LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
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DIALOGATO CON STALIN (I)


Content:

Dialogato con Stalin
Giornata prima
Domani e ieri
Merce e socialismo
L’economia russa
Anarchia e dispotismo
Stato e ritirata
Source



Sul filo del tempo

Dialogato con Stalin

Giornata prima

Scrivendo dopo ben due anni un articolo di cinquanta pagine (era del 1950 quello famoso sulla linguistica di cui avemmo ad occuparci solo di straforo, ma che di essere filato meritava; e quod differtur…) Stalin risponde sui punti posti in due anni, non sol nel «Filo del tempo», ma anche in riunioni di lavoro sulla teoria e sul programma marxista svolte dal nostro movimento e rese pubbliche, in breve o in esteso.

Non intendiamo con questo dire che Stalin (o la sua complessa segreteria le cui reti allacciano lo sferoide) abbia preso visione di tutto quel materiale, e siasi rivolto a noi. Non si tratta, se marxisti davvero siamo, di credere che le grandi discussioni storiche abbiamo bisogno, per la guida del mondo, di protagonisti personificati che si annunzino all’umanità attonita, come quando l’angelo suona dall’alto della nuvola la aurea tromba, e Barbariccia, dantesco demone, risponde (de profundis in senso proprio), col suono che sapete. O come il Paladino cristiano ed il sultano saraceno che, prima di estrarre le luccicanti durlindane, si presentano a gran voce, sfidandosi con l’elenco degli antenati e quello dei guadagnati torneamenti, ed annunziandosi la reciproca uccisione.

Ci mancherebbe altro! da una parte il Capo massimo del più grande Stato della terra e del proletariato «comunista» mondiale, dall’altra chi mai – poffàre? – ’O zì nisciuno!

Egli è che i fatti e le forze fisiche, dal sottofondo delle situazioni, prendono deterministicamente a discutere tra di loro; e quelli che dettano o battono sui tasti l’articolo, o pronunziano l’esposto, sono semplici meccanismi, sono altoparlanti che trasformano passivi l’onda in voce, e non è detto che la fesseria non sgorghi da quello da duemila kilowatt.

Gli stessi quesiti sorgono, quindi, circa il senso dei rapporti sociali russi di oggi e dei rapporti internazionali economici, politici e militari, si impongono lassù e quaggiù, si possono illuminare solo mediante il confronto colla teoria di quanto è già accaduto e noto; e colla storia della teoria, un tempo lontanissimo – visto che il dato è incancellabile – comune.

Sappiamo quindi assai bene che dall’alto del Kremlino la risposta di Stalin non viene alla nostra voce, e non reca il nostro indirizzo; né per la limpida continuità del dibattito occorre che a lui consti come ieri il foglio ospitante era detto «Battaglia», oggi «Programma Comunista», e per eventi improducenti svoltisi, questi, alla quota dello strato dei sottofessi. Le cose e le forze, immense o minime, passate, presenti o future, restano le stesse a dispetto dei capricci della simbolica. Se l’antichissima filosofia scrisse sunt nomina rerum (letteralmente: i nomi appartengono alle cose) intese dire che le cose non appartengono ai nomi. Ossia, nel nostro linguaggio, la cosa determina il nome, non il nome la cosa. Fate quindi pure il novantanove per cento del vostro lavoro sui nomi, ritratti, epiteti, vite e tombe di Grandi Uomini: noi seguiamo nell’ombra, sicuri che non troppo lontana è la generazione che sorriderà di voi, lustrissimi di prima e sedicesima grandezza.

Le cose che stanno sotto l’articolo attuale di Stalin sono però troppo grandi, perché noi gli neghiamo il dialogato. Per questo, e non perché à tout seigneur tout honneur, noi rispondiamo, e attenderemo, anche due anni, la controreplica. Fretta (vero, o ex-marxista?) non ce n’è.

Domani e ieri

I temi trattati sono tutti nodi cruciali del marxismo, e sono quasi tutti i vecchi chiodi, su cui abbiamo insistito che si doveva profondamente ribattere, prima di pretendersi a forgiatori del domani.

Naturalmente il grosso degli «spettatori» politici distribuiti nei vari campi non è stato colpito da ciò su cui Stalin suggestivamente ritorna – deve ritornare – ma da ciò che anticipa sull’incerto domani. Gettatatisi su questo, perché questo è che fa pubblico, gli spettatori amici e nemici non hanno capito un accidente ed hanno dato versioni cervellotiche e trasmodanti. La prospettiva, ecco quello che ossessiona, e mentre gli osservatori sono una manica di asini, l’operatore, che gira la manovella da quelle altissime prigioni che sono gli uffici supremi del potere di governo, è proprio nella posizione che meno lascia vedere intorno, e antivedere. Mentre noi raccogliamo quanto gli ha dettato il volgersi indietro, ove nessuno gli chiude tra inchini e suffumigi la visuale, tutti si commuovono alle suggestive previsioni.

Esistenzialisticamente tutti obbediscono all’imperativo imbecille: ci dobbiamo divertire; e la stampa politica diverte quando, come suggestivamente oggi, apre uno squarcio sul futuro, e vede un Supernome degnarsi di profetare. E l’inatteso vaticinio è questo: la rivoluzione mondiale non più, la pace non più, ma non la guerra «santa» tra la Russia ed il resto del mondo, bensì la inevitabile guerra tra Stati capitalistici, in cui, per il primo momento, non si comprende la Russia. Interessante, ma certo non nuovo al marxismo, anche per noi, che non abbiamo la fregola del cinema politico, ove lo spettatore non si interessa «se sia vero» quello che vede (tra poco col cinerama sarà portato di peso in mezzo all’azione) e, chiusa l’illusione del paesaggio d’oltremare, del locale extra-lusso, del telefono bianco, o dell’amplesso con le moderne impeccabili superveneri di celluloide, ritorna contento, povero travet o schiavizzato proletario, nella sua stamberga, e si strofina alla sua donna deformata dalla fatica, o la rimpiazza con una venere del marciapiede.

Tutti quindi si sono gettati sul punto di arrivo, anziché sul punto di partenza. È questo invece il fondamentale; vi è tutta una schiera di semisciocchi che vuol precipitarsi a ponzare il poi, e che bisogna poderosamente arginare e ributtare indietro a capire il prima, compito certo più agevole, a cui tuttavia non ce la fanno manco per sogno. Ognuno che non ha capito la pagina che ha davanti non resiste alla tentazione di voltarla per trovare lumi nella seguente, ed è cosi che la bestia diventa più bestia di prima.

In Russia, checché ne sia di polizie silenziatrici che scandalizzano l’occidente (in cui le risorse imbecilizzanti e standardizzanti di cranii sono dieci volte maggiori, e più schifose) il problema di definire lo stadio sociale che si attraversa, e l’ingranaggio economico che è in moto, si impone da sé, e perviene al dilemma: dobbiamo seguitare a dire che la nostra è un’economia socialista, comunista dello stadio inferiore, ovvero dobbiamo riconoscere che è un’economia retta dalla legge del valore propria del capitalismo, malgrado l’industrialismo di stato? Stalin sembra fronteggiare tale riconoscimento, e frenare i troppo spinti economisti e capi d’azienda che vanno nel secondo avviso; in realtà prepara la non lontana (e utile anche in senso rivoluzionario) confessione. L’imbecillità organizzata del mondo libero legge che ha annunziato il passaggio allo stadio pieno, superiore del comunismo!

Per mettere a fuoco una tale questione Stalin abborda il metodo classico. Sarebbe facile giocare la carta di abbandonare ogni obbligo con la tradizione di scuola, con Marx e con Lenin teorici, ma in questa fase del gioco il banco stesso potrebbe saltare. Ed allora invece ricominciamo ab ovo. Bene, è quel che vogliamo, noi che non abbiamo puntate da far fruttare alla roulette della storia, e imparammo al primo balbettio che la nostra era la causa proletaria, e nulla aveva da perdere.

Occorre dunque alla data 1951 di «un testo di studio dell’economia politica marxista» e non solo per la gioventù sovietica ma per i compagni degli altri paesi; impuberi ed immemori, attenti, dunque!

Inserire in tale libro capitoli su Lenin e su Stalin come creatori dell’economia politica socialista, a dichiarazione di Stalin stesso, non apporterebbe nulla di nuovo. Assai bene, se ciò vuol dire che è notissimo che essi non l’hanno inventata ma imparata, e il primo l’ha sempre rivendicata.

Come qui entriamo nel campo di rigorosa terminologia e formulario «di scuola», va premesso che siamo in presenza di un riassunto che gli stessi giornali stalinisti traggono da un’agenzia non russa di stampa, e converrà appena possibile compulsare il testo completo.

Merce e socialismo

Il richiamo dei primi elementi della dottrina economica sono per discutere del «sistema di produzione di merci in regime socialista». Abbiamo in vari testi (che beninteso a loro volta si guardavano bene dal dire alcunché di nuovo) sostenuto che ogni sistema di produzione di merci è sistema non socialista, e andremo a ribadirlo: ma Stalin (Stalin, Stalin; noi ci occupiamo di un articolo che potrebbe anche essere dovuto ad una commissione che – «tra cent’anni» – surroghi uno Stalin defunto o inabilitato: comunque il simbolismo colle sue notazioni, nei limiti convenzionali di una pratica di comodo, serve anche a noi) potrebbe avere scritto: sistema di produzione di merci dopo la conquista proletaria del potere, ed allora non saremmo alla bestemmia ancora.

Evidentemente alcuni «compagni» in Russia hanno enunciato – riferendosi ad Engels – che il conservare, dopo la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, il sistema di produzione di merci, ossia il carattere di merci ai prodotti, significa avere conservato il sistema economico capitalistico. In linea teorica non c’è Stalin che possa provare che abbiano torto. Quando e se dicono che, potendo abolire la produzione a tipo mercantile, si è trascurato o scordato di farlo, allora possono sbagliare.

Ma Stalin vuole provare che in un «paese socialista» – termine di dubbia scuola – può esistere la produzione di merci, e se ne rifà alle definizioni di Marx e alla loro limpida sintesi – forse non assolutamente impeccabile – in un opuscoletto di propaganda di Vladimiro.

Su tale tema, ossia sul tipo mercantile di produzione, sul suo sorgere e il suo dominare, e sul suo carattere strettamente capitalistico e caratterizzante modernamente il capitalismo, ci siamo fermati il 1° settembre 1951 in una «Riunione di Napoli» riferita nel «Bollettino» n. 1 del partito, e in altra Riunione più recente, anche a Napoli, che consistette nella parafrasi e commento del paragrafo di Marx sul «carattere feticcio della merce e il suo segreto».

Di questa fu cenno nel n. 9 dell’1–14 maggio 1952, in questissimo giornale, e nel coevo «Filo del Tempo»: «Nel vortice della mercantile anarchia».

Secondo Giuseppe Stalin si può stare in ambiente mercantile e dettare piani sicuri, senza che il terribile Mælstrøm attiri l’incauto pilota al centro del gorgo e lo inghiotta nell’abisso capitalista. Ma il suo articolo denunzia, a chi legge da marxista, che i giri si stringono e si accelerano – come la teoria ha stabilito.

Merce, come ricorda Lenin, è un oggetto che ha due caratteri: essere utile ai bisogni dell’uomo – potersi scambiare con altro oggetto. Ma le righe che precedono il passo, citato tanto dall’alto, sono semplicemente queste:
«Nella società capitalistica domina la produzione delle merci; e perciò l’analisi fatta da Marx comincia con la analisi della merce».

E dunque la merce ha quelle due prerogative, e merce diventa solo quando la seconda si giustappone alla prima.

Questa, il valore d’uso, è del tutto comprensibile anche ad un piatto materialista come noi, anche ad un bimbo, è organolettica; lecchiamo lo zucchero la prima volta, e stenderemo la mano per la zolletta. Lunga è la via, e Marx la fa di volo in quel paragrafo straordinario, perché lo zucchero si investa di un valore di scambio, e perché si arrivi al delicato problema di Stalin, stupito che gli fissassero una equivalenza grano-cotone.

Marx, Lenin, Stalin e noi sappiamo molto bene quale diavoleria succede quando il valore di scambio è nato. Lo dica dunque Vladimiro. Dove gli economisti borghesi vedevano dei rapporti tra cose, Marx scoprì dei rapporti tra uomini! E che cosa dimostrano i tre tomi di Marx e le 77 paginette di Lenin? Una cosa facile. Dove l’economia corrente vede la perfetta equivalenza di uno scambio, noi non vediamo più i due oggetti permutati, ma vediamo uomini in moto sociale, e non vediamo più l’equivalenza, ma la fregatura. Carlo Marx parla di uno spiritello che dà alla merce questo carattere miracoloso e a prima vista incompensabile. Lenin con ogni altro marxista avrebbe inorridito all’idea che si possono produrre e scambiare merci espellendone con esorcismi quel diavoletto: Stalin forse lo crede? O vuole solo dirci che il diavolino è più forte di lui?

Come i fantasmi dei cavalieri medievali si vendicano della rivoluzione di Cromwell infestando i castelli inglesi, borghesemente ceduti ai landlords, cosi dunque il folletto-feticcio della merce corre irrefrenabile per le sale del Kremlino e ghigna dai diffusori dei milioni di parole del XIX congresso.

Volendo stabilire che non è assoluta la identificazione tra mercantilismo e capitalismo, Stalin impiega una volta ancora il metodo nostro. Risale nei secoli, e con Marx ricorda che
«sotto certi regimi (schiavista, feudale, ecc.) la produzione di merci è esistita senza aver portato al capitalismo».
Questo infatti è detto nella potente scorsa storica Marx in quel passo, ma a ben altro fine e con ben altro sviluppo. L’economista borghese proclama che per collegare la produzione al consumo non potrà mai esistere altro meccanismo che quello mercantilistico, in quanto sa molto bene che fin che quel meccanismo è in piedi il capitale resta signore del mondo. Marx ribatte: andremo adesso a vedere quale è la tendenza storica del domani; per ora vi costringo a constatare i dati innegabili del passato: non sempre il mercantilismo ha provveduto a portare il risultato del lavoro fino a chi aveva bisogno di consumarlo; e cita le economie primitive di raccolte dei cibi per immediato consumo, i tipi antichi di famiglia e di clan, le isole chiuse del sistema feudale a consumo diretto interno senza che i prodotti dovessero assumere la forma di merci. Con lo svolgersi e il complicarsi della tecnica e del bisogno si aprono settori cui provvede il baratto prima e poi il commercio vero e proprio, ma (per la stessa via che ci è servita a proposito della proprietà privata) resta provato che il sistema mercantile non è «naturale», ossia come il borghese pretende permanente ed eterno. Ora questo tardivo apparire del mercantilismo (o sistema di produzione delle merci come Stalin dice) questo può coesistere a margini di altri sistemi, serve appunto a mostrare come, divenuto sistema universale appena dilaga il sistema capitalistico di produzione, dovrà insieme ad esso morire.

Lungo sarebbe riportare come tante volte facemmo i passi di Marx contro Proudhon, Lassalle, Rodbertus e cento altri, che si riducono all’accusa di voler conciliare il mercantilismo con l’emancipazione socialista del proletariato.

Difficile appare accordare con tutto questo, che Lenin chiama la pietra angolare del marxismo, la tesi attuale cosi riferita: «non c’è alcuna ragione perché, nel corso di un determinato periodo, la produzione di merci non possa servire anche ad una società socialista» ovvero: «la produzione di merci riveste un carattere capitalistico solo quando i mezzi di produzione sono nelle mani di interessi privati, e l’operaio, che non ne dispone, è costretto a vendere la sua forza di lavoro». L’ipotesi è evidentemente assurda poiché nell’analisi marxista ogni volta che una massa di merci appare egli è perché i proletari privi di ogni riserva hanno dovuto vendere la forza di lavoro, e quando in passato vi furono quei (limitati) settori di produzione di merci, fu in quanto la forza di lavoro non era venduta «spontaneamente» come oggi, ma estorta colle armi a schiavi prigionieri o a servi legati da rapporti di dipendenze personali.

Dobbiamo ancora una volta ristampare le prime due righe del «Capitale»?
«La ricchezza delle società nelle quali domina il modo capitalista di produzione si manifesta come un’immensa accolta di merci».

L’economia russa

Il testo che ci occupa, dopo avere con maggiore o minore abilità ostentato di voler risalire alle fonti dottrinarie, si porta sul terreno della presente economia russa, per far tacere quelli che avrebbero affermato che il sistema di produzione delle merci deve portare inevitabilmente alla restaurazione del capitalismo, o noi che più chiaramente diciamo: il sistema della produzione per merci sopravvive in quanto siamo in pieno capitalismo.

Sull’economia russa vi sono nel notevole testo le seguenti ammissioni. Se le grandi fabbriche industriali sono statizzate, non sono tuttavia espropriate le piccole e medie industrie, anzi il farlo «sarebbe stato un delitto». L’orientamento sarebbe di svilupparle in cooperative di produzione.

Vi sono due settori della produzione di merci: da una parte la produzione di Stato che è nazionale. Nelle imprese statali sono di proprietà nazionale i mezzi di produzione e la produzione stessa, ossia i prodotti. Semplice: in Italia verbigrazia sono dello Stato i tabacchifici, e così le sigarette, che esso smercia. Ma basta questo a dare il diritto di dire che siamo in fase di «liquidazione del salariato» e che l’operaio «non è costretto a vendere la sua forza di lavoro»? No, di sicuro.

Passiamo all’altro settore, quello agricolo: nei colcos, dice lo scritto sebbene la terra e le macchine siano proprietà dello Stato, il prodotto del lavoro non appartiene allo Stato, ma al colcos stesso. E questo non se ne disfá se non come merce di scambio per i beni di cui abbisogna. Non esistono tra i colcos delle campagne e le città altri legami che quelli dati da questo scambio:
«la produzione, la vendita e lo scambio di merci costituiscono per noi una necessità, non meno di quanto avveniva 30 anni fa».

Tralasciamo ora l’argomentare sulla molto lontana possibilità di superare una tale situazione. Resta stabilito che non si tratta qui di dire, come Lenin nel 1922: abbiamo il potere politico nelle mani e sosteniamo la situazione militare, ma nell’economia dobbiamo ripiegare sulla forma mercantile, pienamente capitalistica. Il corollario di una tale constatazione era: lasciamo per ora di costruire economia socialista, ci torneremo dopo la rivoluzione europea. Altri ed opposti sono i corollari di oggi.

Non si tratta nemmeno di cercare di stabilire la tesi: nel trapasso dal capitalismo al socialismo, tuttavia, per un certo tempo, una certa sezione della produzione avviene in forma di merci.

Qui si dice: tutto è merce; e non vi è altro quadro economico che lo scambio mercantile, e per stretta conseguenza anche la compera della forza lavoro salariata nelle stesse grandissime aziende di Stato. Ed infatti: i generi di sussistenza dove li trova l’operaio di fabbrica? Li vende il colcos per un tramite di mercanti privati, o magari li vende allo Stato da cui compra attrezzi, concimi ed altro, e l’operaio va a prendere i generi, pagandoli in moneta, nei magazzini di Stato. Può lo Stato distribuire ai suoi operai direttamente prodotti di cui è proprietario? No certamente, dato che il lavoratore (russo soprattutto) non consuma trattori, automobili, locomotive, e tanto meno… cannoni e mitragliatrici. Gli stessi oggetti di vestiario ed arredamento sono evidente campo di produzione di quelle intatte medie e piccole private aziende.

Lo Stato non può dunque dare altro che il salario in denaro ai suoi dipendenti, che con tale denaro acquistano quello che vogliono (formula borghese, che vuol dire quel poco che possono). Che il padrone erogatore di salario sia lo Stato che «idealmente» o «legalmente» rappresenta gli operai stessi, nulla significa fino a quando un tale Stato non ha nemmeno potuto cominciare a distribuire alcunché fuori del mercantile meccanismo, alcunché di statisticamente apprezzabile.

Anarchia e dispotismo

Stalin ha voluto ricordare alcuni traguardi marxisti da noi tante volte rispolverati: diminuire la distanza e la antitesi tra città e campagne, superare la divisione sociale del lavoro, ridurre drasticamente (a cinque-sei ore, in via immediata) la giornata di lavoro, solo mezzo per eliminare la partizione tra opera manuale e intellettuale, ed estirpare le vestigia della ideologia borghese.

Nella riunione a Roma il 7 luglio 1952 il nostro movimento si fermò sul tema del capitolo di Marx: «divisione del lavoro nella società e nella manifattura», e per manifattura il lettore espresse azienda. Fu dimostrato che per uscire dal capitalismo occorre, col sistema di produzione mercantile, distruggere anche la divisione sociale del lavoro – e Stalin la ricorda – e quella aziendale o tecnica altresì, su cui verte l’abbrutimento dell’operaio e il dispotismo di fabbrica. Questi i due perni del sistema borghese: anarchia sociale e dispotismo aziendale. Vediamo ancora in Stalin un conato di lotta contro la prima; sul secondo egli tace.

Nulla nella Russia di oggi muove nella direzione di queste conquiste, sia di quelle rievocate oggi, sia di quelle lasciate nell’ombra.

Se una barriera, insormontabile oggi e domani, rotta solo al fine di fare l’uno contro l’altro il reciproco mercantile affare, si pone tra la fabbrica di Stato e il colcos, che cosa avvicinerà città e campagna, che cosa diminuirà la divisione sociale tra operaio e contadino, che cosa potrà liberare il primo dalla necessità di vendere troppe ore per poco denaro e poco cibo, e gli consentirà quindi di contendere alla tradizione capitalistica il monopolio della scienza e della cultura?

Non solo non siamo nella fase del primo socialismo, ma nemmeno in un completo capitalismo di Stato, ossia in un’economia in cui, pure tutti i prodotti essendo merci e circolando contro denaro, ogni prodotto sia a disposizione dello Stato, al punto che dal centro questo possa fissare tutti i rapporti di equivalenza ivi compreso quello della forza di lavoro. Anche un simile Stato non è economicamente e politicamente controllabile e conquistabile dalla classe operaia, e funziona al servizio del Capitale reso anonimo e sotterraneo. Comunque da questo sistema è lontana la Russia, e vi abbiamo solo un Industrialismo di Stato. Tale sistema, sorto dopo la rivoluzione antifeudale, è valido a sviluppare e diffondere industria e capitalismo con ritmo ardente, con investimenti di Stato in opere pubbliche anche colossali, e ad accelerare una trasformazione in senso borghese dell’economia e del diritto agrario. Nulla hanno le aziende agrarie «collettive» di statale, e nulla di socialista, è ben chiaro; siamo al livello delle cooperative che sorsero nella valle padana al tempo dei Bandini e dei Prampolini, che gestivano la produzione agraria fittando se non comprando fondi, ed anche fondi demaniali come quelli golenali ed altri, che risalgono ai vecchi ducati. Quello che nel Kremlino non può a Stalin arrivare è che nei colcos si ruba indubbiamente cento volte di più che in quelle scialbe ma oneste cooperative.

Dunque lo Stato industriale, che deve patteggiare per comprare in campagna viveri sul terreno del «libero mercato», mantiene la remunerazione della forza e del tempo di lavoro allo stesso livello dell’industria capitalistica privata. Si può anzi dire che come evoluzione economica è, ad esempio, più vicina l’America che la Russia all’integrale capitalismo di Stato, dato che forse l’operaio russo per tre quinti del suo lavoro riceve alla fine del giro prodotti agrari, e invece quello americano per tre quinti prodotti industriali, e anche quelli alimentari li ha in gran parte (poveraccio) industrialmente scatolizzati.

Stato e ritirata

E a questo punto viene un’altra grande questione: il rapporto agricoltura-industria ci lascia in Russia pienamente a quota borghese, per notevole che sia la incessante avanzata della seconda, e su tal rapporto Stalin ammette di non aver nemmeno in prospettiva innovazioni che si avvicinino non diciamo al socialismo, ma ad un maggiore statalismo.

Anche questa ritirata è coperta con abilità da uno schermo dottrinale. Cosa possiamo fare? Espropriare brutalmente i colcos? Occorre a ciò la forza dello Stato; ma qui Stalin fa ricomparire la futura abolizione dello Stato che altra volta voleva relegare tra i ferrivecchi, parlandone con l’aria di chi dica: ma che scherziamo, ragazzi?

Evidentemente non regge la tesi che lo Stato degli operai disarmi quando ancora tutto il settore della campagna è organizzato in forma privata e mercantile, poiché se per un momento passasse la tesi prima discussa: in tempo socialista può sussistere la produzione per merci, essa sarebbe tuttavia inseparabile dall’altra: fino a che il mercantilismo non sarà eliminato in tutto il campo, non si potrà parlare di soppressione dello Stato.

Ed allora non resta che concludere che la soluzione del fondamentale rapporto città-campagna, se drammaticamente evolve dalle millenarie caratteristiche asiatiche e feudali, è presentata nettamente come la presenta il capitalismo e nei termini classici in cui l’hanno sempre posta i paesi borghesi: vedere di far bene nello scambio tra i prodotti dell’industria e quelli della terra. «Questo sistema richiederà dunque un aumento notevole della produzione industriale». Siamo proprio li. Addirittura, con lo Stato immaginato per un momento assente, una soluzione «liberale».

• • •

Dicevamo che, dopo quella del rapporto agricoltura-industria, risolto in termini di piena confessione di impotenza ad altro che ad industrializzare e crescere la produzione (a danno dunque degli operai), vi è altra grande questione: rapporto tra Stato ed azienda, e rapporto tra aziende.

La questione è sorta davanti a Stalin nella forma di validità in Russia, anche per l’economia della grande industria statale, della legge del valore propria della produzione capitalista. Si tratta della legge secondo cui lo scambio di merci avviene sempre tra equivalenti: falsa facciata di «libertà, uguaglianza, e Bentham», che Marx abbatté, mostrando che il capitalismo non produce per il prodotto ma per il profitto. Tra le mandibole di questa morsa, tra la necessità e il dominio delle leggi economiche, il Manifesto di Stalin si muove in modo tale, che conferma la nostra tesi: nella sua forma più possente, il Capitale assoggetta a sé lo Stato, quando questo appare padrone giuridico titolare di tutte le Imprese.

Nella seconda giornata, o Scheherazade, vi racconteremo di questo, e nella terza dei mercati internazionali e della Guerra.



Source: «Il Programma Comunista», Nr.1, 1952

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