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STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (XXII)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXII)
64 – L’agricoltura associata
65 – La collettivizzazione al 1919
66 – Il lungo cammino al socialismo
67 – Contro la sconfitta e la miseria
68 – Ancora contro la gestione «collegiale»
69 – Rigurgiti sindacalisti
70 – Ancora l’anarco-sindacalismo
71 – Produzione e rivoluzione
72 – La questione sindacale internazionale
73 – Il quadro della società russa
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Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXII)

64 – L’agricoltura associata

Durante gli anni della guerra civile la situazione delle campagne resta caotica ed è ben lontana da un assestamento qualsiasi.

La parte maggiore della produzione è tuttora nelle mani dei contadini che hanno molta terra (nominalmente tutta nazionalizzata), e adeguato capitale di esercizio. A dire della solita «Storia» ufficiale (che per le ragioni che vedremo aveva interesse a mentire crescendo il peso dei kulak) ancora nel 1927, mentre le aziende associate produssero appena 35 milioni di pud di grano mercantile (6 milioni di quintali) i kulak ne producevano ben 130 milioni da mandare al mercato, contro un totale di 600. Solo nel 1929 il rapporto si capovolge, dopo la nota campagna di distruzione dei kulak «come classe».

Nel 1919 deve presumersi, ed è indubitato, che la più gran parte della gestione della terra si fa dai capitalisti agrari, che hanno ereditato la posizione che nelle campagne avevano nobili e grossi proprietari borghesi redditieri (sotto il quale regime un enorme volume di grano andava al mercato, non tanto nazionale quanto internazionale, in una cifra dell’ordine di varie centinaia di milioni di quintali).

L’organizzazione di una produzione associata era ai suoi primi passi, e non tentava ancora di invadere il campo dei kulak quanto di attirare gruppi di piccolissimi e piccoli contadini: lavoro che subito dopo la rivoluzione condussero i comitati dei contadini poveri. Invero in quei primi tempi prevaleva il programma dei populisti e socialisti rivoluzionari; ossia la divisione in piccoli lotti tra i contadini della terra tolta ai signori.

Il 4 dicembre 1919 si tenne il congresso «delle Comuni e degli Artel agricoli», al quale pronunziò un discorso Lenin.

Premettiamo la distinzione fra i termini di Artel e di Comune. L’Artel è una forma di passaggio tra il lavoro individuale, e al più familiare, su lotti minimi, e una associazione di lavoratori agricoli. Infatti nell’Artel, che è il nome storico di antichissime forme russe di conduzione agraria collettiva, residui del comunismo primitivo che andavano ormai scomparendo tanto sotto la pressione feudale quanto sotto quella borghese che successe all’abolizione della servitù della gleba nel 1861, nell’Artel sussistono la gestione familiare e quella associata. Ogni famiglia compresa nell’Artel ha la sua parte di terra che lavora isolata, facendone suoi i prodotti, in massima parte per il consumo diretto. Al lotto è annessa una certa parte di mezzi di produzione: bestiame, attrezzi, scorte, ed anche la casetta di abitazione della famiglia. Vi è poi una vasta estensione di terra non lottizzata, sulla quale lavorano insieme i membri validi delle famiglie, e questo insieme è dotato di una notevole quantità di «scorte», tra cui le prime macchine che possono usarsi su terreni di grande superficie, specie nella coltura cerealicola. La formula che useranno anche gli stalinisti tradizionali è che nell’Artel «solo i più importanti mezzi di produzione» sono usati in comune – i meno importanti sono distribuiti tra le famiglie singole.

La Comune, che anche essa si ricollega alle antiche forme, al mir, è uno svolgimento ulteriore verso il vero lavoro collettivo, in quanto non vi sono i lotti individuali (familiari); e tutte le scorte, e magari anche le case, sono di gestione collettiva.

È facile vedere che dalle Comuni agricole usciranno le grandi aziende statizzate, poi dette Sovcos, e dagli Artel la forma ibrida che oggi chiamano Colcos.

65 – La collettivizzazione al 1919

Le prime, non molto numerose e non molto vaste, Comuni, e i primi Artel, avevano l’appoggio del potere centrale bolscevico, ma avevano contro due forti ostacoli: anzitutto i kulak, che vedevano sottrarre al loro sfruttamento la mano d’opera necessaria alle loro terre, e poi gli stessi contadini medi e piccoli tradizionalmente attaccati al possesso della loro piccola azienda e alla loro autonomia domestica. Tali elementi resistono ad ogni associazione di lavoro e di esercizio, e temono di esservi affiliati con la forza perdendo così la terra, la casa e gli attrezzi di cui disponevano. Questa fobia degli Artel viene ovunque sfruttata dai bianchi e controrivoluzionari per guadagnare l’appoggio dei contadini tra i quali fanno abile propaganda contro la imminente spoliazione da parte dei bolscevichi.

Nel discorso del 1919 Lenin sottolinea la necessità di non forzare la pericolosa situazione, che può incidere sugli esiti della guerra civile.

Egli insiste su due criteri già sanciti dal partito. Il primo è l’aiuto che gli Artel e le Comuni sono tenuti per un’apposita legge del potere sovietico a dare ai contadini poveri della loro zona, aiutandoli nelle loro difficoltà economiche e nella resistenza alle sopraffazioni dei contadini ricchi. Per lo sviluppo degli Artel e delle Comuni lo Stato aveva stanziato un miliardo di rubli (somma in verità molto ridotta perché si era al tempo dell’inflazione e non vi era stata ancora la rivalutazione monetaria, operata nel 1922), ma si voleva evitare ogni speculazione politica che tendesse a svalutare i successi delle modeste gestioni collettive, attribuendoli alla passività addossata allo Stato. Il secondo criterio era di rispettare la spontaneità nell’entrata del contadino singolo, con la sua poca dotazione di scorte, nell’azienda collettiva, che in molte località era stata imposta dall’alto e di autorità, suscitando malcontenti e inconvenienti gravi.

Come sempre Lenin raccomanda prudenza nella manovra, quando la situazione è delicata e un nulla può rovesciarla; ma non ammette mai che si decampi menomamente dai principi teorici. Questo scritto è uno di quelli molto sfruttati dagli stalinisti per giustificare la posteriore fondamentale importanza data alla forma meno avanzata, e per affibbiare al sistema dei colcos la qualifica del tutto arbitraria di forma di produzione socialista, di «proprietà socialista». Per questo, come negli altri casi, è utile fermarsi sulle enunciazioni e sulla costruzione di Lenin.

«L’importanza di tutte le imprese [per la lavorazione della terra in comune] è immensa; perché se la vecchia azienda contadina povera, misera, rimanesse qual era, non si potrebbe parlare di nessuna solida edificazione della società socialista»[187].
Si tratterà in questo studio di vedere se ed in quale misura la piccola gestione è stata eliminata.

Si può ammettere che la forma mista Artel-Colcos sia un progresso rispetto alla frammentazione in aziende minime. Ma rispetto all’azienda dei kulak, ove il lavoro si conduce, sotto lo sfruttamento padronale, in forma già collettiva, il vero progresso è solo dato dalla forma Comune-Sovcos in cui si elimina l’imprenditore privato, ma si conserva in pieno la gestione collettiva integrale. Dove invece la forma Colcos sia sviluppata a danno della forma borghese ma anche a danno dello sviluppo della forma Sovcos, risorge in parte la piccola lottizzazione, ed è il gioco delle cifre quantitative che darà il bilancio della «collettivizzazione»; ferma restando la differenza di principio tra «socialismo» e semplice «statizzazione».

Tutta la speculazione dello stalinismo sta nel fare identificazione tra economia gestita dallo Stato ed economia socialista, cercando di sostenere che tale terminologia ha le sue radici nelle opere di Lenin (edite fuori di ogni possibile controllo dai governi di Stalin): dimenticando o meglio facendo dimenticare la differenza storica tra un potere ancora strettamente legato ad una dottrina ortodossa anche in materia di economia, e alla politica della rivoluzione comunista mondiale, e la loro amministrazione ordinaria ad opera dello Stato di Mosca fine a se stessa e sciolta da ogni legame con quelle origini, e quelle finalità che nella politica del tempo di Lenin sempre furono presenti.

66 – Il lungo cammino al socialismo

Lenin tiene presente l’obiezione che si traversa un periodo di paurosa crisi, di rovina generale, che rende difficile il compito delle aziende collettive. Egli risponde:
«Significa ciò forse che le Comuni non possano apportare cambiamenti nella vita dei contadini dei dintorni, e non possano dimostrar loro che le imprese agricole collettive non sono una pianta coltivata artificialmente in serra, ma un nuovo aiuto offerto dal potere operaio ai contadini lavoratori, un sostegno nella loro lotta contro i kulak?».

Lenin si riferisce ancora una volta qui alla iniziativa dei sabati comunisti, che non è un mezzo per «costruire economia», ma solo per superare resistenze politiche dovute alle nefaste tradizioni del passato. E ancora una volta questo riferimento è utile per questioni di base, di principio, mai abbastanza ribadite. I contadini vedranno
«che i comunisti ammettono nuovi membri nel partito non perché essi godano dei vantaggi derivanti dalla situazione di un partito al governo, ma perché offrano l’esempio di un lavoro veramente comunista, cioè di un lavoro che si compie gratuitamente. Il comunismo è lo stadio supremo dello sviluppo del socialismo, in cui gli uomini lavorano perché sono coscienti della necessità di lavorare a vantaggio di tutti. Sappiamo che non possiamo instaurare subito il regime socialista. Voglia Iddio [non sappiamo perché le edizioni stampate in Russia delle «Opere scelte» hanno sempre tale banale formula di traduzione – la famosa Ponomareva, che non professa esportazione di marxismo teorico, è arrivata a dire che sulla Bibbia non giurava non professando religione alcuna.…] che i nostri figli, o fors’anche i nostri nipoti, lo vedano da noi instaurato. Ma diciamo che i membri del partito comunista al potere si assumono, nella lotta contro il capitalismo, la maggior parte delle difficoltà mobilitando i migliori comunisti per il fronte, ed esigendo da coloro i quali non possono essere utilizzati nel campo militare, che essi lavorino nei sabati comunisti», senza remunerazione.

Come queste parole dell’«ingenuo» Lenin sulla portata dell’appartenere al partito vincitore combinano con le presenti balle dei «ritornatori» a Lenin e Marx, sulle nuove vie elettorali per passare al socialismo? E come la psicologia dell’elettore occidentale – la sola, forse, disciplina in cui Lenin si mostrò non ferrato – permette di illudersi che si ottengano voti promettendo invii al fronte di combattimento e lavoro da forzati, ma volontario, e non pagato uno sporco rublo o lira che sia?

Lenin grida all’uditorio che si deve provare che l’azienda associata va bene non perché riceve sussidi dallo Stato, ma perché vi è dentro gente che si sacrifica a lavorare per nulla
«Su questo punto non si ammettono pretesti, non è lecito addurre la mancanza di merci, di sementi o la moria del bestiame».

E questi figuri di nostra conoscenza non fanno che promettere a destra e a manca a chiunque ha da accampare una piccola querimonia, che se vincono loro saranno più larghi di «soldi del governo» anche ai più disutili fannulloni! Non esclusi, tra gli ammorbanti pletorici statali, birri, carcerieri e preti al soldo della società borghese.

Stalin non aspettò i nipoti e annunziò che il socialismo lo aveva già tutto fabbricato. Noi aspettiamo i nipoti dei suoi degradatori da tutti i titoli, anche di babbo e di nonno.

67 – Contro la sconfitta e la miseria

Il lavoro di risanamento dell’economia procede ancora in maniera informe al tempo del IX congresso del Partito Comunista, che si tiene dal 29 marzo al 5 aprile del 1920. La situazione della guerra civile è molto migliore, come ben sappiamo, ma quella della produzione e del vettovagliamento è ancora più disastrosa: in molte province avanza la carestia, che farà nel giugno lungo le sponde del Volga centinaia di migliaia di vittime.

Lenin svolge il rapporto del Comitato Centrale, e come sempre nel fare il punto gradua le diverse questioni. Vediamo qui trattati solo indirettamente i problemi dell’economia industriale ed agricola: sono in primo piano i rapporti delle forze politiche, e soprattutto alla scala internazionale.

Non significa interrompere la nostra esposizione dell’evolvere dei rapporti di produzione il riferire alcune tesi di fondo, anche in quanto ribadiscono dettami di tempi precedenti, che noi consideriamo a distanza di tanti anni validi anche attualmente, e tali da sbugiardare il vantato leninismo dei capi russi di oggi.

Lenin stesso svolge la ripartizione del lavoro, a quel frangente. Esso
«si divide in due grandi rami: quello che si ricollega ai compiti militari e a quelli che determinano la situazione internazionale della Repubblica, e il pacifico lavoro interno di edificazione economica, che ha cominciato a passare in primo piano forse soltanto dallo scorso anno (1919) e dall’inizio di quest’anno, quando è apparso con perfetta chiarezza che avevamo riportato la vittoria definitiva sui fronti decisivi della guerra civile».
Ricordato che nella primavera del 1919 la situazione era estremamente difficile, Lenin giustifica la consegna:
«Tutto per la guerra, tutto per la vittoria!».

Ricordata l’enorme sproporzione delle forze Lenin attribuisce il grandioso successo alla forza dell’inesorabile disciplina e centralizzazione, e assesta alcuni dei suoi tremendi colpi alle spregevoli lamentele democratiche.

«Milioni di lavoratori hanno potuto, nel paese meno colto, giungere a questa organizzazione, a questa disciplina, a questa centralizzazione, soltanto perché gli operai, passati per la scuola del capitalismo, erano stati uniti dal capitalismo stesso, e perché il proletariato in tutti i paesi avanzati si era unito [altro che puteolenti vie nazionali!], e in proporzioni tanto più vaste quanto più il paese era avanzato; dall’altro lato perché la proprietà, la proprietà capitalistica, la piccola proprietà nella produzione mercantile, divide gli uomini [correggiamo la papera del traduttore: gli operai].
La proprietà divide e noi uniamo, uniamo in numero sempre maggiore, milioni di lavoratori in tutto il mondo […] Più si andava avanti, più i nostri nemici si dividevano. Essi erano divisi dalla proprietà capitalistica, dalla proprietà privata nella produzione mercantile, fossero essi dei piccoli proprietari che speculavano vendendo le eccedenze di grano e si arricchivano a danno degli operai affamati, fossero essi capitalisti di diversi paesi, benché in possesso della potenza militare…«.

Lenin tratteggia a grandi pennellate il quadro internazionale:
«Tutto questo ci permette di dire che quando avremo realizzato completamente nel nostro paese la dittatura del proletariato, la massima unione di quest’ultimo per mezzo della sua avanguardia, del suo partito di avanguardia, potremo attendere… [attendere che cosa? il socialismo in Russia? Mai, no!] la rivoluzione mondiale. Ed è questa in realtà l’espressione della volontà, della decisione del proletariato di unire milioni e decine di milioni di proletari di tutti i paesi».
E conclude: noi abbiamo una base mondiale più larga di quanto l’ebbe qualunque rivoluzione precedente![188]

A questa data Lenin già sconta le sconfitte: terrore bianco ungherese, tedesco, finlandese. Malgrado ciò insiste sul bolscevismo fenomeno mondiale, e seguita a dedicare la maggior parte del rapporto alla situazione internazionale, sempre vibrando stoccate alle frasi dei gialli sulla libertà e la democrazia.
«Le frasi sulla minoranza e la maggioranza, la democrazia e la libertà non decidono nulla: quel che decide è la coscienza e la fermezza della classe operaia»[189].

«Da questa vittoria, da questa certezza, passiamo e siamo giunti [udite la voce di Lenin che abbassa il tono?] ai compiti dell’edificazione economica pacifica, la cui soluzione è il tema di questo congresso».
Giuriamo che questo discorso nessuno ha pensato di cucinarlo. Non ci si trova il riempitivo della costruzione, edificazione del socialismo. Le formule sono impeccabili.
«Sì, si tratta ora di consacrare ai compiti pacifici dell’edificazione economica, ai compiti della ricostruzione dell’industria distrutta, tutto ciò che il proletariato e la sua unità assoluta può concentrare»[190].

68 – Ancora contro la gestione «collegiale»

A questo punto il rapporto mette in primo piano una questione «che pare di dettaglio» ma nella quale Lenin denunzia una grave «confusione teorica» di cui non si potrebbe tollerare «nemmeno la decima parte». È la questione di sostituire la direzione collegiale alla direzione personale, che abbiamo visto già trattata nel 1918, in senso nettamente opposto a quello dei leninisti che al XX congresso hanno abolita la direzione personale… da parte di cadaveri.

Dobbiamo raccomandare al lettore lo studio di tutto il testo. E vedere come Lenin svolge la premessa:
«Permettetemi, compagni, di fare un po’ di teoria, di indicare come governa una classe, in che cosa si manifesta il dominio di una classe».
Il possente squarcio storico e marxista mostra quanto sia coglione chi si ferma a vedere se il dominio fa bene a manifestarsi in un collegio, in un individuo, nella massa e simili. Lenin infatti trova la grossa cantonata teorica nella frase solita:
«La gestione collegiale è una delle forme di partecipazione delle grandi masse all’amministrazione»[191].
Frase pestifera, nennifera, e se altri ha di peggio lo dica.

Partendo dalle lotte tra feudalismo e borghesia Lenin dimostra che la manifestazione essenziale è lo stritolamento delle forme sociali difese dalla classe rovesciata. Il resto è fregnaccia.

E ritorna un’altra tesi che sulla scorta di Lenin abbiamo in quanto precede molto tenuto a ricostruire, contro uno dei marchiani falsi di Stalin, circa la promessa di Lenin di… ridare il suffragio universale.

«Quando la Costituzione ha fissato sulla carta ciò che la vita aveva deciso – l’abolizione della proprietà capitalistica e fondiaria – ed ha aggiunto: la classe operaia ha, secondo la Costituzione, più diritti che i contadini e gli sfruttatori non hanno nessun diritto, con ciò si è consacrato che noi avevamo realizzato il dominio della nostra classe ed avevamo unito a noi i lavoratori di tutti gli strati e di tutti i gruppi minori».

E tutto ciò – abbiamo dunque ben ragione noi – è stato sotto Stalin, lacerando la Costituzione del 1918, spudoratamente sconsacrato.

Lenin viene a bomba:
«Chi collega la questione del modo in cui si esprime il dominio di classe con la questione del ‹centralismo democratico›, come spesso accade, crea una tale confusione da rendere impossibile ogni lavoro efficace».
La borghesia non fu tanto scema da confondere l’amministrazione con lo Stato (tradotto meglio: col Potere) e utilizzò gli elementi capaci usciti dalla classe feudale.
«Le considerazioni sulla direzione collegiale sono molto spesso imbevute della più crassa ignoranza [fregatevi dunque gli occhi: aveva già letto Nenni?], di uno spirito di ostilità verso gli specialisti»[192].

69 – Rigurgiti sindacalisti

Lenin nella confutazione dello sciocco «operaismo» bruto che dice: gli operai bastano soli a tutto, affronta la grave questione dei sindacati dopo la rivoluzione:
«I sindacati dovranno superare difficoltà enormi. Bisogna fare in modo che essi comprendano il loro compito [qui Lenin più che mai parla duro e senza falsi riguardi], il compito di lottare contro le vestigia del famigerato democratismo. [E rincara la dose; filistei di Russia e di fuori, di allora e di oggi: le mani in alto!]. Tutte queste grida sulle nomine dall’alto, tutto questo ciarpame dannoso, che si trova in varie risoluzioni e conversazioni, deve essere spazzato via. Altrimenti non potremo vincere!»[193].

La conclusione è ancora sul sacrificio della classe operaia. E ci dice come, nell’immediato clima post-rivoluzionario, mutano originalmente i rapporti di produzione. La Russia viene divisa, negli studi economici, anche di Lenin stesso, in governatorati produttori e consumatori di grano. Nei secondi vi è una cerealicoltura inferiore al fabbisogno alimentare locale, di massima perché includono centri urbani importanti. In essi gli operai nel 1918 e 1919 non ricevettero che 7 pud di grano (115 chili) all’anno. I contadini dei governatorati produttori ne consumarono 17, mentre prima della guerra ne consumavano 16.
«Ecco due cifre che mostrano il rapporto delle classi nella lotta per gli approvvigionamenti. Il proletariato ha continuato a sopportare i maggiori sacrifici. Si grida contro la violenza! Ma il proletariato ha giustificato e legittimato questa violenza, perché è esso che ha sopportato i più grandi sacrifici!».

E la logica conclusione marxista sui sindacati (più avanti vedremo condannata la bolsa tesi «ordinovista» dell’opposizione operaia russa che voleva dare la gestione produttiva ai sindacati):
«Come tutti i sindacati [esteri] i vecchi sindacati [russi] hanno una loro storia ed un loro passato. Nel passato essi furono organi di resistenza contro coloro che opprimevano il lavoro, contro il capitalismo. Ma ora che la classe operaia è diventata la classe che detiene il potere statale, ed è costretta a sopportare grandi sacrifici, a patire la fame e a morire, la situazione è cambiata».

Ai menscevichi e socialisti rivoluzionari, che chiedono che «alla direzione personale si sostituisca quella collegiale» Lenin risponde promettendo… più rigorosa disciplina e centralismo nello Stato e nel partito.
«Dopo la guerra che abbiamo sostenuto al fronte, ci sarà il compito molto più complesso della guerra incruenta».
Fondandosi su un rapporto di Kamenev egli denunzia il piano del capitalismo dell’Intesa di sabotaggio commerciale ed economico. E la parola d’ordine resterà l’inflessibilità dell’azione proletaria.

Infine si riferisce ad un opuscolo del compagno Gusev sul primo «piano economico fondamentale della ricostruzione dell’industria e della produzione in tutto il paese». Non solo Lenin, nel 1920, non promette socialismo, ma avverte che, sebbene il piano abbracci molti anni, «noi non promettiamo di liberare di colpo il paese dalla fame»[194].

Studiosi di personaggi storici: il più prudente, o il più audace dei rivoluzionari? Non vi può rispondere una agiografia rossa, né un Plutarco novecento, ma solo la dialettica dei comunisti, che prenda pure il nome da Marx, se da questi e da Lenin hanno osato prendere nome certe forme di biografia dell’ex grande Stalin.

70 – Ancora l’anarco-sindacalismo

Nel X congresso del Partito Comunista Russo, dell’8–16 marzo del 1921 (tra il II e il III congresso dell’Internazionale Comunista) si manifestò una opposizione alla maggioranza del Comitato Centrale, che si suole assimilare ad una opposizione di «sinistra» e considerare come una prima reazione all’incipiente involuzione della rivoluzione russa e del partito.

La Storia del «Breve Corso» fa un’assoluta confusione tra gli oppositori in quel congresso, e i nomi degli oppositori nelle lotte seguite alla morte di Lenin, a partire da quella di Trotsky (1924). All’inizio il nome più noto era quello della compagna Kollontaj, fatta poi ambasciatrice a Stoccolma e che tutta la stucchevole stampa borghese di quel tempo chiamava l’amante di Lenin.

A Trotsky il «Breve Corso» attribuisce una linea del tutto opposta a quella di tale opposizione a proposito dei sindacati: la richiesta di «statalizzarli» e quasi «militarizzarli», che sarebbe in ogni caso l’opposto della tendenza di Kollontaj che ne difendeva una larga autonomia dal partito politico. Non minore confusione fa con la «sinistra» del tempo di Brest Litovsk, capitanata da Bucharin, che, come abbiamo molto ampiamente riferito, fu battuta definitivamente, dopo la firma del trattato di pace con la Germania, al VII congresso del marzo 1918.

Non sarà male rilevare ancora una volta che l’opposizione condotta dalla corrente di sinistra del Partito comunista d’Italia, e nel 1922 dal partito stesso, sulla tattica europea dell’Internazionale Comunista, non solidarizzò mai con le tendenze semi-sindacaliste di vari paesi, in quanto sminuivano il compito del partito e sopravalutavano quello dei sindacati, il che le conduceva (esempio del KAPD: Partito Comunista Operaio Tedesco) a propugnare, per ottenere sindacati «organi della rivoluzione e della nuova gestione economica», la scissione nel seno dei sindacati tradizionali dei vari paesi, il che non fu teorizzato né applicato mai, anzi fieramente combattuto in dottrina e pratica, dal Partito comunista fondato in Italia a Livorno nel gennaio 1921, per quanto ne facesse parte il gruppo di Torino (Gramsci, «Ordine Nuovo») la cui ideologia in materia risentiva profondamente di quel tipo di errori.

Nella preparazione del congresso mondiale del 1920 la sinistra italiana ebbe perfino a sostenere che non potessero essere considerate parte del congresso le delegazioni di sindacati estremisti (Scozia, Stati Uniti) perché non si potevano ammettere come sezioni dell’I.C. che i partiti politici comunisti.

Quanto alla direttiva di patriottismo rosso dell’opposizione di Brest e del 1918, l’ideologia del nostro gruppo ha tradizionalmente respinte quelle posizioni.

La reazione di Lenin all’opposizione del X congresso fu totalmente ligia alla sana linea marxista e rivoluzionaria, e ad essa si ricollegano le tesi del II congresso dell’I.C. sui Consigli di Fabbrica, che con costruzione analoga, e sia pure contrapponendoli ai vecchi sindacati, venivano in correnti di molti paesi elevati a sostituti del partito, e dello Stato della Dittatura del Proletariato.

Ma un altro evento importante si collega al X congresso, ed è la sanguinosa rivolta di Kronstadt avvenuta solo otto giorni prima della sua apertura, e dopo non lieve lotta sanguinosamente repressa dal governo bolscevico. Anche di essa la «Storia» ufficiale dà la solita presentazione esagerata e la collega con i soliti nomi dei noti oppositori e futuri processati e giustiziati. Non può però porsi in dubbio, a parte l’opera multipla di segreti provocatori, che in essa, tra i marinai e cittadini in rivolta, erano elementi anarchici e qualche loro propaggine in seno al partito bolscevico. Ma sarà bene far precedere il commento alla tesi di Lenin, del tutto fondamentale, sulla «deviazione».

71 – Produzione e rivoluzione

Alla base della stortura antimarxista di queste ideologie, di antichissima radice, che si riportano a Proudhon e a Lassalle, anche se non lo sanno, sta il concetto pomposo di «rete aderente a quella dell’economia produttiva» sulla quale graviterebbe la costruzione di un organismo proletario atto ad organizzare la lotta di classe del proletariato, a rappresentare il potere di esso nella rivoluzione (Gramsci usò bene la parola Ordine: non era uno Stato, nemmeno un semi-Stato, e se tollerava il partito era perché ne concepiva la funzione come scolastico-culturale soltanto, come una secondaria rete di propaganda e di stampa) e soprattutto a condurre la nuova economia, l’unità della quale restava, come in ambiente mercantile, l’Azienda, conquistata dai suoi già dipendenti.

La proposta base delle tesi della «Opposizione Operaia» era questa, da Lenin citata:
«L’organizzazione della gestione dell’economia nazionale spetta al Congresso dei produttori di tutta la Russia, riuniti in associazioni sindacali e di produzione, che eleggono un organo centrale che dirige tutta l’economia della Repubblica»[195].

Lenin pone una simile proposizione in contrasto con la teoria marxista e comunista, e con la stessa esperienza delle rivoluzioni e della rivoluzione russa in particolare.
«In primo luogo, nel concetto di ‹produttori› sono compresi il proletario, il semi-proletario [piccolo contadino con poca terra] e il piccolo produttore di merci [artigiano autonomo]; ci si scosta quindi radicalmente dal concetto fondamentale di lotta di classe e dall’esigenza fondamentale di distinguere nettamente le classi»[196].

La critica è chiarissima, in quanto la parola proletario indica colui che non ha alcuna particola di mezzi di produzione, che invece in misura maggiore o minore hanno il contadino lavoratore diretto e l’artigiano libero. Quindi l’espressione Stato e governo dei produttori, e peggio dittatura dei produttori, è solo uno sgorbio dottrinale, e storicamente potrebbe solo risolversi in una scolorita ed imbelle democrazia economica, conservatrice al pari delle classi di alta borghesia. L’intraprenditore capitalista non ammetterà mai di non essere anch’egli qualificato per la «rete dei produttori».

Questa sbilenca costruzione rassomiglia da vicino a quelle di tipo corporativo (ad esempio la dannunziana di Fiume), come la fascista della Carta del Lavoro e della Camera dei Fasci e delle Corporazioni; ed ha parentele col nazionalsocialismo di Hitler.

Poiché questo schema porta, nella questione sostanziale del potere, il cui aspetto base è il dominio della rete economica, tutti gli operai, oltre che alla pari degli ibridi «produttori», alla pari tra loro quale che ne sia la milizia politica e l’ideologia, esso adegua l’operaio membro del partito al senza-partito, e provoca quest’altra non meno robusta censura di Lenin:
«In secondo luogo, puntare sulle masse senza partito, o civettare con esse, come fa la tesi citata, costituisce una deviazione non meno radicale dal marxismo. Il marxismo insegna che soltanto il partito politico della classe operaia, cioè il Partito Comunista, è in grado di raggruppare, di educare, di organizzare l’avanguardia del proletariato e di tutte le masse lavoratrici; che esso è l’unica forma capace di resistere alle inevitabili oscillazioni piccolo-borghesi di queste masse, alle loro inevitabili tradizioni di grettezza [.…] e di dirigere l’azione unificata di tutto il proletariato […] Senza di ciò la dittatura del proletariato è irrealizzabile»[197].

Lenin segue polemizzando con la interpretazione che gli oppositori davano di alcuni passi del programma del partito (quello accennato dell’VIII congresso), in cui è cenno alla funzione dei sindacati nella RSFSR in cui partecipano alla direzione dell’economia. Lenin cita vari passi in cui è detto che i sindacati devono liberarsi «sempre più dalla grettezza corporativa», ed è confermata la funzione dirigente ed educatrice del partito politico verso i sindacati.

Questi, nel concetto di Lenin, possono essere utili come tramite di quella influenza del proletariato sugli strati semi-proletari e addirittura piccolo-borghesi, di cui solo nel partito il proletariato vero e proprio si rende capace. È evidente che questa elezione da parte del congresso dei produttori degli organi supremi di gestione economica lascia da parte e svuota lo Stato ed il partito proletario usciti dalla vittoria rivoluzionaria.

A giusta ragione Lenin chiama questa un’ideologia sindacalista (nel senso soreliano di azione economica che esclude quella politica) ed anarchica, in quanto apre una irreparabile breccia nel potere della classe rivoluzionaria, e facendo coro alla velenosa campagna che divampa nel mondo, rilancia le stesse insidiose calunnie disfattiste dei democratici e degli opportunisti di ogni plaga.

72 – La questione sindacale internazionale

La nostra critica dello «svolto» del recente XX congresso ha messo in luce come il punto di arrivo, in Russia e altrove, e particolarmente presso noi in Italia, sarà la svalutazione del compito del partito politico nello Stato e della teoria della sua unità non nel senso bolso di raccattare tutte le spazzature, ma nel corretto senso di «unicità» ed esclusività.

Nel 1921 Lenin si richiama alle tesi del II congresso mondiale sul compito del partito, di carattere fondamentale e accettate senza opposizioni che solo teorie antimarxiste e libertarie avrebbero potuto dettare[198].

Il concetto della preminenza del partito politico nella rivoluzione, concetto essenzialmente internazionale, non ha mai lasciato per i comunisti spazio al minimo dubbio, ed esso è inoltre ribadito nelle tesi, anche esse fondamentali (e, per quello che vale tal dettaglio, accettate in pieno dalla sinistra italiana) sul movimento sindacale e i consigli di fabbrica, in cui tutta la costruzione è che il sindacato diventa organo rivoluzionario solo in quanto viene conquistato, permeato e organizzato dal partito politico comunista.

Giusta la tesi 6, dove esiste la scissione sindacale i comunisti aiutano i sindacati di sinistra a liberarsi dai loro errori sindacalisti e a lottare contro la burocrazia sindacale socialdemocratica, ma restano a lavorare nei sindacati di destra: esempio classico la Confederazione Generale del Lavoro in Italia nel 1921. Tesi 7. Nel periodo della lotta rivoluzionaria è possibile una perfetta unione coi sindacati e i consigli «sottoponendoli all’effettiva direzione del partito come avanguardia della Rivoluzione proletaria». Nella parte II delle tesi è stabilito che i Consigli di fabbrica non solo non possono sostituirsi o eguagliarsi al partito, ma «non possono sostituire i sindacati». La loro lotta per il controllo nell’azienda e per la sua conquista non può avere altra portata che di scatenare l’antagonismo di classe e la repressione della borghesia, e condurre tutti i lavoratori, fuori da ogni particolarismo di professione e di luogo di lavoro, alla lotta unitaria per il potere centrale e la dittatura di classe. La tesi considera i sindacati più centralizzati dei Consigli, ossia meno particolaristi. È per questo che allora si sostenne che la corrente italiana «Ordine Nuovo», sebbene decisa alla lotta contro gli opportunisti italiani del parlamento, dei sindacati e del partito socialista, deviava fortemente in linea di principio dalla concezione marxista della rivoluzione. La famosa rete dei consigli non era che una copia negativa della struttura sociale borghese e non ne superava l’economia mercantile ed aziendale, come non poteva essere il punto di appoggio per abbattere il potere capitalista. La dialettica restava estranea a questa costruzione dall’apparenza seducente.

La tesi 6 di questa classica parte detta ai comunisti mondiali la consegna «di sottomettere di fatto i consigli di fabbrica e i sindacati alla direzione del Partito Comunista, creando così un organo proletario di massa come base di un possente partito centralizzato del proletariato che abbracci tutte le organizzazioni proletarie di lotta e le guidi alla vittoria della classe operaia mediante la dittatura proletaria, al comunismo». La parte III stabilisce l’attitudine internazionale: sconfessione della turpe Internazionale gialla di Amsterdam, strumento della Società delle Nazioni, e fondazione dell’Internazionale Sindacale Rossa di Mosca, fermo restando il canone del lavoro nelle sezioni nazionali di Amsterdam[199].

Questa classica dottrina fu da pochi capita, nel seguito quasi da tutti tradita, e da ciò prese le mosse la spaventosa degenerazione del comunismo mondiale e il suo naufragio in tutto il quadro delle tare piccolo-borghesi e borghesi, di stile liberale, democratico, libertario e sindacalista. Lasciamo ora il tema, notando che questa parola oggi ha due usi; uno indica chi lavora nei sindacati economici, socio o organizzatore, l’altro (oggi meno capito) si riferisce ad una dottrina che si oppone a quella di Marx, dottrina volontarista ed in sostanza idealista, a cui, per usare un nome notorio, si può applicare la designazione di sindacalismo soreliano.

Per il successo che essa ebbe tra i libertari, giurati nemici del partito politico e dello Stato rivoluzionario, Lenin la designa come anarco-sindacalismo.

73 – Il quadro della società russa

L’aver impostato il quadro del X congresso ci riconduce in pieno nel tema economico.

Lenin non si limitava al potente scardinamento dell’opportunismo sul piano della dottrina, ma lo sottoponeva all’anatomia sociale. Egli collega quella deviazione fieramente stigmatizzata all’influenza in Russia del predominante elemento piccolo-borghese, e alla sua tendenza a passare dalla parte della controrivoluzione. Noi facciamo nostra la diagnosi di Lenin dei misteriosi fatti di Kronstadt. Lenin è un testimone principe, e Trotsky concorda con lui.

«La sommossa di Kronstadt fu forse l’esempio che mostrò con la massima evidenza come i nemici del proletariato sfruttano ogni deviazione dalla linea comunista conseguente. In quella occasione la controrivoluzione borghese e le guardie bianche di tutti i paesi del mondo hanno mostrato ad un tratto di essere disposte ad adottare la parola d’ordine del regime sovietico, pur di abbattere la dittatura rivoluzionaria in Russia; i socialisti rivoluzionari, i menscevichi e la controrivoluzione borghese utilizzarono a Kronstadt le parole d’ordine dell’insurrezione in nome del potere sovietico, per così dire, contro il governo sovietico della Russia»[200]. (I Soviet, ma non i bolscevichi!, era il grido).

L’importanza del Congresso del 1921 sta nel fatto che Lenin propone la Nuova Politica Economica, capolavoro di dialettica marxista, ed altra cosa male e niente capita, dopo gli enormi sforzi fatti dai traditori per dare da bere al mondo che costruire il socialismo pieno non era che un facile scherzo.

Lenin, dopo avere denunziato la «deviazione» degli oppositori «operai» oltre che come errore di dottrina, come immediato pericolo contro il quale andavano prese misure decisive (mozione sulla unità e contro il frazionismo del partito, questione che non mancherà di risorgere aspra e difficile) dichiara (e così ci introduce allo studio del grande scritto sulla «Imposta in Natura»):
«In un paese come la Russia, l’enorme prevalenza dell’elemento piccolo borghese e la rovina, l’impoverimento, l’epidemia, la carestia – inevitabili conseguenze della guerra – l’estremo aggravamento della miseria e delle calamità nazionali, generano oscillazioni particolarmente vive nello stato d’animo delle masse piccolo-borghesi e semi-proletarie. Queste oscillano, ora verso il consolidamento dell’unione col proletariato, ora verso la restaurazione borghese; l’esperienza di tutte le rivoluzioni dei secoli XVIII, XIX, e XX mostra con assoluta chiarezza e in modo convincente che se l’unità, la forza, l’influenza dell’avanguardia rivoluzionaria del proletariato si indeboliscono anche minimamente, queste oscillazioni non possono che causare in modo inevitabile la restaurazione del potere e della proprietà dei capitalisti e dei proprietari fondiari»[201].

Era sorto il dialogo tra la Rivoluzione e il malcontento delle classi basse. Si doveva trovarne lo scioglimento marxista. Il partito di Lenin lo trovò.



Notes:
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  1. I brani che seguono, tratti dal «Discorso al I Congresso delle Comuni», ecc., 4 dic. 1919, si leggono in Lenin, «Opere», XXX, pagg. 171, 177, 177–178. [⤒]

  2. «Rapporto del Comitato Centrale», 29 marzo 1920, in Lenin, «Opere», XXX, pagg. 403–406. [⤒]

  3. «Rapporto del Comitato Centrale», 29 marzo 1920, in Lenin, «Opere», XXX, pag. 411. [⤒]

  4. «Rapporto del Comitato Centrale», 29 marzo 1920, in Lenin, «Opere», XXX, pag. 412. [⤒]

  5. «Rapporto del Comitato Centrale», 29 marzo 1920, in Lenin, «Opere», XXX, pag. 412. [⤒]

  6. «Rapporto del Comitato Centrale», 29 marzo 1920, in Lenin, «Opere», XXX, pagg. 412, 415. [⤒]

  7. «Rapporto del Comitato Centrale», 29 marzo 1920, in Lenin, «Opere», XXX, pag. 416. [⤒]

  8. «Rapporto del Comitato Centrale», 29 marzo 1920, in Lenin, «Opere», XXX, pagg. 416–418. [⤒]

  9. «Discorso di chiusura del dibattito sul rapporto del CC del PCR (b)», 9 marzo 1921, in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 182. [⤒]

  10. «Prima stesura del progetto di risoluzione sulla deviazione sindacalista e anarchica del nostro partito», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 225. [⤒]

  11. «Prima stesura del progetto di risoluzione sulla deviazione sindacalista e anarchica del nostro partito», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 225. [⤒]

  12. Per le «Tesi sul ruolo del partito comunista nella rivoluzione proletaria», testo e commento, cfr. la già citata «Storia della Sinistra comunista, 1919–1920», pagg. 580–614, e l’opuscolo «Partito e classe», Edizioni «Il Programma Comunista», Milano 1972, pagg. 19–30. [⤒]

  13. Si vedano le «Tesi sul movimento sindacale, i Consigli di fabbrica e la Terza Internazionale» nella stessa «Storia della Sinistra Comunista, 1919–1920», cit., pagg. 708–713, e il commento ad esse, pagg. 623–628. Per la posizione della nostra corrente di fronte a ordinovisti e kaapedisti, cfr. in particolare i capitoli VI e VIII con relative appendici. [⤒]

  14. «Prima stesura del progetto di risoluzione sull’unità del partito», in Lenin, «Opere», XXXII, pagg. 220–221. Su Kronstadt, cfr. pure Lenin, «Rapporto sull’attività politica del CC del PCR (b)», 8 marzo 1921, pagg. 169 e segg. e «Discorso al Congresso degli operai dei trasporti di tutta la Russia», 27 marzo, pagg. 258 e segg. [⤒]

  15. «Prima stesura del progetto di risoluzione sulla deviazione sindacalista ecc.», cit., ivi, pagg. 226–227. Si veda pure il «Rapporto» di Lenin del 16 marzo, Ivi, pagg. 228–235. [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 21, Ottobre 1956

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