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13 CONTRO 13, MA IN GARA DI SOCIALITÀ


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13 contro 13, ma in gara di socialità
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13 contro 13, ma in gara di socialità

Dalla stampa:
«Scandalo dei bottoni nell’esercito americano – Washington, 2 gennaio. – Si va profilando nei circoli dell’esercito americano uno scandalo piuttosto singolare, quello dei «bottoni dei pantaloni». Lo ha denunziato il rappresentante repubblicano dell’Oregon, Walter Norblad, in una lettera inviata al Ministero dell’Esercito. Norblad sostiene che, in seguito ad un inesplicabile disservizio, tutti i pantaloni confezionati per l’esercito americano sono stati consegnati muniti di bottoni per le bretelle. Invece, l’uso delle bretelle è espressamente vietato dai regolamenti militari in vigore negli Stati Uniti. Il Parlamentare Repubblicano valuta in dodici milioni il numero dei bottoni per pantaloni in tal modo inutilizzabili, ma che l’esercito dovrà ugualmente pagare ai fornitori (due milioni di pantaloni, ciascuno dei quali munito di sei bottoni)».

Non sarà questo lo scandalo che più fa fremere l’opinione democratica e il sovrano cittadino «middle in the road», l’uomo della strada, se tutta l’amministrazione statunitense ha dovuto essere messa sossopra e assoggettata ad una inchiesta generale per sottrazione di miliardi, se al fine di risanarla il capo di un grande Ente, come pure i giornali narrano, ha mandato ai suoi dipendenti una circolare che rammenta certi canoni tratti (ma guarda un po’!) «dal codice di onestà della destra storica italiana». Sono canoni di questo genere: all’impiegato statale è vietato, oltre che mettere le dita nel naso e il pennino in bocca,
«specialmente se investito dell’esame controllo o decisione di una pratica, accettare inviti a week end, favori, cortesie, doni, prestiti, da chiunque possa essere interessato».
La più grande scoperta in America, da Colombo in poi.

L’uomo di punta dell’opposizione americana repubblicana è il senatore McCarthy, detto il «mitragliere di coda», che ha lanciato non tanto la campagna dello scandalo contro la corruzione della vita pubblica, quanto quella del filocomunismo dei capi del governo. Come alla testa della Russia vi sono 13 membri del Politbureau, McCarthy sostiene che tutta l’America è in mano a 13 consiglieri di Truman, e fa un parallelo polemico tra Casa Bianca e Kremlino. Fu lui che attaccò Marshall in questo senso e che dové ritrattare, ed è lui che, quando parla del Segretario di Stato Acheson, il vero e proprio antimolotoff, lo definisce come un «damned Commie», un dannato comunista.

In quanti siamo, noi comunisti, nel mondo, by God! Altro che «ras, dva, trì, muì bolsceviki» come si cantava ai tempi di Lenin e dei suoi tre gatti. Sarà un’offesa tradurre: «uno, due, tre, noi bolscevichi»?

Non trascriveremo l’elenco dei tredici nomi del «trust dei cervelli» che dirige, con l’America, il mondo: oltre ai noti politici, diplomatici, e generali, dicono che ne fa parte come eminenza grigia un professore di filosofia, oltre ad un complesso di cultura enciclopedica che, non mollando Truman di un passo, supplisce la scarsa preparazione scolastica del Presidente, che da civile non andò oltre la gestione di un negozio di cravatte, ed affini.

Ciò tuttavia rende più grave l’errore fatto, non nel risolvere da parte del «brain trust» le equazioni trascendenti della fisica atomica, ma nel computo dei bottoni da pantaloni.

In mezzo al grandinare delle «smentite» che la storia avrebbe dato alle previsioni marxiste, in mezzo al vagolare delle poche elette intelligenze mondiali, come quella del nonagenario Bertrand Russell, tra le più strambe ipotesi: Stalin ha perduto fiducia nel comunismo e prepara la guerra – ovvero: Stalin, convinto che per il materialismo dialettico il capitalismo va in rovina da sé, ha deciso di non fare la guerra; noi poverini abbiamo solo da dire che la storia dei bottoni la sapevamo bene, da quando si frugava tra le sacre carte sotto la lucerna a petrolio.

Leggemmo infatti nella prefazione di Engels alla «Miseria della Filosofia» di Marx, e nella critica alla teoria di Rodbertus sulla soluzione di ogni anarchia produttiva mediante il «buono di lavoro» sostituito al salario in moneta, queste… profetiche parole.

«E se poi chiediamo quale garanzia vi sia che di ogni articolo venga prodotta la quantità necessaria e non di più, che non si venga a mancare né di grano né di carne, mentre magari si è schiacciati dallo zucchero di barbabietola e si nuota nell’acquavite di patate, che non ci manchino le mutande per coprire le nostre nudità [qui Don Federico fa il mattacchione] mentre magari i bottoni per le mutande pulluleranno a milioni…».

Questo capitalismo dai pretesi nuovi aspetti e inattesi fenomeni, si vede che Marx ed Engels lo sapevano piro - se gli hanno stabiliti i passi un secolo prima fino a quello della superproduzione dei bottoni, apparsa inesplicabile a quel fesso dell’Oregon!

Occorre tradurre, da lingua non altremontana, la frase «lo sapevano piro». Il contadino aveva un albero di pero sterile di frutto; lo recise e nel legno intagliò un crocefisso, cui rivolse le più ardenti preghiere di buon raccolto. Ma l’annata fu rovinosa e il poveraccio apostrofò il Cristo di legno:
«te saccio piro, e manco frutti me davi!».

Ieri

Se l’esercito americano fosse fatto di donne vedremmo lo scandalo di fornitura di milioni di spalline per i costumi da bagno (e per gli abiti da sera) malgrado che i regolamenti della moda abbiano abolite da tempo le spalline e bretelle femminili per ogni indumento, come per le uniformi militari. Si vede che lì si provvede con (saluto al Duce!) la cinta agli ultimi buchi.

Insomma è la vecchia questione: l’economia capitalista vanta di aver sostituito le sue sacre leggi alla ci-devant provvidenza delle statue di legno di pero: e sono a volta a volta la concorrenza, l’iniziativa, la saggia amministrazione centrale degli affari, democraticamente eletta. Ma l’attesa prosperità non si vede arrivare, malgrado l’esaltazione delle forze produttive espressa da fattori con filze di zeri.

E qui si dimostra tutta la sensibilità dei reggitori alla «questione sociale», ai problemi del benessere economico, alla «diminuzione delle distanze, tra i redditi individuali e familiari». Grandi borghesi e capitani d’industria e d’affari, come sfaccendati ideologi della piccola borghesia e dei medi ceti, al servizio dei primi, gareggiano nel «raccogliere le giuste istanze del socialismo proletario» nel campo di una illuminata «socialità». Che parola efficace! Ne abbiamo ammirato il rilancio, come diremo tra breve, nella Assemblea della italiana Confederazione dell’Industria.

Per uso interno od esterno, tutto ciò a cui hanno ridotto il comunismo ed il socialismo dei programmi marxisti e rivoluzionari quelli di Mosca, è la stessa scolorita socialità, sicché dentro e fuori cortina hanno le stesse consegne economiche, le stesse ricette per l’adeguamento di produzione e consumo, sforzo di lavoro e soddisfacimento di bisogni, nei quadri della pace universale delle vigenti costituzioni politiche, dell’ordine sociale.

Un poco più di prodotto del lavoro al proletario, un poco più di miraggio di ricchezza titolare al nullatenente: ecco il coro «socialitario» dei socialisti piccolo-borghesi e borghesi. Antisocialisti non se ne vedono più.

Ma anche questo «fenomeno» della storia è vecchio di un buon secolo.

Sotto la lampada fluorescente portiamo l’ingiallito «Manifesto». Come chi dicesse, l’abecedario.

«Il socialismo piccolo-borghese… In paesi come la Francia, dove la classe rurale forma più di metà della popolazione, era naturale che gli scrittori i quali scendevano in campo contro la borghesia a favore del proletariato applicassero nella loro critica del regime borghese la scala del piccolo borghese e del piccolo possidente contadino, e che pigliassero partito per gli operai dal punto di vista della piccola borghesia… Sismondi è il capo di questa letteratura non soltanto per la Francia, ma anche per l’Inghilterra».

Qui il «Manifesto» mostra che tale scuola analizzò genialmente quella che oggi piace dire la «prospettiva», di due secoli addietro. Sbagliò nel trarre le conclusioni, ossia pretese di «fermare» sulla china inesorabile il ciclo capitalista, mentre invece si doveva spingerlo verso l’abisso. Ebbene, le rivendicazioni di allora sono quelle dei ciarlatani di America e degli stalinisti… d’Italia. Lotta contro i monopoli, lotta per lo sminuzzamento della proprietà fondiaria, lotta per un diritto aziendale delle maestranze.

Nella pagina di Marx la «prospettiva» è data con una sintesi magnifica, ma lo sbaglio dialettico di vanamente arginarla è condannato per sempre.

«Questo socialismo anatomizzò molto acutamente le contraddizioni esistenti nei moderni rapporti di produzione. Esso mise a nudo gli eufemismi ipocriti degli economisti. Esso dimostrò in modo incontestabile gli effetti deleteri dell’introduzione delle macchine [nota in parentesi; gli stalinisti in Italia hanno recentemente preteso che nei lavori di riarginatura del Po non si usassero macchine per avere più impiego di manodopera, e dunque più profitto di imprese e più voti elettorali ai capi operai, e magari la nuova inondazione in primavera, con reiterato sfruttamento nei due sensi] e della divisione del lavoro, la concentrazione dei capitali e della proprietà fondiaria, la sovrapproduzione, le crisi, la rovina inevitabile dei piccoli borghesi e dei piccoli contadini [per il Sombart erano fessi e Sismondi e Marx], la miseria del proletariato, l’anarchia della produzione, le stridenti sproporzioni nella distribuzione della ricchezza, la guerra industriale di sterminio fra le nazioni, il dissolversi degli antichi costumi, degli antichi rapporti di famiglia, delle antiche nazionalità».

Ma una prospettiva giusta può bene accompagnarsi ad un programma insensato: scongiurare tutte quelle eventualità fermando, o capovolgendo la storia.

«Quanto al suo contenuto positivo, però, questo socialismo, o vuole ristabilire i vecchi mezzi di produzione e di scambio e con essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, oppure vuole per forza imprigionare di nuovo i moderni mezzi di produzione e di scambio nel quadro dei vecchi rapporti di proprietà che essi hanno spezzato e che non potevano non spezzare. In ambo i casi esso è a un tempo reazionario e utopistico. Le corporazioni della manifattura e l’economia patriarcale nell’agricoltura, queste sono le sue ultime parole. [Di Vittorio e Grieco: ecco gli ultimi suoi sacrestani]. Nella sua evoluzione ulteriore questa scuola finisce in un vile piagnisteo».

Se finirono di lì a poco le aspirazioni di evitare tutte le infamie dell’avanzante capitalismo col rifugiarsi nei meno negrieri istituti feudali, non per questo finì il «socialismo piccolo-borghese». Fondendosi col deteriore «socialismo borghese», di cui subito dopo nel «Manifesto», esso riprese a miagolare sulla istanza «socialitaria», facendo semplicemente gettito del suo aspetto e lato positivo: la geniale previsione che il capitalismo sarebbe stata l’epoca più sinistra della storia. Seguitò a chiedere proprietà parcellare e gestione cooperativa e associazioniste nell’industria, e disse una più grande bestialità storica; che fossero queste ibride forme compatibili col sistema capitalistico, e di lui più avanzate.

Passiamo infatti al:
«Socialismo conservatore o borghese. Parte della borghesia desidera di portar rimedio ai mali della società per assicurare l’esistenza della società borghese».

Rubiamo qui di passaggio al nostro oracolo la distinzione matematicamente data tra «socialità» e «socialismo» (propriamente detto).

Socialità: miglioramento delle condizioni sociali al fine di assicurare l’esistenza della società borghese.

Socialismo: distruzione della società borghese, al fine di assicurare il miglioramento delle condizioni sociali.

Al tempo di babbo Marx quella savia parte della società borghese chi comprendeva?
«gli economisti, i filantropi, gli umanitari, gli zelanti del miglioramento delle condizioni delle classi operaie, gli organizzatori della beneficenza, i membri delle società protettrici degli animali, i fondatori di società di temperanza e tutta la variopinta schiera dei minuti riformatori».

Ai tempi nostri aggiungiamo: i grandi industriali, i grandi finanzieri, gli uomini di governo loro mandatari, i loro organizzatori di Confederazioni, gli scienziati trustificati e foraggiati.

Marx sceglie Proudhon come caposcuola di questo falso socialismo apologeta dell’economia mercantile. Il paragrafo chiude così:
«Questo socialismo borghese raggiunge la sua più esatta espressione quando diventa semplice figura retorica. Libero commercio! nell’interesse della classe operaia; dazi protettivi! nell’interesse della classe operaia; carcere cellulare! nell’interesse della classe operaia… Il socialismo della borghesia consiste appunto nel sostenere che i borghesi sono borghesi… nell’interesse della classe operaia».

Oggi

Abbiamo trattato il tema attualissimo del parallelo tra capitalismo europeo ed americano. L’oligarchia statunitense manda dollari, manda armi, manda diplomatici e manda generali, ma nel contempo pretende il diritto di impartire lezioni alla vecchia borghesia di Europa. Questa ci «sforma» alquanto, ma per ragione di ventre ci sta. Non altrimenti gli aristocratici spiantati si adattavano storcendo la bocca nei salotti dell’alta borghesia, e erano costretti, per scroccare una cena o un credito, a sentirsi dettare dai nuovi parvenus le norme del «savoir faire».

Naturalmente in America un Socialismo alla Sismondi non poteva allignare, poiché rimpianti per la mai esistita società feudale non ve ne potevano essere. Alligna in pieno un socialismo alla Proudhon, che teorizza di un capitalismo zoofilo, per far dimenticare quanto è stato negriero.

Si è avuta giorni addietro, come abbiamo accennato, l’Assemblea della Confederazione della Industria Italiana. La stampa ha riportato il discorso del Presidente, Dott. Costa; rilevando che se non il più noto è forse l’uomo più potente in Italia. Anche Mussolini riceveva tenendo un tono minore, lo Stato Maggiore dell’Industria, ascoltava attento, e non «dittava».

Il discorso di Costa è abbastanza istruttivo. Ha detto che gli industriali italiani sono stati in America e hanno trovato da imparare sul piano tecnico, ed anche in quanto l’industriale americano ha una più alta socialità. Ha fatto tuttavia riserve sul piano economico, o meglio di politica-economica. L’industriale americano ha fatto tutto, quando ha risparmiato manodopera e materiali, ma noi abbiamo altra posizione ambientale. Che significa? È chiaro: si tratta di una differenza politica e sociale: non solo noi abbiamo molti disoccupati, ma abbiamo partiti turbolenti alla testa delle masse operaie, che gli americani non hanno. Questo fatto politico influisce, secondo Costa, sulle gestioni aziendali e quindi sui costi di produzione. Il caso è bello: l’industria americana batte l’italiana sul prezzo di vendita e tratta il suo operaio molto meglio. L’industria italiana si lamenta che non può ridurre il costo di produzione, per fare una politica di fronteggiamento alle agitazioni proletarie! Non sarebbe più serio ammettere che nel capitalismo internazionale, come nella camorra, vi sono gradi gerarchici, e che il camorrista più alto sfrutta con forti «tangenti» il camorrista in sottordine?

Certo, dice Costa, sono anche io keynesiano: basso costo di produzione significa alta produttività, alti redditi e buon impiego di unità produttive per creare maggiori ricchezze. Tutto andrebbe a quel Dio se non intervenissero i fattori umani: avarizia, presunzione (oh cielo! qui ci vorrebbe la strigliata di Marx a Proudhon sull’egoismo che rovina tutto) che agiscono nel senso di deformare le leggi economiche!

La legge economica capitalistica secondo il borghese è naturale: quella che non è naturale è la… natura umana.

Già nel 1848 al filisteo tedesco rispondemmo che non può capire la lotta tra l’interesse del borghese e quello del proletario chi si mette a difendere ipocritamente gli «interessi dell’essere umano, dell’uomo in generale, dell’uomo che non appartiene a nessuna classe, anzi che non appartiene neppure alla realtà, ma solo al cielo vaporoso della fantasia filosofica».

Ora, Costa, visto che i fatti smentiscono le sue leggi economiche pure, ricorre agli stessi argomenti dei pensatori, dei filosofi alla Russell & C. che discutendo di pace e di guerra e di epoca atomica dicono: tutto sarebbe così semplice, se non ci fossero certe pieghe belluine nella psicologia dell'uomo in generale. Oh che razza di bestia, l’uomo in generale!

Costa non può dire che l’algebra keynesiana: bassi costi, alti salari e alto consumo, in tanto può tornare a New York, in quanto non torna a Roma. Come la formula di Stalin è «socialismo in un solo paese», quella di Truman è «capitalismo in un solo paese», che frega tutti gli altri.

La formula nostra è quella di Marx e Lenin: socialismo mondiale, solo fregando il capitalismo mondiale.

Tutto quello che è economico è sociale, ha detto Costa. Ossia: se l’impresa di produzione dà alto profitto, è possibile trattare con maggiore socialità, di tipo americano, i dipendenti, gli operai e il popolo tutto. L’aggettivo economico non si definisce nel dizionario per: ciò che attiene al fatto produttivo degli oggetti e dei servizi utili all’uomo; ma invece per: ciò che permette premio dell’entrata sulla uscita, ciò che conduce a guadagno, profitto, reddito alto. Quando l’industria rende molto in un paese, il popolo è felice.

Noi siamo testoni e siamo rimasti a Marx, che capovolse tale tesi: Keynes e Costa sono per conto loro ancora più indietro, ad Adamo Smith.

Sia per uso italiano che per uso russo gli stalinisti sono alla stessa altezza; alta produttività del lavoro, alta redditibilità aziendale, benessere sociale e popolare.

Ma perché tutto possa andare così liscio, ossia aversi la felicità di cinquanta milioni di italiani traverso la riuscita delle speculazioni degli associati di Costa (72 mila ditte, con 2 300 000 dipendenti, facilmente riducibili ad una ventina di «bande» di alto bordo), bisognerebbe liberarsi, non della camorra delle superbande yankee (ad onor del vero Costa ha detto anche questo a mezzo tono, parlando di materie prime, dazi e campi) ma di quei tali fattori umani. Come dunque? Politica, filosofia, venite a soccorrere la candida, verginale economia pura!

Ci siamo: interviene lo Stato. Ci congratuliamo con la formulazione: lo Stato ne ha non il diritto, ma l’obbligo, non per alterare, ma per difendere le leggi naturali (la legge del profitto! del massimo profitto!) ed il suo intervento non deve limitare la libertà ma salvare la libertà da qualunque parte essa sia insidiata.

Ci siamo, alle verità marxiste: libertà del capitale di schiacciare il lavoro, come nel «Discorso sul libero scambio».

E come nella formula più volte da noi data: Il dirigismo economico di Stato non è che la massima garanzia della libera iniziativa privata capitalistica, e grande-capitalistica. Il Capitalismo di Stato non è soggezione del Capitale allo Stato, ma soggezione totale dello Stato al Capitale.

È dunque, Dott. Costa, in Italia la necessità ambientale questa: carcere cellulare, per la libertà delle naturali leggi economiche!

Un altro punto è istruttivo; ed è un vero ponte gettato alla Confederazione del Lavoro rossa, al suo «piano di investimenti»; è il punto fiscale. Noi capitalisti italiani siamo organizzati in forma di anonime, dice Costa, senza precisare se è l’eletto dei portatori di azioni o degli amministratori.

Non tutti i nostri guadagni sono distribuiti coi dividendi agli azionisti (che Dio ce ne guardi! sarebbe troppo antieconomico e antisociale) ma buona parte sono reimpiegati nell’azienda. Ora su questa parte di profitto sta bene che si paghi la ricchezza mobile, ma non si dovrebbe pagare l’imposta complementare sui redditi personali del capitalista. Lo Stato rinunzi a questa e vedrà maggiori investimenti di capitale, maggiore occupazione operaia e, vedi il bello, minori voti a Togliatti nelle prossime elezioni.

Siamo al famoso premio per ricompensa al valor civile, che il capitalista si merita con la sua «astinenza». Ove egli si pappi il suo profitto, come un signore del bel tempo antico nei balli di Palazzo Labia, allora sì giù colle tasse: prelevate una coppa di spumante da ogni bottiglia, e una perla da ogni decolleté. Ma se invece il capitalista adopera il suo guadagno a fondare altre aziende-galere che lo fanno dieci volte più ricco e potente, allora, o signore Stato, le tasse esigetele da quei poveri fessi che si arruoleranno a lavorare per lui.

• • •

La crisi americana del «venerdì nero», così bene illustrata da Trotsky contro le tesi delle smentite alla previsione marxista, è stata ricordata, a proposito dei moniti all’Europa dei vari Hoffman, anche in giornali conservatori: il crack, che si prolungò nei suoi effetti per quattro anni, produsse in un mese questi risultati: attività di affari scesa del 31 %; operai impiegati diminuiti del 25 %; paghe diminuite del 34,3 %; banche andate a gambe all’aria 1823! Qualcuno, Dott. Costa, aveva agito in modo antieconomico, ossia aveva sfruttato troppo poco; le leggi naturali erano state deformate dalla umana cattiveria, e si vendicavano.

E abbiamo letta questo finale di articolo:
«C’è un uomo nel lontano Kremlino che ha la mente bene aperta al significato delle cifre. Seduto alla grande scrivania, indulge al suo passatempo preferito: scrive cifre e schizza disegni su di un grande foglio; poi lo piega in due e scrive ancora; poi in quattro e così via. Io non lo so di sicuro, ma credo che talvolta schizza la caricatura di Truman. E sotto ci scrive: 1929».

Non sappiamo se la storiella del foglio di carta sia autentica, come non sappiamo se sia vera quella sui duecento milioni di stipendio di Stalin, che non avrebbe gran peso; se pure è significativo e storico che un altro ometto, Lenin, quando aumentarono di cento rubli il suo stipendio, amministrò all’incauto funzionario, formidabile, il classico «cazziatone».

Il foglio piegato in due, in quattro, in otto e via via può stare a dimostrare che la dose di comunismo nei piani del Kremlino decresce in progressione geometrica. Il Dott. Costa troverebbe però il metodo poco economico: scrivi, scrivi, metà della carta resta in questo modo sempre inutilizzata.

A noi piace una diversa storiella. Quando al Kremlino c’era un altro ometto seduto alla piccola scrivania nel piccolo quartierino, indulgeva talvolta al suo passatempo preferito. Scriveva su un foglio di carta: capitalismo mondiale. Poi, senza nulla piegare capovolgeva il foglio e vi scriveva sopra: Rivoluzione mondiale.

L’ometto è morto e tanti altri morranno, e poco vorrà dire che siano piccoli o grandi, illustri od ignoti.

La Storia volterà quella pagina.


Source: «Battaglia comunista» n. 2 del 1952

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