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STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (XXXIII)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXIII)
71 [172] – Abitazioni e costruzioni
72 [173] – Dalla casa all’edificio
73 [174] – Edilizia privata e pubblica
74 [175] – Costruzione ed economia
75 [176] – Confronto in Europa
76 [177] – America e «boom»
77 [178] – Italia e case, ancora
78 [179] – Piano Vanoni e case
79 [180] – Le abitazioni in Russia
80 [181] – Misura delle abitazioni
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Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXIII)

71 – Abitazioni e costruzioni

Avendo visto quanto sia grande nell’economia dell’industrialismo russo di Stato la parte dell’appalto dei lavori di costruzione e di installazione, ci è di molto interesse il fare un confronto, per i vari paesi moderni, tra la spesa destinata a queste attività e quella totale della società, che oggi tutti i «sistemi» si danno a determinare ed anche a pianificare, certo non meno che il non diverso, qualitativamente, «sistema» sovietico.

Indubbiamente negli ultimi decenni e specie dopo la guerra sono stati fatti molti sforzi per coordinare le definizioni e quindi i rilevamenti delle varie grandezze da registrare nei paesi del mondo, e vi è anche una specie di codice statistico che fa capo, dopo laboriose convenzioni, all’organizzazione delle Nazioni Unite. Ma i vari apparati nazionali e internazionali di esperti lasciano sussistere molte e gravi confusioni nel cercare di assimilare tra loro i dati che vengono da fonti varie e rispondono a fenomeni vari.

Per dedicare un qualche tempo alla discussione di questo punto, che merita una trattazione a parte, sistematica, che noi indichiamo a qualche odierno e futuro volonteroso della scuola marxista pura, ci conviene ammettere che si possa dare un senso al cumulo delle spese per vari obiettivi, in un dato paese e in un dato periodo, che vengono fatte da privati, da enti vari, e dallo Stato od anche da Stati stranieri, in modo che questo integrale, espresso in valori monetari, assuma un significato comparabile da tempo a tempo e da luogo a luogo. Resterà tuttavia da discutere molto sul come i vari elaboratori hanno trattato, specie con gravissime sviste, le grandezze fisiche e reali in gioco, ed i rapporti economici che le collegano, anche tenendoci al prudente livello della registrazione dei fatti e dei dati, senza salire alla filosofia economica, e accendere lumi che potrebbero accecare quella buona gente.

Lo studioso al quale ci siamo riferiti troverà in Marx rilievi notevoli e di portata storica sulla sociologia dei grandi lavori di costruzione. Questi hanno per primi chiamato in gioco la forza dell’associazione in masse della mano d’opera umana e dell’ammannimento di forti scorte di materie prime trasportate e semilavorate, ossia hanno richiesto già da secoli e millenni che si accumulasse di fatto capitale variabile e capitale costante, prima che la forma di produzione capitalista sorgesse tanto nella sua economia di scambio generale mercantile e monetaria, quanto nelle sue moderne forme di società politica: prima dunque, come Marx stabilisce da gran tempo, dello stimolo privato alla ricerca del plusvalore e del profitto, in quanto le opere erette e previste, dagli antichi più altamente spesso che dai contemporanei, erano destinate a durare nella loro funzione per intere generazioni ed erano servizi sociali di gran respiro prima di essere strumenti di produzione, nel senso moderno di macchine per erogare profitto a chi ne ha il sociale controllo[289].

Marx quindi indicò genialmente in queste remote imprese la prima formazione di capitale anche quando vi provvidero poteri precapitalistici e perfino semibarbari; ed indicò anche la prima formazione di rapporti economici a scala internazionale, in quanto i primi poteri dispotici le condussero al di sopra anche dei limiti di popoli e di razze, spesso un esercito belligerante fiancheggiando la massa degli schiavi piegati al lavoro e dei tecnici che li dirigevano al servizio del Re o del Signore: anche a domare le rivolte dei forzati e minimo-alimentati lavoratori.

Solo, nella sua prima forma, l’organo Stato funzionava come organizzatore di opera in massa e quindi come capitalista: e ciò ovviamente non cominciò per prodotti consumabili mobili e non durevoli ma per l’erezione di beni immobiliari di godimento sociale; e vi era più germe comunista in queste imprese di schiavismo che nelle molto più recenti «galere di lavoro» ove i sudanti indossano uscendo l’abito borghese e godono l’ipocrisia di tutte le libertà.

72 – Dalla casa all’edificio

Un primo modo burocratico e miope di porre il problema è quello di limitarlo all’abitazione, solo perché il moderno addensamento delle popolazioni e la loro folle concentrazione nei centri urbani generata dal capitalismo industriale e dalla morte del primitivo artigianato diffuso su tutta la campagna e perfino nomade, hanno reso di natura sociale la mancanza di case sufficienti a contenere le masse degli attuali eserciti di lavoro, e a consentire loro di proliferare.

All’origine la casa poteva essere un prodotto manufatto di chi la abitava, come la capanna del selvaggio e anche del primo agricoltore, messa insieme con materie maneggevoli leggere e reperibili in ogni luogo intorno. Forse l’uomo ha cominciato col farsi fare da un altro «specializzato» il vaso e la freccia, ma solo con molto ritardo la casa. Questa è venuta molto dopo l’edificio stabile e pesante ad uso collettivo per cento finalità: politica, guerra, religione, mercato, ecc.

Molto tardi l’uomo usuario di un domicilio si è fatto venire la ben strana idea di averlo sopra o sotto quello di un compagno e della sua gente, e solo per aver visto questo fenomeno dell’edificio multipiano in fabbriche ove nessuno dormiva, o soltanto un essere di speciali funzioni e all’inizio considerato di una specie diversa, di una «casta» immescolabile.

Una critica dell’architettura e dell’ingegneria edile che parta da queste semplici basi è proponibile, ma per ora ci limiteremo a quello dell’economia sociale delle costruzioni che mette in primo piano l’abitazione, il logement, il dwelling, e non vede cose molto più vaste e decisive che gli sono meno vicine. Pochi capiscono il concetto tanto semplice, che sono più le fabbriche di uso diverso dall’abitazione che quelle di abitazione, che costano quindi molto più lavoro e denaro, quale che sia il «sistema». La recente amministrazione italiana successa a quella fascista, che tanto si gridò essere divenuta intollerabile per ladreria e asinità, e pertanto messa fuori a furore di popolo, solo da un anno e con numeri palesemente falsi ha cominciato a distinguere i fabbricati non residenziali da quelli residenziali, annotando i pochi locali non di abitazione che si fanno oggi nei primi, e i pochi di abitazione che stanno nei secondi.

La banalità si riduce ad avvertire la fame edilizia e la mancanza di fabbricati esasperata dalla distruzione bellica come un problema riconducibile a misura, calcolazione e pianificazione di progetto, partendo dal dato crudo della popolazione restata senza tetto o troppo concentrata nelle case, e mettendo con correnti indici computistici il numero di case o di stanze in rapporto al numero della popolazione, e la spesa occorrente in rapporto a un indice per stanza o per vano. In Germania ad esempio si è meglio capito che abitare non è la prima necessità umana, ma è secondaria a quella di consumare, e quindi di produrre, e si sono costruite nei primi anni del dopoguerra coi pochi materiali e forze lavoro reperibili non abitazioni, ma fabbriche, impianti generali e luoghi di lavoro, accorgendosi che il fabbisogno economico era doppio e triplo, e rinviando agli ultimi anni decorsi l’affrontare con una attrezzata macchina di produzione la costruzione di case.

Siccome dove ci sono forti partiti comunisti, e socialisti di sinistra, la macchina amministrativa è più docile alle esigenze di speculazione dell’impresa capitalistica, e siccome è un facile teorema del marxismo che in fase avanzata della forma borghese di produzione si guadagna più che a gestire una fabbrica a costruire lo stabilimento, gli impianti e i macchinari, e, ancora più che a costruire una fabbrica, a costruire una casa, soprattutto dove il valore di realizzo dopo un ciclo cortissimo di investimento del capitale proprio (e spesso come dicemmo non proprio) è esaltato dalla fittizia ricchezza di ubicazione che la bestiale follia urbanistica ha generato; in Italia si sono gettati a far case, a buttare giù le vecchie che potevano ancora alloggiare gli operai addetti agli impianti produttivi, e poi con la famosa balla del Piano Fanfani, detto anche INA-CASA, hanno pensato di far vivere di lavoro tutti i disoccupati adibendoli ad erigersi la casa, pregando i costruttori mobilitati dall’ente di farle più tremolanti che fosse possibile per poter riaprire il ciclo della loro strategia economica al più presto. Il coltivato cittadino moderno si lascia propinare questo «piano» assennato: Vuoi aver da mangiare? Fabbricati la cucina! Laddove il troglodita riuscì a capire che doveva disturbarsi ad accendere il fuoco solo quando ebbe tra mano, dopo rischiosa caccia e lotta, la zampa di orso, dura da azzannare anche ai suoi denti robusti.

Il furbissimo e cosciente elettore italiano compra invece la pelle dell’orso prima che sia stato ucciso, e la paga profumatamente alla democrazia capitalista appaltatrice.

73 – Edilizia privata e pubblica

Non sarebbe giusto trattare indipendentemente la casa e i fabbricati di altro genere, per lavoro, studio, industria, commercio, svago, cultura, sanità e così via, come campi estranei, col motivo che nel primo caso si tratta di opera e spesa privata, negli altri pubblica. Non solo in Russia, ma negli altri paesi borghesi confessi, all’esigenza casa non sono solo i privati a provvedere ma lo Stato, sia per costruzione diretta sia per costruzione largamente sovvenzionata, e le differenze tra i due lati della cortina sono soprattutto quantitative. Del resto in Russia, se non si esclude l’appalto delle costruzioni che fa lo Stato, nemmeno si esclude che privati costruiscano la loro casa, la posseggano e la trasmettano in eredità. Il confronto quantitativo tra i vari paesi non è tuttavia facile non solo ad impostare in termini economici, ma anche in termini fisici, per le ben diverse unità cui le varie statistiche nazionali sono riferite. Mentre in alcuni paesi si concepiscono le unità di abitazione, che non sono poi sempre facili ad isolare una dall’altra nei casi di affollamento e di coabitazione che gli effetti della guerra hanno esasperati spezzando la relazione famiglia-focolare – nonché per la diversa incidenza delle comunità di residenza, educative, lavorative, militari, religiose, ecc. –, in altri si indicano le stanze, o vani, o locali, o ambienti (pièces) la cui conta è ancora più problematica, per quanto sembri cosa immediata. Nella complessa vita moderna si verifica sempre questa incertezza in cose a prima vista evidenti; e non si verifica quando si ha l’onore di interpellare lo «specialista» ma proprio quando non si accetta per moneta contante tutto quello che lo specialista, sicuro dell’ignoranza di chi sente, spaccia per certo e fuori discussione. La specializzazione borghese in un dato «problema» non consiste nel conoscerne le difficoltà più a fondo, ma nel coprirle sempre ed ovunque col velo di una incontrollabile e poltrona sicumera convenzionale.

La Russia ci presenta, nelle sue statistiche sulla casa, questione che è colà gravissima e superacuta, la novità di darci i milioni di metri quadrati di abitazioni costruite e costruende, unità di cui mostreremo la maniera di riferimento alle «borghesi» stanze e appartamenti.

Prima però di entrare nella parte numerica, servendoci delle poche fonti che hanno l’aria di essere concludenti, vogliamo completare la nostra estensione nel campo delle costruzioni, in cui siamo partiti dalla semplice «casa» o fabbricato ad abitazioni, per aggiungervi anzitutto tutti gli altri tipi di edifici che sorgono negli agglomerati urbani e nelle campagne, con una infinita gamma di destinazioni, che sembrano di eccezione, mentre in fondo l’eccezione è la sede di pura abitazione residenziale.

Per leggere questo foglio il lettore può anche essere un senza tetto, perché può farlo al caffè o seduto sulla panchina del giardino pubblico o per terra nel cuore del deserto libico, salvo la varia comodità più o meno propedeutica a digerire le lunghe brode e a schiacciare il pisolino salvatore. Ma non lo leggerebbe ove non fosse stata eretta in sedi varie una serie di altri edifici, per attenerci a quelli soli che visti da lontano hanno grosso modo la stessa foggia della casa.

Si tratta delle fabbriche in cui si fa la carta, l’inchiostro, i caratteri da stampa, le macchine da stampa della tipografia locale che in genere sta nel cuore degli abitati cittadini, senza parlare delle stazioni postali e ferroviarie e lasciando da parte tutte quelle attrezzature ed impianti che di case non hanno la forma, ma sono non meno necessarie. E quello che si dice del giornale si può dire di tutti gli altri oggetti e funzioni che l’animale uomo incontra nel breve giro della giornata e di cui si serve in modo vario o con cui ha le relazioni più diverse, che sarebbe lungo accennare, anche in esempi. L’uomo ha cominciato ad avere relazioni sociali e ad essere un produttore prima di prendere l’originale uso di dormire al coperto, che le bestie e gli dèi sostanzialmente ignoravano, prima che noi, stranissima specie, erigessimo le stazioni zoologiche e i templi.

In generale il luogo di lavoro, la fabbrica, è anche un edificio come la casa di abitazione, ma nella generalità la cosa è ancora più vasta, e l’uomo non costruisce solo edifici ma cose ben più complicate, in cui si lavora all’impianto, ed in diversa misura all’esercizio. Uomini lavorano al coperto, come dormono; uomini lavorano all’aperto o in gabbie mobili quali i veicoli terrestri, acquei ed aerei. Oltre a costruire case si costruiscono edifici, e la faccenda diviene, se non vi spiace, all’incirca tre volte più grossa (e il rapporto non fa che crescere grazie al commendator Progresso); ma oltre a costruire edifici si fanno strade, canali, irrigazioni, bonifiche, ferrovie, elettrodotti, porti, aeroporti, impianti estrattivi, e chi più ne ha più ne metta, tutte opere che della casa edificio hanno perduta anche la sagoma più lontana. Vorremmo azzardare che si ripete una triplicazione di sforzo di lavoro umano e di «valore», come quella dalla casa all’edificio generico, e forse anche se ci fermiamo al campo della costruzione di strutture fisse ed immobili per natura, ossia a quello che in Russia chiamano lavoro di montaggio o di installazione, lasciando fuori ancora i veicoli, le macchine, gli attrezzi mobili o «semifissi» che si potrebbero (a parte la convenienza) spostare in altro luogo di funzione, come un motore elettrico o un maglio di officina, ecc. Solo allora avremmo percorso il ciclo dei beni durevoli, che è più vasto di quello dei beni immobili per natura, o immobili per destinazione, e dal quale poi si passa in quello dei beni non durevoli o di vero consumo, che l’uso più o meno rapidamente trasforma fino alla distruzione pratica.

74 – Costruzione ed economia

Le classi di cui diamo questo monco abbozzo vanno riferite a quelle dell’economia, seguendo quanto fanno i governi e le classi dirigenti, tutti e tutte ormai guadagnati alla moda della pianificazione in grande.

Nel nostro bel paese di cuccagna, di Pantalone o di Pulcinella, volevamo in primo tempo ridurre tutte le classi a quella della casa; si sono fatti poi grandi passi salendo dal Piano Fanfani al Piano Vanoni, ma in questo non mancano certo i nonsensi, a parte quello fondamentale per tutti; che in atmosfera mercantile si riesca ad attuare piani razionali anticipati.

Si pensava di ridurre tutto alla casa, tutti gli operai sarebbero campati facendo case, e tutti gli affaristi e quelli che elegantemente oggi chiamano «terziari» sulla relativa speculazione in grande, che in un secondo settennato (tra l’altro di tecnica deteriore e mariuola, e di stile che fuga le ombre degli artefici classici e rinascimentali ormai non solo dalle città ma anche dai paesaggi d’Ausonia) allegramente dilaga. Non si capì che valeva tanto fare un piano ancora più stretto in limiti elementari: quello della costruzione delle tombe e dei cimiteri (opera ragguardevole che in quanto precede non ci è venuto in mente di elencare), poiché i relativi residenti non hanno la cattiva abitudine di mangiare.

Eseguita ora la nostra ovvia estrapolazione, possiamo porre in relazione la spesa casa con la spesa in costruzioni private e pubbliche che non sono case (anche private come gli alberghi, ristoranti, bar, caffè, negozi, laboratori artigiani, studi, uffici di commercio, e giù altra filza da completare) e con l’ulteriore per servizi generali, che in genere sono fatti dallo Stato, ma non sempre neppur quelli. D’altra parte per il momento questo non ci importa, né in Russia né da noi, e per non porre altro indugio prima di venire alle quantità in gioco ammetteremo di passaggio che tutta questa erogazione di lavoro e di spesa si chiami investimento di capitali, nella sua privata e pubblica totalità, mentre la parola ha senso ben diverso per la teoria marxista da quella usata dagli uffici di statistica di Stato; anche da quelli sovietici.

Ci domanderemo quindi, come fanno molte statistiche di confronto internazionale, quanto si spende in un anno, poniamo, per la costruzione di abitazioni, quanta parte è questa della spesa per l’edilizia generale, e poi di quella per le opere e servizi di ogni genere, perché ci interessano due tesi: in genere si dà troppo posto alla spesa per le case, per i fabbricati pubblici, e per le opere veramente generali che restano a fare bella mostra di sé (forse che sì, forse che no) una volta esposte al sole, e quanto meno non si dà nessuna razionale precedenza alle opere veramente utili e sociali, perché questo gruppo di attività investitrici è quello che più fa comodo alla forma moderna della forza capitale, cui è soggetto il mondo.

Una seconda nostra tesi è che questo meccanismo più o meno fanfarone e filibustiere gioca in Russia nelle stesse forme e negli stessi rapporti di tutto il resto di questo bel mondo successo alla seconda guerra, nel quale gavazza, con la grande costruzione, il più grande affare del secolo e della storia.

Su queste grandi imprese che fecero correre fiumi di retorica ebbe già Marx ad esporre in più e più luoghi l’applicazione della nostra dottrina, che tra l’altro ci insegnò in un secolo a non aprire la bocca stupita davanti alle meraviglie del mondo e ai colossi della megalomania costruente, quando trattò delle grandi imprese storiche, dai monumenti egizi e babilonesi alle strade romane, e alle moderne grandi reti ferroviarie, gallerie transalpine e canali navigabili, col classico esempio del taglio marittimo di Suez (e poi di Panama) in cui il capitale moderno sfoggiò tutta la sua audacia e la sua internazionalità, la strapotenza della sua ingegneria e della sua canaglieria[290].

75 – Confronto in Europa

Quattro grandi paesi dell’Europa occidentale hanno affrontato dopo la guerra il problema delle abitazioni, e si hanno i dati per fare un confronto relativo all’anno 1952. Non è molto dissimile tra i quattro la popolazione: Gran Bretagna 51 milioni, Germania (occidentale) 50 milioni, Italia 49 milioni, Francia 43 milioni. Ben diversa però la «popolazione di case», che li schiera in un ordine diverso, anche se non siamo sicuri che la conta sia stata fatta con lo stesso sistema. Nel 1952 la Gran Bretagna aveva 14 100 000 abitazioni, la Francia 12 835 000, l’Italia 11 573 000 e la Germania 10 milioni 455 000. Le case disponibili per ogni mille abitanti erano 298 in Francia, 277 in Gran Bretagna, 236 in Italia e 209 in Germania, paese nel quale la dotazione antebellica era molto più alta che da noi, ma le distruzioni sono state ancora più massicce, e la mania della casa («maison d’abord») non ha imperversato in misura grave come abbiamo già detto.

Si suole spesso usare l’indice inverso, ossia la media di persone per ogni abitazione, e tale indice risulta di 3,4 persone per la Francia, 3,6 per la Gran Bretagna, 4,2 per l’Italia, 4,8 per la Germania. È chiaro che su tale indice ha influenza la media composizione della famiglia, che ad esempio in Francia è poco numerosa, il che rende appunto necessarie più case a parità di popolazione. Più frequentemente si mette la popolazione in rapporto alle stanze o ai vani disponibili, ma anche qui sorgono dubbi perché la riduzione di un alloggio a numero di vani è molto dubbia, ed in Italia vi è differenza tra gli stessi metodi dei censimenti di anteguerra e dopoguerra. Ciò dipende da stanze grandi o piccole, ambienti destinati a cucina, a servizi e a disimpegni, specie piccolissimi, ed altre considerazioni, non ultima l’avidità della speculazione edilizia che, fissati i prezzi a vano, trasforma in sette o più vani una casa con quattro stanze, mobilitando otto o nove «accessori» fino alla casetta dei piccioni…

Non possiamo seguire tale indagine; diremo solo che i vani di abitazione in Italia nel censimento del 1951 furono circa 35 milioni con l’indice di 1,33 abitanti per vano, contro l’1,41 antebellico.

Vi è motivo sicuro di ritenere che il movimento sia stato inverso a quello che le cifre dicono. All’ingrosso, dato l’aumento di popolazione, l’indice non migliora se non si costruiscono oltre 350 000 vani annui; se ne sono costruiti nel 1952 676 000, nel 1953 889 000, nel 1954 1 071 000, nel 1955 1 311 000, e nel 1956 1 400 000, probabilmente. Noi pensiamo che siano da sottrarre non pochi vani non di abitazione: comunque ammessi tali dati sarebbero nei 5 anni 5 milioni e mezzo di nuovi vani, e si sarebbe a 40 milioni di vani per 49 milioni di abitanti, con l’indice dell’1,23, che consideriamo assolutamente troppo ottimista.

Ci limitiamo dunque nel confronto europeo all’unità un poco vaga di abitazione, e consideriamo il volume costruito nell’anno 1952. La Germania – ed era logico – si era già portata all’avanguardia con 386 000 unità, seguiva il Regno Unito con 246 000, l’Italia con 116 000 e la Francia, ormai satura, con 84 000. Per ogni mille abitanti erano in Germania 7,7 nuove abitazioni, in Gran Bretagna 4,8, in Italia 2,4 e in Francia 2. Con gli stessi dati del 1954 l’ordine è lo stesso:

Germania 505 000, Gran Bretagna 354 000, Italia 177 000, Francia 162 000; e per ogni mille abitanti: Germania 10 abitazioni nuove, Gran Bretagna 7, Italia 3,5 e Francia 3,8.

Possediamo i dati che indicano il valore di tale massa di abitazioni costruite se non in cifre assolute, non facili a stabilire, in cifre relative al reddito nazionale netto. Esse indicherebbero quanta parte della somma a loro disposizione per i consumi hanno accantonato i vari popoli per farsi le case mancanti.

Non abbiamo i dati per la Francia ma solo quelli per gli altri tre paesi, sempre con riferimento al 1952. La spesa per la costruzione di case di abitazione in detto anno ha rappresentato in Germania il 5 per cento di tutto il reddito nazionale; in Gran Bretagna il 3,1 e in Italia il 3,6. Poiché sappiamo che il reddito nazionale italiano 1952 è stato considerato di 9243 miliardi, la spesa per abitazione è stata qui valutata ben 333 miliardi, e dunque 2 871 000 lire per ciascuna abitazione. Dalle cifre già date abbiamo che la media per abitazione è di vani 5,8, e la spesa per vano è stata di circa 500 000, abbastanza alta per i prezzi del 1952. Qui è una riprova che il piano italiano fornisce case di troppo alto costo e di troppi vani in media, sicché provvede alle classi meno disagiate e non ai veri sovraffollati e senza tetto. Il confronto con altri paesi ci porterebbe troppo lungi dal nostro tema, che è il russo. Anche in Russia Chruščëv ha lamentato il troppo alto costo delle case costruite.

76 – America e «boom»

Ci rivolgiamo a fonti diverse e usiamo cifre di gran massima per estendere questa ricerca all’America. Nel 1950 gli Stati Uniti disponevano di ben 44 897 000 abitazioni urbane e rurali (come in tutte le altre statistiche) per una famiglia; e dato che allora la popolazione era di 151 milioni di abitanti si avevano abitazioni 300 circa per ogni mille abitanti, pareggiando il dato francese che è il massimo europeo; ma nel 1952. In detto anno si costruiscono 1 100 000 altre case, in ragione di circa 7 per mille abitanti, restando al di sotto del solo ritmo tedesco. Il ritmo di aumento delle case è il 2,5 per cento annuo, che supera quello della popolazione che è di circa 1,5. Da allora si è però molto intensificata la costruzione di alloggi, che ha dato le seguenti cifre: 1953: 1 100 000; 1954: 1 220 000; 1955: circa 1 650 000; 1956: circa 1 700 000. Oggi si può ritenere che la massa dei dwellings o case di abitazione sia di 53 000 000 unità e di 315 ogni mille abitanti almeno, mentre il ritmo di costruzione è salito a 10 nuove abitazioni ogni mille abitanti, naturalmente primato mondiale; e tuttavia alla pari coi dati germanici del 1954.

La spesa americana per l’housing sarebbe stata circa 13 miliardi nel 1952 e 16 miliardi nel 1956. Dato che in tale anno il reddito nazionale è stato di 325 miliardi di dollari, il rapporto è del 5 per cento e collima bene con quello germanico.

Allineato così il temibile concorrente America possiamo seguitare nel confronto delle aliquote economiche, che stabiliscono il rapporto tra investimento nel settore abitazione ed investimento annuo totale. Sempre nel 1952 il rapporto sarebbe stato per l’Italia il 17,3 per cento, per la Germania il 21,2 e per la Gran Bretagna il 23,7. Per determinare quello dell’America rileviamo che nel 1952 l’investimento totale americano è stato circa di 55 miliardi, e nel 1956 è salito a 67, sicché quel rapporto è di 23,4 e 23,9 rispettivamente, ben concordante con quello europeo, come si vede.

Ci viene poi data altra aliquota che pone l’investimento case in rapporto a quello totale per costruzioni edilizie ed opere pubbliche. In Europa abbiamo (1952): 48,5 in Italia; 52,1 in Germania; 52,3 in Inghilterra, e si sta intorno alla metà; la casa di abitazione prende la metà di tutti gli sforzi di costruzione di edifici e servizi generali, e pur tenuto conto che siamo nel periodo che segue ad una guerra disastrosa, troviamo sempre che si dà alla casa troppo peso: effetto del seguito delle classi medie agli usi della classe privilegiata, che in un mondo in cui la rivoluzione è in letargo sfoggia spudoratamente i suoi pescecaneschi e cafoneschi sciupii. I marxisti sapranno cercare quanta minima parte di questo fiume di lussi edilizi ricade sul proletariato, seguendo soprattutto la spesa per case una divisione di classe, che seguono meno le spese per edifici pubblici ed opere generali – escludendo tuttavia armamenti e galere!

Che per tali dati in America? Con cifre un poco grossolane nel 1952 l’investimento totale è stato di 55 miliardi, come detto, e quello in opere di costruzione 28 miliardi, di cui le case hanno preso il 46,5 per cento, un poco meno che in Europa. Nel 1956 l’investimento in costruzioni sale a 36 miliardi su 67 e i 16 miliardi per le case sono del primo il 44,5 per cento. Potremmo giudicare più saggia la politica economica americana, se non sapessimo che le distruzioni di guerra lì non ci sono state, e quindi dobbiamo portare i giudizi negativi sulle società dalle due parti dell’Atlantico allo stesso livello.

Può a questo punto interessare l’aliquota di lavori di costruzione in genere, ossia case comprese, sul totale dell’investito. Avremo, partendo dai dati noti: 1952, Germania il 41 per cento, Italia il 36,8, Gran Bretagna il 45; il dato peggiore è certo l’italiano. In America nel 1952 abbiamo il 51 per cento, e nel 1956 il 54, il che mostra come quella potente economia largheggi in opere e servizi pubblici generali.

Le cifre assolute che danno i riferiti rapporti le abbiamo indicate per gli Stati Uniti, e possiamo aggiungerle, per evitare più lunghe indagini e riferimenti di cifre, per l’Italia. Secondo i dati ufficiali nel 1955 l’investimento lordo è stato di 2925 miliardi, e di esso nelle costruzioni in genere sono andati 951 miliardi soltanto, che danno il 32,5 per cento, ancora inferiore al 36,8 dedotto per il 1952. Forse parte di un 5 per cento indicato in tabella per «varie» può essere aggiunto, ma è noto che negli ultimi anni se non è stato posto un freno alle case ne è stato però posto uno notevole alle opere pubbliche, anche perché i potenti intrighi in questo campo sono superati da quelli ultratossici nel primo, sfondo degli scandali in cui nuota questa repubblica sfrontata.

77 – Italia e case, ancora

Le abitazioni darebbero il 24,0 per cento del totale, con 701 miliardi, e ben il 74 per cento sulle opere di costruzione, il che aggrava molto i più moderati indici che abbiamo trattati per il 1952: 333 miliardi; 17,3 per cento; 48,5 per cento. Sappiamo del resto che da 676 000 vani nel 1952 si è saliti a ben 1 400 000 nel 1956, e la cosa non stupisce, confermando solo una sbagliatissima politica economica italiana che prepara a breve scadenza la strana contemporaneità di due crisi: quella della mancanza di case per le classi povere, e quella della sovrapproduzione ed ingorgo di mercato delle case ricche, con fallimento della poco corretta industria edilizia, dall’andatura di bancarotta fraudolenta.

Nell’ultimo quadro dell’investimento italiano di cui si dispone, per il 1955, la disponibilità totale lorda è ripartita (come detto) per il 24 per cento del totale alle abitazioni, e per il solo 8,5 per cento alle altre costruzioni ed opere pubbliche. Deve però notarsi che quanto riguarda trasporti e comunicazioni sta in altro settore, che copre in tutto il 14,4 per cento, di cui circa il 5 per cento riguarda ferro-tramvie, poste, telefoni e radio, e il resto mezzi autonomi di trasporto stradali, marittimi e aerei. Si possono dunque portare le opere pubbliche al 13,5, e può essere anche lecito aggiungervi, dal 12,7 per cento che riguarda l’agricoltura, un 7,7 per bonifiche e trasformazioni fondiarie. In tal modo, forse più atto al paragone con paesi esteri, l’Italia investirebbe oggi sempre l’alto 24 per cento (e l’alto 7,5 per cento del reddito nazionale!) in abitazioni (al pari il primo indice d’Inghilterra ed America), ed altro 21,2 in opere pubbliche, portando le costruzioni in tutto al 45,2 e l’incidenza su questo totale delle abitazioni al più equilibrato 53 per cento, che resta tuttavia un massimo tra tutti i paesi considerati.

Prima di salire, previa telefonata a Bulganin per il nostro filo speciale, sull’aereo Roma-Mosca, e occuparci dell’edilizia in Russia, vogliamo ancora dare un colpo alla pianificazione nera italiana, visto che in Russia faremo i confronti con la pianificazione rossa, e che i sinistri locali pongono allo stesso livello il culto per la Costituzione politica di De Gasperi e quello per la Costituzione economica di Vanoni, facendo dire messe periodiche a tutti e due.

Nel piano di Vanoni le case occupano un posto di primissima fila. Come è noto il piano copre il decennio 1955–1964 e la sua posizione chiave è che il reddito nazionale deve aumentare ogni anno del cinque per cento, a partire dal 1955, che doveva fare tal premio sui 10 450 miliardi da Vanoni stimati per il 1954. Per le cifre del reddito, più o meno ufficializzate, il '55 e il '56 hanno mantenuto il passo. Anzi era già il reddito 1954 che Vanoni stimò basso. Nel suo piano il reddito netto 1955 doveva essere 10 972 e quello 1956 11 528 miliardi: oggi ce lo annunziano di 12 641, pure avendo rispetto al 1955 avanzato non del 5 ma del 4,1 reale e pure essendo stato il 1956 anno poco favorevole, a parte la perequazione al valore della moneta.

Comunque per Vanoni il reddito del 1964 deve essere di 7000 miliardi, ossia deve nel decennio andare da 100 a 163. Il totale nel decennio sarebbe 135 000 miliardi di lire (lire 1954, si capisce).

78 – Piano Vanoni e case

L’investimento netto deve formare il 18 per cento del reddito nel corso del piano, il lordo salire dal 20,5 del 1954 al 25 del 1964 e in tutto il piano il netto rappresenta il 18 per cento ossia 24 337 miliardi, su 135 000 di reddito.

Vediamo come si ripartisce, e quanto ne va alle costruzioni, e alle case per abitazione, di cui abbiamo visto i rapporti di fatto odierni in Europa ed America.

Una prima parte del piano comprendente agricoltura ed opere pubbliche viene definita di «investimenti propulsivi» e prima calcolata in 11 237 miliardi, poi ridotta a 10 637 ossia il 43,7 del totale decennale. La ripartizione di questa prima sezione va fatta quindi sulle cifre dì partenza. La partizione risulta: agricoltura 3467 miliardi, ossia 32,6 per cento, e sul totale 14,2. Energia elettrica, gas naturali, ferrovie e trasporti 4960 miliardi, ossia 46,6 %, e 20,4 % del totale di piano. Opere pubbliche (sistemazioni fluviali e montane, edilizia scolastica e varie) 2810 miliardi, 26,4 per cento, e sul totale 11,5.

Il secondo settore riguarda le attività industriali, artigiane e terziarie per cui sono previsti 8600 miliardi, il 35,3 del piano. Non discutiamo questa parte del piano, piattamente piccolo-borghese, che tende soprattutto ad una industria minima e ad una massa di impiegatucci che aumenti la pletora presente.

Il terzo settore (dulcis in fundo) è l’abitazione. Essa prende 5100 miliardi nel decennio, e quindi il 21 per cento di tutto l’investimento. Si tratta di puri vani di abitazione, dato che «il documento» proclama che «la attività edilizia, pure contribuendo come gli investimenti nei settori propulsivi a stimolare l’espansione della domanda, non dà luogo alla creazione di attrezzature produttive e pertanto non è in grado di contribuire all’assorbimento permanente di mano d’opera». Questo vale ammettere che, quando le case siano finite o l’industria edilizia scoppiata per pletora, ricomparirà una disoccupazione maggiore di quella che il piano vanta di eliminare!

I vani edilizi tuttavia, sia fatto onore a Vanoni, sono (calcolando L. 500 000 per uno) previsti in numero minore di quello che i due primi anni hanno già realizzato. Infatti si va da 840 000 nel 1955 a 1 200 000 nel 1964. Sappiamo che già nel 1954 erano stati 1 071 000, nel 1955 1 311 000 e nel 1956 almeno 1 400 000, per quanto sia nostra opinione che in tale cifra non pochi vani, per fortuna, non siano di abitazione e quanto meno occupino commessi di negozi e bar, maschere di cinema e qualche altro disgraziato che non aveva lavoro.

Perché dunque in questo campo si supera il piano, e invece si resta bene al di sotto nel programma, che Vanoni ha portato seco nella tomba, di ridurre la disoccupazione? Perché messer Capitale e la sua aspra fame di profitto stanno bene al di sopra di noi ben vivi e anche del fu Vanoni. E una delle più indecenti manifestazioni è la follia edilizia dei fabbricati ed appartamenti.

Infatti secondo la cifra di 1 311 000 vani nel 1955 si sono spesi 655 miliardi contro i 420 previsti da Vanoni. Le abitazioni figurano addirittura per 701 miliardi nel prospetto degli investimenti lordi.

Vanoni si limiterebbe alla fine del piano ad avere per le abitazioni la spesa di 600 miliardi contro 17 000 di reddito nazionale netto e quindi il 3,5 per cento congruo alle statistiche europee citate per il 1952.

Dove i rapporti del Piano Vanoni sono da esaminare è nel campo delle opere di costruzione ed impianti in generale. Basti un cenno. Gli investimenti in tale settore sono bassi, ed è rispetto ad essi che l’investimento in abitazioni è eccessivo. Il settore opere pubbliche infatti è parte di quello degli «investimenti propulsivi» e si possono sommare le partite relative a: centrali elettriche, reti di distribuzione, gas naturali, ferrovie e trasporti, telefoni, acquedotti, e le citate opere montane, fluviali, di edilizia scolastica e varie, ossia in tutto 7770 miliardi, che insieme all’edilizia di abitazione danno 12 870 sul totale di 24 337 e quindi il 52,9 per cento. Forse si potrebbe togliere qualche settore delle partite trasporti (veicoli e altri beni non immobili) ma forse anche aggiungere parte del settore agricolo, e non si va molto lontani dai dati dell’economia americana sopra riportati; è forse proprio l’industria pesante che è tenuta bassa (ma ciò è in un certo modo giustificato dai caratteri dell’economia italiana): essa non incide che per 1000 miliardi sui 4800 del settore attività industriali e terziarie, e per il 4,1 per cento del piano.

Ma l’errore di Vanoni è il rapporto falso tra edilizia di abitazione e generale. Non vi sono che i miseri 220 miliardi di edilizia scolastica, e parte dei 650 di opere pubbliche varie, che possiamo mettere tutti a compenso di poche opere edilizie comprese tra quelle agrarie di servizi generali e trasporti, e con ciò l’edilizia totale sarebbe di 880 non residenziale contro 5100 residenziale. I due settori stanno come il 14,7 e l’85,3 %, mentre in una sana economia devono stare come il 66 e il 34 di consistenza, ed anche ammesso che il problema casa sia in fase acuta, al massimo come il 50 ed il 50 di spesa investita. Sempre se si vuole che chi ha un dormitorio e un… refettorio, abbia anche il lavoro e il cibo che va consumato nel secondo!

Una delle follie dell’economia borghese è che, se costruisce case in troppa abbondanza, la classe utile ed oppressa dell’umanità resta à la belle étoile. E se poi si ferma e non ne costruisce più, il fenomeno seguita… allo stesso modo.

79 – Le abitazioni in Russia

Sebbene non sia facile allineare dati sulla consistenza in Russia delle abitazioni, è ben noto che in quel paese la mancanza di case è un problema tremendo e feroce. Fino alla fine dello zarismo una minoranza della popolazione russa non sapeva che cosa fosse una casa di muratura; la maggioranza rurale viveva in case di legno, quasi tutte di un solo piano e molte di un solo ambiente: izbe, più capanne che case.

Su questo primitivo sistema residenziale si sono abbattute due rivoluzioni e due guerre sterminatrici, e lungo sarebbe seguire tutta la vicenda dell’evoluzione dei domicili in Russia. Ma da quanto precede ben sappiamo che al 1914 è seguito un grave movimento, già delineato sotto lo zarismo, di concentramento della popolazione nelle città che erano sorte sostanzialmente come agglomerati di edilizia muraria e come tali si sono paurosamente sviluppate e moltiplicate.

Il lettore conosce i motivi per cui abbiamo considerato esagerate le cifre ufficiali sul rapporto tra popolazione urbana e rurale, e consideriamo che la seconda sia tuttora la maggioranza. Se quelle cifre fossero vere quelle dell’affollamento degli abitanti nelle case di città diverrebbero favolose: sappiamo tutti dalle notizie di giornale che è norma che una e più famiglie di molte persone abbiano per casa una stanza unica.

Quindi il governo russo ha messo in linea con altri urgenti guai questo tragico della mancanza di case ed i piani di costruzione delle stesse, e vanta a sua volta di aver già fatto passi da gigante nell’affrontare un tale compito.

Abbiamo accennato che nelle statistiche russe le cifre relative non sono date in vani-stanze, né in unità-domicili, ma a superficie, indicate nei piani in milioni di metri quadrati, il che intriga un poco il comune lettore.

Qualche indicazione viene anche fornita sulla spesa totale per l’edilizia, ma la stessa non è di facile decifrazione perché bisogna distinguere tra la parte di investimento statale e di piano destinata ad un tale obiettivo e quella importante che gravita su altre economie locali.

Vediamo quindi annunziato che durante tutto il periodo del V piano quinquennale sono stati costruiti coi fondi del piano 105,4 milioni di metri quadrati, ai quali se ne aggiungono 10 costruiti dalle aziende di produzione (fabbriche), ben 38,8 attuati col «finanziamento dello Stato a privati» ed altri 2,3 con fondi dei colcos rurali, formando un totale di 156,5. Lo Stato, a detta di Chruščëv, ha nel quinquennio 1950–55 stanziato a tal fine 100 miliardi di rubli, crediamo tra costruzione diretta (sempre per appalti!) e finanziamenti. Nel successivo quinquennio del VI piano si dovevano costruire 205 milioni di mq., di cui 29 nel 1956. Durante il quarto piano, 1946–50, l’attività edilizia è stata molto più bassa se il V piano ha prodotto, sempre nel discorso Chruščëv al XX congresso, 2,2 volte di più. Possiamo forse fissare la successione: IV piano 71,1 milioni di mq., V piano 156,5 milioni, previsti per il VI piano 205 milioni, ossia non oltre il 31 per cento del quinto, mentre questo giunse al 220 per cento del quarto. La cosa è troppo chiara, ma tuttavia è il caso di ragguagliare l’unità qui adottata a quella già familiare.

80 – Misura delle abitazioni

Per superficie di abitazione non si deve intendere la superficie occupata dagli edifici, ossia quella che viene detta dai tecnici «area coperta», bensì l’area dei piani singoli insieme sommata, o se si vuole l’area sommata di tutte le unità di abitazione che un edificio contiene, e che è un poco minore perché una parte della superficie di ogni piano è impegnata per le scale e altri passaggi comuni a più unità domiciliari. Immaginiamo che si intenda per superficie delle abitazioni quella netta, ossia senza comprendere le pareti, in quanto in tutte le legislazioni che limitano la superficie di abitazioni per motivi fiscali o analoghi è a questa che di solito ci si riferisce.

Una stanza media, sebbene l’indice vari da paese a paese e soprattutto da epoca ad epoca, tendendosi oggi ad impicciolire gli ambienti, la possiamo considerare di 18 metri quadrati. Ciò vuol dire che, per ogni milioni di metri quadri costruiti, le stanze medie sono circa 55 mila.

I 156,5 milioni del V piano avrebbero dunque dato 8,6 milioni di stanze o vani. Non è facile ridurle ad abitazioni perché non si hanno dati per stabilire il numero medio di stanze: se lo ponessimo di quattro avremmo 2,15 milioni di abitazioni costruite in 5 anni e in media 430 000 all’anno. Questa cifra non fa gran figura se comparata alle 386 000 costruite in Germania nello stesso anno, ma è in relazione alle 116 000 italiane; infatti con una popolazione di 190 milioni si avrebbero 2,3 abitazioni annue nuove ogni mille abitanti, contro le 2,5 italiane del tempo (le tedesche sono state ben 8).

Il ritmo annunziato per il VI piano quinquennale, se le nostre riduzioni sono probanti, non è formidabile. Non parliamo affatto dei 29 milioni di mq. del 1956 ma partiamo dai 205 milioni di mq. in tutto il piano. Ammetteremo che questi stiano in relazione non ai 156,5 milioni, ma ai soli 105,4 del piano statale nel precedente quinquennio, dato che Chruščëv ha parlato di raddoppiare, e non, come prima calcolato, di aumentare al limitato 31 per cento… Avremmo un massimo di 320 milioni di mq. che ci danno 17,6 milioni di vani e 4,4 milioni di abitazioni nel quinquennio, in media 880 mila l’anno. Non dunque altro che, su una popolazione di 200 milioni, una rata di costruzione annua di 4,4 nuove abitazioni per mille abitanti che è all’incirca quella italiana di oggi.

Se istituiamo un paragone col piano Vanoni, i 4,4 milioni di abitazioni e 17,6 milioni di vani in un quinquennio sarebbero nel decennio 35,2 milioni di vani, che si oppongono ai 10,2 milioni di Vanoni. Fatto il rapporto delle popolazioni, se consideriamo (invece) che nel quinquennio 1956–60 Vanoni ne prevede 4,8, arriviamo ad un pareggio tra i due concorrenti: Bulganin 88 vani ogni mille abitanti e ogni cinque anni, Vanoni 96.

In Italia sappiamo che in questi primi anni la piega è di costruire più case ancora di quelle che Vanoni prevedeva. In Russia è più difficile prevedere la via che si prenderà perché influiscono cause opposte: è maggiore grandemente la fame di case. Ma è nostro avviso che si tratta di una eguale pressione di forze economiche per preferire la costruzione di case di alto tono ed attirare forti investimenti di Stato ed enti periferici (che ogni giorno più si vedono scendere sulla scena a visiera alzata) nell’edilizia urbana residenziale.

In sostanza il fenomeno della costruzione di abitazioni edilizie nel dopoguerra mostra in Europa, America e Russia una struttura con molte analogie. Noi riteniamo che sia una struttura critica – e per questo ci siamo fermati a fondo su di essa – atta a mettere in evidenza la generale virulenza antisociale e antioperaia dell’economia capitalista sviluppata.

In quel che segue tenteremo di spingere il confronto dai dati fisici a quelli economici del problema, confronto bene ammissibile perché è confessa, nelle due economie «emulatrici», l’adozione dello stesso metro economico: l’investimento del denaro.

Il programma socialista è altro: oh vecchio Engels, da quanti anni lo hai insegnato?! Fermare la costruzione delle case urbane! Gli appaltatori sapranno cadere combattendo, tra le rovine dei mostruosi cantieri.



Notes:
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  1. Cfr. Marx, «Il Capitale», Libro I, cap. XI sulla «cooperazione». [⤒]

  2. Sul tema della «costruzione», si veda lo studio «Proprietà e capitale», uscito nei nr. 10–14 della I serie e nr. 1 della II serie di «Prometeo», e in particolare, in quest’ultimo numero, «Fanfania o il problema edilizio in Italia». [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 8, Aprile 1957

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