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PUBBLICA UTILITÀ. CUCCAGNA PRIVATA


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Pubblica utilità. Cuccagna privata
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Sul filo del tempo

Pubblica utilità. Cuccagna privata

Viene ad ogni momento sulla scena avanzata dell’attuale vita economica – convenientemente inquadrata nel fascio di luce dei riflettori della politica e della stampa – l’opera di pubblica utilità. E si presenta come capolavoro della civiltà contemporanea e del progresso sociale che da ogni parte incalza l’espropriazione di privati possessi e privati diritti, necessaria perché il piano della nuova opera, più o meno grandiosa ed estesa, possa aver luogo e corso, conducendo ai magnifici benefizi, ai decantati innovamenti e miglioramenti.

Che la classe borghese dominante, coi suoi partiti e la sua stampa, batta la grancassa intorno a queste «realizzazioni», e gareggi da paese a paese nel presentare le più sensazionali e colossali, è perfettamente comprensibile. Non che i regimi precapitalistici, anche antichissimi, non abbiano lasciato opere giganti, che solo i grandi poteri potevano condurre, e tali da costituire, ben più che monumenti di propaganda e di prestigio e di esaltazione commemorativa, apporti decisivi allo sviluppo della produzione – strade, canali, porti, opere idrauliche per riserva ed impiego dell’acqua dei fiumi e la bonifica di aree malsane, e via di seguito – ma è nell’epoca borghese che tale attività dilaga e predomina, con le applicazioni delle nuove forme di energia termica ed elettrica sempre più complesse e diffuse, e sempre più tali da esigere per territori immensi una direzione unitaria dal centro, in modo che all’arbitrio dei privati si impone ogni giorno più di sottrarle.

Ciò che invece è illogico è l’esaltarsi nell’apologia e nella pubblicità per tali opere, anche per quelle divenute ormai di meccanica corrente e banale, come se esse fossero anticipazioni, nel seno di questa, di una società futura quali le classi non profittatrici od imprenditrici rivendicano; è la corrente valutazione di ogni atto, che subordini a tali fini generali i privati diritti, come una piccola «anteprima» di comunismo.

Nell’opinione e nel discorso corrente si pensa che il borghese e il proletario, il conservatore e il rivoluzionario, debbano incontrarsi nell’elogio del solenne ragionamento sulla «moderna concezione» del diritto di proprietà. Una volta questo, come nel diritto romano (Roma però lascia non esempi, ma una rete mondiale di imponenti opere di Stato), significava illimitato diritto di usare ed abusare della cosa propria senza che potesse intervenire non solo altro privato, ma nemmeno il pubblico potere. Oggi invece con grande passo in avanti si ammette che quel diritto debba sottostare a tutta una serie di limitazioni, e in casi di saliente necessità generale anche all’annullamento, verificandosi per ordine dei pubblici poteri la perdita della proprietà.

In tutti gli Stati esiste quindi una legge di espropriazione per pubblica utilità, tra le quali quella italiana del 1865 viene definita monumento di giuridica sapienza, e infatti, sebbene mai seguita dall’annunziato regolamento, contiene un ben disegnato congegno. Non meno evidente è che nello sviluppo del tempo sono sempre più frequenti i casi di applicazione di tali leggi, non solo da parte dello Stato e di altri enti pubblici, ma di enti di ogni genere e, come oggi tutta una serie di leggi speciali prevede, anche da parte di altro privato, purché questi provi che la sua impresa (oggi anche la sua azienda di produzione, fabbrica o stabilimento) risponda al concetto piuttosto difficile a circoscrivere di «pubblico interesse».

Un’ovvia osservazione è che con tali trapassi nessuna privata ricchezza viene convertita in ricchezza pubblica, in quanto il rapporto è di espropriazione contro indennità, e salvo casi eccezionali si deve dall’espropriante, come nella legge italiana, pagare «il giusto prezzo di una libera contrattazione di compra-vendita». Tutta una procedura consente all’espropriato, prima, di contestare che di pubblico interesse si tratti, e poi di discutere la giusta cifra di indennità in confronto a quella che gli viene offerta, se troppo bassa.

Non si tratta dunque di avere infranto il principio che lo Stato non può confiscare private ricchezze (diritto che infinite volte i pubblici poteri nel corso della storia si arrogano, senza sognarsi di essere socialisti), ma di avere limitato il principio che in ogni compra-vendita ambo le parti decidono come credono, secondo la visuale, ciascuna, della propria convenienza economica. Non si tratta di un’espropriazione nel senso sociale, ma di una costrizione a vendere in determinati casi, anche se il possessore non ne ha intenzione o desiderio alcuni. Ed allora ognuno vede come il rapporto non si limiti alla proprietà immobiliare del suolo o di costruzioni, ma si applichi spessissimo, e sempre più, a tutti i rapporti di scambio mercantile, quando motivi di guerra o di altra natura fanno sì che lo Stato e altri poteri rendano obbligatori dati prezzi (perfino non corrispondenti a quelli di mercato libero), requisiscano merci presso i produttori e venditori, le razionino per i consumatori, e così via in cento casi ormai a tutti ben familiari.

L’errore dal punto di vista marxista è di ammettere, dalla parte proletaria, che in dette operazioni, e sia pure in certi limiti di tempo e di luogo, lo Stato operi davvero come se rappresentasse tutta la società, e nell’interesse di tutti gli strati della popolazione, migliorando condizioni di cui si giovano tutte le classi, abbienti e lavoratrici.

Non solo in questo è un grave errore di principio, ma lo svolgersi più recente del capitalismo permette di stabilire che l’iniziativa da parte del pubblico ente è pura mascheratura ed apparenza: in effetti vi è sempre un’iniziativa di persone e gruppi profittatori, e quindi un movente capitalistico.

Ma non è certo di oggi la banale confusione tra il socialismo come portato della rivoluzione che travolgerà il sistema capitalistico in ogni forma, e il semplice agire, nell’economia, dell’attuale Stato, con la socializzazione o nazionalizzazione anche di private aziende produttive, oltre che di privati diritti sul suolo e gli edifici. L’odierno esempio inglese dimostra come è semplice d’altro canto snazionalizzare le industrie nazionalizzate[1]. Solo che lo Stato può nazionalizzare d’autorità, ma potrebbe anche darsi che l’espropriato risarcito rifiuti di restituire la ricevuta indennità. La legge garantisce il privato del «giusto prezzo», ma non garantisce affatto lo Stato-gestore dal doverci rimettere ricchezza sua quando si sia stancato di gestire. I due trapassi sono avvenuti solo in quanto, nelle due fasi, per grosse bande dell’affarismo capitalistico si sono resi possibili lucri colossali, e nelle due operazioni, al solito, vi è un solo vero espropriato, quello che non ha niente da calcolare «secondo la libera contrattazione mercantile»; abbiamo detto: il proletariato.

Quella banale confusione fu cento volte definita e colpita da Marx perfino al tempo del «Manifesto». Ne troviamo altra formulazione di prima grandezza nel testo sulle «Lotte di classe in Francia». Come tante volte ricordato, l’ambiente sociale e la storia sociale francese sono un vero «campionario» dei complessi stadi dello sviluppo capitalistico, che talvolta e in dato luogo si concentrano in due anni, tal’altra e altrove si diluiscono in un secolo, e dai quali il nostro movimento dovrebbe essere catafratto e non lasciarsi gabbare:

«Abolizione dei dazi protettivi: socialismo! perché intacca il monopolio della frazione industriale del partito dell’ordine. Regolamento del bilancio dello Stato: socialismo! perché intacca il monopolio della frazione finanziaria del partito dell’ordine. Libera importazione di carni e cereali esteri: socialismo! perché intacca il monopolio della terza frazione del partito dell’ordine, della grande proprietà fondiaria […]. Volterianismo: socialismo! perché intacca una quarta frazione del partito dell’ordine, la cattolica. Libertà di stampa, diritto d’associazione, istruzione popolare universale: socialismo! Essi intaccano il monopolio complessivo del partito dell’ordine»[2].

Avrete inteso come quello che Marx prende a pedate nel 1848 è proprio il programma elettorale che vedremo sbandierato in Italia nel 1953 (attento proto agli otto e ai nove: in ballo è un secoluccio). Contro i monopoli dell’industria, della finanza e della terra! Contro il governo prete e per la libera stampa, scuola e associazione! Programma di chi? Dei partitissimi cominformisti, libera associazione di milioni di militanti per la fessificazione di sé e d’altrui.

Marx chiama tutto ciò addirittura socialismo borghese: socialismo piccolo-borghese è per lui poi a quel tempo il movimento demo-utopistico e socialpacifista che chiede riforme ben note e non ancora liquidate dopo un secolo:

«Istituti di credito […], imposte progressive, limitazioni del diritto ereditario, assunzione dei grandi lavori da parte dello Stato, e altre misure che [diciamo noi in parentesi: se mai fossero possibili nel senso dei proponenti di empiastri riformisti] frenano forzatamente lo sviluppo del capitale»[3].

Vedremo come ciò sia vero nel campo dei lavori pubblici come per tutto il resto: talché i piagnucolosi progressisti non sono che reazionari. È qui che Marx chiude (gennaio 1850) col passo non citato (certo non sfuggito) in Lenin, che parte per il concetto di dittatura dalla lettera del 1852:

«Il proletariato va sempre più raggruppandosi intorno al socialismo rivoluzionario, al comunismo, pel quale la borghesia stessa ha inventato il nome di Blanqui. Questo socialismo è la dichiarazione della rivoluzione in permanenza, la dittatura di classe del proletariato, quale punto di passaggio necessario per l’abolizione delle differenze di classe in generale, per l’abolizione di tutti i rapporti di produzione su cui esse riposano, per l’abolizione di tutte le relazioni sociali che corrispondono a questi rapporti di produzione, per il sovvertimento di tutte le idee che germogliano da queste relazioni sociali»[4].

Come sempre, Marx «descrive» le vicende della storia di Francia e nello stesso tempo proclama, a lettere di fiamma, il programma della rivoluzione.

Ieri

Per bene intendere quale sia stata la classica valutazione marxista dell’attività economica dello Stato nel campo delle opere pubbliche (a poco a poco tutti i rami di produzione industriale assumono il carattere di opera «pubblica») e come lo Stato con questo non abbia messo in pensione o in letargo il capitale, ma gli abbia messo a disposizione le condizioni migliori della sua più alta virulenza, ci fermeremo soprattutto sulla costruzione delle grandi città e sulla loro impressionante espansione – mentre le stesse considerazioni si estendono ad ogni altro settore di lavori generali per ferrovie, strade, opere idrauliche e marittime, ecc. Qui la pratica dell’espropriazione per pubblica utilità, decantata vittoria del principio sociale su quello privato a dir degli ingenui, si applica in pieno.

Non si tratta infatti solo di sforbiciare una striscia dalla mappa delle private proprietà per farvi passare una via di terra o di acqua, di ferro o di asfalto, serpeggiando per evitare le più gravi ferite. Si tratta di occupare e regolare intere estensioni di territorio che dall’economia e sistemazione agraria passano all’attrezzatura come sedi di soggiorno delle popolazioni urbane addensate. Qui l’ente pubblico ha dovuto assumere una direzione centrale, che del resto sempre più si allarga all’intero territorio per le esigenze degli innumeri impianti che stendono le loro reti da centro a centro e servono anche i minimi nuclei rurali nei paesi sviluppati.

Su queste basi si fonda una scienza, trattata con troppo entusiasmo dai partiti operai, e piena di insidie di classe: l’Urbanistica. Non solo il pubblico potere ostenta di attingere ai canoni di questa scienza, piuttosto chiassosa, e con ciò di essere in tutta regola con l’interesse generale, quando fa ed attua progetti di sventramento e di ricostruzione di interi quartieri, espellendo i proprietari delle vecchie case, ma coi Piani regolatori prende a controllare con fortissime limitazioni (ecco il vanto fanfaronesco di aver mortificata l’iniziativa privata per fini collettivi) le facoltà di modificare e costruire dei proprietari degli immobili e suoli.

In questo nulla vi è di nuovo, e tanto meno di anticipato socialismo! Storicamente di nuovo e di esclusivo del capitalismo vi è l’immensità delle metropoli che mai prima dell’era borghese ammassarono gli uomini a milioni nella loro cerchia, nemmeno nelle versioni leggendarie su Tebe o Babilonia.

Ma sempre le città furono ordinate dai pubblici poteri e non nacquero per casuale incontro di singoli iniziatori di costruzioni. Nei periodi di più vasto sparpagliamento e molecolarizzazione dei rapporti sociali, come il Medioevo, il sempre calunniato Medioevo, ogni signore teneva ad allontanare il castello, la villa e il villaggio o i villaggi dei suoi servi, da quelli dei prossimi feudatari, e il trapasso tra regolazione agraria e urbana del suolo seguiva legge centrifuga e non centripeta.

Il villaggio dei popoli selvaggi o addirittura nomadi (gruppo di tende o magari di carri senza sede fissa, che precorrevano le ubbie degli urbanisti moderni sulle case prefabbricate o sulla casa a ruote) stava unito, in un primitivo comunismo, per le semplici esigenze della difesa da tutti i pericoli esterni (belve, popoli nemici, predoni, fatti naturali, ecc.) che avrebbero impedito una forma più sparpagliata di soggiorno.

Ma (non per nulla polis vale città e vale Stato) quando sorge la divisione della società in classi rispetto all’attività produttiva e sociale, e con essa (nel ciclo tante volte richiamato in queste trattazioni) sorge un’organizzazione di potere, vengono «fondate» le città. Uno dei primi piani regolatori (che risalgono alla stessa mitologia) lo fece dunque Romolo, che non avendo squadre e compassi si servì di una pelle di bue. Siccome l’urbanistica è nata litigiosa al massimo, Remo fece le spese della faccenda.

Le antiche e le medievali città ebbero una stretta regolazione, non potendo uscire dalle cinte delle mura, ognuna legata al nome di un condottiero o statista. La borghesia ruppe tutte le cinte ed ora corre dietro alla pressione edilizia debordante da tutti i lati, per mettere ordine alla correlativa orgia di profitti che si è scatenata.

Noi vediamo questa faccenda, senza lasciarci incantare dalle descrizioni basate su risibili trucchi tecnici, dei milioni di metri quadrati e dei miliardi di quelli cubici di costruzioni, e delle tante cifre a molti zeri di case, di vani, di giornate lavorative, di tonnellate di cemento, ferro, ecc., in modo tutto diverso; e con le abituali citazioni ancora una volta e fino alla noia ci difenderemo dalla supposizione di avere scoperto cose nuove.

La borghesia, come concentrò gli uomini nelle fabbriche, dovette lavorare a concentrare i mille poteri feudali periferici nell’unico potere statale, e gli infiniti villaggi nelle grandissime capitali nazionali e nei capoluoghi per le sue prefetture di polizia. Lo Stato moderno dunque sorse nei tempi del regime feudale, e la borghesia lo ereditò da quelli, ma sorse come creatura borghese che con una lunghissima lotta concentrò in sé mansioni e poteri degli ordini come la nobiltà e il clero, accampati su castelli, feudi, parrocchie e conventi. Di qui il sorgere delle città.

Non è stata molto corretta la breve risposta di Stalin sulla questione della coercizione extraeconomica nel regime feudale:

«Naturalmente, la coercizione extraeconomica ha avuto la sua funzione nel consolidamento del potere economico dei grandi proprietari feudali, ma non fu essa la base del feudalesimo, bensì la proprietà feudale della terra»[5].

In una corretta risposta andava detto, anzitutto, che l’espressione di coercizione extraeconomica non è marxista, ma ha senso solo nell’economia liberale borghese, per cui la legge del valore e dell’atto economico spontaneo è una «eterna legge di natura», sicché i borghesi rovesciarono il regime medievale perché era contronatura.

Nel marxismo la coercizione e la violenza sono fatti economici quanto il libero scambio; meglio, non vi è rapporto economico «libero» da forza di classe. Quella feudale non era una proprietà nel senso borghese, ma una signoria personale sulla massa dei servi. Questi erano legati alla terra, e la terra al signore, ma con un vincolo di natura amministrativa e politica. Tuttavia, la parte di prodotto e di lavoro che il servo della gleba deve al signore o al prete è base di un rapporto economico come ogni altro, e all’inizio è una corresponsione che aveva contropartita nella difesa, che il signore coi suoi armati faceva delle povere scorte dei servi e del loro misero «investimento» di lavoro nella terra, contro esterni predatori. Anche negli Stati moderni, le tasse che i cittadini pagano allo Stato in corresponsione di tanti servizi (birri compresi) non hanno evidente contropartita secondo la legge del valore che il manchesteriano Stalin vuole dovunque dominante…: sono dunque coercizione extra-economica?! Purtroppo sono l’acme della «coercizione economica» impersonata dall’agente delle tasse e dall’ufficiale esecutore.

Fu la borghesia che spogliando il signore delle sue prerogative con la forza centrale dello Stato, e liberando il servo (vedi in «Prometeo» la serie su «Proprietà e capitale»)[6] fece della terra «articolo di commercio» e oggetto di proprietà privata nel senso pieno.

Ma tale proprietà può sopprimersi, e con essa la classe dei proprietari immobiliari, senza che il capitale sia debellato (Marx, Engels, citazioni nostre innumerevoli e incontroverse). Se anche quindi venisse dimostrato che dopo la distruzione del feudalesimo in nessuna parte della Russia la terra è divenuta proprietà privata alienabile contro moneta, ma è stata sempre distribuita in gestione con disposizioni del centro statale, questo non dimostrerebbe l’uscita dai rapporti capitalistici.

Il punto trattato qui è che lo Stato, resa la terra commerciabile a piacere, contro denaro, non ha potuto lasciare avvenire, secondo tale processo teoricamente e giuridicamente instaurato, il trapasso di vaste zone coltivate a zone attrezzate per il soggiorno urbano. Con ciò non ha fatto passi avanti verso il socialismo, ma caso mai passi indietro verso i tipi di attribuzione imperiale o regale di aree del territorio nazionale per questo o quell’uso militare o civile, cittadino o rurale.

Marx dice nell’«Indirizzo» sulla Comune (1871):

«Il potere statale centralizzato, con i suoi organi dappertutto presenti: esercito permanente, polizia, burocrazia, clero e magistratura – organi prodotti secondo il piano di una divisione del lavoro sistematica e gerarchica – trae la sua origine dai giorni della monarchia assoluta, quando servì alla nascente società delle classi medie come arma potente nella sua lotta contro il feudalesimo»[7].

E di qui partono Marx e Lenin nella dimostrazione che ben presto tale apparato, tale «edificio dello Stato», si svela come la macchina per l’oppressione del capitale contro i lavoratori.

Insieme a tale macchina dello Stato, delle monarchie assolute, la borghesia trovò per conseguenza accentrata già molta popolazione non rurale nelle capitali storiche. Ma non era che una concentrazione iniziale rispetto a quella che seguì alla trasformazione industriale, specie quando le grandi fabbriche si affollarono alla periferia delle città per evidenti ragioni di «basso costo dei prodotti», per risparmio di trasporti da e per i mercati.

Si iniziò l’era delle grandi costruzioni edilizie. Non potendo utilizzare per queste subito grandi spazi liberi, il nuovo regime ricorse al sistema di sventrare i quartieri vecchi delle città tradizionali per farvi sorgere nuove fabbriche e grandi strade. Non si può in breve spazio fare la storia di questa immane trasformazione; si tratta di mostrare che essa non raccoglie gli entusiasmi marxisti.

Allorché nella citata opera, Marx difende in pagine vibranti i comunardi dall’accusa di avere cercato di bruciare Parigi piuttosto che riconsegnarla agli sgherri di Thiers e di Bismarck, egli fa un parallelo tra questa distruzione – che rivendica come legittimo mezzo bellico nella contesa civile quanto la dichiarano gli ortodossi per quella militare – e quelle operate sotto il piccolo Napoleone dal capitalista Haussmann: meno ancora fu giustificato (rispetto a quello dei cristiani contro i monumenti classici) il vandalismo di Haussmann, che spazzò la Parigi storica, per dar posto alla Parigi di chi va a spasso[8].

Già prima del Secondo Impero, Marx mostra a più riprese, nella società francese, la speculazione sfacciata che si annida dietro i grandi lavori statali e l’equivoca politica che dice: «Si deve dare lavoro al popolo. Si ordinano quindi dei lavori pubblici».[9]

Su questo punto del moderno urbanesimo sventratone si diffonde poi Engels sia nella classica «Questione delle abitazioni», sia (richiamandolo in questo suo studio) nel giovanile lavoro sulle classi lavoratrici in Inghilterra:

«L’estendersi delle grandi città moderne conferisce al suolo situato in alcune zone, e soprattutto in prossimità del centro, un valore artificiale, che spesso cresce enormemente; gli edifici che vi sono costruiti, anziché contribuire ad innalzare il valore stesso, piuttosto lo diminuiscono, dato che non corrispondono più alle mutate condizioni; allora si abbattono e si rimpiazzano con dei nuovi. Questo succede prima di tutto con le abitazioni operaie situate al centro, le cui pigioni, anche col massimo sovrappopolamento, non possono mai superare un certo massimo che può eventualmente spostarsi solo molto lentamente […]. A Parigi il bonapartismo, utilizzando un suo uomo, Haussmann, ha sfruttato su scala colossale questa tendenza alla truffa e all’arricchimento privato; ma lo spirito di Haussmann è passato anche per Londra, Manchester, Liverpool, e sembra altrettanto ambientato anche a Vienna e Berlino [1872]. Il risultato è che i lavoratori vengono respinti dal centro della città alla periferia; le case operaie, e comunque i piccoli appartamenti, diventano rari e cari, e spesso non si trovano affatto; infatti, in queste condizioni le imprese edili, a cui le abitazioni più care offrono un campo di speculazione molto migliore, soltanto in via eccezionale costruiscono case operaie»[10].

Engels illustra questo quadro, molto attuale nell’Italia odierna e non solo in essa, con l’esempio da lui lungamente studiato di Manchester. La città aveva un quartiere orribile che era detto «piccola Irlanda», e fu verso il 1840 abbattuto per riordinamento urbanistico e la costruzione della ferrovia. Ma i miseri lavoratori sloggiati non furono albergati in quartieri migliori; si riversarono in altro vecchio quartiere a sud della strada per Oxford, e nel 1872 un’inondazione del fiume Medlock costrinse la stampa ad occuparsi di questo quartiere di cui si fecero descrizioni raccapriccianti.

Oggi

Errerebbe chi credesse che oggi, dopo il gran cianciare di edilizia popolare ed operaia, di risanamenti e bonifiche edilizie, le cose procedano diversamente.

Nei paesi ove, come in Italia, all’aumento della popolazione non ha corrisposto un incremento del numero di abitazioni, anzi la vetustà e le guerre ne hanno provocato una diminuzione, malgrado ogni tentativo di disciplina con i piani regolatori e di zona, con i piani INA-Case e simili, in effetti la speculazione controlla il campo, e le cattive condizioni di alloggio delle classi operaie non sono che un pretesto per demolire nei centri urbani «vecchie topaie», con gran lusso di retorica demagogica. Per tal via si ottiene che i suoli resi liberi presentino un enorme valore, a condizione che vi si costruisca non per lo stesso strato sociale, ma per quelli più ricchi.

La legge di espropriazione per pubblica utilità non serve, come si vorrebbe far credere, ad evitare la speculazione degli antichi proprietari rurali sui suoli periferici che occorrono per l’espansione delle città. Tali suoli si espropriano valutandoli secondo la loro economia e reddito agrario, quindi a prezzo ridotto rispetto a quello che occorrerebbe per acquistarli consensualmente, si dice. Ma il maggior valore di un suolo «edificatorio» rispetto a quello agrario primitivo, se dipende dalla «attrazione» creata dal sistema capitalistico verso i grandi agglomerati, sorge in effetti dall’attrezzamento di tali aree nude, con strade, fogne, elettricità, acqua, gas, trasporti, ecc. Siccome l’industria costruttrice dovrà farvi case operaie, ossia a basso reddito, o se ne ritira, o pretende che i comuni o lo Stato facciano a loro spese quelle opere ed impianti generali: oggi addirittura lo Stato spesso fa tutto questo (spesso poi la sua burocrazia se ne dimentica del tutto) e perfino i fabbricati per case.

Tale produzione edilizia non raggiunge il fabbisogno necessario ad accogliere il semplice aumento della popolazione e gli sloggiati da edifici antichi, sparpagliati per le città, che vanno in disuso e rovina.

Frattanto lo speculatore edilizio pone i suoi occhi sul centro, e impugna la comoda arma della legge espropriatrice. Si tratta di bicocche, in date zone dei vecchi quartieri storici, ed allora l’edificio, valutato sia pure come in una libera compra-vendita secondo il suo reddito, viene pagato quattro soldi. Tanto si chiama far soccombere il privato interesse del proprietario di case, di fronte a quello generale della radiosa trasformazione delle città moderne.

Il suolo viene così a costare poco non al pubblico ente, ma al privato speculatore, che con le sue insistenza assidue ha saputo far girare la rugginosa macchina burocratica (non deve credersi che sia tutta corruzione: in massima parte si tratta di sveglia a un ceto, che altrimenti dorme, e di gioco, soprattutto favorito dal regime parlamentare, di pressioni di partito). Ed allora, sulla nuova costruzione sorge un margine enorme tra quello che è costata e quello che può rendere se venduta o affittata.

Se tutto questo nascesse da una semplice fregatura ai proprietari di case, grandi o piccoli, e determinasse passaggio di ricchezza da questi agli industriali costruttori, quale, si dice subdolamente, il danno sociale?

Il danno sta tutto nell’avere diminuito il numero disponibile di case e di vani per le classi inferiori.

È ammesso dalle cifre ufficiali che quanto si costruisce in Italia non giunge ancora a diminuire l’affollamento medio delle persone nelle case. Ma il medio sta tra gli estremi della casa di trenta camere per un gran signore, e della stanza ove vegetano dieci componenti (vi sono nel sud casi peggiori) delle classi lavoratrici. Se la statistica consentisse di seguire gli estremi, si vedrebbe che, essendo per il comodo della speculazione aumentati i vani di lusso, sono di altrettanto diminuiti quelli «popolari», ove si sappia tenere conto delle demolizioni cui si dà corso per «abbellire» le città. Quindi, l’addensamento della classe operaia (in parte minima in nuove case, che finiscono sempre a mezzi borghesi, in parte massima nei nove decimi di topaie che resteranno in piedi – ne abbiamo per secoli) progressivamente peggiora.

Il meccanismo della pubblica utilità e della regola urbanistica che doveva, nel campo edilizio ma anche in tutti gli altri, limare le punte dei privati benefizi contro il fantomatico «interesse generale», è in regime capitalistico operante in senso opposto e non è che una delle impalcature di tale regime.

Né lo Stato nel suo mostruoso complesso, né uno dei tanti suoi organi ed uffici si «mette in moto» di sua volontà per sanare uno sconcio, né potrebbe farlo. È sempre un privato imprenditore e un privato gruppo affarista (che per la meccanica moderna di altri settori smunge quasi sempre allo stesso Stato il capitale liquido da anticipare) che sceglie dove il piccone deve attaccare.

Più che mai questi pretesi meccanismi «pubblici» e «sociali» danno il capo in mano alla prepotente iniziativa del capitale.

Alla retorica ammirazione per il leggendario «piccone risanatore» non deve dunque associarsi il proletariato rivoluzionario, né commuoversi alle vanterie di tipi di Stati per le loro magnificate trasformazioni urbanistiche.

Un solo piccone sarà utilmente brandito, quello che morderà nelle pietre sanguinose del marxisticamente definito edificio dello Stato capitalista.

Notes:
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  1. In Inghilterra il governo laburista aveva nazionalizzato l’industria siderurgica nel febbraio 1951. Nell’ottobre dello stesso anno essa fu riprivatizzata dai conservatori, che avevano vinto le elezioni. Nel 1967 ebbe luogo di nuovo la nazionalizzazione da parte dei laburisti. [⤒]

  2. Cfr. «Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850», in: K. MarxF. Engels, «Opere scelte», Editori Riuniti, Roma, 1969, pp. 461–462. [⤒]

  3. Cfr. «Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850», in: K. MarxF. Engels, «Opere scelte», Editori Riuniti, Roma, 1969, p. 462. [⤒]

  4. Si allude alla lettera di Marx a Weydemeyer del 5 marzo 1852, da cui Lenin citò in «Stato e rivoluzione» e altri scritti il noto brano sulla nozione di dittatura del proletariato (cfr. K. MarxF. Engels, «Opere complete», Editori Riuniti, Roma, 1972, vol. XXXIX, pp. 534–37). [⤒]

  5. Cfr. J. Stalin, «Problemi economici del socialismo nell’Urss», De Donato, Bari, 1976, p. 100. [⤒]

  6. Di tale serie, che uscì a puntate fra il 1948 e il 1952 e che rimase incompiuta, si veda in particolare il cap. II, «L’avvento del capitalismo e i rapporti giuridici di proprietà», «Prometeo» n. 13, agosto 1949. L’argomento venne sviluppato anche nella serie di articoli sulla questione agraria (v. nota 27). [⤒]

  7. K. Marx, «La guerra civile in Francia», in: «Opere scelte», cit., pp. 905–906. [⤒]

  8. Cfr. K. Marx, «La guerra civile in Francia», in: «Opere scelte», cit., pp. 928–9. Riportiamo integralmente il passo:
    «Se gli atti degli operai di Parigi sono stati vandalismo, è stato il vandalismo di una difesa disperata, non il vandalismo del trionfo, come quello che i cristiani perpetrarono a danno dei tesori d’arte veramente inapprezzabili dell’antichità pagana; e persino questo vandalismo dei cristiani è stato giustificato dagli storici come elemento inevitabile e relativamente insignificante della lotta titanica tra una società nuova in sul nascere e una vecchia società al tramonto. Gli atti degli operai di Parigi furono ancora meno del vandalismo di Haussmann, il quale distrusse la Parigi storica per dar posto alla Parigi dei bighelloni!». [⤒]

  9. K. Marx, «Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte», in «Opere scelte», ed. cit. p. 585. [⤒]

  10. F. Engels, «La questione delle abitazioni», Edizioni Rinascita, Roma, 1950. [⤒]


Source: «Il Programma Comunista» n. 5 del 4–18 dicembre 1952

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