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APPENDICE ALLA «STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI»



Content:

Appendice alla «Struttura economica e sociale della Russia d’oggi»
Passo accelerato delle riforme economiche a ritroso fra il XX e il XXI Congresso del PCUS
I
Le «riforme» postrivoluzionarie
Le antiriforme di oggi
Dalla proprietà statale alla proprietà aziendale
L’antiriforma agraria
Degna conclusione
II
Politica economica russa
Il nuovo volto del piano
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Notes
Source


Appendice alla «Struttura economica e sociale della Russia d’oggi»

Passo accelerato delle riforme economiche a ritroso fra il XX e il XXI Congresso del PCUS

Riteniamo opportuno far seguire come appendice integrativa alla «Struttura economica e sociale della Russia d’oggi» due brani di commento alle riforme economiche varate fra il XX e il XXI congresso del PCUS, in campo industriale e in campo agricolo, sulle linee di tendenza indicate e previste nel loro ulteriore sviluppo – da questo fondamentale testo di partito: autonomie regionali ed aziendali; smantellamento delle stazioni di macchine e trattori; riduzione dello stesso piano economico centrale a semplice quadro indicativo, non collegato al precedente né fisso; esaltazione delle forme più tipiche dell’economia mercantile; con tutti i riflessi politici e sociali che ne conseguono all’interno e nei rapporti internazionali. Quanto è avvenuto dopo, non è che una con/erma ed un prolungamento del trend di allora.

I due brani risalgono, rispettivamente, al rapporto alla riunione di partito del 20 e 21 settembre 1958 tenuta a Parma (in «Il Programma Comunista», n. 18–22 di quell’anno) su «La teoria della funzione primaria del partito politico, sola custodia e salvezza della energia storica del proletariato», e a quello svolto alla riunione della Spezia del 25–26 aprile 1959 (in «Il Programma Comunista», nr. 9–18 di quell’anno) su «La struttura economica e sociale della Russia e la tappa del trasformismo involutivo al XXI Congresso».

I

Le «riforme» postrivoluzionarie

[…] Nella polemica con gli anarchici Lenin, e noi sinistri con lui, e caso mai più e non meno di lui, avevamo spiegato che per espellere dalla politica della lotta di classe ogni «gradualismo» equivoco (che vale democratismo, culturismo, elettoralismo, parlamentarismo ed altri insetti) era di mestieri ammettere che nella economia del trapasso dalla struttura capitalista a quella socialista si dovevano prevedere e predisporre gradazioni nel tempo, lasciando agli anarchici l’idea assurda e disfattista che in uno stesso giorno potesse essere rovesciato il potere borghese e messa in funzione un’economia collettivista

Solo con questa dimostrazione si stabilisce la necessità inderogabile della dittatura rivoluzionaria, chiara dal tempo del «Manifesto dei Comunisti» nel sistema marxista, definita in questo stesso con le parole inequivocabili di intervento dispotico nei rapporti produttivi borghesi; e nelle «Lotte di classe in Francia» con le parole messe sulla bocca dei combattenti di Parigi, 1848: Abbattimento della borghesia! Dittatura della classe operaia!

Mentre quindi si può a buon diritto, come i marxisti radicali fecero per mezzo secolo, provare che anche economicamente e tecnicamente le riforme che hanno per attore un governo borghese non hanno mai il carattere di una fase gradata di sostituzione dei caratteri economici capitalistici con quelli socialistici, è sana teoria spiegare che negli atti del governo post-insurrezionale si attuano, in una serie gradata che può avere scale variabilissime, le misure di imperio che si possono correttamente definire leggi dello Stato e se si vuole riforme sociali (facendo grazia dell’odierno termine corbellatore di riforme di struttura) nelle quali si concreta la trasformazione del modo di produzione. Questi sono effettivi passi storici per cui dalle forme predominanti nel paese ove si è conquistato il potere si passa a quelle socialistiche, anzi più generalmente a forme più avanzate di quelle dominanti […]

Le antiriforme di oggi

Le trasformazioni russe «di struttura», che sono seguite al XX Congresso e sono presentate ed esaltate dall’odierno Comitato centrale del PCUS e dalle discorse di Chruščëv e pochi altri, si chiamerebbero meglio riforme di rinculo, leggi di Stato per passare da forme più o meno lontane dal capitalismo pieno a forme più vicine ad esso.

Le riforme chieste ai governi parlamentari dai socialisti legalitari della fine dell’ottocento erano una rispettabile illusione, e se non fossero servite da diversivo politico alla impostazione della esigenza della conquista del potere, può darsi che avessero anche un senso positivo; come in corretto marxismo (sia pure ammesso che è qui un punto dialetticamente difficile) lo furono le misure di limitazione della giornata di lavoro o dell’età di lavoro, in quanto chiarivano che la emancipazione del proletariato non era questione di contratto economico immediatista, bensì di potere e di maneggio del potere politico.

È indubbio che un’economia con giornata di otto ore è più vicina alla forma socialista di quella a giornata di dieci ore, pure restando nei confini salariali e mercantili da cui solo con il saltus politico si uscirà un giorno; ed è certo che Lenin e anche Stalin hanno promulgato di queste riforme in Russia, e alle stesse tocca il segno positivo.

Ma le riforme successive a Stalin e al 1956 sono riforme alla rovescia, di segno negativo, e svelano la tendenza al ritorno al pieno capitalismo non più dissimulabile, e sempre più «confessato».

Il vecchio riformismo socialista, malgrado il suo basilare errore di prospettiva, esce da questo confronto in parte riabilitato. La espressione di riforma, che i russi danno a quanto stanno perpetrando nella struttura economica e sociale interna dal XX Congresso, prende un sapore di tragica ironia.

Una delle trasformazioni consiste nella introduzione dell’autonomia regionale economica che ha decentrato molte funzioni prima attribuite al centro statale, sia come pianificazione generale della produzione, sia come direzione di essa, che dai ministeri di Mosca è stata passata ai Sovnarcos o consigli economici industriali regionali. Questa misura drastica e quasi improvvisa (ma evidente conseguenza di una lunga preparazione ed evoluzione anche involontaria) rendeva evidentemente assurdo il tentativo di sfuggire alle critiche jugoslave contro i pretesi pericoli dell’accentramento, e porgeva il fianco all’argomento insidioso che l’accentramento statale dell’economia aveva generato quello politico, fino al dispotismo personale, argomento che non è difficile ai vari opportunisti di truccare di marxismo.

Dalla proprietà statale alla proprietà aziendale

Nella legittima serie di Marx-Lenin è passaggio positivo quello che va dalla proprietà aziendale (privata o cooperativa non importa) alla proprietà statale, perché vale passaggio dal capitalismo privato a quello di Stato, e solo dopo questo segue storicamente e socialmente quello da capitalismo di Stato a socialismo, sia pure di grado inferiore nel senso di Marx (Gotha). A proposito del XX Congresso, provammo che carattere di tale passaggio è la fine della legge del valore, dell’economia di mercato e della moneta.

Sarà forse la immancabile confessione teorica (per quanto è dato a falsari cronici della dottrina) che materierà il prossimo XXI Congresso del PCUS, a consentirci di erigere la prova che la riforma Chruščëv – che questi sfacciatamente vanta allo stesso tempo come un passo al socialismo superiore o comunismo integrale, e come un passo alla democrazia dal basso! – è una discesa dello scalino di Lenin dal capitalismo di Stato in direzione opposta al socialismo perché dalla dimensione Stato si decade alla dimensione centrifuga regione prima, e subito dopo alla dimensione azienda.

I russi si contraddicono dicendo da un lato: «non abbiamo voluto creare qualcosa che rassomigliasse ai consigli di produzione jugoslavi perché questi si ispirano ad una concezione sindacalista che noi non condividiamo» e dall’altro ammettendo nello stesso testo (Pospelov) che «le nuove forme di direzione hanno accresciuto il ruolo della classe operaia nella direzione dal basso con un nuovo fermento di attività che caratterizza i sindacati, i quali attraverso le assemblee permanenti di produzione hanno assunto una funzione determinante nella guida dell’economia». Abbiamo qui un esempio delle due parti in commedia: ostentata sensibilità teorica, e manovra pratica bassamente rinculatrice. Un democratico, un libertario o un sindacalista possono plaudire a quelle frasi (se sono di bocca tanto buona da crederci) ma la valutazione marxista è quella della scala discesa e non salita.

Con la riforma non solo i Sovnarcos, ma le fabbriche, trattano tra loro i prezzi di vendita e di acquisto, e ovviamente fanno i piani di produzione. I 33 ministeri aboliti con grande chiasso per «creare» le 92 regioni economiche amministrative, in modo che «le imprese dipendano da queste e non dal centro» anche per i pochi ministeri unitari (Guerra, ecc., «Unità» 2 giugno 1957), hanno per conseguenza, vantata nelle tesi di Chruščëv (30 marzo 1957), che vi saranno
«legami contrattuali diretti tra aziende produttrici ed aziende consumatrici».

La frase è gettata lì come fosse una cosa innocente. Ma la giustificazione che ne segue vale un completo trattato dal titolo «Superiorità dell’economia di mercato sull’economia socialista». La frase è questa:
«quale forma più opportuna e vantaggiosa economicamente di approvvigionamento dei materiali e di smercio della produzione».

Dopo questi capolavori di dottrina del «marxismo-leninismo» nessun stupore circa l’apologia, che si desume da questo e altri testi anche per l’agricoltura, dei prezzi «economici», che finalmente sono stati «scoperti» ed applicati, abbandonando la pianificazione centrale dei prezzi (che non è il socialismo, rappresentato dalla abolizione dei prezzi, ma era un passo in quella direzione).

Stalin si arrabattò nei «Problemi», dopo avere richiamata in vigore la legge del valore per tutti gli scambi di oggetti di consumo (derrate agrarie e manufatti industriali finiti) a condannare chi chiamava merci anche i prodotti dell’industria statale aventi carattere di beni strumentali, ossia di materie semilavorate e macchine. Nella danza dei sette veli, anche questo oggi cade ai piedi di Salomé-Nikita! Da azienda ad azienda e da provincia a provincia, anche i beni che non hanno carattere di consumo diretto saranno contrattati e pagati. Nel capitalismo di Stato tutta l’industria ha un bilancio unico (sebbene già Stalin avesse fatto larghe concessioni al principio di «redditività» delle singole fabbriche) e non ha importanza se una macchina o una scorta di semilavorati passa da una azienda all’altra senza contropartita in denaro. Oggi, dopo lo scalino disceso, tutti i generi, non solo quelli del consumo personale e familiare diretto, circolano con un contratto di scambio e contro moneta; e il cadavere di Stalin ha di che arrossire.

L’antiriforma agraria

[…] Nel campo agrario la riforma rinculante principe è stata la liquidazione delle stazioni statali di macchine e trattori, con la vendita di questo capitale di Stato ai privati colcos che lo hanno pagato in denaro, senza poter nascondere un enorme vantaggio con questo arrecato ai grandi colcos rispetto ai minori.

I discorsi e rapporti di Chruščëv su questo tema sono una miniera di prove della accentuazione decisa delle forme borghesi. Stalin nei «Problemi», se aveva scartata l’idea di espropriare i colcos, ossia passare dalla proprietà cooperativa a quella statale delle imprese agricole, aveva però condannata l’abolizione delle SMT proprio provando che significava rendere (da statale) privata appunto la parte maggiore e più concentrata del capitale di intrapresa agraria. Ciò avrebbe significato, come oggi significa, togliere un vasto settore alla proprietà dello Stato, chiamata proprietà di tutto il popolo (?!), passandolo a proprietà di dati gruppi rurali. Oggi questi hanno ricevuto ben altre agevolazioni, come la soppressione dell’obbligo di conferire derrate agli ammassi di Stato a prezzi di imperio, consegna abolita per i colcosiani singoli e sostituita per i colcos da «liberi contratti a prezzi economici». Dai testi di Chruščëv (non è al solito il nome che importi, ma l’indirizzo, di cui è meno facile che due anni fa trovare un collegio di antesignani!) si possono trarre infinite citazioni che mostrano come questa misura o riforma sia supremamente antisocialista.

Come teorico Chruščëv vale quanto Stalin. La situazione prima della riforma di vendita delle SMT viene criticata per il fatto che sulla terra vi erano due padroni (!) ossia il colcos che disponeva della forza lavoro dei suoi soci e del capitale derrate e bestiame, e la SMT che disponeva del capitale macchine. Si tace che vi era un terzo padrone, lo Stato che si proclamava proprietario della terra, data al colcos in perpetuo usufrutto […].

Quale il vantaggio di avere mandato via uno dei due padroni del capitale di impresa agraria? Ve ne sarebbe stato uno se si fosse mandato via il padrone privato rispetto a quello delle macchine, che era «tutto il popolo». Facendo il contrario si è favorita l’accumulazione non statale del capitale e si è obbedito allo squisito principio borghese di un solo padrone, reazionario forse per la stessa forma capitalista: il principio «pas de terre sans seigneur», opposto a quello mercantile: «L’argent n’a pas de maitre» (Non vi è terra senza padrone – Il denaro non ha padrone).

Tutto questo movimento riformatore sposta a danno della classe salariata industriale (e del sovcos) tutto il rapporto sociale. Il consumatore russo paga a prezzi favolosi frutta e ortaggi, perché ai signori colcos costano molto. Il rimedio kruscioviano è lasciare che nei colcos si produca solo per consumo diretto, vera economia patriarcale, e far produrre ortaggi e frutta per le città solo ai sovcos, finché queste aziende schiaviste quanto le fabbriche saranno tenute in piedi.

Degna conclusione

Qual meraviglia fanno dunque gli inviti ai capitalisti dell’estero per venire a fare buoni affari, non con lo Stato, ma con le contrattanti autonome aziende locali? Limitiamoci ad alcuni gioielli dell’arte del sedurre.

«Se uno scienziato o un ingegnere non condivide le vedute e le convinzioni politiche comuniste, conservi pure le sue opinioni, e venga da noi come specialista chimico, come scienziato. Se egli vuole effettivamente ottenere risultati migliori nel suo lavoro, gli offriamo la piena possibilità di farlo: lo pagheremo meglio di come lo pagano le ditte ed i cartelli più ricchi».
«Se qualcuno ha ancora nel cervello certi bacilli che impediscono di assumere fermamente la posizione del riconoscimento della necessità di trasformare la società secondo i principii del comunismo, si tenga pure per qualche tempo la sua mallatìa. Noi lo pagheremo bene, gli daremo una buona retribuzione, la villa in campagna, ecc.» (discorso 8 luglio 1958 al Congresso elettro-chimico di Bitterfeld, Germania est).

«A molti di loro non interessano le idee politiche, sono attirati più dal business, come dicono gli americani. Paghiamoli bene, dunque; più di quanto li pagano gli americani, più di quanto li pagano a Bonn…». «Dopo di aver lavorato con noi si convinceranno realmente che il socialismo è il regime sociale più progressivo e il comunismo è il luminoso avvenire sognato dall’umanità» (!).
(Chi credesse a un nostro scherzo confronti il vol. n. 7 del 26 agosto 1958 dell’ufficio stampa dell’Ambasciata dell’URSS in Italia).
«In questi ultimi tempi il nostro governo ha avuto dai paesi occidentali molte proposte di grandi ditte che vorrebbero fornire attrezzature, ecc. Noi stiamo ora studiando queste proposte, per concludere buoni affari».

Ed ora questo soltanto:
«Bisogna necessariamente garantire all’imprenditore capitalista una adeguata percentuale di guadagno».

Babbo Carlo si divertiva a citare Dante. Qui, prima di andare avanti, va messo:

«E questo fia suggel ch'ogni uomo sganni».

II

Politica economica russa

[…] Mentre quell’incendio internazionale[304] era spento in un lago di sangue, senza che si vedesse giustiziare nessun agente di occidente, e sola sua conseguenza era di aumentare nelle file proletarie lo smarrimento che ha la forma di nostalgia idiota verso le forme e i procedimenti democratici (questo smarrimento rende più aspra la via per il ritorno al partito rivoluzionario, ed è vile compenso che sgretoli un poco i partiti affiliati a Mosca, che pagano il prezzo di aver seminato e coltivato a piene mani quelle idiozie democratiche parlamentari e tollerantesche), cose di altro campo ma parimenti gravissime accadevano in Russia.

Veniva smontata – senza che questo fosse fatto prevedere dai milioni di parole del congresso – tutta la macchina centrale della gestione economica di Stato; che non è il socialismo, ma può in date condizioni di sviluppo storico essere una strada verso di esso. Ai centri statali che si assommavano nei ministeri della Unione e negli organi del piano economico unitario per tutte le repubbliche, si sostituiva in modo non chiaro e brutalmente improvviso (che si spiega solo se di qualche cosa sia avvenuto un crollo improvviso) una rete di nuovi ganglii locali, che venivano gradatamente annunciati. Le repubbliche nazionali (era un primo passo) ma diverse, e sopra tutte la RSFSR, sono troppo vaste, ed allora si giunse all’elemento regionale, e si considerò come organo economico massimo il Sovnarcos, consiglio della economia regionale, a cui fu demandata la pianificazione nel territorio e la gestione di tutte le aziende che prima erano dello Stato, o con la comoda dizione antimarxista «proprietà di tutto il popolo». Popolo significa insieme interclassista, e vada, ma insomma popolo dell’URSS, della RSFSR, della regione, di un gruppo di governatorati o di province? Fu presto chiaro che questa tra le «riforme di struttura» che ci fecero parlare di un riformismo alla rovescia (rinculatore, gambero, arretratore rispetto a quello famoso del 1900 che sognava di andare avanti adagio) nella sua corsa al decentramento e verso la formula periferica e centrifuga, non si arrestava prima della unità azienda, in pratica e teoria identica alla azienda borghese di tutti i paesi. Le aziende, disse il capintesta Chruščëv, faranno i loro piani trattando tra loro (anche al di sopra dei confini di Sovnarcos) i loro affari di acquisto e di vendita. Facendolo a prezzi liberi di contratto lo faranno nel modo più economico. Il modo più economico è quello di maggior vantaggio per la collettività sociale e nazionale. Si è mai parlato un linguaggio più borghese di questo?

Mentre così veniva riformato il settore industriale, cose non meno sensazionali avvenivano per l’agricoltura. L’eresia trionfante uccise uno dei membri della sacra Trinità, che coi colcos e i sovcos formavano sotto Stalin le stazioni statali di macchine e trattori. Un vero (direbbe Marx) peccato contro lo Spirito Santo, per il quale il prete non ammette perdono. Si fece di peggio che gettare un idolo giù dall’altare. Le macchine furono svendute ai colcos, il che in parole comuni significa che «tutto il popolo» le vendette a certi «gruppi del popolo». Fu un fatto economico, è chiaro, perché mercantile. Chi fece l’affare?

Una vecchia regola della economia di mercato sta a provarci che in questo caso i meno fregano sempre i più. Ma non solo in questo i colcos e quindi i contadini in essi associati ebbero vantaggi, a parte dilazioni ampie nel pagare le macchine a… Pantalone in rubaschka. Vi fu la liberazione da ogni consegna di derrate in quantità fissate dai piani e a prezzi di stato. Da quel tempo in poi lo Stato approvvigiona le città solo in base a liberi contratti mercanteggiati con le cooperative rurali. Mentre il colcos si svincola così sempre più dallo stato centrale, il contadino colcosiano si svincola dal suo colcos, se pure questo lo paga meglio per le sue ore di lavoro sui campi e con le macchine comuni, e recenti notizie lo hanno dimostrato lucidamente circa il diritto del contadino e della sua azienda familiare di comprare o vendere bestiame senza permesso del colcos.

Se il colcos era ieri una cooperativa privata di usufruttuari della terra nazionale, oggi che ai suoi fondi pecuniari indivisibili ha aggiunto il macchinario (capitale scorta morta, strumento di produzione), esso diviene sempre più una società privata capitalistica sul cui capitale lo Stato non ha diritti, né ha controlli maggiori che negli stati borghesi.

Il nuovo volto del piano

Dopo queste innovazioni che tutte procedono nel senso che volgono le terga al capitalismo di stato e procedono verso il capitalismo privato (con che si vuol dire che il capitalismo di stato non è socialismo, è certo; ma è anche certo che con queste riforme le terga sono volte al socialismo) il XX congresso doveva condurre la sua battaglia nella prova che l’economia russa batte in velocità quella occidentale e soprattutto americana. Ma non doveva dire che questo era ottenuto, in quanto ancora ottenibile, non più grazie ad una pretesa differenza nel metodo di gestione (essa si riduceva al misero principio della statizzazione industriale) ma grazie al salvataggio ottenuto con l’adozione di una serie di misure imitative della gestione a stile occidentale.

Non è solo il riformismo che tenta di andare non dal capitalismo al socialismo, bensì in direzione contraria, ma si tratta addirittura della famosa emulazione. Essa è gloriosamente in piedi da un congresso all’altro; nel XX era l’America che doveva emulare la Russia – nel XXI è la Russia che si lancia ad emulare la borghese America.

Nel XX congresso a fianco delle vanterie sull’aumento della produzione (Chruščëv) vi era un nuovo piano (Bulganin). Oggi il piano centrale statale è morto, non vi è più piano quinquennale, non vi è più continuità tra il piano chiuso e quello che s’apre. Quello che dobbiamo studiare è un surrogato di piano. Non è più un programma di gestione ma una qualunque previsione statistica, una misera inchiesta tra esperti, all’americana, emulativamente.

Non è più quinquennale, come nei tempi d’oro, ma settennale. Avrà Nikita Chruščëv visto in sogno le sette vacche magre?

Non è più continuo con la fine del vecchio piano, ma lascia un vuoto di tre anni, dal 1955 al 1958 (o più esattamente per gli anni 1956, 1957, 1958). Un triennio in cui l’industria ha sonnecchiato, mentre l’agricoltura è addirittura caduta sotto un incubo.

Una sola pianificazione continua imperterrita: quella della menzogna. Che tra concorrenti si mentisca è buona norma, e non ci importa affatto che si spaccino menzogne al mondo o alla opinione mondiale, bassamente borghese.

Ma la menzogna è diretta anche al proletariato. Se quindi il piano non è più piano, non è più quinquennale, non è più consecutivo, ciò non ci distoglie dal compito di dimostrare quanto esso è bugiardo[305].



Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. Si allude alla rivolta ungherese del novembre 1958. [⤒]

  2. Come appunto si fece nel seguito del rapporto. [⤒]


Source: «Struttura economica e sociale della Russia d’oggi», Edizioni Il Programma Comunista, Milano 1976

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