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STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (XXVI)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXVI)
Parte terza
La grave vicenda storica fra la morte di Lenin e noi
1 [102] – I tempi del corso economico
2 [103] – Limiti della gestione economica
3 [104] – Attendere significa vivere
4 [105] – Direzione a zig-zag?
5 [106] – La salvezza dottrinale
6 [107] – Formule di Trotsky
7 [108] – Dal livello del minimo vitale
8 [109] – Discussioni economiche nel partito
9 [110] – Tre vie per la struttura russa
10 [111] – La soluzione di Bucharin
11 [112] – Ricorso marxista alla dialettica
12 [113] – «Arricchitevi»
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Parte terza[243]

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXVI)

La grave vicenda storica fra la morte di Lenin e noi

1 – I tempi del corso economico

La grave vicenda storica che si inserisce tra la morte di Lenin e noi, in ragione delle vibranti emozioni inflitte all’intera umanità nel tempo di un’intera generazione, è di difficile esposizione, in quanto si affollano per darne i capisaldi troppi nomi famosi, oggetto di fanatica lode ed infamia da varie sponde, e perfino, negli ultimi episodi che maggiormente hanno commosso il mondo or è poco, di alternata, dalla stessa banda, esaltazione e – altra parola non va usata – diffamazione.

Non sarà possibile tacere i nomi degli uomini caduti e vincenti, non fosse che al fine di venire rettamente intesi dai tanti che ricordano quel tempo, da una delle più possenti organizzazioni della storia umana presentato ad arte in modo distorto; ma bisogna malgrado ciò pervenire a dare, almeno negli schemi sostanziali, il corso dei rapporti di produzione reali e il gioco delle classi sociali e delle forze economiche, sollevandosi con ogni sforzo dall’abuso falsificatore fatto per tanti e tanti anni delle classiche formule della nostra dottrina.

Le fasi della trasformazione sociale si possono dividere in periodi, che sono delimitati tra loro con un relativo accordo dalle opposte sponde; come nel tristo «Breve Corso» della storia del partito ufficiale, e nelle sempre vigorose e leali, anche per chi non possa tutte accettarle in dottrina, analisi del grandissimo Trotsky. Essendo queste storiche tappe vive nella memoria di tutti, la loro trama sarà utile allo svisceramento del tremendo problema.

Le due prime vanno dall’Ottobre alla morte di Lenin e sono state in quanto precede esposte e trattate. Altre si pongono tra il 1924 e la data di quelle due nemicissime tra loro fonti, che all’incirca giungono alla vigilia della seconda guerra mondiale, nel 1937. Le altre sono di ieri e di oggi.

I. 1918–1920. Guerra civile. «Comunismo di guerra».
II. 1921–1925. Ricostituzione dell’economia interna. NEP.
III. 1926–1929. Industrializzazione. Offensiva contro i kulak. Lancio del primo piano quinquennale.
IV. 1930–1934. Sviluppo della forma «colcos» nell’agricoltura (questo processo viene definito della collettivizzazione agricola: in miglior linguaggio marxista il colcos va definito forma mista tra la produzione agraria particellare e quella cooperativa).
V. 1935–1938. Affermata «edificazione socialista» nella sola Russia. (In termine adeguato: crescita imponente del capitalismo statale nell’industria e del semi-capitalismo statale-cooperativo in agricoltura).
VI. 1939–1945. Guerra mondiale e alleanze con Stati capitalisti.
VII. 1946–1955. Lotta per il dominio del mondo e «guerra fredda» con gli alleati di Occidente.
1955… Coesistenza pacifica con l’Occidente ed emulazione economica.

Noi saremmo a proporre a tutto il grande periodo 1934–1955, ed oltre, la denominazione di periodo dell’incremento quantitativo della massa della produzione, e se fosse lecito: «quantitativismo produttivo», essendo questo un carattere costante economico, malgrado i mutamenti politici: la serie ha soprattutto rapporto alle forme economiche.

2 – Limiti della gestione economica

Tutto quanto in seguito va trattato, deve esserlo fuori del presupposto che si trattasse degli svolti di una «libera politica economica» dello Stato e del partito, che nei primi due periodi avevano consolidato il proprio potere, e che potessero, sotto il suggerimento di questa o quella «tendenza» rispecchiante diversi programmi e possibilità, prendere una o un’altra rotta nel cammino storico della società russa. Sono invece le opposte concezioni venute in lotta (tenuto anche conto della natura, sospetta quasi sempre, del materiale a noi trasmesso) che dovranno essere spiegate con la necessaria influenza del modificarsi dei rapporti economici.

Malgrado la nostra fermissima tesi teoretica, essenziale per i marxisti, che anche la persona dei meglio dotati capi della lotta non può essere considerata, nella sua opera di indirizzo teorico ed organizzativo dell’azione, come causa motrice degli accadimenti, sosteniamo di conservare il diritto ad una constatazione. Il materiale per una decisa coordinazione dei dati che portano in luce le forze del sottosuolo sociale, con la critica della contemporanea valutazione, o le contemporanee valutazioni, dei compiti dello Stato e del partito, in ordine e coerenza ininterrotta con le posizioni generali della dottrina, della scuola russa e internazionale marxista, che è unica, dopo la fine degli apporti dovuti a Lenin viene in gran parte meno, e si tratta di collegare frammenti che si reperiscono discontinui e contraddittori.

Tutti gli uomini che trattano i quesiti sul compito del partito non cessano di richiamarsi a Lenin, all’insegnamento di lui, con risultati difformi, ma non si rinverrà più la linea indiscutibile di una chiara lettura dei fatti e la dimostrazione senza un minimo esitare che essi si inquadrano nella dottrina e nelle tradizioni dell’indirizzo di lotta del partito. Scartati i falsificatori stipendiati all’uopo, ben poco resta per trovare non diciamo giudizi decisivi, ma sicuri elementi, e perfino statistici. Penetrando in quest’ombra, pochi sfuggono alla tentazione di rimpiangere che «non si sia lasciato liberamente discutere», e questo primo passo avvia a scivolare, all’indietro, nella catena delle concezioni antimarxiste e borghesi. Capo storico che si commisura con Lenin, e marxista degno di lui, nemmeno Trotsky si libera totalmente da tutte le insidie; anche ai grandissimi condottieri battuti, dopo avere attinto così luminose vittorie, è pressoché impossibile raggiungere il rigore scientifico nel fare la storia della loro infausta personale rovina: tanto più impossibile a chi nella misura di Trotsky ebbe il temperamento del gladiatore che non si sottrae a sentire lo straripamento della propria volontà nel cedere del nemico alle forze sovrapersonali ed arbitrali della storia.

Fino al più grande dibattito che ci resta integro, quello del dicembre 1926 di cui abbiamo molte volte parlato, non sembra esservi dissenso sulla unicità della strada che si era trattato di seguire, e le riluttanze ideologiche, che non mancarono certo, trovano un limite irrefutabile nelle successive sistemazioni, teoretiche e realistiche a un tempo, di Lenin.

Il dibattito del 1926 fermò storicamente il fatto che né Lenin, né altri, lui vivente, e perfino prima del 1926, aveva accantonato la tesi che il punto dell’avvenire a cui ogni altro traguardo andava subordinato era il dilagare della rivoluzione e della dittatura comunista ben oltre le frontiere della Russia, e malgrado gli insuccessi a catena scontati dai tentativi della classe operaia di avanguardia in pressoché tutti i partiti di Europa.

La politica di amministrazione della Russia bastava fosse quella di una gestione precaria, intercalare; in quanto era caposaldo delle prospettive del comunismo mondiale che l’economia russa avrebbe mosso verso il socialismo non solo al fianco, ma indubbiamente al seguito di quella di gran parte d’Europa.

La pratica economica del partito aveva una semplice consegna: attendere sulla rocca del conquistato potere; non aveva quella: trasformare; e tanto meno la stolta, che dopo prevalse: costruire.

3 – Attendere significa vivere

Appare chiaro che attendere su posizione conquistata, raggiunta, vuol dire anzitutto non recederne, ove quella sia attaccata e minacciata. Il senso della prima fase del post-Ottobre è semplice: difesa del potere rivoluzionario, contro le tremende ondate degli avversari di classe interni e stranieri. Ma anche per difendersi e resistere, obiettivo militare e politico estremo, occorre vivere, occorrono vettovaglie, munizioni da bocca e da fuoco. L’economia si riduce a questo: prendere al di fuori di ogni scambio e di ogni diritto tutto quello che fisicamente si trova, e soprattutto se lo si toglie al nemico; salvare la vita fisiologica della popolazione e dell’esercito, della città e della campagna.

Dato che la guerra internazionale, e poi quella civile, avevano ridotto le risorse del paese russo ad una bassa frazione di quello che aveva attinto sotto lo stesso zarismo e prima della guerra, la questione di trarre maggiore resa dalle forze produttive, togliendo con la forza ostacoli a loro pressioni, non aveva allora ed ancora senso alcuno. Consumare quello che si trovava, e produrre come si poteva, era la sola formula di «politica economica».

Poiché tra le risorse produttive fisicamente constatabili ed inventariabili la prima che non si può creare sillogizzando è la tradizione della capacità produttiva dei gruppi umani, era in tanto dura situazione già un successo realizzare un minimo prodotto per il ridotto consumo anche nelle forme primordiali adeguate allo stadio raggiunto dalla terra, dall’attrezzatura utensiliera, e dall’allenamento scarso delle braccia umane; e delle menti scarsissimo.

Non si può rimproverare a comunisti, la cui dottrina è presente solo in quanto ha potuto germinare sui dati e per le influenze di società ben più sviluppate e complesse, di aver desiderato il miracolo di trarre salute dall’immediata applicazione di forme, di «dispositivi» della società il cui avvento è da noi dimostrato scientificamente possibile. Lo stesso compito di proiettare la rivoluzione nella vecchia, saggia e grassa Europa, in ben altro «terreno di coltura», esige che si possa anche come simbolo, anche come insegna di combattimento, dire alle masse aspettanti che i frutti della rivoluzione si sono cominciati a raccogliere, pure invitando alla seminagione in grande stile i fratelli di oltre frontiera. Anche quelli di noi che dalla primissima ora deridemmo il metodo della presentazione del «modello» di comunismo, metodo legato alle vecchie utopie disintegrate dalla critica geniale di Marx (e lo era al non immaginato folle atteggiamento di oggi del comunismo fabbricato «dalle mani dei comunisti» e messo in un’assurda vetrina, anche noi godemmo a vedere per le monche strade di Pietrogrado e di Mosca, nel generale squallore e fra le tracce delle battaglie, l’impressione anche simbolica che le forme borghesi proprietarie, pecuniarie, avessero cominciato a dissolversi.

Tuttavia, sebbene l’abbiamo largamente citata, troviamo che la dimostrazione di Trotsky sul «comunismo militare» e l’economia da città assediata non sta alla stessa altezza di quella di Lenin, quando si tratta per entrambi di spiegare, come abbiamo riportato, che la NEP con la sua apertura delle dighe alle forme commerciali, ossia capitaliste, non conteneva affatto una decisione diversa e una rinunzia al cammino verso il socialismo, internazionale, perché solo internazionale lo conosciamo.

4 – Direzione a zig-zag?

Trotsky vuole arrivare alla conclusione che le consegne del centro statale e di partito, sotto la guida dello stesso gruppo, quello stalinista, si susseguirono sbandando e contraddicendosi. Ciò è vero, ma non basta a stabilire che cambiando il gruppo o il suo capo, o anche chiedendone designazione a quelle fonti che si denominano massa o base, ma con troppo sommaria visione dell’integrale quadro, si sarebbe andati non a zig-zag, ma diritti.

Anche Lenin, nel difendere la NEP, parla di ritirata, disposta per evitarne una peggiore, e per poter più sicuramente ripigliare il cammino. Ma questo concetto preliminare, didattico, e polemico nei confronti di chi poco aveva capito della vivente realtà e della solidamente stabilita dottrina, ancora non è quello del zig-zag. Non si tratta di un cammino che muta ad ogni tratto la sua direzione, imponendo svolte, angoli, alla rotta, ma di uno che rimane rettilineo, muta solo la sua velocità; senza mutar direzione. Nemmeno se rinculasse, muta la «direzione», bensì solo il senso del suo moto, e questo può farsi per porre il piede su uno scalino, la mano su un anello, che consentano di ripartire avanti, e meglio, senza avere smarrita la strada, mutato il traguardo finale.

La fredda metafora geometrica prende carne e luce dalla trattazione sistematica di Lenin, che egli ha la genialità di poggiare su una analisi non fabbricata nel 1921, dopo la pretesa delusione sulla velocità di trasformazione economica che si poteva tenere, ma svolta subito dopo la rivoluzione nel 1918, e strettamente coerente – reputiamo averlo provato – a tutta la scienza della particolare struttura sociale russa, che in tutta la sua vita aveva elaborato.

Trotsky sembra tenere a provare che il partito, tra la prima e la seconda fase, in effetti accostò, virò di bordo. Nella «Rivoluzione Tradita», scritta nel 1936, egli così si esprime:
«Il comunismo di guerra era in fondo una regolamentazione del consumo in una fortezza assediata. Bisogna tuttavia riconoscere che le primitive intenzioni del Governo dei Soviet furono più larghe. Esso sperò e tentò di ricavare da questa regolamentazione un’economia controllata sul piano sia del consumo che della produzione. In altri termini pensò di passare a poco a poco, senza modificazioni del sistema, dal «comunismo di guerra» al vero comunismo».

A prova di questa grandemente esagerata asserzione Trotsky cita il programma adottato dal partito bolscevico nel 1919, che diceva:
«nel campo della distribuzione, il potere dei Soviet persegue inflessibilmente la sostituzione del commercio con una distribuzione dei prodotti organizzata su scala nazionale con un piano di insieme»[244].

Se il lettore ritorna a quanto abbiamo ripetutamente detto sul congresso del 1919, ed anzi appunto sul programma, e sulle rettifiche del tutto di principio che Lenin vi apportò a correzione di Bucharin, potrà verificare che le tesi economiche sono proprio le stesse che verranno a giustificare la linea della NEP, e Lenin esprime le stesse idee del 1918, cui poi si ricollegherà nel 1921. Non l’economia del capitalismo di tipo monopolista, ma addirittura quella del pieno capitalismo privato (indubbiamente mercantile) sono per la Russia non fasi sorpassate, ma fasi che è augurabile raggiungere!

Lenin redasse ed approvò quel programma: e perché non doveva ivi dirsi che il partito persegue la soppressione del commercio? La posizione dialettica di Lenin era che anche incitando il sorgere e il gonfiarsi di un commercio libero, si persegue in realtà il migliore cammino al socialismo.

5 – La salvezza dottrinale

Quel passaggio era indispensabile perché nel programma, che vale per molti anni e congressi, è vitale la salvezza delle tesi generali; ed esso è la pietra di paragone per i richiami alla dottrina, che Lenin ritiene necessari ad ogni svolta del cammino. Quanto sarebbe stato utile il ricordare ad ogni passo che non sarà mai consentito parlare di socialismo se non si è raggiunta la fase in cui non si ha più «commercio», ma «distribuzione dei prodotti secondo un piano generale» ossia senza calcolo di equivalenza di due prodotti a valori messi di faccia, senza forma mercantile!

Sarebbe bastato questo ad impedire la peste dei futuri anni, consistente nel chiamare socialismo una distribuzione borghese!

Non meno salutare sarebbe stato l’intendere che è ammissibile dover camminare lunghi e lunghi anni sopportando la forma commerciale di distribuzione, e magari, come fu con la NEP, suscitandola ove era ancora feconda rispetto alla pesante eredità del passato sociale; ma l’essenziale era non scambiare questa tappa per una tappa socialista.

Il programma dice che il partito persegue quell’obiettivo, ma non dice che lo si possa attingere nella sola Russia, e senza la rivoluzione occidentale, che in paesi come Germania e Inghilterra potrebbe attuare rapidamente per una vasta parte della produzione una distribuzione sociale a piano unitario, solo che la classe operaia avesse il potere. Nei due casi è la stessa cosa che si persegue inflessibilmente, ma con diversissima velocità di avanzata.

L’essenziale è inchiodare la verità: dove è commercio ivi non è forma socialista, ma capitalista. La tesi programmatica di Lenin in quel passo è, sempre, quella che in Russia dovremo gestire capitalismo, ma, ogni volta che lo avremo di faccia e tra mano, lo chiameremo ad altissima voce come tale.

Trotsky concorda in tutto con la teoria della società russa nella fase della NEP e con la ineluttabilità della sua adozione, pena il decadimento dell’economia sotto il livello obbligatorio del programma economico: campare.

Egli ne dà la netta definizione in questi punti, che collimano con quelli dedotti dai testi di Lenin, e sono forse più netti per evitare l’equivoco dottrinale tra industria statizzata dal potere socialista ed economia industriale socialista. La prima è nelle mani di uno Stato che «persegue il socialismo», ma i rapporti di produzione nel suo meccanismo sono integralmente capitalistici.

6 – Formule di Trotsky

Il reale fenomeno economico sociale della NEP è così caratterizzato dalla magistrale e limpida presentazione di Trotsky, fotografia dei reali rapporti di produzione nella fase 1921–25.

L’esistenza nel paese di milioni di aziende contadine isolate creò per Lenin la necessità di ristabilire il mercato. Solo il mercato crea una saldatura tra industria ed agricoltura. La formula è molto semplice: l’industria deve fornire alla campagna le merci necessarie a prezzi tali che lo Stato possa rinunziare alla requisizione dei prodotti dell’agricoltura.

Trotsky aggiunge duramente, alla Lenin (e qui degnamente integra Lenin), che non si tratta solo di una questione di forme di produzione e distribuzione agrarie, ma anche di una diversa concezione della gestione industriale.
«La stessa industria, benché socializzata, aveva bisogno dei metodi di calcolo monetario elaborati dal capitalismo. Il piano non potrebbe basarsi sui semplici dati dell’intelligenza. [Ciò vuol dire: con una contabilità effettivamente socialista, ossia con progetti relativi a quantità fisiche di oggetti e forze materiali, non affette da cifre di equivalenti monetari: l’idea è data da un progetto di costruzioni accompagnato da un previsto «fabbisogno di materiali» e da un prospetto di numero di giornate di lavoro di una maestranza organizzata, senza «preventivo di spesa», ma con legame al piano nazionale della forza lavoro e della produzione e disponibilità di beni]. Il gioco dell’offerta e della domanda resta per il piano, e per un lungo periodo ancora, la base materiale indispensabile e il correttivo salvatore»[245].

Preferiamo la formula della base materiale a quella meno felice di un semplice «correttivo». Il rapporto è sostanziale: non si può, e lo dicemmo nel 1922 a Trotsky, adottare la contabilità capitalistica, se non riconoscendo il fatto che si resta nel campo del modo di produzione proprio del capitalismo: salario in moneta ai lavoratori secondo il tempo di lavoro, bilancio di entrate e spese, margine di guadagno aziendale.

Ciò chiarito, va solo detto che anche oggi 1956 siamo a quel tipo di esercizio dell’industria, del tutto capitalistico.

Vedremo che la formula di Trotsky è meno decisa: nega la staliniana tesi che si abbia industria socialista, ma parla di una forma «di transizione dal capitalismo al socialismo». Storicamente tutto è transizione, anche la statizzazione sovietica; economicamente sono capitalisti il metodo di calcolo e la sostanza del rapporto produttivo.

7 – Dal livello del minimo vitale

Si può enunciare in generale il teorema che un’economia che gravemente declina verso la miseria, la scarsa produzione e lo scarso consumo non può essere il teatro dell’apparire di un nuovo modo di produzione. Alla base della comune dimostrazione di Lenin stava il fatto della tremenda depressione economica seguita alle ferite della guerra imperialista e della guerra civile. Prima di avviarsi alla genesi di nuove strutture, bisognava ridestare le antiche risalendo, sotto il loro stesso regime qualitativo, a minimi quantitativi accettabili e comparabili a quelli del passato.

Più volte abbiamo dato cifre al riguardo. Nel 1921 si era nel fondo dell’abisso. La produzione industriale, nell’apprezzamento di Trotsky, era caduta al quinto di quella di anteguerra. La produzione di acciaio era caduta da 4,2 milioni di tonnellate ad appena 183 000 (la ventitreesima parte!). Il raccolto dei cereali era caduto dagli 801 milioni di quintali di anteguerra ai 503 del 1922.

Anche in totale accordo con Lenin, Trotsky dimostra che la risalita fu possibile solo grazie alle misure della NEP: mercato libero, gestione mercantile delle imprese, e infine ricostituzione di uno stabile sistema monetario, legato al rublo oro. Nel periodo del comunismo di guerra si era guardato con ottimismo alla spaventosa svalutazione del rublo. Non era un errore teorico, ma piuttosto un atteggiamento agitatorio adeguato all’epoca della rivoluzione mondiale, che si calcolava prossima.

Questa è soprattutto la tesi di Trotsky. Egli dice che se la rivoluzione avesse trionfato in Germania, sia lo sviluppo russo che quello tedesco avrebbero preso a procedere a passi da gigante. Aggiunge però:
«Si può tuttavia dire con tutta certezza, che anche in questa felice ipotesi si sarebbe dovuto rinunziare alla ripartizione dei prodotti da parte dello Stato, e ritornare ai metodi commerciali»[246].
Leggiamo questo passo nel senso che l’economia russa avrebbe dovuto parimenti battere la via della NEP riguardo ai piccoli contadini da ammettere al commercio, ma invece la Germania avrebbe potuto cominciare a pianificare la distribuzione, e prima di tutto nel senso di passare in Russia grossi quantitativi di prodotti industriali di consumo e strumentali, anche senza alcuna contropartita, per decisione dell’Internazionale degli Stati comunisti[247].

Neanche infatti con questa potente iniezione di prodotti industriali poteva in un volgere breve superarsi il fatto che le minime aziende di campagna erano, per effetto della rivoluzione di Ottobre, passate da 16 a 25 milioni in tutta la Russia.

Questa struttura produttiva poteva solo respirare in ambiente mercantile, e per effetto della NEP si realizzò il movimento dei prodotti agricoli verso le città, ed industriali verso le campagne. Nel 1922 e 1923 la produzione dell’industria raddoppiò: come sappiamo, nel 1926 raggiungerà il livello antebellico, ossia sarà quintupla del 1921. Tuttavia molto più modesto fu l’incremento della produzione rurale.

La causa era semplice: prelevando dalle campagne troppo grano senza poter dare al momento larga fornitura di oggetti manifatturati, si potevano nelle città fondare fabbriche nuove e mobilitare altre maestranze, ma il contadino, scontento, preferiva seminare poco e consumare il suo prodotto direttamente, tornando per i bisogni essenziali non alimentari alla primordiale forma dell’artigianato domestico.

8 – Discussioni economiche nel partito

Il difficilissimo problema determinò nel partito bolscevico vivaci discussioni circa la spiegazione dei fatti economici e la linea da adottare. Nella primavera del 1923 (al XII congresso, il primo da cui Lenin era assente) Trotsky svolse la sua tesi sulle «forbici economiche». I prezzi dei prodotti dell’industria russa presentavano una continua ascesa, mentre invece quelli dei prodotti agricoli discendevano.

A un certo punto le due curve si erano incrociate, ma seguitando a salire il ramo dei prezzi industriali, e a scendere quello agrario, la forbice si apriva sempre più ed esprimeva il conflitto tra i due settori della società.

Qui giova prendere da Trotsky la spiegazione veritiera dello schieramento delle valutazioni e delle proposte in materia economica.

Tutti erano d’accordo che per dare impulso alla produzione agraria era necessario «chiudere le forbici». Vedremo ora quali erano le tre vie proposte per arrivarvi.

Questo scopo comune, vogliamo premettere, si pone sulla via al lontano socialismo ed è imposto dalla stretta necessità di contenuto vitale, ma non e ancora nemmeno uno «scopo socialista». È uno scopo squisitamente capitalista e borghese. Nel marxismo classico uno degli aspetti distintivi dell’economia borghese, nella sua irrompente apparizione rivoluzionaria che squarciava la limitatezza e la molecolarità strutturale del tempo feudale, è la diminuzione brusca e progressiva del costo dei manufatti, effetto della lavorazione associata e della divisione tecnica del lavoro. Per converso, ed in rispondenza alla teoria dei fattori della produzione agraria, il prezzo dei viveri non solo non segue un moto analogo, ma sale decisamente, dovendo la popolazione contadina allargare la sua cerchia di bisogni e di consumi ai nuovi «articoli» che l’ingranaggio mercantile rovescia fino a lei; e non essendovi radicali diminuzioni dei costi di produzione, che dove esistono si convertono non in minor valore di scambio, ma in rendita differenziale a favore dei proprietari borghesi, calcolandosi i prezzi sui costi del «peggior terreno».

La deterministica esigenza inserita nel diagramma di Trotsky significa che la rivoluzione russa, nel corso dei modi di produzione, batte la fiacca anche in quanto rivoluzione capitalista suscitatrice della febbre ardente del mercato interno. Chiudere la forbice vuol dire balzare in alto lungo gli scalini di Lenin: produzione patriarcale, piccola produzione contadina, capitalismo privato.

Il passo al capitalismo di Stato, quarta fase della struttura sociale, lo si può azzardare solo nell’industria, con la statizzazione e la confisca delle fabbriche, prima delle importanti e poi delle medie e piccole, con la banca di Stato e il monopolio del commercio estero – precipitosamente sceso in quegli anni di crisi da 2900 a 30 milioni di rubli.

Quindi i problemi concreti, leniniani, prima che la bestemmia della costruzione del socialismo venisse a tutto confondere, erano al 1923 due: battere nell’industria il capitalismo privato, battere nelle campagne la minuta produzione. Questi due traguardi si chiamarono: industrializzazione e collettivizzazione dell’agricoltura.

Dinanzi a questi problemi si formarono tre gruppi: sinistra, destra e centro. Noi ne ricostruiamo la genesi e funzione sulla base di categorie economiche e modifiche ai rapporti di produzione, e sulla base delle due visioni della politica comunista mondiale: anticipare la rivoluzione politica europea segnando il passo nella trasformazione della struttura sociale russa – ovvero disinteressarsi della rivoluzione internazionale e darsi alla «edificazione socialista» nella sola Russia, la demente eresia che rovinò tutto.

I filistei di tutti i partiti da allora ad oggi ridussero tutto alla questione esosa della «successione di Lenin», come oggi riducono la crisi che traversa la Russia alla questione della «successione di Stalin».

9 – Tre vie per la struttura russa

Se apriamo le pagine (e sono queste le più ignobili, di cui hanno perfino arrossito vecchi arnesi capaci di ingoiare rospi del volume di elefanti, al XX congresso) del «Breve Corso», la soluzione sarà lineare: al centro i continuatori di Lenin e i fautori dello sviluppo della Russia verso tutti i trionfi: un nuovo sistema economico miracoloso all’interno, le più grandi vittorie nazionali all’estero, col conio di un’altra cretinesca consegna: la Patria del socialismo! Nelle opposizioni di sinistra e di destra, puri e semplici agenti prezzolati delle borghesie straniere, che erano tali dal 1917, e che nell’industria sostengono il sabotaggio e la smobilitazione che faciliti la futura aggressione dall’esterno, nell’agricoltura difendono i contadini ricchi, i kulak, che formando la base della nuova borghesia russa faranno risorgere il capitalismo, e prepareranno la controrivoluzione! Secondo un tale riferimento dei fatti, Trotsky voleva chiudere le maggiori officine dell’industria pesante e bellica, Bucharin abolire il monopolio del commercio estero, Zinoviev e i suoi mantenere alla Russia il carattere agrario e limitare all’industria tessile tradizionale la zona di Mosca e così via.

La storia scritta sotto la mano di ferro stalinista incolpa tutti gli avversari, che caddero nella lotta e nelle terribili «purghe», di opposizione retroattiva, affasciandoli fin dai primi anni, imbrogliando il mazzo delle carte, colpendo la memoria di Bucharin fino a tacere in malafede che nel dibattito del 1926 e nella campagna per stritolare Trotsky, Zinoviev e Kamenev fu Bucharin il paladino Orlando di Carlo Magno Stalin.

Messo questo pattume da parte, ricostruiamo i termini della contesa sulla testimonianza di Trotsky, ponendoli in relazione alla marxista dottrina di Lenin, sulla struttura sociale russa e le sue possibilità di sviluppo.

Trotsky indica se stesso fino al 1923 come il dirigente l’opposizione di sinistra al centro staliniano. La destra, diretta da Rykov, Tomskij e Bucharin, si confondeva col centro di Stalin e Molotov, mentre Zinoviev e Kamenev (come abbiamo più volte narrato, essi nel 1924 condussero la lotta contro Trotsky che non comparve al V congresso mondiale) nel 1926 si ricollegarono all’opposizione di sinistra del 1923.

Ma quali, al di sopra delle persone e delle traiettorie percorse dai nomi, che furono intricate e sconcertanti, in episodi che a distanza di anni si incrociano e sovrappongono confondendo ogni prospettiva, erano le diverse direttive?

La sinistra con Trotsky e Zinoviev-Kamenev, fin dalla XIV conferenza e XIV congresso del partito (1925) e dalla famosa XV conferenza del novembre 1926 che precedette l’Allargato dell’Internazionale, nel dicembre 1926, teatro della grande classica contesa sulla «edificazione isolata del socialismo», sostenne, al rovescio delle menzogne ufficiali: a) l’industrializzazione, e la proposta, avanzata da Trotsky fin dal 1923, di un piano quinquennale di sviluppo economico; b) la collettivizzazione della produzione agricola, sviluppando contro la piccola produzione e contro i kulak le aziende collettive di Stato.

La destra sostenne idee opposte alla lotta contro i kulak, e la remora dell’industrializzazione, ma quello che bisogna intendere è che nel 1925 Stalin, e quella che Trotsky chiama la frazione dirigente, sposarono il programma della destra, accettarono la politica di orientamento verso il kulak. Stalin si poggiò in tutto sulle tesi di destra nel lottare contro i «super-industrializzatori» dell’opposizione di sinistra (Trotsky, e poi Zinoviev e Kamenev).

Stalin nel 1925 accede perfino all’idea della snazionalizzazione della terra, assegnandola per dieci anni e anche più ai contadini in proprietà anche giuridica (ciò vuol dire libertà di concentrare la terra con compravendite). Nel 1925 con apposite leggi si ammise, in deroga alla costituzione, l’impiego della manodopera salariata nelle campagne e l’affitto (che vuol dire libera formazione di capitale nella campagna).
«La politica del governo, la cui parola d’ordine era: verso le campagne, si orientava in realtà verso i kulak».
Fu mentre Bucharin era il teorico ufficiale della frazione dirigente che egli lanciò, in nome di Stalin e del governo, la famosa parola d’ordine ai contadini: Arricchitevi! Ed oggi il «Breve Corso» sta ad accusarlo di tradimento, per avere sostenuto la fine della lotta di classe tra contadino povero e kulak, e il pacifico assorbimento del contadino ricco nel socialismo! Erano prima del 1926 le idee ufficiali di Stalin, combattute fieramente dall’opposizione di sinistra. Circa i piani di industrializzazione, essi furono da Stalin allora derisi. Stalin nell’aprile del 1927 affermò che la costruzione della grande centrale elettrica del Dniepr sarebbe stata come l’acquisto di un grammofono invece di una vacca per il mugico![248].

10 – La soluzione di Bucharin

Quando più oltre fu chiesto a Stalin se fosse peggiore la sinistra o la destra egli rispose che erano peggiori tutte e due e manifestò il chiaro programma di stritolarle. Intanto la tendenza «Stalin» quale era? Era quella di non avere tendenza, di non rispettare principi, di amministrare lo Stato per lo Stato, governare la Russia per la Russia, sostituire una posizione nazionale e poi imperiale alla posizione di classe ed internazionale: anche ammesso che in un primo tempo non lo sapessero né lui né i suoi seguaci.

Il fatto che appare strano a chi narra la storia «secondo le persone» è che dal 1928 la destra e la sinistra si avvicinano nell’ingaggiare una lotta impari contro la «direzione». È strano pensando che la sinistra, ingiuriando Stalin (dieci volte meno del necessario) aveva ingiuriato in lui la destra, cui egli, fulcro della politica, attinse come lo vedremo attingere poi a sinistra alle dottrine e tesi della sinistra. Non è strano se si fa storia con metodo non da Tecoppa, ma alla scuola di Marx e di Lenin. Ciò non è un dato del «carattere camorristico» di Giuseppe Stalin, ma un’altra prova che la rivoluzione si «raccorcia» storicamente da doppia rivoluzione a rivoluzione solo borghese: in questa i capi si tagliano a vicenda le teste per rubarsi idee e cervelli.

Trotsky stesso, legato dalle tradizioni di quella lotta, anche nella sue opere successive svaluta la «destra»; e non giunge alla verità che sinistra e destra erano entrambe sul terreno dei principi marxisti, e il «centro», nelle sue successive svolte nella politica sia russa che internazionale, ad ogni bordata ne andava sempre più fuori.

Trotsky ha il merito gigante di avere fin dal 1923 individuato questa manifestazione, che avrebbe ucciso il partito marxista che solo aveva raggiunto il potere: il maneggio dell’apparato di Stato, fredda e crudele macchina montata per il terrore sul nemico di classe, contro l’apparato del partito – e la derivazione di una tale patologica crisi dal cedere delle forze rivoluzionarie estere e dalla sfiducia verso di esse di una popolazione a enorme maggioranza non proletaria[249].

Fu con lui in questo la sinistra italiana – ma per motivo ben diverso da quello del successivo «trotzkismo». Non era ferita da quegli episodi di sopraffazione la non marxista esigenza del «rispetto democratico alla consultazione della base» ma la marxista dottrina che la dittatura rivoluzionaria non ha per concreto e fisico soggetto il popolo, e nemmeno la generica classe lavoratrice nazionale, ma il partito comunista internazionale e storico.

Il cammino della rivoluzione da socialista a capitalista era segnato allora dalle manovre inflitte dalla storia, e non dal capriccio del «non collegiale» Stalin, alla macchina di Stato russa – non lo era dai diffamati «capitolardi della destra». Quando destri e sinistri videro in pericolo l’essenziale della tradizione bolscevica e del comunismo mondiale, si unirono, ma tardi, dopo aver fatto la fine dei Curiazi, nell’ordine Trotsky, Zinoviev, Bucharin, nella lotta alla controrivoluzione staliniana che li uccise alla fine.

Non si stupisca dunque alcuno se riabilitiamo Bucharin, non dalla taccia di agente di borghesie straniere che le stesse sozze bocche degli sterminatori han dovuto rimangiare come i dementi consumatori del proprio sterco, ma dalle critiche vive nello stesso Trotsky al famoso «Arricchitevi!»[250].

11 – Ricorso marxista alla dialettica

Al di sopra di tutti sta l’esigenza che bisogna vivere, sia per il passo della rivoluzione mondiale, sia per il passo «esistenziale» dello Stato di Russia e del popolo di Russia, e quindi al di sopra del tremendo dilemma storico del 1926. Mostrammo a suo luogo che se Bucharin seguì Stalin in quella attitudine storica, lo fu perché concepiva questo ripiegamento nel rafforzarsi in Russia in vista solo di una guerra «rivoluzionaria» gigante contro tutti gli Stati capitalistici, che andavano conculcando le classi operaie europee. E sia detto che anche Stalin proclamava tale prospettiva fino alla vigilia del secondo conflitto imperialista, in cui genialmente sognò di fare contro gli Stati capitalistici la stessa politica che fece contro le interne «frazioni»: sterminarli in più tappe e restare solo e vittorioso, come Orazio Coclite! Perduto fuori della via del partito e della dottrina, cui manifestò congenite impotenze quando non poté più «rubare» idee ai cadaveri, Stalin ne è ripagato, lui morto, con l’essere svergognato da quelli che i mostri statali del capitale non vogliono uccidere, ma imitare in una corsa comune allo sfruttamento del mondo, la mano nella mano, sia pure con la fede dei ladri di Pisa.

Dunque il problema economico è vivere. Questo significa trovare una formula per il reale legame fra industria e terra, lo abbiamo detto – e sappiamo il senso del passaggio dalla formula comunismo di guerra alla formula NEP, dalla prima alla seconda tappa. Ora si tratta di capire lo svolto tra la seconda e la terza tappa, di cui abbiamo dato la serie.

Centro, sinistra e destra sono fermi, al 1927, sulla teoria di Lenin: l’agricoltura in piccole aziende è la morte della rivoluzione socialista. Lenin ha ben dovuto marxisticamente accettare il programma dei socialrivoluzionari, programma antimarxista – ma lo ha fatto non negandolo, e non cessando di mostrarlo radicalmente antimarxista. Solo così i bolscevichi hanno preso il potere e messo le basi alla fondazione dei partiti comunisti mondiali – Parigi valeva questa messa. Ma il sistema della piccola produzione ha così dilagato; il che vuol dire che il potenziale sia tecnico che politico delle campagne ha fatto un grosso passo indietro.

La formula della schiavizzazione dei contadini da parte dello Stato operaio, sia pur affacciata da qualche «sinistro» fuori di senno, ha fatto cilecca. Da chi non produce, prima perché non può e poi anche perché non vuole, nulla si ricava, ne per contrattazione ne per espropriazione, e nemmeno se lo si ammazza.

Eppure, o morire da fame, o uscire dalla frammentazione rurale.

La nazionalizzazione della terra, e meglio la statizzazione della proprietà fondiaria, vale solo ad impedire la formazione di una nuova «grande proprietà» agraria. Purtroppo per lo stesso motivo vale ad impedire il passaggio dalla piccola alla grande «azienda», e inchioda la terra alla limitatezza tecnica della sua cultura. Ma tutti cercano la grande azienda, che l’industria possa potenziare con attrezzature nuove – se agli operai industriali sarà dato da mangiare!

Trotsky e Zinoviev restano sul terreno di Lenin: passare, sia pure non per coercizione, dalla minutaglia contadina ad aziende a lavoro comune condotte dallo Stato (i sovcos) ossia con la terra dello Stato e il capitale di esercizio dello Stato (e quindi sono per l’intensa industrializzazione).

Stalin vuole ammettere che, denazionalizzando la terra, si riformino vasti possessi terrieri ove un grande affitto organizzi la produzione collettiva, evidentemente con salariati, e la rendita al proletariato.

12 – «Arricchitevi»

Bucharin difende, come la sinistra, la nazionalizzazione giuridica, e non è per la proprietà libera. Questa è una posizione di guardia per non ricadere nel passato e non perdere il potere. Ma intende che per la grande azienda occorre il grande capitale. Egli vede che l’industria può a stento avviarsi a produrre beni di consumo manufatti (e ciò dopo i beni di uso bellico, necessari al futuro scontro, per lui «offensivo» – il suo sogno bocciato da Lenin al tempo di Brest-Litovsk) ed al massimo beni strumentali per allargare l’industria stessa, ma non per la trasformazione agraria. La sua formula è che la terra resti allo Stato, ma il capitale agrario si formi fuori di esso.

Il commercio e la NEP hanno già dato luogo ad una accumulazione di capitale, ma nelle mani di commercianti, speculatori, che non sono legalmente più contrabbandieri, ma nepman, odiati dai contadini ma soprattutto in funzione dell’attaccamento reazionario alla gestione particellare. Questo capitale, parimenti minaccioso socialmente e politicamente, è sterile ai fini della produzione e del miglioramento del suo potenziale tecnico.

Bucharin, spesso sfottuto da Lenin suo maestro, sa il suo «Capitale» a menadito, sa che la classica accumulazione primitiva è nata dalla affittanza agraria, come in Inghilterra e altrove, e da questa origine sono sorte le «basi» del socialismo. È nutrito di altre tesi corrette: è follia pensare di avere il commercio in formidabile espansione, di trattare in forma mercantile, come Trotsky giustifica, la stessa produzione industriale, e non vedere crescere forme capitalistiche, di Stato o private, ma sempre tali. Se nell’industria significa salire l’andare da quelle private a quelle di Stato, nella campagna, se non esiste capitale né privato né di Stato, fa ridere pensare ad avere non solo socialismo ma anche statizzazione di capitale.

Bucharin non è in regola col solo Marx ma anche con Lenin. Lo scalino da salire in campagna è, come abbiamo detto, dalla forma 3 alla 4: dalla piccola produzione mercantile contadina al capitalismo privato.

La terra resta allo Stato, e il contadino ricco «di terra» sparisce (falso che Bucharin e i suoi difendano il kulak) ma compare il «colono dello Stato» che con suo capitale di esercizio e con salariati suoi (in forma non radicalmente diversa dal salariato delle fabbriche controllate, e poi statizzate) produce sulla stessa terra una massa maggiore di prodotti per la generale economia, e paga una rendita allo Stato, non più al proprietario terriero antico.

Perché la media unità aziendale cresca, occorre, è chiaro, che cresca il medio capitale aziendale e il numero dei lavoratori proletari rurali. Ciò non si ottiene se l’imprenditore agrario non accumula, e diventa più grande. Altra tesi corretta fitta nell’intelligente testa di Bucharin è che ogni Stato non ha la funzione di «costruire» e organizzare, ma solo di proibire, o cessare di proibire. Cessando di proibire l’accumulazione di capitale agrario sociale (Marx: il capitale che si accumula dai privati non è che parte del capitale sociale) lo Stato comunista prende una via più breve per salire la scala delle forme, i gradini di Lenin.

La formula non di Stalin, che fu solo un fabbricatore a posteriori di formule di demagogico effetto (nel che se non sta il genio, che ha bisogno di partiti e non di teste nella moderna storia, e forse sempre, sta una grande forza politica), la forma di struttura rurale che uscì dalla storia, il colcos, conduce meno rapidamente fuori dalla frammentazione contadina, di quella che proponevano Trotsky e Lenin, e di quella soprattutto di Bucharin – e con questa affermazione non abbiamo detto che vi fosse una triplice scelta possibile quando la polemica esplose.

Sì, il bravo Bucharin gridò: Arricchitevi! Ma Stalin fece di peggio e stette per gridare: Arricchitevi di terra! Lasciate solo lo Stato-industria, forza armata, a noi! Non pensò che chi ha la terra ha lo Stato.

La frase di Bucharin, che tutti ricordano senza ricostruire – è difficile farlo sui testi – la sua dottrina, ha questa portata: vi apriamo le porte della terra dello Stato: arricchitevi di capitale di intrapresa agraria, e verrà più presto il momento in cui vi esproprieremo di quanto avrete accumulato, passando anche nella campagna al quarto gradino, il capitalismo di Stato.

Al quinto, il socialismo, non vanno leggi o dibattiti di congresso, ma una forza sola, la Rivoluzione mondiale. Bucharin allora non vide questo, e fu grave.

Stalin si servì della tesi Bucharin per battere la sinistra marxista. Quando Bucharin vide che la storia spingeva Stalin non verso una scelta di strade al socialismo economico, ma verso la ricaduta dello Stato politico a funzioni capitalistiche interne quanto esterne, non vi fu differenza tra destri e sinistri, non vi fu più nulla a destra del centro, e tutti i marxisti rivoluzionari furono, per assorbenti ragioni di principio ben più profonde, contro Stalin, perdendo si, ma nella serie feconda di tutte le rivoluzioni schiacciate la cui riscossa verrà, e sarà soltanto di natura mondiale.



Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. Per maggior comodità di lettura, abbiamo qui distinta una III parte. I paragrafi seguono perciò da 1 a 121 invece che da 102 a 222 come nelle puntate del giornale (le puntate originale sono messo in []). [⤒]

  2. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pagg. 46 e 47. [⤒]

  3. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 49. [⤒]

  4. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 48. [⤒]

  5. Era la prospettiva delineata da Lenin nell’opuscolo del 1918, del riunirsi delle «due metà spaiate di socialismo» formatesi dopo la guerra: in Germania, «la realizzazione materiale delle condizioni economiche, produttive e sociali del socialismo» («inconcepibile senza la tecnica del capitalismo, costruita secondo l’ultima parola della scienza moderna»); in Russia, «la realizzazione materiale delle sue condizioni politiche»; in mancanza della quale riunione il compito della dittatura bolscevica sarebbe stato di «mettersi alla scuola del capitalismo di Stato tedesco» («Sull’imposta in natura», in Lenin, «Opere», XXXII, pag. 344). [⤒]

  6. L. Trotsky, «La rivoluzione tradita», Milano 1956, pag. 53. [⤒]

  7. Cfr., di Trotsky, il «Nuovo Corso», 1924. [⤒]

  8. Per una analisi approfondita del dibattito economico del 1926 – 1929 e delle sue complesse e a volte contraddittorie vicende (fra cui il finale «ravvicinamento», obiettivo anche se non dichiarato, fra sinistra e «destra» nella difesa del marxismo), è importante rifarsi al quinto paragrafo del III capitolo dell’opuscolo ««Bilan d’une révolution», numero triplo speciale della rivista teorica internazionale «Programme communiste», ottobre 1967 – giugno 1968, pagg. 127–154, che ne tratta per esteso «in margine al 50' anniversario dell’Ottobre». Un più dettagliato studio di partito sull’intero dibattito è ora in corso, e sarà oggetto di pubblicazione: del dibattito stesso, nel presente volume, si danno solo le linee dorsali. [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 25, Dicembre 1956

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