Il capitalismo e guerra - guerra al capitalismo!
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IL CAPITALISMO È GUERRA
GUERRA AL CAPITALISMO!
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Il capitalismo è guerra - guerra al capitalismo!
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Il capitalismo è guerra
guerra al capitalismo!
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I bombardamenti della Nato contro quello che è rimasto della Iugoslavia si susseguono ormai senza interruzioni da quasi tre settimane in un crescendo di intensità, anche se limitati per adesso alle sole armi aereo-navali.

Dopo gli obbiettivi militari, dopo le infrastrutture e i centri di direzione, le bombe si sono dirette sulle fabbriche, sui quartieri operai, seguendo una strategia usata massicciamente durante la II guerra mondiale. Contemporaneamente, con un'azione parallela, preordinata e forse coordinata, l'esercito iugoslavo, appoggiato da milizie irregolari, ha iniziato la «pulizia etnica» del Kosovo, cacciando la popolazione di origine albanese dai villaggi, bruciando le case, terrorizzando con arresti e esecuzioni sommarie.

Mentre il Kosovo brucia sotto i colpi dei cannoni serbi e delle bombe Nato, decine di migliaia di persone in fuga si sono rifugiate in Macedonia e soprattutto in Albania, turbando gli equilibri sociali su cui si reggono questi piccoli paesi.

La tragedia, ovvio, era stata prevista; le grida all'emergenza, con l'immancabile pelosa richiesta di «carità» per il soccorso ai profughi, fanno parte della propaganda di guerra e dimostrano il cinismo dei governi occidentali che con una mano bombardano e con l'altra offrono alle loro vittime un piatto di minestra. Una ben orchestrata campagna sulla «ferocia atavica» del nemico, serve, come in ogni conflitto, a convincere ad usare la stessa ferocia, a giustificare l'ulteriore intensificarsi della guerra.

Questo nuovo episodio della lotta per la spartizione del cadavere iugoslavo è diretta conseguenza della prima guerra iugoslava che ha portato alla formazione di Stati «etnici», Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina ed Ex Iugoslavia, per spezzare ogni possibilità di solidarietà di classe. Quella guerra si concluse con una «pace americana», come la definimmo, con gli accordi di Dayton che erano forieri di nuovi scontri, di una nuova guerra. Quasi due milioni di profughi, di tutte le etnie, cacciati dalle loro case e nell'impossibilità a farvi rientro, restavano infatti sistemati in immensi campi; il potere nei vari Staterelli consegnato ai peggiori arnesi del nazionalismo, pronti a porsi al servizio dei Grandi pur di mantenere un simulacro di potere.

La ferma volontà degli Stati Uniti di creare un «casus belli» per l'intervento diretto contro la Serbia è apparsa durante le trattative di Rambouillet: quei colloqui, lungi dal cercare un'impossibile soluzione pacifica all'intricata questione del Kosovo, dovevano servire al contrario a gettare la responsabilità della guerra sul governo iugoslavo. Lo stesso ministro Dini ha ammesso che i colloqui sono stati una trappola per la Iugoslavia che è stata messa al muro dalla possente macchina mediatica degli Usa e dei loro alleati.

II vero problema per gli Stati Uniti era infatti proprio quello degli alleati e Rambouillet è servita a stringere e a costringere tutti a dare l'assenso all'intervento Nato, rinunciando allo straccetto coprivergogne che nella guerra contro l'Iraq era stato rappresentato dall'ONU, stavolta incapace di approvare i bombardamenti dato che la Russia non avrebbe mai dato il suo benestare. I deboli balbettii di dissenso di alcuni sono stati spazzati via dal boato dei missili lanciati dalle navi della flotta statunitense in Adriatico.

Per togliere al governo iugoslavo ogni possibilità di trattativa, proprio durante i colloqui di Rambouillet la commissione d'arbitrato internazionale, controllata dagli USA, che doveva dare applicazione ad una parte degli accordi di Dayton, ha deciso di togliere ai serbi il controllo del corridoio di Brko, in Bosnia, unico legame tra i territori serbi di quello Stato, Pale da una parte e Banja Luka dall'altra; un vero atto di guerra, anche se passato in secondo piano.

Giustificare l'intervento, come in un primo momento ha fatto il segretario di Stato statunitense Albraith, con la motivazione che una buona strigliata a base di bombe avrebbe costretto Milosevic a più miti consigli, è assurdo. Il regime iugoslavo, come a suo tempo quello iracheno, con questa guerra si è indubbiamente rafforzato; la popolazione, costretta a subire i bombardamenti, ben difficilmente può resistere al richiamo nazionalista, lo stato di guerra permette inoltre, anche negli Stati più democratici, di sospendere ogni «libertà» individuale e di gruppo. Richiamati tutti gli uomini validi, sospesi gli scioperi e ogni manifestazione di ostilità al regime, mentre si rafforza la propaganda dei partiti nazionalisti e bellicisti e della Chiesa, sempre schierata con lo Stato.

A dimostrazione di questo il fatto è che centinaia di intellettuali e studenti di Belgrado si prestano ogni sera a fare da scudi umani sui ponti del Danubio per impedire agli aerei di abbatterli, mentre decine di operai della fabbrica Zastava sono stati gravemente feriti dallo scoppio di missili mentre cercavano, esponendosi direttamente, di impedire il bombardamento della «loro» fabbrica.

Nell'ultimo numero del giornale, uscito qualche giorno prima dell'inizio dei «raids», giudicavamo improbabile questa scelta di guerra, considerando che i soli bombardamenti, slegati da una occupazione dei territori con truppe di terra avrebbe forse potuto ottenere anche l'affondamento del regime di Milosevic, ma lasciando un vuoto di potere che avrebbe reso il controllo dell'area ancora più difficoltoso per le stesse forze imperialiste; d'altronde ipotizzare un'invasione della Iugoslavia con forze di terra poneva notevoli problemi logistici (si parlava allora di una forza di 40.000 uomini, oggi si parla di 200.000 addirittura), con la possibilità che la vittoria costasse troppo, nonostante la superiorità numerica e di armamento, con pericolose conseguenze sociali, in Europa ma anche negli stessi Stati Uniti.

Alla luce di queste valide considerazioni la scelta di Washington di ricorrere all'azione militare, ignorando le profferte russe per una trattativa e le indecisioni di buona parte degli alleati europei lascia pochi dubbi sulle reali intenzioni dei Signori del Mondo. Perso il loro predominio economico a livello mondiale, mantenuto per più di mezzo secolo, dal primo dopoguerra fino agli anni Ottanta, gli Stati Uniti vantano la loro incontrastata superiorità militare; abbiamo definito questa loro preponderanza «imperialismo delle portaerei», un imperialismo capace di proiettare, tramite appunto una formidabile flotta, la propria potenza militare in ogni parte del mondo e non solo sui territori confinanti dell'impero come era invece per il rivale russo. Washington vuole servirsi oggi di questa superiorità per impedire che i suoi avversari divengano minacciosi sul piano economico; recenti documenti ufficiali della Casa Bianca ribadiscono la volontà «di mantenere in Europa circa 100.000 militari per contribuire alla stabilità regionale, sostenere i nostri vitali legami transatlantici e conservare la leadership degli Stati Uniti nella Nato» e, per dare credito alle loro intenzioni, la spesa militare ha raggiunto nel 1999 i 280 miliardi di dollari (contro i 30 della Francia e i 26 della Germania) ed è previsto un suo costante aumento fino a raggiungere i 330 miliardi nel 2005.

Nella regione balcanica la Nato dispone di 30.000 uomini stanziati in Bosnia Erzegovina, di cui 8.000 statunitensi, di 12.000 in Macedonia e di altrettanti in Ungheria, nonostante il suo passaggio sotto la cappa della Nato sia recentissimo. La crisi in Kosovo ha permesso, in un colpo solo, di trasformare l'intera Albania in una immensa base per la Nato: proprio mentre scriviamo è giunta la notizia che il governo albanese (fragile vaso di coccio) ha messo a disposizione della Nato i porti, gli aeroporti, le basi militari ecc. senza alcun limite; presto vi si trasferirà un primo contingente di 8.000 uomini e 48 elicotteri apache; andranno ad aggiungersi alla costituenda forza che dovrebbe occupare il Kosovo.

Gli Stati uniti hanno dimostrato di volere fortemente l'intervento di terra e stanno lavorando per questo sia sul fronte interno sia nei confronti degli alleati; più restia l'Europa, che combatte sul suo territorio, che non ha più combattuto dopo la II Guerra Mondiale (con l'esclusione di Francia e Gran Bretagna), che non vuole inimicarsi la Russia, suo naturale partner economico.

La Russia, impotente a rispondere sul piano militare ad una azione che certamente punta anche al suo accerchiamento dopo l'estensione della Nato all'Ungheria, alla Repubblica Ceca e alla Polonia; prostrata dalla crisi economica, ha ricevuto dopo lunga attesa, nei primi giorni di bombardamenti, 8 miliardi di dollari dal FMI. Essa non può spingersi oltre le dichiarazioni di dissenso e un'intensa attività diplomatica rivolta soprattutto verso gli Stati europei per arrivare ad una soluzione negoziale. La flotta inviata in Adriatico, priva di copertura aerea, non sembra infatti rappresentare un pericolo per la ben più agguerrita flotta statunitense, anche se certamente rappresenta un aperto atto di solidarietà con Belgrado. Ben altra potrebbe essere la funzione dell'ancora possente armata russa se arrivasse un segnale da Berlino, ma la Germania che, al momento, partecipa alla spartizione del cadavere a fianco degli USA, non sembra dolersi più di tanto della sua posizione di secondo piano, pur di arraffare una parte della preda.

In questo scenario, che sicuramente avvicina il formarsi degli schieramenti per il terzo macello mondiale, il proletariato di tutti i paesi non ha da appoggiare alcuno dei fronti; in questa guerra non c'è da considerare chi sia l'aggressore e chi l'aggredito, da che parte stia il monopolio della ferocia, da quale parte il «diritto internazionale»; questa guerra è una guerra imperialistica su entrambi i fronti. Anche se a livelli diversi: da una parte l'imperialismo «da cortile di casa» dello Stato iugoslavo, (ma non si deve dimenticare che alle sue spalle c'è la Russia e la Cina), dall'altra l'arrogante imperialismo dei padroni del mondo con, a rimorchio, l'Europa.

La classe operaia non ha da scegliere uno dei due fronti; ha, come nel 1914, da organizzarsi per riuscire a contrapporre alla mobilitazione per la guerra imperialista la sua mobilitazione sul piano di classe; ha da mobilitarsi per ricostituire, nella dura lotta contro il regime del Capitale, i suoi organi di combattimento, un sindacato di classe, il partito comunista rivoluzionario e internazionale.

Source: «Il Partito Comunista», N.266, Aprile 1999

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