LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
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FANTASIME CARLAILIANE
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Content:

Fantasime carlailiane
Vaniscono genii, capi ed eroi
Ieri
Uno, nessuno e centomila
Cultura o sentimento
Produzione, scienza ed arte
Aesthetica in nuce
Parola e canto
Fecondità del numerus
Arte e lotta di classe
Furore di Carlyle
Docce di Engels
Oggi
Il nobile e l'abbietto
Nessuno verrà più
Source


Sul filo del tempo

Fantasime carlailiane

Vaniscono genii, capi ed eroi
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Stupisce grandemente che non pochi dichiarati militanti del marxismo, della non breve «milizia» - forse vi è contrasto insanabile tra saldo marxismo e lunga milizia - non intendono come la tesi storica sulla incalzante detronizzazione della individualità di eccezione e di elezione sia un punto non laterale ed accessorio, ma centrale e fondamentale della nostra dottrina, che con la sopravvivente fede nella funzione dei grandi uomini è del tutto inconciliabile.

Errore ancora più grossolano è il distinguere tra vari campi della umana attività, assumendo che da alcuni di essi possa senza difficoltà eliminarsi la funzione del grande innovatore, dell'uomo di genio, e sarebbero l'economia, la politica, la storia sociale; ma che quella personale missione resterebbe intatta e necessaria per altri campi, come la poesia, la musica, in generale l'arte. Lasciata per un momento correre tale distinzione dilettantesca, la teoria del materialismo storico decade; e diviene più rispettabile quella che affida i destini dell'umanità all'«evento dei genii», od anche all'invio sulla terra degli «eletti da Dio».

Ieri

Uno, nessuno e centomila
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Naturalmente non si deve scambiare la nostra tesi con quella che tutti gli individui hanno la stessa potenza cerebrale, e nemmeno con quella che storicamente tendano ad avere la stessa potenza cerebrale. Da tempo anche in economia abbiamo dispersa la stupida opinione che marxismo significhi eguaglianza di contributo e di remunerazione economica, anche come rivendicazione futura. Nel comunismo il rapporto tra sforzo e consumo non solo sarà di diseguaglianza sempre ma diverrà indifferente che lo sia.

La nostra battaglia contro l'individualismo la dobbiamo vedere in doppio modo, storico e sociale, in ogni campo abbiamo spennato tanto l'individuo generale, che l'individuo speciale, i pollastrelli e l'Aquila.

Socialmente noi neghiamo che la società sia condotta da idee o trovati che vengono alla luce in un cervello singolo, ultrapotente o illimitato, e poi per la loro forza passano negli altri cervelli e ne divengono opinione accettata e operante volontà. Ma questo non basterebbe, e non ci distinguerebbe ancora da un piatto egualitarismo borghese, giuridico-democratico. L'elemento originale marxista è di negare anche per l'individuo preso nella massa che la luce dell'opinione e della volontà cosciente preceda la determinazione di quelle azioni, che si chiamano di natura sociale, politica, e danno corso alla storia. Il legame che noi troviamo tra le condizioni generali - che oltre alla base della forma di produzione comprendono tutta la dotazione collettiva di nozioni e di conoscenze nel senso più lato, e tutti gli istituti collettivi, come da citazioni che non saranno state dimenticate da quelli che non sono genii, ma leggono da capo a fondo - il corso della storia, l'avvicendarsi delle classi e dei poteri di classe, non preesiste nella testa di tutti, e nemmeno nella testa di un condottiero storico, ma, in forme più o meno oscure, accompagna e segue l'evento. Finora le stesse classi dominanti e i loro esecutori hanno solo confusamente espresso il loro compito storico: la prima che lo possiede con chiarezza è il moderno proletariato: non in tutti i proletari, non in un uomo che li guidi e diriga, ma in una collettività di minoranza, che è il partito di classe. Il lungo passato ed il lungo futuro dell'umanità (e nemmeno tratti brevi di essi che possano rientrare nel corso di una generazione) non stanno nella testa di tutti e neppure nella testa di uno solo che primo li colleghi: stanno nel compito di un organismo collettivo, la cui nascita a sua volta dipende dalle generali condizioni del corso storico.

Non vediamo dunque sorgere il futuro né da una volontà di tutti (o della malfamata maggioranza) né da quella di uno; in questo senso neghiamo la funzione individuale. L'io generale e quello particolare non sono motori del fatto storico: si capisce che sono gli operatori. Tale distinzione è la stessa che corre tra le macchine: quelle motrici che danno l'energia meccanica, quelle operatrici che agiscono su materiale da trasformare. L'io non è un primo motore, ma un finale utensile. Ora: come ci possiamo sognare di tenere in piedi la nostra teoria antidemocratica e antieducazionista per l'io-tutti, se siamo così baggiani da mollarla incautamente dinanzi alla boria dell'io-lui solo? Ci siamo disfatti senza esitare della umanità-coscienza, per ridurci alla genuflessione imbecille davanti al battilocchio-coscienza?

Lasciati bene in piedi nel dinamismo sociale gli uomini attori, e anche l'uomo attore, viene la distinzione storica. La funzione dell'attore è funzione passiva; e le stirpi antiche, la prima specie umana, procedono passive tra forze determinanti non solo incontrollate ma sconosciute. Man mano che il modo di produzione si complica gli uomini, attori incoscienti, divengono sempre più conoscitori delle condizioni esterne e finalmente giungeranno anche a dominarle entro certi limiti. L'uomo collettivo, la specie, sacrificherà sempre meno alla cieca necessità, e solo in questo non individuale senso avverrà, in una società senza classi, una sua liberazione.

Lungo questo corso l'attore singolo, il protagonista, che stagliava molto dal volgo nei tipi rudimentali di produzione, diventerà sempre più inutile; ed è andato nel corso della storia divenendo sempre meno campeggiante, in tutti i settori delle innumeri attività umane.

Contro questo schema può ben levarsi l'attacco a fondo dell'antimarxismo, che presenta un'umanità futura sempre condotta a farsi dirigere da Unità supreme, sia pure colla differenza che una volta venivano da Dio, altra volta dal seme selezionato di una genealogia, ed infine verranno dal suffragio universale: è sempre un dolce sfregamento fatto da sotto...

Ma come può un marxista lasciare una sola faccia di questa forma sociale che esclude l'io e gli ii, e prevede che fino a quando emergerà un Io si vivrà in una forma sociale che lo circonda di Servi?

Cultura o sentimento
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Nel ben lontano 1912 un congresso di giovani socialisti a Bologna dette luogo a una battaglia centrale tra «culturisti» e «anticulturisti». I primi assumevano che l'organizzazione giovanile dovesse ridursi ad una scuola di marxismo, e non avere un'attività politica propria e un parere sulle questioni di azione del movimento da dare al partito «adulto». I minorenni allievi si sarebbero emancipati, dopo adatta preparazione, all'età in cui si diviene... elettori. Una tale formula al più oggi sarebbe il caso di applicarla ad una «Federazione senile», ove ficcare tutti i troppo anziani che cominciano a ciurlare.

Opponevano vigorosamente gli anticulturisti che la cultura e la educazione sono nella storia fattori tradizionalisti e antirivoluzionari, e che sempre nei giovani ha meglio operato il diretto determinismo del contrasto rivoluzionario contro le vecchie forme; e che la coscienza teorica - difesa a spada tratta dalla stessa corrente di sinistra come dotazione del partito e del movimento giovanile - non deve essere posta come una condizione paralizzante per la possibilità di tutti a combattere sotto la semplice spinta di un sentimento e di un entusiasmo socialista, naturalmente sorto per le condizioni sociali. Quelli che di tale dialettica posizione nulla capirono, e videro perfino, nei riguardi dei motori che agiscono in un animo giovanile, mettere la fede ed il «fanatismo» prima della scienza e della filosofia, dissero non poche e possenti balle, parlarono di rinnovato culto dell'eroe e di... abbandono di Marx per aderire a Carlyle!

Evidentemente vi sono due versioni dell'eroismo. Il combattente della massa, anonimo e dimenticato dalla storia, si schiera nella guerra civile per le rivendicazioni della sua classe, muove da un egoismo collettivo, ossia dal bisogno di sollevare utilitaristicamente le sue stesse condizioni economiche, ed arriva - prima di avere abbracciato scuole filosofiche con l'esame di laurea e prima di esser stato battezzato nella nuova confessione - a passare oltre l'istinto di conservazione, rifondendo la pelle; non soldato, ma volontario ignoto della rivoluzione. Questo randello o fucile operatore è travolto nella comune azione perfino prima di aver conosciuto regolamenti per la pensione agli orfani dei caduti e per le medaglie alla memoria; dimentica primo sé stesso e sarà come persona dimenticato da tutti.

Vi è poi l'Eroe con la E maiuscola e le carte in regola, quello che guida la pugna e non solo si garantisce tutti i risarcimenti, e le Laudi del poeta, ma aspetta che il pubblico della storia sia al suo posto avendo ben letto i manifesti coi nomi dei primattori; e dopo aver fatto presentare dai fessi vivi le armi ai morti si ritira a spogliarsi a porte chiuse la Rosa del bottino. Era un tale eroe l'oggetto degli ardori di Carlyle, che non ci eravamo mai preso il disturbo di leggere, e l'oggetto giovanile del nostro marxistico schifo.

Produzione, scienza ed arte
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Perché la nostra sola specie di bestie è definita «sapiens»? Non certo perché abbiamo vinto alla «Totocreazione» contro l'asino e il pappagallo (rispettabili, viene fatto spesso di pensare, temibili concorrenti). L'uomo è la sola specie vivente che ha scienza, perché ha lavoro. Ma l'Arte non sta in un cielo più alto che la Scienza o il Lavoro, sta proprio fra i due. La classica contrapposizione fra le due energie che ci reggono è Natura ed Arte. La specie animale sugge alla sola Natura, la specie Uomo produce sempre maggior parte di quanto lo fa vivere. Produzione e Arte. Se la prima bestia a lavorare fosse stato un immortale e sterile Robinson, che non doveva trasmettere ai compagni e successori le regole del suo tagliare certe piante per farsi una palizzata in giro alla capanna, l'Arte non sarebbe stata, in quanto solo avrebbe rilevato l'armonia di quella cintura organizzata rispetto al cespuglio in cui si cela lo sciacallo.

Perché Arte ed Arto sono la stessa parola? Perché non dal cervello e dall'assoluto spirito venne la immisurabile ricchezza delle umane costruzioni, ma dalla mano che prima modificò il ramo e la pietra in vista della ricerca di alimento. Ultimo arriva lo spirito, altissimo parassita di ignoti e millenari sforzi, ebbrezza superba della vita differenziata e collocata sull'altare di miliardi di immolate vittime in semplici umili atti che resero possibile ogni successivo passo, ogni rudimentale conquista, caldo e illuminato di entusiastiche altezze di cui sconciamente si chiama solo generatore, ignaro di quanto costò la prima fisica scintilla scaturita dal fondo delle gelide savane, a dispetto degli Dei, e com'era difficile a braccia intirizzite trarre dall'attrito dai due legni mossi a velocità impossibile la temperatura di accensione. Quanti e quanti millenni dopo si seppe che occorrono 427 chilogrammetri per ogni caloria? Ma quando si datò la più gigantesca conquista? Ed ha essa uno stupido nome?

È ben chiaro che una tale deduzione degli ultimi risultati dell'Arte, e più dei massimi che non sono proprio gli ultimi, cade contro la censura spietata dei nostri nemici di partito e di classe, e che le loro concezioni si costruiscono col percorso diametralmente opposto. Ed è altrettanto chiaro che l'opposizione disperata e accanita si lega strettamente alla difesa della teoria del Genio che sovrasta l'informe massa, in quanto solo questa vale a battere in breccia la nostra ricerca di leggi storiche, che al di fuori di ogni attesa dell'apparire di Eletti, scrive il crollo degli attuali poteri di classe e la inesorabilità della Rivoluzione.

Per orientare questa nostra navicella la cui bussola non funziona, prendiamo il rilevamento del Nord assoluto rivolgendoci a Croce. Non che questi sia tanto banale da ricusare di ammettere le influenze da noi indicate tra creazione artistica e ambiente di condizioni naturali e sociali, e decorrere di storici eventi: sol che questo complesso di elementi relativi gira intorno ad un dato assoluto senza del quale quelli restano inerti, e quindi appare spiegabile che un simile quid sia contenuto e venga a splendere misteriosamente in quell'unico Cranio. Ma non facciamo il gioco di formulare noi la controtesi con parole che a buon diritto sarebbero ripudiate.

Aesthetica in nuce
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Per Croce l'estetica è il nocciolo, per noi la scorza.
«
L'Estetica, col dimostrare che l'attività estetica o l'arte è una delle forme dello spirito, è un valore, una categoria, o come altro si voglia chiamarla, e non (come si è pensato da teorizzatori di varia scuola) un concetto empirico riferito a certi ordini di fatti utilitari o misti, collo stabilire l'autonomia del valore estetico, ha con ciò stesso dimostrato e stabilito che essa è predicato di uno speciale giudizio, il giudizio estetico, ed è argomento di storia, di una storia speciale, la storia della poesia e delle arti, la storiografia artistico-letteraria».

L'antitesi è posta, ci pare, nettamente e insuperabilmente. Non si può essere marxisti, se non si chiude la storia dell'arte in quella stessa della tecnica e dell'economia, e quindi nella storia politica. Del resto i Greci dicono tekné per dire arte, e ne sapevano qualcosa.

Noi neghiamo la autonomia del concetto del bello, che secondo Croce sarebbe irrevocabile dopo che Kant la scoprì, analogamente all'autonomia e alla universalità del concetto del giusto, rispetto all'interesse e perfino rispetto al raziocinio. Per la stessa via maestra noi riconduciamo i concetti di bello e di giusto da assoluti a relativi, da universali a contingenti, da autonomi a strettamente dipendenti dalle condizioni materiali e dagli interessi. Fare questo servizio sovvertitore al diritto, e non farlo all'arte, non è né marxismo né kantismo, ma è un'assoluta ed autonoma fesseria.

Questa questione è connessa su tutto il fronte con quella del fattore dei genii, degli individui di eccezione.

In breve cenno del Filo precedente mostrammo che la funzione di un elemento dirigente della comunità sociale è in rapporto alla necessità pratica di trasmettere dati di difficile esperienza in continuo rinnovamento ed ampliamento da una all'altra generazione, dai membri della comunità sviluppati e adulti a quelli neonati e adolescenti. Ricordammo la forma più immediata di direzione nel matriarcato e, quando caccia e guerra prevalgono, nell'uomo più muscolato e atto alle armi. Con ulteriori regole e «segreti» di lavoro comincia a prevalere la testa forte sul forte braccio. La tradizione può solo passare per la memoria, e tutta per essa: lo stregone, il sacerdote, il sapiente prendono il primo piano. Mano mano che il bagaglio di capacità comuni nella produzione diventa più complesso, diviene anche un più forte peso il comunicarlo: ma presto tale peso sorpasserà la forza di ogni braccio come di ogni cervello. Accennammo pure che come il linguaggio, la parola articolata, aveva costituito il primo mezzo di trasmissione, di tradizione delle risorse che staccava nettamente la specie «sapiente» da quelle puramente animali, cominciando nello stesso tempo a rendere la «consegna» fatto più collettivo, altri mezzi grandiosi sopravvengono ben presto, e consentono di conservare e tramandare quello che una testa sola non può più contenere. La scrittura è il principale di essi, ed anche il colossale sforzo di tensione della memoria viene ridotto ad un minimo. Ben altri espedienti verranno, tutti livellatori, tutti detronizzatori della necessità degli uomini eccezionali per risolvere i problemi della vita comune; siamo già alle macchine che pensano e ragionano più dell'uomo medio.

Converrà fermarsi un poco indietro, prima della scrittura e subito dopo il linguaggio: alla musica che sembra un campo di trascendenza e di assoluto e che invece nacque come espediente pratico, e utilitario, nacque non da volo isolato del cervello singolo ma dalla prassi della mnemonica collettiva.

Parola e canto
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Lo scrittore tedesco Tommaso Mann, oggi campione del conformismo democratico, è stato giustamente ricordato come un antesignano, al tempo di Guglielmo II, delle dottrine hitleriane sulla missione nazionale del popolo e del Reich tedesco. Il suo enunciato di quarant'anni fa sulla esigenza per la Germania di avere una storia mondiale come Spagna, Francia e Inghilterra avevano avuto, non avrebbe nulla di dissennato, se non il ritardo rispetto all'epoca in cui Marx ed Engels schiaffeggiarono la borghesia tedesca per la sua ignominiosa assenza dalla storia e la sua via contorta di arrivare allo Stato nazionale, un secolo addietro. Ma quel che ci preme è la contrapposizione, nel pensiero del Mann, dei valori - Croce direbbe - dello spirito tedesco a quelli occidentali. Mann allora si scagliava contro quella «Zivilisation» che oggi ammira nel baraccone filoamericano, e ad essa contrapponeva la tedesca Kultur. Questa era per lui non solo antioccidentale e antidemocratica, ma antiautoritaria e antiletteraria: la Germania era la terra (Land) unliteralisches, wortlos, nicht wortliebend: nemica della parola e della prosa: la profondità tedesca trovava espressione non nella superficialità delle chiacchiere, ma nella metafisica, nella poesia, e sopra ogni altra cosa nella musica, l'arte che parla all'uomo senza parole.

Se è vero che la musica ha un'espressione ultranazionale, non meno vero è che essa nacque come veicolo della parola, e a sua volta la parola era nata come veicolo delle regole di lavoro, della tecnica. Quindi l'arte non è il modo di esprimere, di trasmettere, ma il contenuto stesso della trasmissione, dell'espressione.

La strada naturale e storica fu dunque: regola uniforme di lavoro e di vita, musica, canto, poesia, molto molto dopo, parola e prosa. Il Mann, barbarico apologista dell'illetterato Arminio che nella selva di Teutoburgo schiacciò le legioni del raffinato Varo, è molto più a posto dell'attuale sceglitore di libertà contro gli eccessi che nel 1914 chiamava «rivoluzionari», come il lacerare i trattati, testi non musicabili.

Le prime costituzioni non potendo ancora essere scritte né incise nella pietra dei monumenti furono trasmesse a memoria parola per parola. La necessità mnemonica le fece redigere in versetti: solo nella leggenda fu un solo a redigerle, in effetti condensarono la pratica e la sapienza comune.

Il Poeta che oggi stampa e scrive, una volta cantava soltanto. Ma il Poeta era allora non un singolo, bensì la comunità, e chi non avesse saputo cantare i versi non avrebbe avuto altro modo di conservare i dati della sua vita: la prosa civilizzatrice ha condotto ai conti in banca, alla portata di qualunque cinico zoticone. Ma allora si seminava, si raccoglieva, si sposava, si nasceva al canto di dati ritmi, che tutti sapevamo, perché la memoria collettiva ritiene il verso e il motivo musicale, e l'idea di mandare a memoria la parola non ritmata è posteriore alla scrittura.

Fecondità del numerus
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La musica si ferma nella memoria per i suoi dati meccanici e fisici. Il ritmo è numero, è misura esatta del tempo. La tonalità e l'accordo sono effetto di rigida proporzione matematica tra il numero di vibrazioni che colpiscono l'orecchio. Questo è il primo strumento di misura di cui si è servito l'uomo: l'occhio, qualitativamente tanto più ricco, è quantitativamente soggetto a sbagli grossolani.

Il fatto pratico è che grazie alla musicalità del canto in coro fu possibile primieramente trasmettere ed insegnare norme ad una collettività, e quindi consolidare la sua conquista rispetto alla vita dei bruti: l'arte produttiva. L'uomo cantò per campare, non per divertirsi, o per avere scoperto un piacere assoluto ed «inutile», come Kant pretese scoprire. Era l'unico mezzo che rispondesse a questo scopo utilitario: tenere viva la specie e svilupparne la potenza, quando non vi erano altri archivi che la memoria di tutti.

Elucubrazione e novità nostra? Roba vecchia di tremila anni. Nella mitologia greca le nove Muse sono figlie di Mnemosine, dea della memoria.

Se anche l'usignolo ha il senso del tempo musicale e del tono, ciò prova soltanto che la musica è più vicina ad una funzione naturale e materiale che ad un approdo lontano del puro spirito.

Stantia è l'obiezione che, trovato, molto tempo dopo la scrittura del linguaggio, il modo tecnico di scrivere la musica, otto segni delle note conterrebbero qualunque meraviglioso spartito.

È una conquista elevatissima della conoscenza umana stabilire due entità tra loro uguali: il primitivo non conosce sensoriamente che concreti oggetti di cui nessuno è uguale agli altri: due pietre, due foglie, quattro uccelli, e all'inizio si ferma al cinque, numero delle sue dita.

Pitagora nell'antichità va famoso per aver assimilato nella sua scuola musica e matematica: entrambe erano numerus. Il fatto che con lo stesso «passo» si va da uno a due e poi da due a tre, sembra oggi non solo facile e chiaro, ma immediato e banale, anche per il bimbo della prima classe. Ma esso fu un risultato maturo e strabiliante. Il «principio di ricorrenza» che autorizza a trattare con quel metodo la serie infinita dei numeri, non è evidente, non è assiomatico, non è dimostrabile per logica deduzione, e quindi non si trova nelle categorie dello spirito, ove basti pescarlo. È un risultato raggiunto empiricamente dal collaborare di innumerevoli esseri nella vita della specie parlante, cantante econtante, si passi il bisticcio.

Ebbene, come nel principio di ricorrenza sono contenuti i più ardui teoremi dell'alta aritmetica e la matematica tutta, e le equazioni della relatività generale di Einstein comprese da dieci uomini ogni milione, e quelle della teoria unificata per ora ancora misteriose, così nelle sette note di Guido d'Arezzo sta la Nona Sinfonia. La complessità e l'altezza dipendono dalla lunghezza e dalla ricchezza del lungo cammino.

Che sia stata scritta la Nona Sinfonia è straordinario. Ma non è meno straordinario che chiunque possa eseguirla. Senza di che essa non potrebbe commuovere anche uomini che non hanno una lingua comune. Il suo valore universale non era dunque dato in partenza, ma è l'arrivo di un lungo cammino, di infiniti camminanti.

Arte e lotta di classe
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Saltiamo artificiosamente i gradini e le tese di questa scala più lunga di quella che vide Abramo. Il marxismo ha sempre nella sua critica collegati i grandi periodi aurei dell'arte alle grandi vicende del trapasso tra i modi di produzione. Se arte collettiva e naturalistica vi fu, fu quella greca, che alcuni ritengono in certi capolavori insuperata. Perché una tale arte nel suo rigoglio seguì dall'Attica alle rive asiatiche dell'Egeo colonizzate dai Greci la prima economia industriale e commerciale, e si ritirò da quelle colonie quando i Persiani ne debellarono i liberi cittadini? È di Engels, sempre per procedere cogli stivali di sette leghe, il passo:
«
Se il tramonto delle classi di un tempo come la cavalleria poté offrire materia a grandi capolavori tragici, questa miserabile piccola borghesia (tedesca) non suggerisce che impotenti elucubrazioni di una fanatica malignità...».

Come sempre è venuto il tempo di attingere ad Engels. Si tratta di provare che non stiamo creando di getto nuove teorie, come di solito si fa davanti ad un buon fiasco, ma seguendo il grande filone.

Trattasi del rapporto tra capitalismo ed arte, che ci condurrà ad occuparci del rapporto tra capitalismo ed eroi.

L'approssimarsi e il primo erompere delle rivoluzioni borghesi che si datano in vari secoli nelle varie nazioni, dal Quattrocento all'Ottocento, apportano grandi fioriture nella letteratura e in tutte le arti. La serie può nelle grandi linee essere geograficamente: Italia, Olanda, Francia, Inghilterra, Germania, Russia. Ma appena il modo di produzione capitalista, uscito dalla sua rivoluzionaria incubazione, si espande, ecco che si rivela crassamente antiestetico. Di quali attivi formate il bilancio artistico di questo mezzo Novecento?

Qualche cosa di simile avviene per il bilancio «eroico».

Qui di Engels abbiamo a portata di mano un magnifico articolo del 1850 sul nostro preteso conoscente Thomas Carlyle. Si tratta invero di una di quelle strigliate che fanno rimpiangere che si parli troppo delle grandinate di balordaggini recensite, e quindi solo per contrapposti sprazzi si tratteggi la nostra costruzione del tema.

Carlyle si può annoverare tra i molti nemici e critici della nascente e sordida società capitalistica, tra i vari economisti, sociologi, politici, letterati che, se ne colsero talvolta in modo scultoreo i lati spregevoli e seppero denudarne i paludamenti di progresso e di civiltà, non furono però all'altezza di capire i suoi apporti non surrogabili, e pur avendo accenti di eversione e di rivoluzione ricaddero nelle nostalgie dell'antico regime.

Costoro non potevano capire che il potenziale immenso produttivo del lavoro associato, che il capitalismo introduceva pur sotto il suo sfruttamento e monopolio di classe, portava sulla scena forze tali, che le gesta leggendarie e personali degli eroi rimanevano offuscate, e che questo era risultato irrevocabile. Le nazioni erano cadute sotto il governo di un ceto, di strozzini, di bottegai e di negrieri cinici e rozzi, ma per buttarli giù non si trattava di resuscitare prenci e cavalieri. Il loro grave difetto di stile, per cui il moderno pescecane e parvenu compra col ricavato dello smercio dei salumi a peso d'oro un Rembrandt, per giunta falso, se ricorda il console romano che, nel consegnare agli schiavi che conducevano la nave, una statua del Partenone li minacciò che se la rompevano li avrebbe costretti a rifarla, non toglie che il mercato moderno o il guerriero antico fossero loro a girare avanti la ruota della storia.

Furore di Carlyle
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Lo scrittore inglese getta fuoco e fiamme contro la bassezza dei tempi. Egli inveisce contro la platealità dei borghesi, e perfino contro la soggezione dei proletari, dei poveri, che abbrutiscono sotto il loro sfruttamento, e tutti minaccia di retorico sterminio.

La rivoluzione in quanto dramma in atto lo esalta.
«
Magari» - dice Engels - «egli ne fa l'apoteosi, ma questa rivoluzione per lui si concentra in un individuo, Cromwell o Danton».
Ahi, quanti sono divenuti comunisti e marxisti solo perché videro Lenin - non la lunga lotta, l'immenso lavoro, la lucida ricostruzione di Lenin, ma solo il successo sensazionale di Lenin - dare il nome ad un dramma della storia, e corsero a dissetarsi di ammirazione, e basta. Ciò costò molto caro al partito rivoluzionario, e rovinò l'opera di Lenin stesso.

Il Genio per Carlyle aveva sempre ragione in qualunque senso lavorasse. Egli ammirava lo stile di certi letterati tedeschi oggi praticamente ignoti, ma non si era accorto di Hegel, tanto più grande. È la sorte dei cultori di valore personale. Engels rileva:
«
Al culto del genio, che il Carlyle ha comune con lo Strauss, è sfuggito precisamente il genio. Il culto è rimasto».

Ed infatti questo bisogno morboso delle alte cime da ammirare ha quasi sempre questo destino: il lato passivo. L'adulazione prona è fine a sé stessa, e ove non si può polarizzarla su una persona, l'ammirazione cade; mentre poi si ridesta quando può trovare personaggi momentaneamente colorati, ma intrinsecamente vuoti e destinati all'ombra più cupa.

Un tipo come Carlyle non poteva non essere colpito da quegli avvenimenti tempestosi che nel 1848 incendiavano l'Europa. Ma come egli non vi vuole ammirare l'avvento della forma industriale e commerciale di economia, così non se la sente - ed ha ragione - di fare l'apologia del liberalismo e della democrazia. È sua la satira alla nave presa nelle tempeste del Capo Horn, in cui avendo smarrita la direzione si scelse la rotta mettendo ai voti i vari punti cardinali tra i membri dell'equipaggio, per adottare quello che aveva la maggioranza. Ma il senso storico cade a zero; e perché? Perché egli sta alla ricerca del protagonista di alta statura. Dove lo va a trovare? In Pio IX! Dove vede le forze in lotta? Nel feudalesimo e nel capitalismo, nel sistema autoritario e in quello costituzionale? Mai più. Si tratta di lotte del Vero contro le Menzogne, i Falsi, gli Shams (fantasmi) ed è contro tali brutture che egli vede sollevarsi le folle popolari a Parigi, Vienna, Messina o Lisbona.

Quando si tratta poi di stabilire chi scorge il Vero e il Grande, allora l'autore ripiega sui Saggi, gli Eletti, i Nobili, che soli possono assurgere a tanto. Ed allora riduce la lotta storica, del cui contenuto nulla ha capito, ad una affannosa ricerca della grande Guida, dell'alta Figura, cui affidare i destini di una povera umanità. E mentre disprezza il plateale egoismo dei borghesi incapaci di levare gli occhi a queste sue altezze, finisce per cadere senza accorgersene in una sconfinata ammirazione per i moderni capitani di industria... E per arrivare a questo aveva spiegato i moti del 1848 con il motto, che avrebbe acceso le folle: Via di là, stolti, ipocriti, istrioni, via di là, non eroi! Abbiamo d'uopo di Eroi!

Quanta fame di eroi è fessamente sopravvissuta di un secolo a fregnacce di tale calibro, sfiorando senza accorgersene le presenti analisi marxiste del '48 e di tutte le altre grandi eruzioni storiche del sottosuolo d'Europa!

Docce di Engels
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Non si può che riassumere la spietata demolizione di Engels.
«
Si vede che il nobile Carlyle prende le mosse da una concezione assolutamente panteistica. Tutto il processo storico sarebbe determinato, non dall'evoluzione della massa vivente, la quale naturalmente dipende da taluni presupposti variabili e storicamente prodotti, ma alla loro volta determinati... Tutto dipenderebbe dalla conoscenza di una esterna legge di natura... accessibile ai savi e nobili, non ai pazzi e birbanti. Alla lotta tra le classi si sostituisce questa antitesi, che si risolve coll'inchinarsi davanti ai nobili e savi, e quindi col culto del genio».
Ma come, incalza Engels, trovare chi sono questi savi e nobili? Questo conduce solo a riconoscere il dominio della classe privilegiata, che monopolizza oltre il resto anche la sapienza. E a chinare la testa anche al dominio triviale dei borghesi, che egli mostra sdegnare a parole.
«
Soltanto egli si cruccia e brontola, perché i borghesi non pongono alla testa della società i loro genii sconosciuti».
È qui che il Carlyle riconosce che è sorta
«
una nuova classe di comandanti di uomini che fanno riconoscere in Inghilterra una nuova aristocrazia»!

A questo conduce il «culto del genio», a prosternarsi al proprio nemico. Molti superficiali verrebbero al partito proletario, se questo squadernasse «i suoi genii sconosciuti». Ma se vedono genii più rilevanti dall'altra parte passano di là. Fino alla noia negli incontri coi filistei della politica si sente chiedere, parlando di un dato partito o movimento, con aria sufficiente: che uomini ci sono?

Il partito marxista deve sempre dire: non abbiamo uomini da esibire. In presenza e contro la classe ed il partito avverso ci proponiamo di buttarli di sotto tutti i genii ed i fessi: ecco quanto.

Oggi

Il nobile e l'abbietto
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La storia degli opportunismi e dei tradimenti di tre Internazionali si può ridurre tutta alla frenesia attiva e passiva della personalizzazione.

La derisione di Engels a Carlyle finisce con confrontare la sua teoria del Nobile e dell'Abbietto, che si esaspera nella mania di trovare gli estremi, i vertici dell'uno e dell'altro. I nobili elimineranno gli ignobili, di grado in grado il nobilissimo appicconerà il birbantissimo, e a Carlyle, restato solo, non resterà che appendere sé stesso.

Questo può essere dialettico scherzo, ma è certo che ad altro non ha addotto la idiota dottrina del Criminale storico.

Mussolini ad esempio non avrebbe avuto mai tanto rilievo, né avrebbe così spinta avanti la sua autoesaltazione nelle file che lo seguivano, se dalla parte opposta non lo avessero gonfiato fino a farne il Birbantissimo carlyliano, la causa storica profonda di ogni male, come era stato per Guglielmone, per Cecco Beppe, e come fu in quel torno anche per Hitler.

Gli antifascisti gonfiavano le scatole uscendo ogni tanto a dire di «lui» che aveva fatto questo e quello, avrebbe fatto questo e quell'altro, e bisognava ricordare loro la regoletta grammaticale che si usa il pronome per riferirsi ad un nome già menzionato.

Nell'epoca attuale ci avviciniamo a funzionare senza nessun «lui». Come questo avviene nella economia, se il marxismo non è acqua sporca, avviene anche nella politica, nella scienza e nell'Arte.

Non avevamo bisogno per apprenderlo di vedere in Russia il regime borghese senza borghesi, e di vedere che Malenkoff come Stalin apre e chiude come rubinetto l'estro creatore di letterati e artisti, pittori e musici.

Bastava leggere in Engels nel capitolo cruciale dell'«Antidühring» quale è la fase D (che i fessi hanno «scoperta» nel 1950), del ciclo capitalista.
«
D). Ma anche i capitalisti sono costretti a riconoscere in parte il carattere sociale delle forze produttive. Essi si affaccendano ad impossessarsi dei grandi organismi di produzione e di scambio, dapprima per mezzo di società per azioni, indi per trusts, ed infine per il tramite indiretto dello Stato. Ma la borghesia si rivela con ciò una classe superflua, destituita di qualunque funzione utile da compiere, ed invero tutte le sue funzioni sociali sono oramai disimpegnate da impiegati mantenuti all'uopo».

Dopo questa dimostrazione, si passa alla «Rivoluzione proletaria».

Ma ritorniamo al genio, ed al capo. Se il capitalismo finisce col fare a meno delle personalità, il comunismo comincia allo stesso modo. La ruzzolata spaventosa che ha compiuto la forza rivoluzionaria in questi ultimi trent'anni sta in relazione stretta con la continua esaltazione di persone, con la sciagurata fabbrica di genii sconosciuti che, come sfidati da un nuovo Carlyle, siamo stati tanto cretini da mettere in piedi. Il bello è che sono stati elevati al grado di merce-genio certa specie di fessi da far paura, e che poi forse proprio i meno fessi sono stati cento volte oggetto di applicazione della etichetta di Abbietto e Birbante.

Nessuno verrà più
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La pecorizzazione della classe operaia è giunta agli estremi. Per lunghi decenni è stata stupidamente ad attendere, non l'ora del combattimento per i propri scopi ed il proprio programma, ma che «lui» se ne andasse, e quando i vari lui se ne sono davvero andati è rimasta più schiava di prima.

Dopo la hanno messa fiduciosamente ad aspettare che «ha da venì Baffone». Ma Baffone è morto senza intraprendere il viaggio. Tuttavia si ripete ai lavoratori non di mettersi in moto colle proprie gambe, bensì di aspettare qualche altro che viene.

Eppure in tutte le rivoluzioni il Messia è stato controproducente. Lo stesso mito cristiano lo dice. Gli stessi apostoli restavano tristi e smarriti, e con loro gli altri minori discepoli, quando Gesú annunziava loro la prossima dipartita. Come faremo noi, come faranno le turbe, senza la Tua guida?

Ma il Cristo, disse: io devo ritornare presso il mio Signore e Padre. È per voi troppo facile vedermi qui come persona fisica, fatta Carne, che pensate dotata di ogni potere, mentre io soggiacerò fisicamente ai colpi del nemico. Solo dopo la mia partenza scenderà in voi e nelle folle del mondo tutto lo Spirito Santo, invisibile ed impalpabile. E i milioni degli umili investiti di lui vinceranno contro le forze avverse, senza il fisico Capo.

Il mito rappresenta infatti la forza sociale e sotterranea di una immensa rivoluzione che minava nel sottosuolo ovunque il mondo antico.

Era comodo procedere quando il Maestro faceva tacere e tremare tutti, regalando miracoli, sanando infermi, risuscitando morti, facendo cadere l'arma dalla mano dell'aggressore.

Gli operai vinceranno se capiranno che nessuno deve venire. L'attesa del Messia ed il culto del genio, spiegabili per Pietro e per Carlyle, sono per un marxista del 1953 solo misere coperture di impotenza.

La Rivoluzione si rialzerà tremenda, ma anonima.

Source: «Il Programma Comunista», n. 9 del 1953.

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