente ovvia. Importanti sono le considerazioni sul lavoro agrario cooperativo, di cui vi sono molti esempi nel periodo capitalistico, come d’altra parte (Marx lo dice già nel 1851) entro i limiti capitalistici non si può contare sulla sparizione della piccola produzione nell’agricoltura:
«È noto quanto gli ideologi della piccola borghesia in generale e i populisti russi in particolare esaltino le cooperative dei piccoli agricoltori (…). Tanto maggiore è perciò l’importanza dell’eccellente analisi di Kautsky sulla funzione delle cooperative. Le cooperative di piccoli agricoltori sono naturalmente un anello del progresso economico, ma esprimono una transizione verso il capitalismo (Fortschritt zum Kapitalismus), non già verso il collettivismo, come si pensa e si afferma sovente» (i corsivi sono nell’originale).
I cardini marxisti della valutazione del trapasso tra i modi della produzione agraria sono dunque gli elementi sostanziali per giudicare dell’attuale agricoltura russa – oltre che della sciocca opinione popolare mondiale su un Lenin ripartitore di terre ai piccoli contadini.
In tutte le dottrine sull’economia agraria incontriamo, in lotta tra loro, due posizioni. Una mette innanzi le forze naturali e quindi la terra, l’altra mette avanti il lavoro dell’agricoltore, e quindi l’uomo. Chi ci nutre di più, la natura o l’arte?, Dante avrebbe detto.
La grossa divergenza è chiarita nella storia che Marx ci ha dato, sia pure frammentaria (e ricostituita dallo stesso Kautsky), delle dottrine economiche. La polemica sorge sulle fonti della ricchezza, col che non si sa bene nei primi autori se si parla di ricchezza personale degli individui o ricchezza della nazione. La prima borghesia innovatrice audace e rivoluzionaria è tanto lanciata verso il suo postulato di libertà personale quanto verso quello di libertà nazionale e le piace di presentare come diretto al bene della patria il suo lavoro meraviglioso per il trionfo dell’individualismo. Sotto questo si cela invero il suo senso di classe, l’identificazione della classe dei capitalisti con l’umanità.
Gli ultimi feudali e i primi borghesi sono ancora per la teoria che dà ragione alla natura, alla terra come fonti sole della ricchezza. La scuola capitalista classica dichiarerà fonte di ogni ricchezza il lavoro.
È noto e indiscutibile che il marxismo si pone dalla parte dei secondi: ed infatti la teoria di Marx ci condurrà al risultato che la rendita fondiaria non è un dono della natura al proprietario, connesso alla sua occupazione di un quantum del suolo, ma soltanto una frazione del plusvalore, ossia il lavoro reso dagli agricoli ma non pagato con la loro remunerazione in denaro, o salario.
Ma qui va chiarito il solito equivoco sulla portata della teoria del valore. Essa non è una fredda spiegazione dell’economia moderna, ma una dimostrazione della sua insostenibilità storica, della sua impossibilità di raggiungere un "regime di stabile equilibrio". Essa è la dimostrazione della necessità dell’avvento del comunismo, ma non una descrizione dell’economia comunista, se non per dialettico effetto; non già nel senso che tolto il plusvalore e lasciato il valore la nostra richiesta sarà riempita. Nell’economia degli uomini a lavoro associato non vi sono più valori e non vi sono ricchezze; e perde senso il poggiarne l’origine sulla natura o sull’umano sforzo.
Se un campo, senza essere arato e senza altre operazioni, ciclicamente producesse pane, come il famoso albero tropicale, ecco che avremmo una rendita della natura. Ma Lenin nel maltrattare Bulgakov si arrabbia contro queste favole, che sono alla base del famoso teorema di produttività decrescente. Non si è mai mangiato senza che si fosse lavorato:
«Che l’uomo primitivo ottenesse il necessario come libero dono della natura è una favola sciocca (…). Nel passato non è mai esistita nessuna età dell’oro, e l’uomo primitivo era completamente schiacciato dalle difficoltà dell’esistenza, dalle difficoltà della lotta con la natura».
Ciò non contrasta affatto col collegamento tra le ingenue tradizioni di un’età senza odi e rancori e il comunismo primitivo, senza traccia di privata proprietà: era un comunismo di lavoro, in cui tutti lavoravano per tutti e la non ancora apparsa «limitatezza della terra», rispetto al numero degli uomini, ne era la base. Ma più oltre Lenin distingue essenzialmente tra limitazione della terra come oggetto della produzione e limitazione di essa come oggetto del diritto di proprietà. Giunti al tempo capitalistico, la gestione della terra si fa per aziende private di lavoro, ma la limitazione legale, allodiale romana, ossia il monopolio non della gestione, ma del diritto di proprietà, del diritto di prelevare rendita fondiaria (notate: monopolio uguale proprietà, non solo uguale grande proprietà; monopolio terriero, base della rendita, vale confinazione, terminazione di un qualunque spazio di terra agraria), tale monopolio, senza uscire dal modo capitalistico, può essere passato allo Stato. Ancora dunque un’ennesima citazione prova che per il marxismo più genuino e coerente
«Possiamo benissimo concepire un’organizzazione puramente capitalistica dell’agricoltura nella quale la proprietà privata della terra manchi completamente, nella quale la terra appartenga allo Stato, alle comunità contadine, ecc.».
Tuttavia la discussione tra origine da lavoro o da forza naturale della ricchezza agraria, sia essa quella della classe terriera o del feticcio "nazione", si limita alla decifrazione delle economie di ripartizione privata e di sfruttamento. Ed a questi effetti è centrale la tesi che tutto viene da appropriazione da parte di una classe del lavoro di un’altra, sia nella produzione feudale che in quella capitalistica.
Ciò non esclude che nella futura economia, risolta in una razionale difesa della specie contro, come Lenin vigorosamente disse, la natura, la vittoria contro questa matrigna potrà arrivare a tal punto che tutto venga da lei.
Se la faticosa coltivazione del grano fa sì che il nostro corpo sia alimentato, a caldo di vita, grazie al trasferimento in esso, dopo cicli chiusi di chimismo in bilancio pari (ai quali rifiutiamo irrazionalmente la nostra propria carcassa), di una piccola quota dell’energia che il sole irraggia nello spazio e fa pagare tanto poco per la parte che investe la sfera terrestre quanto per quella immensa che viaggia verso i gelidi vuoti interstellari senza trovare schermi; se potremo coltivare con l’aratro e sostituire il bue (che aveva passato con Febo apolline un contratto del genere nostro) con la macchina; se a questa macchina non addurremo nafta (che è poi anch’essa vecchio calore solare «donato» e messo a deposito nelle banche del sottosuolo) ma quella energia idroelettrica che ci viene annualmente da un tributo regolare pagatoci sempre dal grande astro, allora, allora… Resterà, direte, all’uomo l’opera organizzativa, direttiva, il girare le chiavette interruttrici. Ma hanno detto ultimamente che una macchina della macchina sostituirà l’uomo alle manopole di questa, dopo aver registrato con processi elettronici il comportarsi effettivo dell’uomo, il trucco che lo distingue, per ritrasmetterlo identico. Allora sarà invero la natura che ci darà tutto, cominciando dal vassoio della prima colazione che arriverà senza che lo porti nessuno.
Quando nessuno lavorerà sarà raggiunto lo scopo di godere tutti di rendita. Allora vivremo non lavorando, ma rubando a madre natura. Oggi non esiste rendita per un solo individuo che non sia rubata al lavoro dell’uomo. Neghiamo ai ladri l’alibi di scienza economica: il corpo del reato non l’ho sottratto a nessuno, è dono divino della natura, raggio partito col mio indirizzo dalla Stella di fuoco, roteante e rutilante nel Cielo.
Qui la teoria sulla rendita fondiaria.