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COERENZA DI ANZIANI, CONTORSIONE DI JUNIORI


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Coerenza di anziani, contorsioni di juniori
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Sul filo del tempo

Coerenza di anziani, contorsioni di juniori

L’ultimo numero di «Battaglia Comunista», a proposito della soffocante attualità delle elezioni amministrative, ha parlato della situazione di Roma ove i comunisti e socialisti staliniani sono nella bloccata lista di Nitti, dimostrando come questi non sia né rimbambito né convertito, ma continui con sicura visione ed effetto la semisecolare politica dei blocchi borghesi con la sinistra proletaria, capolavoro della conservazione italiana.

L’incanata che a Roma la stampa governativa – (davvero scesa con la sua campagna odierna al di sotto delle sue stesse peggiori tradizioni: sentite questo titolo: «Dichiarazioni di Dayton: 190 miliardi di lire rappresentano il più efficace discorso elettorale»! Non sarà la D.C. incappata in una agenzia specialista U.S.A. fittata da Stalin?) – lancia addosso a don Ciccio Nitti, a Napoli ha per obiettivo altro venerabile (absit injuria verbo): don Arturo Labriola.

La bassezza di questo contraddittorio e la discesa fulminante di gradinate realizzata dallo stalin-comunismo fino ad oggi, in incredibile picchiata, consentono, ridisponendo le cose giusta il filo dei tempi, di riabilitare in fatto di coerenza, non solo il prudente ed avveduto Nitti, ma perfino lo scapigliato ed avventato Labriola, uomo su tutti sfornito di self-control.

Dedicammo ad una vecchia storia di blocchi un «Filo» dell’11 aprile 1951, intitolato «Esopiana socialista», in quanto ai nomi di uomini politici surrogammo quelli di bestie per conservare alla storia la sua efficacia, senza voler offendere… le bestie.

Tornammo sull’argomento dei «Decorsi della spinite bloccarda» nel «Filo» seguente, e ce ne dava lo spunto la notizia che un congressista del P.C.I., nel sentire il delegato napoletano proporre apertis verbis un blocco per buttar giù l’amministrazione governativa esteso anche a monarchici e fascisti, aveva con alquanta ingenuità passato al tavolo presidenziale togliattifero un bigliettino: ma questo è il blocco del 1913.

Presa dunque a tema la collaborazione bloccarda, ci fu facile provare che nelle forme praticate dallo stalinismo odierno essa è di gran lunga peggiore, e costituisce una forma patologica aggravatissima della degenerazione classista.

Nel primo anteguerra vedemmo amori adulterini con repubblicani e radicali democratici, nel primo e secondo dopoguerra abbiamo assistito alle relazioni contro natura. Non si è progrediti per nulla, e per nulla la moda è esistenzialista.

Dalla formula: per Ebert! contro Hindenburg! vedemmo lo scambietto alla graduata: per Hindenburg! contro Hitler! E poi, alla scala mondiale: per Hitler! contro Churchill; e ancora graduando: per Churchill! per Roosevelt! per Truman! contro Hitler! Oggi infine: contro Truman, con chi volete, col «diavolo» del 1914, con Picasso, Curie, Nitti, Labriola, Orlando, e a sentire i discorsi elettorali dei Terracini e dei Vittorii, anche con Pacelli; senza discutere, poi, col buon dio, ridotto al rango di diavolo anche lui.

Del resto alla scala italiana, partendo da Livorno 1921, in cui si buttò fuori Turati e Serrati, la scaletta non ci fu male: con Serrati! contro Turati – con Turati! contro la borghesia – con Turati, Amendola, Sturzo! contro Mussolini – e con tutti quanti! fino a De Gasperi e Umberto di Savoia, contro i tedeschi!

Davvero ci vogliamo stupire oggi come di cosa inaudita della invocazione: con Nitti e Labriola! contro De Gasperi e Scelba; o ci farebbe meraviglia lo slogan: con la monarchia e il fascismo! contro l’Atlantico?

Vediamo dunque a quali confronti storici si presta la polemica retrospettiva napoletana, con cui hanno voluto ridurre al silenzio il loquace don Arturo, novello alleato di Baffone, pendant del don Ciccio capitolino; seppure ancora una volta l’eclettismo non ha smentito sé stesso: a Roma listone unico, a Napoli liste apparentate.

Non ne verranno che nuove conclusioni alla tesi: messo un piede sulla china scivolosa delle eccezioni alla lotta di classe, nessuno ha mai potuto fermarsi a metà, ed evitare di battere sul fondo l’espertissimo deretano, degno carrello di atterraggio dell’opportunismo veleggiatore.

Ieri

È ritornato fuori il blocco partenopeo del 1913, e Giovanni Ansaldo, che trapiantato a Napoli vuol fare l’informato, ha creduto riprendere Labriola: non si tratta del 1914? Bisogna, come dicono nel loro mestiere, puntualizzare (brrr!). Le elezioni furono nel 1914, con la vittoria del blocco popolare napoletano, ma questo fu istituito nel 1913 prima della convocazione dei comizi, e chiamato senza paura «blocco permanente».

Don Arturo Labriola, che di disinvoltura non ha mancato mai, mostra di credere che la permanenza si estenda al 1952. Non troppo paradossale.

Converrà andare adagio, poiché i «tornanti» sono tali da far venire le vertigini anche a campioni autentici del discesismo a svolte di 180 gradi come Labriola od Ansaldo.

È stata la stessa «Unità» ad intervistare Labriola per avere spiegazioni sulla tattica. Forse in redazione non si spiegavano perché si fosse applicata solo a mezzo quella del congressista 1951, che voleva «uscire a parente» anche con monarchici e missini. Ed è stato lo stesso don Arturo a dire con tutta calma, dopo aver ricordato il blocco del 1913, la vittoria dell’aprile 1914, la prima amministrazione popolare con del Pezzo, la seconda con lui sindaco, in tempo di guerra:
«Oggi è la stessa battaglia di allora; e questa è la continuità storica che noi rivendichiamo per la nostra azione di oggi».

Ed allora: 1913–1952; per smentire don Arturo, ci si ammannisce una specie di biografia di don Arturo. Non interesserebbe molto, se invece non fossero suggestivi i raffronti delle varie posizioni, a proposito di guerre e di elezioni, tra i cui difficili frangenti si compie lo «slalom gigante».

È noto che Arturo Labriola è stato (fino alla noia) citato come esempio preclaro dei funambolismo politico e della mutevolezza incessante di opinioni, e davvero su questo non varrebbe la pena di insistere; come è ugualmente nota l’efficacia polemica del soggetto nel giustificare le svolte, non mancandogli né informazione, né ingegno, né eloquenza.

Poiché tuttavia il consumato giornalista Ansaldo, a sua volta, non temeva di trattar di corda in casa di impiccato, poteva partire prima del 1911, data che gli serve di ottimo trampolino di lancio per esprimere sconfinata ammirazione al Labriola di allora, in rotta col socialismo italiano ed internazionale per aver inneggiato all’impresa di Tripoli. Con ciò don Arturo diviene per Ansaldo il precursore del nazionalismo, il fornitore primo degli argomenti usati per tutte le guerre «coloniali o no» e contro le potenze conservatrici e plutocratiche (sic). Bellina questa, che in articoli scritti in commissione atlantica affiorino nostalgie di guerre contro la plutocratica America.

Per tenersi ai blocchi, era il caso di andare un poco più indietro, al 1910, e citare un Labriola, che allora da sinistra e da Milano tirava a palle infuocate contro il socialismo legalitario di Turati, e lasciò cadere alcune sferzate da lasciare il segno contro socialisti e sindacalisti napoletani che erano entrati nel blocco amministrativo per «trarre personali vantaggi e guadagni».

Ma il parallelo vuole limitarsi ai blocchi amministrativi con l’argomento centrale che il socialismo italiano di allora era decente e commestibile, mentre il comunsocialismo di oggi sarebbe ostico e feroce. Su tale corda, la suonata contro la continuità di don Arturo. Ora, per divertente che sia sentir questi, in tarda età, rivendicare coerenza, se i fatti restano fatti va concluso che ha ragione lui, stando a tal parallelo.

Alcuni fatterelli vanno allora rammentati, con la solita pazienza di chi scrive e sopportazione di chi legge.

Cominciamo a verificare le carte del partito socialista italiano 1911–1914, oggi citato ad esempio di… fair play. Tripoli: non fu solo con Kautsky che Labriola dovette accapigliarsi perché la guerra italiana fu definita atto di brigantaggio, ma anche con tutti i socialisti italiani da destra a sinistra, compresi Treves e Turati, che condussero una violenta campagna contro Giolitti per Tripoli: solo tripolino Podrecca, espulso al Congresso di Reggio 1912.

Inoltre il blocco 1913–1914 non comprendeva il partito socialista, ma solo i famosi «indipendenti» napoletani, che Ansaldo a distanza di tempo e spazio qualifica «fiori di valentuomini». Fiori, indubbiamente, di trasformisti. Nelle elezioni politiche 1913, ad implicito blocco, erano già fuori partito Labriola, Altobelli (null’altro che un radicale trombone), Ciccotti (partito antimassone e antibloccardo, finito interventista e fascista). Nel partito era Lucci, che per aver propugnato al Congresso di Ancona il bloccardismo amministrativo fu messo fuori. Quindi nel blocco capitanato da don Arturo nel 1914 non vi erano socialisti del partito (oh parolaccia!) ufficiale.

Ed allora il parallelo per giudicare della continuità storica deve vedere, dalla parte 1914, i valentuomini bloccardi di Napoli, i parlamentari indipendenti della Camera di guerra, divisi tra neutralisti e interventisti, ma caldamente disposti nel blocco e nella questione locale, e dall’altra (ossia dalla parte 1952) i Togliatti, Nenni, Palermo, Alicata, col vantaggio per questi che il «napoletanismo» è condotto con la formale investitura dei partiti nazionali cominformisti, bloccardi in tutta l’Italia e in altri lidi.

In verità il parallelo calza del tutto, con vantaggio polemico per don Arturo e la sua tesi, poiché sarebbe forse difficile dare la palma, tra i due storici episodi di messa sotto i piedi della lotta di classe e della politica proletaria rivoluzionaria. Che questa messa valga Napoli o Mosca, in fondo poco ce ne frega: interrogata la nostra solida memoria restiamo indecisi circa il primato nella sensazione di schifo.

I blocchi dell’epoca giolittiana sono definiti accessibili ai buoni borghesi con l’attribuire ai socialisti (di tipo partenopeo) qualità esemplari, su cui del resto non abbiamo molto da opporre: spontaneità nostrana ed italiana (ammazzali!) negli entusiasmi e nelle debolezze, criteri morali e visione del mondo comune ai buoni borghesi, valore attribuito al «sì» e al «no», e chi più ne ha più ne metta.

Ora che tutto questo riguardi il gruppo di Napoli e non il socialismo italiano 1914, per torti, che possa avere avuto, va ribadito; e non solo ai fini della tattica adottata, sia pure senza uscire dal binario legale (tuttavia, una certa settimana rossa!) allorché ad Ancona si ruppe colla Massoneria, si condannarono per principio i blocchi, e si condannarono anche le intese nelle elezioni di ballottaggio con altri partiti, negando che vi fossero partiti borghesi più o meno «affini» al partito proletario.

Il divario va ribadito a proposito della guerra 1914 e del rifiuto all’interventismo, che allora fu personificato dal transfuga Mussolini, e sostenuto colle stesse formule di cui si è fatta sbornia nella guerra partigiana, e si va facendo nella campagna antiatlantica: libertà democratica, necessità di completare e riscattare l’indipendenza nazionale… I titoli del primo numero del «Popolo d’Italia» 1914 valgono quelli odierni dell’«Unità»: «Rompere la politica che divide il nostro paese».

Quindi: contro la lotta di classe, la collaborazione di classe, contro la intransigenza (che era poco, non avendo osato nel 1919 assurgere a disfattismo rivoluzionario, ma era qualcosa di lontano dal tradimento) il bloccardismo, che vuole il Paese, la Nazione e perfino il Campanile al di sopra delle classi; stessa formula ed eterna, in dura continuità storica, con questi estremi: 1913, blocco, Labriola – 1914, guerra, Mussolini – 1943, liberazione nazionale, De Gasperi, Nenni, Togliatti – 1952, blocco, Nitti (Orlando!) e Labriola (Porzio! De Nicola!).

Come non è questa storia che si ripete? Al blocco 1913 rinfacciammo le nascoste alleanze, che traverso repubblicani e radicali, massonicamente attingevano gli onorevoli peggiori del tempo, i giolittiani Girardi, Aliberti, Gargiulo, Angiulli. Ogni blocco ha un retroblocco. Ed è comune il fetore.

Oggi

Dopo aver dato vello di pecora al socialismo italiano del primo anteguerra, con qualche torto alla vecchia guardia onorata di Turati, che tal vello indossava, ma alla cotica di porco non giunse, ecco la propaganda governativa in gran daffare per dare vello di leone al comunismo di oggi, e dimostrarci quale abisso lo separi dal buon vecchio socialismo all’acqua di rose.

Un secolo fa quando si voleva ricordare ai borghesi in marsina la loro discendenza dal sanculotto Gavroche e i ruscelletti di sangue nei vicoli della civilissima Parigi, si diceva «c’est la faute à Voltaire». Oggi «c’est la faute a Lénine». Il quale nel suo esilio studiava il tipo di partito per la conquista del potere in Russia «su modello straniero». Comunque se il modello è straniero per la stampa delle successive Italie governative, Lenin lo fece russo, per uso russo, e noi marxisti italiani e di altri paesi non lo trovammo affatto nuovo, considerandolo di uso universale dal 1848.

Ora nessuno più di don Arturo avrebbe condannato questo truculento, mongolo, amorale partito brevetto Lenin, e denunziato il suo traviamento dal tipo floreale della sua giovinezza.

Andiamo, via, vi sono delle piccole parentesi anche a tal proposito, ben consentibili tuttavia alle sagome geniali.

Non risaliremo ai precedenti della effettiva giovinezza: violentismo, herveismo, sciopero centrale insurrezionale (qualche bella pagina!). Ricordiamo anche noi qualcosa dalla maturità del nostro eroe: una certa polemica del 1919 contro Turati che appunto cercava di sostenere che uno hyatus spaventoso si apriva tra il classico socialismo e il bolscevismo di Russia. Tutti i proiettili disponibili lanciammo a Filippo, non l’arma proibita di un «blocco» con Arturo!

Vediamo un poco chi ha capito l’invocato motto di Lenin «in tutta la sua crudeltà»; chiestogli come i bolscevichi dovevano regolarsi con i socialdemocratici egli dettò: utilizzateli fino a consumazione.

Se li avessimo consumati, forse avrebbe oggi torto don Arturo, o piuttosto il problema non sarebbe più posto. Il male è che – dopo oltre trent’anni di ostentata applicazione scientifica di marxismo-leninismo alla Stalin – di socialdemocratici ne restano in circolazione un fottio, e certamente in Italia e altrove ne allignano – di confessi – ancora più che nel 1913!

Quella consegna del nostro maestro Lenin non ci andò giù, proprio (aprite le orecchie) perché di uso russo. Non certo per la crudeltà o perché nel darla si forbisse i baffi biondi intrisi di sangue: noi lo vedemmo sempre sorridere più dolcemente di un fanciullo. Non si tratta di valori etici che abbiamo comuni con i borghesi, a sfondo di una superiore civiltà (ed infatti non abbiamo mai praticata la caccia all’uomo di colore, il negrierismo, la tratta delle bianche, l’intrallazzo e l’esistenzialismo sessuale), ma di ben altro. Di una questione «tecnica». Si dice così spesso, oggi, e significa che, fuori discussione che si doveva farla finita col capitalismo, fuori discussione che non si aveva diritto di scartare nessun mezzo per motivi di «coscienza», si trattava di progettare l’effettivo risultato dei mezzi da porre in opera.

La questione è semplice. Si possono consumare i socialdemocratici pure utilizzandoli, ossia passando con essi un patto, per pervenire alla loro liquidazione (in altro testo fanno dire ad Arturo «liquefazione»; scusate professò!) alla fine del gioco? La risposta al solito è dialettica. Quando sì, quando no. Non si tratta di russo o italiano, o di moda, per cui quella insalata mista che da noi si chiama russa, a Mosca si chiama salade italienne.

Lenin trovava di sapore dottrinale i nostri distinguo. Se si tratta di lotta insurrezionale, armi alla mano, allora si può ben fare l’accordo coi socialdemocratici, e bene si fece nel marzo 1917. Ma i socialdemocratici vengono sul terreno delle schioppettate non quando si tratta della lotta di classe contro classe, ma solo quando si tratta di fini borghesi: patria, libertà, partigianismo. Ad esempio lo stesso antisanguinario Turati, se si fosse fatta nel 1914 la guerra a fianco dell’Austria, avrebbe preso il fucile: gli demmo atto che lo avrebbe fatto sul serio più dei nazionalisti puro-sangue, e gli provammo che con tale fucile era più antimarxista che colla tradizionale retorica pompa da incendio.

Ora quello era un caso per prendere il fucile insieme a Turati, e poi a suo tempo se le cose andavano avanti, ossia saltava una mobilitazione militare e con essa lo Stato, consumare anche lui, che si sarebbe fermato.

Questo un corno dello schematico nostro distinguo. L’altro corno è quello elettorale e in genere legalitario. In questo caso, ossia quando la situazione (paesi di sviluppato capitalismo), esclude per i socialisti democratici un compito di azione illegale, la loro utilizzazione è impossibile. Meglio, la cosa è capovolta; si passa il patto, e sono i socialdemocratici ad utilizzare i comunisti, fino a consumazione.

Noi non volevamo essere né utilizzati né consumati da quel fior di cialtroni. Lenin non ce la mandò per buona. Dovevamo trovare il modo di andare nei parlamenti, di fare offerte di azione comune ai socialisti, di fare fronti unici e inviare lettere aperte, restando comunisti rivoluzionari. Ad onor del vero, Lenin fin che campò non si sognò di parlare di fronti, blocchi e inviti per le elezioni. Si trattava di Lenin. Più che ribadire che lo sbaglio di tattica diventava errore di principio, poiché non esiste nessuno che si possa («bolscevizzandolo») assicurare contro il rammollimento e la venalità, e a noi preme non la qualità del soggetto, ma i rapporti in cui lo andiamo a porre o si viene a trovare; più non si poté fare. Del resto questa tattica elastica e «polivalente» l’ha sempre difesa ancora più strenuamente lo stesso Trotzky, anche dopo che la vecchia guardia di Lenin fu «consumata».

Ora facciamo il bilancio. Chi è stato consumato? Il comunismo rivoluzionario o l’opportunismo socialdemocratico?

Ci convince non il bilancio a firma dei sindaci AnsaldoDe Gasperi, ma quello che esibiscono sindaci dai titoli più solidi: Nitti e Labriola. Almeno di economia e ragioneria ne sanno qualcosa.

Non solo i socialdemocratici tengono bottega sempre più fiorente malgrado le multiple insegne, ma sono i comunisti nominali che sono scesi totalmente al rango degli opportunisti, contro cui Lenin si batteva da leone, senza bisogno che gliene facesse titolo il terrore dei borghesi, allora più che fondato.

È fallito dunque il tentativo di contestare a don Ciccio e a don Arturo la solidissima affermazione che i loro cominformistici alleati di oggi sono non meno innocui per la libertà e la proprietà borghese di quello che fossero i vecchi socialisti, immersi nel bloccardismo al punto da suscitare indignazione classista perfino nei Prampolini e Zibordi.

A Nitti hanno detto: sei stato sempre antimarxista: ed egli tranquillo: i miei compagni di lista lo sono quanto me. Ed ha con ragione sostenuto che non vi è mezzo migliore per la difesa ed il consolidamento delle istituzioni. Con Lenin – vedete, Ansaldo, – si cercava la via migliore per fotterle.

A don Arturo hanno poi voluto, con una antologia dei suoi scritti, contestare di avere attaccato, e ingiuriato perfino, agli stalinisti, e soprattutto a proposito della loro famosa difesa dell’art. 7 dei patti col Vaticano, nel 1947.

Ma anche qui dal parallelo sulla coerenza è nientemeno che don Arturo ad uscir vincitore. Sono primati autentici della propaganda democrista e americista!

Ciò che scrisse egli nel 1947 è al solito gustoso e azzeccoso, trattandosi per lui di togliersi dai piedi uno dei tanti neofitelli di Stalin littori della cultura. Anticomunista la mia campagna? Dice Labriola. Ma che c’entra? Nessuno sa che cosa sia questo comunismo italiano; non la «messa insieme dei beni produttivi come la parola e il senso storico di essa suggerirebbero». Sotto correzione, don Arturo, per noi significa di più: insieme è avverbio ben trovato, ma deve riferirsi alla società, non a gruppi di produttori; e i soli beni produttivi non bastano, ma occorrono anche i beni di consumo, spogli del profilo di merci. Farebbe più frutto discorrer di comunismo con voi che con un togliattista, bella anche la vostra frase «un rifacimento dell’industria secondo la specie statale, ossia poliziesca e burocratica». Ma non ci facciamo incantare!

La continuità alla data 1947 emerge da questo passo: «Appunto sostengo che di comunista, nel partito idem, c’è appena un aggettivo. Togliattiano, moscovita, valeriano od audisiesco, come si vuole: comunista no».

Carte in tutta regola. Per la stessa ragione per cui i borghesi napoletani potevano bloccare senza paura con gli Altobelli e Lucci, quelli di oggi come Labriola (Ansaldo lo classifica tale) lo possono con le liste del P.C.I. e del P.S.I.

Don Arturo si liberava dei suoi contraddittori di cinque anni fa dicendo di essersi stancato di citare Marx a chi se ne sciacqua la bocca e lo ignora.

Il Marx che piace a don Arturo è quello che più detesta don Ciccio. Da un secolo di Marx ce ne hanno ammanniti, conditi in tutte le salse, e noi ce ne stiamo a quello senza contorno e senza chiose. Questione di solido stomaco. Al professore partenopeo Marx piacque talmudico anziché no, il Marx della «Judenfrage» in cui era chiarissima, ma non ancora esplicita, la esecuzione capitale dell’io, della persona, dell’individuo, colle sue prurigini di suffragio, di gestione della economia, e di soppesamento degli eterni valori. La forma di quelle citazioni consente al Labriola di difendere la sua traiettoria al volontarismo e al liberalismo che ha nel sangue e che lo hanno condotto a tante evoluzioni, meritandogli tutti gli epiteti, ma non quello di asino.

Don Ciccio prende invece da Marx proprio la demolizione di ogni valore fondato sulle vibrazioni dello spirito e sulla arcana plasmatura della realtà da parte del pensiero. Si racconta del primo: fu per tutte le guerre. Vanta il secondo: fui contro tutte le guerre. O dialettica!

Edotti entrambi di quanto risulta di solido, e non inzallanuti né l’uno né l’altro, siglano in modo inappellabile una chiusura di conti ben verificati. Rischio capitalistico nella alleanza con Stalin-Togliatti-Nenni: zero.

Troppo difficile per il proletariato italiano?

In Italia tutto è possibile sentire e deglutire, e le più strambe dissonanze ed assonanze sgorgano dagli amplificatori elettorali, senza più scuotere il passante.

Di che stupire?

Se auguriamo a tutti i summenzionati «valentuomini» una rapida «liquidazione» come categoria professionale politica, non ci vogliamo riferire (con frase dei testi a don Arturo rinfacciati) al «massacro individuale dei componenti».

Benché padre Dante cacci nel più fondo dell’inferno il traditore del proprio partito, e sia il solo dannato con cui egli si induce a «passare a vie di fatto» afferrandolo per i capelli per forzarlo a confessare il nome infamato, noi pensiamo che oggi, essendo il voltar gabbana fallo più comune, tutti coloro saranno destinati alla bolgia dei barattieri, all’altoparlante di Barbariccia.

Ivi fu scaraventato, per essere poi addentato dai ratti, un peccatore di Lucca, città in cui si trafficavano misure di Stato ed onori, ed ove era il vivente Bonturo il primatista dei barattieri.

«Tra cento anni», come nella gentil Partenope usa dire, sarà questa la televisione del loro arrivo, sull’omero del demonio.

«Del nostro ponte disse: o Malebranche,
ecco un degli anzian di Santa Zita.
Mettetel sotto, ch’io torno pur anche
a quella terra, che n’è ben fornita.
Cambia di fede ognun, fuor che l’Arturo;
del no, per l’elezion, vi si fa ita».


Source: «BattagliaComunista», n. 10 del 15–29 maggio 1952

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