LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
[home] [content] [end] [search] [print]


STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (XXIII)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXIII)
74 – Lenin e Trotsky sulla NEP
75 – «Il comunismo di guerra»
76 – Industrialismo di guerra
77 – Trotsky e la NEP
78 – Capitalismo di Stato
79 – La costruzione di Lenin
80 – Senso della russa epopea
81 – Le fasi della «reazione» storica
|< >|
Notes
Source


Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXIII)

74 – Lenin e Trotsky sulla NEP

Il famoso opuscolo di Lenin sull’imposta in natura fu scritto poco dopo il X congresso del partito, al quale – prima che alla X conferenza del maggio 1921 – ne fu annunciato il contenuto; lo stesso congresso che discusse il tema della funzione dei sindacati e quello dell’unità del partito e contro le frazioni, di cui ci siamo occupati. Il congresso si svolse dall’8 al 16 marzo. La solita «Storia» staliniana del partito – afferma che i «capitolardi» come Trotsky si opposero alla saggia decisione di Lenin, e al solito furono smascherati e isolati, battuti in breccia, e via col gergaccio che ha per trent’anni imperversato, e che somiglia a tutti gli altri gerghi idioti di questa società che in tutto il mondo rimbecillisce. Come non bere?

Per non bere bisogna essere stati a Mosca nel 1922 ed aver sentito il poderoso discorso[202] col quale Leone Trotsky assolse il compito di tranquillizzare alcuni compagni dell’estero che avevano temuto che si trattasse di una rinunzia all’indirizzo rivoluzionario, e resta la più brillante spiegazione e difesa della Nuova Politica Economica e della geniale concezione di Lenin e del partito russo a quello svolto.

Ricorderemo di passaggio che a quel congresso il Partito Comunista d’Italia, la cui delegazione nell’enorme maggioranza fu su tutto il fronte alla più chiara opposizione sulla tattica in Europa, si dichiarò solidale fino all’ultimo con la politica sociale del partito russo e non ebbe la minima eccezione da fare allo svolto della NEP su cui tante sciocchezze furono scritte dai filistei di ogni risma.

Lo svolto fu detto condurre dalla fase del «comunismo di guerra» a quella della NEP e per i babbioni soliti fu un passo da sinistra a destra, sfruttando con la solita economica digestione di un paio di sole parole l’immagine della ritirata che vedremo usare da Lenin, il quale spiegava (al solito, ah, dialettica!) che vi sono ritirate che hanno come scopo ed effetto la vittoria, e talvolta se ne fanno constatando di avere troppo avanzato su posizioni non ancora sicure.

Per chiarire che cosa si debba intendere per comunismo di guerra vogliamo attingere, prima che al fondamentale scritto di Lenin, alla bella esposizione di Trotsky.

Il primo capitoletto di Trotsky tratta del corso della guerra civile, argomento del quale siamo cronologicamente già oltre, e sebbene siamo fautori di queste trattazioni lo lasceremo da parte. Egli conclude, dopo aver svergognato il sabotaggio dei partiti menscevichi: Il compito supremo del partito rivoluzionario della classe operaia in tutti i paesi è la risolutezza senza alcun riguardo, non appena si è sul terreno della guerra civile.

L’autore passa quindi alle «Condizioni della costruzione socialista». Il testo mostra subito che non si deve equivocare tra la costruzione economica condotta dal governo del proletariato vincitore, e la posteriore equivoca fase dell’edificazione del socialismo. L’espressione propria sarebbe: costruzione delle condizioni del socialismo economico.

«Dopo la conquista del potere il compito della costruzione, e prima di tutto della costruzione economica, si pone come il problema centrale e più difficile. L’adempimento di un tale compito dipende da circostanze di diverso tipo e di diversa profondità: 1) dal livello delle forze produttive e, in particolare, dai rapporti reciproci fra agricoltura ed industria; 2) dal livello culturale e organizzativo della classe operaia, che ha conquistato il potere; 3) dalla situazione politica nazionale ed internazionale: se la borghesia è definitivamente vinta o offre ancora resistenza, se hanno luogo interventi militari esterni, se i tecnici e gli intellettuali fanno sabotaggio, ecc.».

Questo non è però che un ordine logico. Praticamente i tre ordini di difficoltà si presentano tutti davanti al proletariato. Nel caso di noi russi, Trotsky dice, la terza difficoltà, ossia la reazione bianca, si pose come il più grave problema, solo in seconda linea quello della poca cultura delle masse, e al terzo posto il limitatissimo sviluppo delle forze produttive.

Non solo, dice Trotsky, ma avviene che il primo e il terzo compito non sono solo in ordine di urgenza, ma anche in netto contrasto. Il paragone è classico.
«La ragione economica non coincide sempre con la necessità politica. Se siamo minacciati in guerra dal pericolo d’essere sopraffatti dalle guardie bianche, io faccio saltare un ponte. Dal punto di vista politico è una necessità assoluta. E io sarei un pazzo e un traditore se non facessi saltare il ponte al momento opportuno».
Infatti distruggere ponti, strade e ferrovie significa fare ulteriormente scendere il livello delle forze produttive!

75 – «Il comunismo di guerra»

Trotsky spiega il senso della trasformazione sociale nei teoremi classici del marxismo. Il «salto dal regno della necessità a quello della libertà» di Engels non significa che la conquista del potere politico dia al partito proletario vincitore, da un’ora all’altra, la facoltà di stabilire il dominio della Ragione sull’economia e su tutta la vita pubblica. Un’epoca intera, alla scala mondiale, è indicata nel concetto del «salto» di Engels. Per ora la Rivoluzione non deve dimenticare che opera in un mondo in cui l’economia non è retta dalla umana ragione, né lo sarà per gran tempo.

Egli dice quindi duramente che le espropriazioni del 1917–18 sarebbero state in linea di teoria economica da rimandare, ma furono imposte da esigenze politiche e militari.
«Le possibilità organizzative dello Stato operaio restavano largamente indietro alle sommarie nazionalizzazioni».
Così parla il coraggio dei rivoluzionari marxisti. La logica economica sarebbe stata, dice Trotsky, di prendere nelle mani la gestione delle sole grandi industrie, lasciando le medie e piccole per il momento alla privata gestione, quindi saremmo passati alle medie: questa sarebbe stata la serie razionale. Ma la borghesia russa vedeva ancora in piedi il capitalismo europeo, e non voleva credere che il suo destino era segnato. Solo l’atto di forza la poteva convincere a desistere dalla lotta, dalla congiura, dal sabotaggio.
«Ogni fabbrica, ogni banca, ogni ufficio, ogni negozio, ogni studio di avvocato, costituiva una fortezza contro di noi. Essi fornivano alla controrivoluzione armata una base materiale e un legame organizzativo».
Fu necessario occupare tutto, con militanti sicuri, buoni combattenti, ma immaturi organizzatori.

«Noi perciò affrontammo la questione dal punto di vista non dell’astratta ragione economica (come i Kautsky, i Bauer, i Martov e simili politicanti impotenti) ma delle necessità della lotta rivoluzionaria. Si trattava di schiacciare il nemico, di tagliargli i viveri, a prescindere dalla misura in cui si sarebbe poi proceduto al lavoro di organizzazione dell’economia. Nel campo della costruzione economica, fummo costretti in quel periodo a concentrare i nostri sforzi sui compiti più elementari: appoggiare materialmente l’esistenza immediata dello Stato operaio e dell’armata rossa che lo difendeva al fronte; curare e rifornire la parte della classe lavoratrice rimasta in città (ma ciò in seconda linea). La primitiva economia statale che – bene o male – assolse questi compiti, ricevette più tardi la designazione di ‹Comunismo di guerra›».

Abbiamo a tal proposito detto che questa misura economico-militare, detta comunismo di guerra, non ha bisogno di essere attuata da marxisti proletari e comunisti: può essere ed è storicamente stata adottata da ogni potere militare negli estremi di emergenza, con le requisizioni anche senza indennizzo che ogni legge marziale e forza armata consente: anche da classi dominanti e controrivoluzionarie, da Stati borghesi liberali o fascisti, dagli hitleriani ad esempio in casa e fuori, e «schonungslos», con la parola di Trotsky: senza guardare in faccia a nessuno. Nulla ha che la faccia rimpiangere, anche se nella specie le città russe dall’aspetto di fortezza assediata facevano al rivoluzionario, nel loro squallore, migliore impressione di quelle odierne che scimmiottano le luminose metropoli capitaliste.

Ma vediamo in Trotsky la dimostrazione delle caratteristiche di quel comunismo di guerra dal saldo contenuto rivoluzionario.

Egli dice che le questioni principali sono: come si apprestano i generi di sussistenza; come si ripartiscono; come si regola il lavoro nell’industria di Stato.
«Il governo sovietico si trovò di fronte non un libero commercio, ma un monopolio dei cereali, poggiante sul vecchio apparato mercantile».
Rifletta il lettore su questo passo così limpido di uno dei maestri dell’economia marxista. Non si tratta di uno dei monopoli del capitalismo sviluppato, ma dell’antico monopolio con cui le dinastie assolute gestivano i granai per il popolo dei grandi centri, arrivando alla stessa gratuita distribuzione in periodo di fame.
«La guerra civile distrusse questo apparato: allo Stato operaio non restò che costituire in fretta e furia un apparato statale per la requisizione del grano dai contadini e il suo accentramento nelle proprie mani.
I generi di prima necessità vennero distribuiti quasi indipendentemente dalla produttività del lavoro: non si poteva far altro. Per mettere in qualche modo d’accordo il lavoro e il salario, si sarebbe dovuto possedere un apparato amministrativo dell’economia infinitamente più completo e maggiori risorse in mezzi di sussistenza. Nei primi anni del regime sovietico si trattava prima di tutto di assicurare alla popolazione cittadina la possibilità di vivere; e lo si ottenne anche grazie al livellatore paiok (razione)«
.

La differenza tra la razione dei tesseramenti di guerra nei paesi borghesi e il paiok medioevale è in questo: che il paiok non si paga in moneta. È una forma non mercantile, che giustamente entusiasmò i giovani comunisti europei che arrivavano in Russia in quei primi anni, ma è una forma precapitalistica malgrado possa ricordare quella del comunismo superiore. Trotsky ha ragione di dire con l’abituale e magistrale nettezza:
«La requisizione [senza moneta o con moneta svalutantesi, come Lenin dirà] delle eccedenze del contadiname [intendete con eccedenza quel tanto di cereali che resta dopo il consumo diretto del contadino e della famiglia, ed anche, come in Lenin stesso e con la stessa secca sincerità, prima che abbiano finito di sfamarsi], e la ripartizione dei paiok, erano in realtà misure da fortezza assediata, ma non di economia socialista».
E qui ritorna il punto vitale:
«In date circostanze, specialmente con una più rapida marcia in avanti della rivoluzione in Occidente, il passaggio dal regime di fortezza assediata al regime socialista sarebbe stato per noi straordinariamente facilitato e accelerato».

76 – Industrialismo di guerra

Trotsky spiega che ogni produzione manifatturiera, nelle varie economie, tende a raggiungere una certa proporzionalità tra le sussistenze e gli oggetti manifatturati, tra quelli che sono beni di consumo e la formazione e il mantenimento dei mezzi di produzione. Nel sistema capitalistico ciò avviene a mezzo del mercato, della libera concorrenza, del gioco dei prezzi, della domanda e dell’offerta, e della soluzione dei periodi di congiuntura grazie alle crisi. Noi marxisti denunziamo a ragione l’anarchia di questo sistema, ma non va disconosciuto che attraverso cicli alternanti esso giunge ad una certa proporzionalità tra i vari scopi economici e produttivi.

In Russia, dice Trotsky, questa trama era stata, ove esisteva, centralmente e localmente spezzata e distrutta dalla guerra, dalla rivoluzione e della guerra civile. Come potevamo noi tornare sulla via dello sviluppo economico? È vero che nel sistema socialista tutte quelle proporzionalità sono regolate da un sistema centrale e da una pianificazione «prima statale e poi internazionale». Ma una simile soluzione non può essere perfezionata a priori, uscire dalla pura speculazione mentale. Può solo uscire da un lungo sviluppo di tutte le risorse e delle forze di produzione. È una ben lunga strada.

Che cosa potevano fare i bolscevichi, in tale situazione? Ne venne fuori
«l’elementare esigenza di vita di mettere in piedi un apparato provvisorio sia pur rozzo per poter trarre dalla caotica eredità trasmessaci nell’industria i prodotti di prima e assoluta necessità per l’esercito in guerra e per la classe operaia. Non era un compito economico nel senso lato del termine, ma militar-industriale. Con la collaborazione dei sindacati, lo Stato prese materialmente in mano le fabbriche e creò un apparato centralizzato, in alto grado pesante e macchinoso, che tuttavia permise di rifornire l’esercito di armi e materiale bellico – in misura insufficiente, è vero, ma tale da farci uscire dalla lotta non vinti ma vincitori».

La conclusione è che la politica delle requisizioni forzate di cereali condusse al calo della produzione agricola e al suo disordine. La politica delle gestione burocratica centrale delle fabbriche impedì la razionale utilizzazione degli impianti e della capacità tecnica dei lavoratori. La politica dei salari egualitari (o in natura) paralizzò lo sviluppo della capacità lavorativa.
«Ma tutta questa politica del comunismo di guerra ci fu imposta dal regime di fortezza assediata in condizioni di dissesto economico e di esaurimento delle risorse».

Ci domanderete, esclama l’oratore, se abbiamo mai sperato di salire per una linea più diretta, senza oscillazioni e ritirate, dal comunismo di guerra al socialismo. Infatti, lo abbiamo sperato!

«In quel periodo noi credemmo fermamente che lo sviluppo rivoluzionario nell’Europa occidentale avrebbe marciato a un ritmo più veloce. Non v’è alcun dubbio: se nel 1919 il proletariato avesse preso il potere in Germania, in Francia, e in generale in Europa, è certo che il nostro sviluppo economico avrebbe assunto forme ben diverse».
Egli ricorda la previsione di Marx sugli effetti di una rivoluzione europea per la società russa, nella famosa lettera del 1883 al populista Danielson. Denunzia ancora il tradimento socialdemocratico in Europa che aveva impedito che un proletariato europeo vincitore nel 1919 potesse fornire alla Russia,
«paese arretrato in senso economico e culturale, prendendolo a rimorchio, un aiuto tecnico e organizzativo».

La conclusione di questo esame del comunismo di guerra è questa:
«Quando si dimostrò che dal punto di vista militare saremmo usciti vincitori, fu egualmente chiaro che, dal punto di vista economico, avremmo dovuto ancora a lungo contare sui soli nostri mezzi e sulle sole nostre forze»[203].

77 – Trotsky e la NEP

La sorgente della nuova politica economica, premette Trotsky, è la transizione dalle misure dettate da necessità militari a misure dettate dalla conservazione economica. Abbiamo anche noi detto che fu una ritirata, ma, dato che è facile ai tendenziosi avversari scambiare una ritirata con una «capitolazione», le cose vanno meglio considerate.

«I contadini, che nell’Ottobre 1917 avevano ricevuto dallo Stato, che l’aveva nazionalizzata, la terra, e le scorte, sono ora tenuti a versargli una data «imposta in natura», che rappresenta un essenziale contributo alla causa della costruzione socialista».

Poiché per tale via i contadini possono conservare una parte delle eccedenze, è stato loro consentito di venderle su un mercato libero, non vietato, delle derrate agrarie.

Tale fatto condusse a dire che lo sviluppo economico russo nei cinque anni dal 1917 al 1922 non si era mosso secondo una linea retta, ma a zig-zag. Se nel 1921 si era riconosciuta e consentita l’esistenza di un mercato, fino allora vietato come illegale, e poiché è chiara teoria marxista che il capitalismo si forma sul terreno mercantile, bisogna dire che la Russia si è mossa nel 1921 in una direzione che va dal socialismo al capitalismo? Ciò smentisce Trotsky con tutta energia.
«È assolutamente inesatto dire che lo sviluppo economico della Russia sovietica si muova nella linea dal comunismo al capitalismo. Noi non abbiamo finora avuto nessun comunismo. Neppure il socialismo abbiamo avuto, né potevamo averlo. Avevamo nazionalizzato una disorganizzata economia borghese, e, nel più duro periodo di lotta per la vita o per la morte, abbiamo introdotto un regime di ‹comunismo dei consumi›. Dopo aver vinto la borghesia nella politica e sui campi di battaglia, abbiamo potuto dare inizio alla costruzione economica, e qui ci siamo visti costretti a reintrodurre le forme dei rapporti di mercato fra città e campagna, fra i singoli settori industriali e fra le singole aziende».

Con realismo determinista proprio del marxismo, viene chiarito che al posto di una banale scelta arbitraria del partito al potere vi è la deterministica constatazione di una necessità economica avente forza superiore ad ogni velleità metafisica o sentimentale.

«Senza il libero mercato il contadino non trova il suo posto nell’economia, e perde la spinta al miglioramento e allargamento della produzione. Solo un’industria di Stato potentemente sviluppata, che sia in grado di sopperire a tutte le esigenze del contadino e della sua economia, preparerà il terreno all’inserimento del contadiname nel sistema generale dell’economia socialista. Sotto il profilo tecnico, un tale compito sarà espletato con l’aiuto dell’elettrificazione, che metterà fine all’arretratezza dell’economia agraria, al barbaro isolamento del contadino, all’idiotismo della vita rurale. Ma la via che a questo conduce passa per il miglioramento dell’economia del contadino odierno in quanto proprietario, e lo Stato operaio può giungere a tanto solo attraverso il mercato, che sveglia l’interessamento personale del piccolo proprietario. I primi risultati ci stanno già dinnanzi. La campagna fornisce quest’anno allo Stato dei lavoratori, sotto forma di imposta in natura, molto più grano di quanto esso riusciva ad ottenere mediante requisizione forzata ai tempi del comunismo di guerra. Il contadino è soddisfatto e, senza normali rapporti tra proletariato e contadiname, uno sviluppo socialista nel nostro paese è impossibile».

Trotsky spiega quindi come la NEP non sia solo il sistema di rapporti di scambio fra città e campagna, ma sia una necessaria tappa nello sviluppo dell’industria di Stato. Sappiamo che questa nel 1920 era piombata al basso della sua storica curva di sviluppo, ed il suo potenziale era la settima parte di quello del tempo zarista. In questa condizione non sarebbe potuta uscire dal regime di emergenza degli anni di guerra civile, se non attraversando un lungo periodo in forma di capitalismo di Stato – di cui tratta a fondo Lenin – ossia funzionando verso il mercato delle materie prime del lavoro e dei prodotti come un’azienda isolata con un proprio bilancio e un proprio profitto, che competa allo Stato industriale; e, nella fase del 1921, alle minori industrie di cui era consentita tuttora la gestione privata, o come proprietà, o come affitto di stabilimenti già nazionalizzati.

Questo passaggio ad un capitalismo mercantile e aziendale, che non è affatto forma socialista, era tuttavia un passo innanzi per un paese dal quadro economico che allora offriva la Russia e in cui il capitalismo industriale era presente solo in una forma di industria di guerra, la cui possibilità e funzione di dura emergenza era ormai finita.

78 – Capitalismo di Stato

Trotsky ricorda le raccomandazioni di prudenza di Lenin sull’impiego del termine di capitalismo di Stato, e ne fa la storia. La distinzione politica sta in quel tempo in primo piano davanti alla mente di Trotsky, il quale non introduce nemmeno, nel 1922, la lontana ipotesi che la natura politica del partito e dello Stato comunista possa degenerare o invertirsi. Dinanzi ai riformisti di prima della guerra i socialisti rivoluzionari sostenevano che una statizzazione fatta da un potere borghese era sempre capitalismo, fosse lo Stato bismarckiano di Lassalle o la Repubblica democratica di Jaurès. Ma quando in Russia il potere è nelle mani della classe operaia, e l’industria pesante è nelle mani dello Stato operaio,
«non vi è sfruttamento di classe, quindi non v’è capitalismo, sebbene ve ne siano le forme».
Queste forme sono l’azienda al di dentro e il mercato monetario al di fuori (Trotsky ricorda qui la tesi di Lenin per la rivalutazione del rublo).

Trotsky intende dire che terminologicamente non è giusto chiamare una forma economica partendo dal suo meccanismo intrinseco e senza tener conto della natura di classe dello Stato politico del tempo. Egli dice che l’industria del tempo dello zar era feudalismo e non capitalismo. Ciò può indurre ad equivoco; non descrisse Lenin lo sviluppo del capitalismo in Russia decenni prima della caduta dello zarismo? E non era anche quello in gran parte un capitalismo di Stato? Trotsky tuttavia così si esprime, e forte influenza vi ebbero le ragioni di virile propaganda in quella ancora ardente situazione del 1922:
«La produzione dello Stato operaio è per tendenza di sviluppo una produzione socialista. Ma per il suo sviluppo si serve di metodi che l’economia capitalistica ha messo in opera e che noi siamo ancora ben lungi dall’aver liquidato».

Un modo di produzione andrebbe defunto prima politicamente, poi economicamente.

Davanti allo sviluppo di forze produttive ed alla statizzazione totale dell’industria di oggi, 1956, che ha conservato in pieno, arrestando lo sviluppo verso il socialismo che allora consisteva nel «salire il gradino del capitalismo di Stato», le forme aziendali e mercantili (inevitabili allora in ragione della bassissima potenza industriale del paese), e soprattutto davanti alla degenerazione del partito al potere, di cui primo indicò il carattere controrivoluzionario, Trotsky, in coerenza all’analisi di allora, adotterebbe non solo la formula di capitalismo di Stato per l’economia russa, ma anche quella di Stato capitalista per la politica russa, abbandonando la definizione di Stato proletario degenerante che gli fu cara in anni meno luminosi. E quando egli disse Stato proletario «degenerato» disse con altre parole Stato capitalista e borghese. Se quello Stato era all’inizio di genere proletario, a degenerazione scontata era uscito dal suo genere, lo aveva cambiato in quello capitalista.

Prima di passare allo studio di Lenin, riportiamo il brillante passo di Trotsky sul capitalismo in tempo feudale.
«Che, in linea di principio, nuovi fenomeni economici possano svilupparsi entro un antico involucro, lo abbiamo visto ripetutamente nella storia, e nelle più svariate combinazioni. Quando in Russia cominciò a svilupparsi l’industria, ancora ai tempi della servitù della gleba, sotto Pietro I e successori, le fabbriche allora sorte su modello europeo poggiavano sulla base della servitù della gleba, cioè i contadini-servi erano vincolati alle fabbriche come forza lavoro coatta. I capitalisti che le possedevano, gli Stroganov, i Demidov, ecc., svilupparono il capitalismo entro l’involucro della servitù della gleba. Allo stesso modo, il socialismo è costretto a fare i primi passi in un guscio capitalista. Il passaggio a metodi integralmente socialisti non può compiersi con un salto al disopra della propria testa, soprattutto quando la testa non è particolarmente lavata e pettinata come, per dirla con licenza, non lo è la nostra testa russa. Noi dobbiamo ancora imparare ed imparare»[204].

Noi vediamo più a posto la terminologia marxista nel dire che il capitalismo si avvale di produttori salariati, come si avvalse in date circostanze storiche di produttori servi e schiavi (antichità classica) e in tutti i casi poté essere gestito da uno Stato o dai privati. Ma l’illazione che il socialismo possa iniziarsi servendosi di produttori salariati è inammissibile, perché contrasta col principio che il socialismo differisce da tutte le forme precedenti per l’abolizione delle classi sociali. In questo studio interessa ricostruire i fatti, ma preferiamo la dizione che in uno Stato politico socialista si possono ben avere forme economiche non socialiste, in via di sparizione, e tra esse il capitalismo di Stato, il capitalismo privato, la piccola produzione e così via.

79 – La costruzione di Lenin

Lo scritto di Lenin sull’imposta in natura comincia, come abbiamo visto in molti testi importanti, dalla constatazione che il dibattito sulla convenienza o meno di dati provvedimenti pratici presi dal governo sovietico «ha avuto un carattere piuttosto sconnesso». Gli argomenti arrecati per respingere e criticare la «nuova» politica erano stati tali, da rendere necessaria ancora una volta la chiarificazione di posizioni generali che si dimostravano male acquisite ed oggetto di considerevole confusione. Lenin quindi risale alle questioni di massima.
«Sarà perciò tanto più utile il tentativo di affrontare il problema non dal punto di vista della sua attualità, ma come una questione generale di principio. In altre parole dobbiamo rivolgere il nostro sguardo allo sfondo generale più importante di quel quadro, su cui tracciamo le linee di determinati provvedimenti pratici della politica d’oggi. Per fare questo tentativo, mi permetto di citare un lungo brano del mio opuscolo: il compito principale dei nostri giorni – Sull’infantilismo ‹di sinistra› e sullo spirito piccolo-borghese. Questo opuscolo, pubblicato dal Soviet dei deputati di Pietrogrado nel 1918, contiene un articolo dell’11 marzo 1918 sulla pace di Brest e una polemica col gruppo allora esistente dei comunisti di sinistra, del 5 maggio 1918. Quella polemica oggi è superflua e perciò la ometto. Lascio soltanto ciò che concerne la discussione sul Capitalismo di Stato e sugli elementi fondamentali della nostra attuale economia di transizione dal capitalismo al socialismo»[205].

Per meglio stabilire che gli argomenti generali teorici non sono chiamati in ballo per risolvere il dubbio, il contrasto di idee contingente, Lenin ricorre a materiale di tre anni prima, predisposto quando non si pensava affatto alla questione del 1921, alla NEP.

Nella prima parte di quell’opuscolo Lenin scriveva cose che ora non sta per citare, ma che sono ugualmente essenziali. Egli si riferiva alla situazione seguita alla firma di quella che si chiamò «una vera pace di Tilsit», una pace che suggellava una durissima sconfitta e incitava ad operare con decisione inflessibile per «far sì che a qualunque costo la Russia cessi di essere misera e impotente, e diventi, nel vero senso della parola, possente ed opulenta». Il passo che ora trascriviamo ribadisce due punti: che sola via di vittoria è la rivoluzione socialista fuori di Russia, che il lavoro da affrontare nel campo interno è la costruzione delle basi del socialismo, non di esso stesso socialismo, di una società socialista, di un’economia socialista, che sono traguardi internazionali. Due punti che sono i centrali di tutta la tesi che noi sosteniamo sul problema dell’evoluzione sociale russa moderna.

«La Russia potrà diventare forte e opulenta se getterà via ogni scoraggiamento ed ogni vuota frase e, stringendo i denti, raccoglierà tutte le sue forze; se tenderà ogni suo nervo, ogni suo muscolo; se comprenderà che la sola [corsivo in originale] via di salvezza possibile è quella della rivoluzione socialista internazionale, che noi abbiamo imboccato. Proseguire per questa via senza lasciarci abbattere dalle sconfitte, costruire pietra su pietra le solide fondamenta [sic!] della società socialista, lavorare senza tregua per instaurare la disciplina […] il censimento ed il controllo generale sulla produzione e la distribuzione dei prodotti: questa è la via che porta alla creazione della potenza militare e della potenza socialista»[206].

L’ultimo binomio è degno della mente di un Lenin. Il socialismo non lo crea, lo costruisce, lo edifica nessuno.

Lo generano forze non di umana volontà e coscienza, nel grembo della vecchia società, ed il partito non è per lui un architetto ma, nell’espressione drastica quanto eloquente di Marx, appena una levatrice.

Due cose può conseguire l’azione del partito rivoluzionario: la potenza militare, per vincere nella guerra di classe, e la potenza socialista, ossia il rovesciamento distruttivo di tutte le condizioni che sbarrano la via all’immenso parto della storia, che porta alla luce una società nuova.

80 – Senso della russa epopea

Veniamo ora alla dimostrazione che Lenin citò da se stesso dopo tre anni, che dopo 35 anni occorre ancora ripetute volte citare.
«…Il capitalismo di Stato rappresenterebbe un passo avanti [corsivo originale] rispetto allo stato attuale delle cose nella nostra Repubblica Sovietica. Se, per esempio, tra sei mesi si instaurasse da noi il capitalismo di Stato, ciò sarebbe un enorme successo, e la più sicura garanzia che fra un anno il socialismo sarebbe da noi definitivamente consolidato e reso invincibile»[207].

Dobbiamo interrompere per evitare un frainteso; noi sosteniamo che Lenin calcolava a lunghi decenni la trasformazione socialista dell’economia russa, e proprio noi citiamo Lenin che qui prevede un anno! Ma Lenin lo prevede in base ad un’ipotesi per assurdo, che è prova della sua tesi: ben venga il capitalismo di Stato integrale! Di anni ne sono passati trentasette, e la condizione non è data ancora colà: vige il capitalismo statale nell’industria, ma non nell’agricoltura, e non basterebbero quindi a tale stregua altri 37 anni per il socialismo pieno, che, conseguendo una generale base pronta a sorreggerlo, richiederebbe una nuova rivoluzione politica di classe. 74 anni sono più dei 50 di Trotsky nel 1926, di cui si menò tanto scalpore. È poi giusta la formula che il socialismo si consolida e diventa invincibile anziché farsi costruire da quattro fessi.

Ma altro è il filo logico della deduzione serratissima di Lenin.
«M'immagino con quale nobile sdegno qualcuno respingerà queste parole […] Come? Nella Repubblica Socialista Sovietica il passaggio al capitalismo [corsivo come sopra] di Stato sarebbe un passo avanti? […] Non è questo tradire il socialismo?
… È su questo punto che bisogna soffermarsi in modo più particolareggiato.
In primo luogo bisogna analizzare qual è esattamente la natura del passaggio dal capitalismo al socialismo che ci dà il diritto e il motivo di chiamarci Repubblica Socialista Sovietica.
In secondo luogo bisogna denunciare l’errore di coloro che non vedono le condizioni economiche piccolo-borghesi e l’elemento piccolo-borghese come il principale [corsivo come sopra] nemico del socialismo nel nostro paese.
In terzo luogo bisogna ben comprendere il significato della differenza economica tra lo Stato Sovietico [corsivo come sopra] e lo Stato borghese.
Esaminiamo questi tre punti.
Non c’è stato ancora nessuno, a quel che sembra, che, interrogato sull’economia della Russia, abbia negato il carattere transitorio di questa economia. Nessun comunista ha neppure negato – a quanto pare – che l’espressione ‹Repubblica Socialista Sovietica› significa che il potere sovietico è deciso a realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto che riconosca come socialisti gli attuali ordinamenti economici«
[208].

Qui la lapidaria classicità del testo, anche oltre ogni legittima suspicione sulla mano traduttrice, assurge a forza di scientifico rigore.

Il primo teorema è che si è in presenza di una economia evolvente, in trasformazione, non pura, che non si può al cento per cento classificare in uno dei modelli della nostra dottrina: feudalismo, capitalismo, socialismo. Dunque vi è una mescolanza, e per di più instabile, di forme tipiche. Ed allora quali e in quale misura? Lo sapremo presto.

Perché allora lo Stato politico prende il nome di «Socialista»? Tutto, quando Lenin parla, è spaventosamente semplice, lo sa chiunque lo abbia ascoltato. Ma è anche spaventosamente profondo, e lo sa chi ha seguito la schifosissima banda che da decenni lo ha bestemmiato. Lo Stato, teorema base del marxismo, non è la società. Tanto meno lo sarà il nostro Stato, perché la società nostra sarà senza Stato. Sono il giurista e l’idealista borghese che identificano l’aggettivazione dello Stato con quella della società, astraendo dalle classi.

Per i marxisti lo Stato è una forza, che esiste soprattutto nelle società in trasformazione. Noi non definiamo quella forza secondo il grado di trasformazione raggiunto, ma secondo la direzione di classe in cui lavora lo Stato, rivoluzionario o conservatore che esso sia. In questo senso si ha una monarchia feudale, una monarchia o repubblica borghese, una repubblica socialista, in linguaggio marxista. Il filisteo borghese li chiama monarchia dispotica o costituzionale, repubblica democratica e così via, e poi gli sono piovute addosso le repubbliche «totalitarie» che lo intrigano terribilmente.

Quindi la questione della struttura della società russa viene dopo quella primaria del nome dello Stato. Noi dunque non affermammo allora che si avesse la struttura economica e sociale socialista, ma ci fermammo su questo concetto di forza, che Lenin rende con le parole: potenza socialista, decisione del potere sovietico di realizzare il passaggio al socialismo. E vorremmo valutare il verbo russo tradotto con questo neologismo di moda realizzare, oggi a disposizione dei più impotenti imbonitori: noi ci permettiamo di preferire propugnare, provocare, agire, lottare per il passaggio.

E qui ancora il testo, facile e possente:
«Ma che significa la parola passaggio?».
Tre parole, un vasto concetto. Credete forse che il governo, che a pieno diritto si chiama socialista, abbia il potere di stabilire per decreto che dal giorno tale, ora tale, si passa al socialismo? Farebbe ridere i polli. La soluzione, che non sapreste trovare se fossimo a un lascia o raddoppia, vi sembrerà banale appena sentita:
«Non significa forse [la parola passaggio], quando si applichi alla economia [perché, non dimenticate il vostro abbici marxista, significa ben altro se si riferisce al potere politico; significa allora il più crudo aut-aut: o tutto il potere di qua o tutto di là] che in quel dato regime vi sono elementi, particelle, frammenti e di capitalismo e di socialismo? Ognuno riconoscerà di sì. Ma non tutti, pur riconoscendolo, si domandano sempre quali precisamente siano gli elementi delle diverse forme economico-sociali che sono presenti in Russia. E qui sta il nodo della questione».

81 – Le fasi della «reazione» storica

Poiché ci è stata impartita una lezione di scienza marxista, facciamo una parentesi prima di ascoltare l’applicazione al caso concreto, Russia 1918–21. Così nessuno potrà accusare come sbagliata l’analisi che abbiamo tra mani: Russia, 1956. Trattiamo, a fine solo didattico, una analogia scientifica.

Nei processi della fisica e della chimico-fisica si considerano delle trasformazioni di un corpo in condizioni transitorie e di passaggio. Questo corpo, che è più facile pensare liquido o gassoso, permettiamoci di trattarlo come una «società di molecole». Le molecole sono elementi, particelle, pezzetti di materia. Ma se un corpo è in trasformazione molecolare, ne segue che non è di uniforme struttura, che le molecole non sono tutte simili: alcune attendono la trasformazione, altre l’hanno già subita. E le trasformazioni possono essere multiple, in seno all’agglomerato di materia che studiamo. Esso non è isotropo; ossia in tutti i punti uguale a se stesso. Lenin dice del corpo sociale russo: Tutti convenite che si sta mutando: dunque in questo momento non ha struttura uniforme. Un corpo può ben essere (casi rari) in tutto stabile e invariante, ed essere anisotropo, ossia fatto di varie molecole di vari tipi, ma che, nel tempo, restano ciascuna come erano prima. Ma se mi concedete che è in trasformazione, in palingenesi, allora dovete ammettere che isotropo non è né può essere. È parte di un modo e parte dell’altro, come la società russa di allora. Ma in quali proporzioni? E la trasformazione a quale sistema tende, se tende ad una stabilizzazione?

La scienza chimico-fisica ha chiamato fasi i vari tipi di questo insieme misto. Non pensate alle fasi successive nel tempo. Pensate ad una frittura di pesce alla «zì Teresa»: le fasi sono le triglie, i calamaretti, i gamberi e via. La rivoluzione che la frittura subisce è una sola: si uniforma in bolo alimentare nello stomaco del ghiottone. Fate dunque un altro sforzo digestivo.

In una caldaia a vapore ci sono due fasi «fisiche», perché si tratta sempre di acqua; caso semplice: l’acqua liquida e il vapore acqueo. Ad ogni istante può un gruppo di molecole essere vaporizzato o condensato, cambiando fase.

Nel frigorifero ci sono le due fasi acqua e ghiaccio. Per fare un caso meno bruto, e vedere quanto è fesso chi ha scienza da specialista, aggiungiamo un momento un’altra fase: montante delle rate di prezzo da pagare ancora. Anch’esse fanno rabbrividire l’acquirente, membro della generosa società capitalista.

Il passaggio di fase di una schiera di molecole più o meno grande dipende da cause diverse: l’energia calorifica immessa o estratta, la energia meccanica somministrata o ritirata per variazioni della pressione.

Ad ognuno di questi agenti in mutamento, segue un mutamento delle fasi e della loro reciproca estensione nel complesso. Il caso di complessi senza fasi, o a fase unica e stabile, si definisce facilmente in dottrina, ma si trova assai difficilmente in natura: qui cade lo scienziato ferrato nel ramo, ma a corto di dialettica.

Se ad esempio prendiamo il complesso aria atmosferica, con le fasi vapore d’acqua ed aria (possiamo bene aggiungere acqua liquida e ghiaccio), vediamo che è raro imbattersi in aria perfettamente asciutta e in aria del tutto satura di vapore. Questi si chiamano casi limite, casi puri, stanno a loro agio nella nostra testa ma sono estremamente instabili nel mondo fisico.

Nella società russa sono presenti, Lenin dimostrò nel suo piano linguaggio, molte fasi rispetto alle quali si schierano e si convellono le molecole-uomo. Se essa è in fremente trasformazione, inutile cercarvi fasi pure: non è feudale né capitalista né socialista, ma contiene di tutto. Ed ora si passerà a vedere quante diverse fasi l’analista Lenin seppe individuare. Quale meraviglia, egli disse, che vi sia, e sia una delle più evolute, la fase capitalismo di Stato, se i più vasti gruppi di molecole sono ancora tanto lontani da questo elevato stato di aggregazione sociale?

Il militante politico, il partito, lo Stato, possono prendere il nome da una fase estrema, che la loro energia, la loro potenza (tanta energia in tempo breve) mira a provocare. Per la caldaia questa forza politica è il carbone. Ma il generoso combustibile è un fesso, se viene a dire:

Eccomi, e tutto sarà vapore, e il bello e orribile mostro si sferra… Se egli non sa i dati della distribuzione in fasi, ed i loro rapporti, e la temperatura e pressione della caldaia, corre il rischio di ardere inesausto, e spegnersi nella disarmante presenza di una massa di acqua fredda.

Lo aveva Lenin, il combustibile di massima energia calorifica. Era la rivoluzione mondiale: e i fuochisti da burla fummo tutti noi.



Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. Del discorso, tenuto il 14 novembre 1922 dopo quelli di Lenin, Zetkin e Béla Kun sul tema «Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive di rivoluzione mondiale», Trotsky pubblicò un testo rielaborato, seguito da un corpo di «Tesi sulla situazione economica della Russia sovietica dal punto di vista dei compiti della rivoluzione socialista», che si legge in «Die Grundfragen der Revolution», Amburgo, 1923, ora in Reprint Feltrinelli, pagg. 385–446 e 457–471. Nei numeri 6–10/1966 de «Il programma comunista», ne è uscita una versione italiana commentata. La favola dell’opposizione di Trotsky alla NEP è smentita fra l’altro dalle misure proposte da lui stesso al Politburo nel febbraio 1920, che andavano appunto in quel senso. Se ne veda la parte essenziale in L. Trotsky, «Il nuovo corso», genn. 1924, appendice al cap. IV («Le questioni fondamentali della politica alimentare e agraria») e brani staccati in «La mia vita», tr. it. cit., pagg. 60–63. [⤒]

  2. L. Trotsky, «Grundfragen der Revolution», Amburgo, 1923, ora in Reprint Feltrinelli, pagg. 391–393, 394–395, 396–397, 399–400–401. [⤒]

  3. L. Trotsky, «Grundfragen der Revolution», Amburgo, 1923, ora in Reprint Feltrinelli, pagg. 402–404, 421. [⤒]

  4. Lenin, «Sull’imposta in natura», maggio 1921, in «Opere», XXXII, pag. 309. [⤒]

  5. Lenin, «Il compito principale dei nostri giorni». Lo scritto venne poi riunito in un solo opuscolo – come detto sopra – con la serie di articoli intitolata «Sull’infantilismo ‹di sinistra› e lo spirito piccolo-borghese» («Opere», XXVII, pagg. 295–322), nel maggio dello stesso anno: è dal secondo testo che provengono le citazioni successive, anche se il rinvio è allo scritto del 1921. [⤒]

  6. Lenin, «Sull’infantilismo ‹di sinistra› e lo spirito piccolo-borghese», in «Opere», XXVII, pag. 304, riprodotto in «Sull’imposta in natura», cit., pagg. 309–310. [⤒]

  7. Lenin, «Sull’imposta in natura», maggio 1921, in «Opere», XXXII, pag. 310. Occorre notare che un capitolo apposito di «La NEP e i centri di educazione politica», 19 ottobre 1921, in «Opere», XXXIII, pag. 55, è dedicato al tema: «Non dobbiamo contare di passare direttamente al comunismo?» [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 22, Novembre 1956

[top] [home] [mail] [search]