LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
[home] [content] [end] [search] [print]


MANIFESTO SULL’INTERNAZIONALISMO PROLETARIO


Content:

Manifesto sull’internazionalismo proletario
Internazionale e mondiale è il capitalismo, internazionale e mondiale sia la lotta proletaria anticapitalistica di classe
Il capitalismo non è riformabile!
Dai movimenti «antiglobalizzazione» vanno tirate delle lezioni
I proletari devono rialzare la testa, osare, rimettersi a lottare soltanto per gli interessi di classe che li accomunano in tutto il mondo
Source


Manifesto sull’internazionalismo proletario

Internazionale e mondiale è il capitalismo, internazionale e mondiale sia la lotta proletaria anticapitalistica di classe

Proletari,

Il capitalismo, per sua essenza, è un modo di produzione internazionale, che, nel suo incessante sviluppo, penetra in tutti gli anfratti anche lontani e isolati del globo. Il capitalismo nasce nazionale ma si è sviluppato, e si sviluppa, solo internazionalmente per la sua congenita tendenza globalizzante. Il periodo della «libera concorrenza» – il suo primo stadio di sviluppo in cui il capitale industriale conquista il mondo e fa da trampolino per lo sviluppo del capitale finanziario – è stato superato dallo stadio di sviluppo imperialistico, in cui il capitale finanziario domina su ogni altro capitale, industriale, agrario o commerciale, piccolo grande privato o pubblico che sia. Ed è lo stadio imperialista che svela il capitalismo in tutta la sua potenza che, storicamente, da rivoluzionaria dei primi albori, si è trasformata ormai da tempo in controrivoluzionaria. E tale trasformazione non è da ascrivere alla sua tendenza globalizzante – che invece è storicamente rivoluzionaria – quanto invece alla sua limitazione storica: il capitalismo non è in grado di risolvere una volta per tutte le sue contraddizioni, che invece acutizza sempre più, non è cioè in grado di superare se stesso. Superata una crisi, il capitalismo rigenera i fattori di crisi più estese e più acute. Oggi, nel suo stadio imperialista, gli interessi dei grandi Stati e dei grandi gruppi monopolisti hanno come scenario non solo e non più il proprio mercato nazionale, ma direttamente il mercato mondiale.

Alcune decine di migliaia di grandi trust, con base nei paesi capitalisticamente più avanzati (più numerosi nell’Europa occidentale che negli Stati Uniti d’America) e che dettano le direttive ai propri Stati nazionali, hanno nelle loro mani il destino dell’intero genere umano. I grandi monopoli, le grandi holding finanziarie, rappresentati dai grandi Stati imperialisti – Stati Uniti, Giappone, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, Canada, Russia – hanno elevato la «libera concorrenza» fra aziende nel mercato mondiale in concorrenza fra gigantesche oligarchie finanziarie internazionali, spostando, alzandolo, il livello dei contrasti dei rispettivi interessi globali. E non mancherà molto che a questi 8 paesi se ne aggiungerà un altro, la Cina che, se in una prospettiva economica vicina può rappresentare un grande mercato «nazionale» da invadere di merci di ogni tipo, nazionali ed estere, dando così ancora un po’ di respiro all’economia capitalistica in costante sovraproduzione, in una prospettiva non troppo lontana rappresenterà un altro polo imperialista concorrente di primaria importanza aumentando così gli elementi di crisi, di contrasto e di scontri alla scala mondiale.

Ciò che è cambiato dai primi decenni del Novecento non è il tipo di economia: si tratta sempre di capitalismo, solo sviluppato all’ennesima potenza. E gli interessi generali e obiettivi del capitalismo – in quanto modo di produzione, e società a sua immagine e utilità – sono fondamentalmente sempre gli stessi: accumulazione di capitale, produzione e riproduzione di capitale, contro ogni possibile ostacolo, economico, sociale, ambientale, culturale o militare che sia. La «globalizzazione» non è un nuovo e sconosciuto stadio di sviluppo del capitalismo, ma corrisponde al processo di sviluppo imperialista del capitalismo, che non è stato ancora interrotto e battuto dalla rivoluzione proletaria internazionale.

Il capitalismo non è riformabile!

Proletari,

Quel che è cambiato, dal secondo macello imperialistico mondiale, è lo scenario dei conflitti interimperialistici, in cui la vittoria militare degli Stati Uniti ha posto questo Stato, e i suoi monopoli, in una posizione di grandissimo vantaggio rispetto agli altri grandi Stati della terra. Uno scenario in cui, d’altra parte, per 45 lunghissimi anni, il mondo è stato spartito in due grandi zone d’influenza, in un condominio – russo-americano – che, se non ha impedito che alcune grandi e tenaci lotte anticoloniali avessero un certo successo nelle rispettive nazioni, ha senz'altro impedito la vera unica possibilità di effetiva lotta contro il potere del capitalismo sulla società: la lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato di ogni paese, unito aldisopra dei confini nazionali che ogni borghesia erige a difesa dei propri interessi specifici. E oggi, ad oltre un decennio dal crollo di questo condominio, con una Russia più debole economicamente ma sempre più integrata nel mercato mondiale ed una Cina che avanza a passi da gigante verso la stessa integrazione, lo scenario appare come se l’interesse generale dei paesi più industrializzati – veri padroni del mondo – fosse davvero quello di trovare continuamente un equilibrio fra di loro, del quale equilibrio dovrebbero beneficiare tutti i paesi del mondo, a partire da quelli più poveri e immiseriti! Non c’è menzogna più spudorata!

Il nuovo premier italiano, Silvio Berlusconi, a Göteborg, immediatamente seguito dal nuovo ministro degli esteri italiano Ruggero in vista del prossimo G8 di Genova, va cianciando che le preoccupazioni delle centinaia e centinaia di gruppi che contestano la potenza e la prepotenza dei grandi trust mondiali e dei loro Stati sono le stesse che hanno questi stessi Stati E questi stessi trust. Non ci crede nessuno! E allora quale risultato potrà mai avere il dialogo fra gli interessi delle oligarchie finanziarie internazionali e gli interessi di sopravvivenza e di sviluppo dei 150 paesi ridotti alla fame proprio a causa del dominio mondiale degli Stati capitalistici più avanzati e delle poche decine di migliaia di multinazionali difese strenuamente e a tutto campo da questi stessi Stati?

Come già in passato, anche oggi i gruppi che contestano la supremazia delle multinazionali (ma quasi sempre si dimenticano degli Stati che interpretano gli interessi capitalistici in termini diplomatici, economici, militari) rivendicano il diritto alla libera determinazione dei popoli, ad uno sviluppo economico non condizionato dagli interessi dei maggiori gruppi multinazionali, ad uno sviluppo «sostenibile» in un mercato «equo». Purtroppo, l’illusione di poter riformare il capitalismo dall’interno, smussandone le più spigolose contraddizioni attraverso la pressione di movimenti d’opinione, la mobilitazione delle coscienze in un quadro pacifista e interclassista, è dura da superare.

Ai giovani di oggi, purtroppo, i proletari più anziani – paralizzati da decenni di opportunismo interclassista – non hanno potuto trasmettere la tradizione classista del movimento operaio che metteva sempre in prima istanza la difesa degli interessi proletari, e la difesa attraverso una lotta che non si sognava minimamente di chiedere la carità al ricco padrone né tantomeno pretendeva di sedere da pari a pari nelle «stanze dei bottoni». La tradizione classista aveva chiaro il fatto che il nemico di classe principale – la borghesia dominante – avrebbe tentato tutte le strade, avrebbe usato ogni mezzo, dalla repressione aperta e brutale al dialogo, dalla trappola della partecipazione all’apertura democratica, dalla provocazione attraverso infiltrati alla deviazione riformista e collaborazionista, per ottenere il risultato per essa fondamentale: il controllo politico e sociale del proletariato.

Perché è vitale per ogni borghesia piegare il proletariato ai suoi interessi – quasi sempre mistificati e nascosti dal patriottismo, dalla solidarietà dei ricchi verso i poveri, dal democratico confronto e dalla convivenza pacifica? Per poter estorcere dal lavoro salariato quantità sempre più gigantesche di pluslavoro, dunque di plusvalore ossia i profitti che ogni capitalista intasca grazie allo sfruttamento sempre più intenso ed esteso del lavoro salariato, vera moderna schiavitù.

E questo sfruttamento, con lo sviluppo dell’imperialismo e della «globalizzazione» del capitale, è aumentato a dismisura, a tal punto che i pochi Stati capitalistici più avanzati hanno sottomesso i molti paesi capitalisticamente arretrati, e perciò poveri, riducendoli alla fame, alla disperazione, rendendoli completamente dipendenti dal mercato mondiale, dunque dagli interessi delle poche decine di migliaia di multinazionali che dominano appunto il mercato mondiale.

Il mercato è per il capitale – dunque per il denaro – come l’acqua per i pesci; senza mercato i capitali non circolano, non si riproducono, non potrebbero vivere. Ma nel mercato vincono i capitali più grandi, più forti, più competitivi e più difesi dai rispettivi Stati nazionali, attrezzati appositamente non solo con apparati politici ed economici complessi ma soprattutto con forze armate sempre più tecnologicamente all’altezza della concorrenza mondiale.

Credere che il mercato possa diventare «equo» e «solidale» grazie ad una decisione di buona volontà da parte dei grandi della terra, è come credere che il pesce più grosso rinunci a mangiare il pesce più piccolo. Le leggi del capitalismo non le ha inventate il capitalista; semmai è il capitalista ad essere un prodotto del capitalismo. I diversi modi di produzione che la società umana ha sviluppato nelle diverse ere storiche provengono da più o meno lente e complesse trasformazioni sociali e non da decisioni di capi, di qualche genio o di gruppi particolari di persone.

È per ragioni materiali e storiche, dunque, che il modo di produzione capitalistico – E quindi il mercato, il valore, il profitto, il denaro, lo sfruttamento del lavoro salariato – non possono essere piegati ad obiettivi sociali che non siano quelli, ed esclusivamentE quelli, che alimentano e sviluppano continuamente il capitalismo stesso, e perciò tutte le conseguenze che lo sviluppo capitalistico ha comportato e comporta: diseguaglianza fra uomini, fra nazioni e Stati, guerre, miseria crescente, fame e disperazione per la grandissima parte della popolazione mondiale, distruzione e tossicità ambientale ad elevatissima potenza.

Ed è per ragioni ben materiali e storicamente determinate che il capitalismo potrà essere superato per dar spazio ad una società effettivamente solidale e armoniosa – la società di specie, il comunismo – soltanto attraverso la lotta di classe internazionale dei proletariati di tutti i paesi, e principalmente dei proletariati dei paesi capitalistici più avanzati e attuali dominatori del mondo. La possibilità di cambiare il mondo non sta nella democrazia borghese, non sta nelle istituzioni benefiche o religiose, non sta nella «buona volontà» dei governanti, ma sta nella vigorosa e decisa lotta anticapitalistica che storicamente solo il proletariato moderno, il «popolo del lavoro salariato», può sviluppare attraverso la sua organizzazione indipendente di classe, il suo partito politico.

La via per battere le infamie del capitalismo sta nella ripresa della lotta proletaria, indipendente e di classe.

Proletari,

Essere contro lo strapotere delle multinazionali e soprattutto degli 8–9 Stati più potenti del mondo a difesa dei mille popoli oppressi, a difesa dell’ambiente e della vita sotto ogni cielo è un primo passo della critica allo statú quo, della resistenza alla pressione e alla oppressione del capitalismo sugli esseri umani. Ma i passi successivi, se indirizzati nella scia delle illusioni democratiche e riformiste, sono destinati al fallimento; un grande dispendio di energie votato a piegarsi prima o poi allo statú quo una volta che la spinta delle forti emozioni e dei sentimenti di solidarietà abbia perso l’abbrivio. E allora si dovrà assistere per l’ennesima volta al riflusso dei movimenti «anti-globalizzazione» come già rifluirono i movimenti sessantottini dell’«immaginazione al potere», o i movimenti antinuclearisti degli scorsi anni Settanta: la democrazia borghese, coi suoi mille espedienti, dei quali i movimenti di allora e di oggi sono alla fin fine prigionieri, riesce ad inghiottire tutto.

La via più difficile, ma più efficace, della resistenza anticapitalistica e della lotta contro ogni tipo di oppressione – delle multinazionali o delle aziende padronali di casa, degli Stati imperialisti fuori dei propri confini o del proprio Stato nazionale per quanto straccione, della borghesia del paese che ci colonizza finanziariamente o della propria borghesia più o meno al servizio di qualche potente della terra – è la via della lotta di classe: cioè la lotta che il proletariato organizzato produce a difesa dei suoi esclusivi interessi di classe, innanzitutto immediati E quindi più generali e politici. Sono le condizioni materiali di lavoratori salariati esistenti in qualsiasi parte del pianeta che accomunano obiettivamente tutti i proletari del mondo! Perciò il grido del comunismo rivoluzionario fin dalle sue origini è stato: PROLETARI DI TUTTO IL MONDO, UNITEVI!

Ma dov’è oggi il proletariato? dove e come si organizza a difesa dei suoi interessi immediati e di classe?

Oggi il potere borghese, la sua supremazia, il suo dominio trovano davanti un infinito arcipelago di movimenti che contestano esattamentE quella supremazia, quel dominio e chiedono – chi cristianamente, chi con determinazione democratica, chi con atteggiamenti barricadieri – il diritto di manifestare proprio questa contestazione. Ma la sostanza delle rivendicazioni «anti-globalizzazione», per la maggior parte compatibili con il capitalismo anche se non in linea con l’arroganza dei grandi della terra, non sposta di un grammo il peso del Grande Capitale sulla società.

Oggi il potere borghese non si trova davanti il proletariato organizzato, il proletariato unito dalla lotta contro il capitale in ogni campo – da quello minimo sul posto di lavoro a quello più generale e politico sulle grandi questioni sociali –, non si trova di fronte il proletariato guidato dal suo partito rivoluzionario. Il proletariato è sparito dalla scena, non rappresenta il punto di riferimento e di forza dell’opposizione sociale al capitale e al potere borghese: sembra dissolto nel nulla, tanto da dare spazio alle più imbecilli teorie sull’avvenuta trasformazione della società divisa in classi in società «senza classi» pur dominando il capitale, il mercato, il profitto capitalistico, il lavoro salariato.

L’assenza del proletariato, in quanto classe organizzata in modo indipendente, dalla scena dei contrasti sociali determina la obiettiva «invasione di campo» da parte della piccola borghesia che, numerosa nei paesi capitalisticamente evoluti, svolge il ruolo di temporanea «protagonista» brandendo la bandiera dell’opposizione sociale e politica contro le esagerazioni del capitalismo e dei capitalisti, siano questi ultimi direttamente o meno al governo, contro i bersagli più individuabili come ad esempio le multinazionali.

Il proletariato, ancor oggi, è costretto nella zona d’ombra, non ha la «visibilità» che ad esempio gli attuali movimenti «anti-globalizzazione» spesso ottengono, non riesce a porre le proprie rivendicazioni in difesa delle condizioni di vita e di lavoro sul terreno della più elementare lotta anticapitalistica; sembra spacciato per sempre, cacciato in un angolo della storia. È purtroppo una tremenda realtà. La gravità dei danni che il collaborazionismo sindacale e politico dei sindacati tricolore e dei partiti falsamente socialisti o comunisti hanno portato all’indipendenza di classe, all’organizzazione proletaria classista anche solo a livello di difesa immediata, la si misura proprio quando in tempi di recessione economica o di crisi la classe dominante borghese passa alla politica direttamente antiproletaria, rimangiandosi una dopo l’altra le concessioni che la lotta proletaria aveva conquistato negli anni precedenti, senza nessuna seria e vigorosa resistenza operaia. E questo sta succedendo in tutti i paesi capitalistici avanzati. Più la concorrenza internazionale si fa acuta e più la borghesia di ogni singolo paese tende a spremere il proprio proletariato – e a stritolare il proletariato dei paesi più poveri – allo scopo di mantenere e difendere le proprie «quote di mercato», ossia i propri profitti. Ma di questo processo di compressione sociale non ne risente soltanto il proletariato in termini di disoccupazione, di miseria, di fame; ne risentono anche più o meno larghi strati della piccola borghesia che, in tempi di espansione economica, aveva approfittato a piene mani del tasso di sfruttamento che la grande borghesia esercita sul lavoro salariato, arricchendosi anch’essa ed elevandosi in prestigio sociale.

Ora, avanzando la recessione e la crisi economica – in Giappone è già brutalmente attuale – molti strati di piccola borghesia temono (e in parte vi sono già finiti) di precipitare nelle condizioni di vita proletarie, cioè di senza riserve, nelle condizioni di non poter pagare i debiti, di dover vivere alla giornata, di aver dovuto vendere tutto e andare a lavorare sotto padrone. Queste sono le condizioni materiali che spingono la piccola borghesia a ribellarsi al peggioramento delle sue specifiche condizioni di vita. Mentre in suoi ampi strati si è diffusa l’illusione di poter difendere meglio i propri privilegi sociali appoggiando i governi che appaiono più propensi a mitigare i colpi di scure sui loro introiti e sulla loro posizione sociale, in altri hanno ricominciato a far presa le idee di solidarietà, di carità, di legalità, di democrazia diretta. E nascono così i mille e mille gruppi, associazioni, circoli, centri sociali che si dedicano appunto alla difesa dei diritti, alla difesa dell’ambiente, ad aiutare gli immigrati, e i disperati prigionieri della droga o dell’alcool, nei paesi opulenti o in Africa, in America Latina o in Asia.

L’«anti-globalizzazione» per gran parte degli attuali movimenti rappresenta un denominatore comune, che in qualche misura li raduna su un ipotetico «fronte» contro le più odiose «inciviltà» dei potenti della terra, contro l’arroganza delle multinazionali e contro la democrazia «dimezzata» dei poteri borghesi, contro l’osceno utilizzo delle risorse del pianeta e ambientali da parte degli imprenditori d’assalto e contro il malaffare costante dei politici al potere. Un «fronte» che non mette in discussione – e non può metterle, date le sue origini e la sua composizione – le basi stesse di quella «inciviltà», le basi produttive di questa società borghese, il suo modo di produzione che spinge all’ennesima potenza il capitale, la sua produzione e riproduzione, la sua accumulazione e la sua valorizzazione, che spinge le aziende che si fanno concorrenza sul mercato a coalizzarsi, fondersi e concentrare in dosi sempre più massicce i propri capitali, fino appunto a costituire i trust, le famosissime multinazionali, in un processo che si ripete in continuazione.

Esiste solo un movimento che ha messo e metterà in discussione le stesse basi dell’orrore capitalistico, ed è il movimento proletario di classe, il movimento del comunismo rivoluzionario rappresentato storicamente da Marx ed Engels e da Lenin e non certamente da Stalin, Mao Tse-tung, Castro o Che Guevara, né tantomeno dai Toni Negri o dai movimentisti di oggi.

Dai movimenti «antiglobalizzazione» vanno tirate delle lezioni

Proletari,

Nonostante i loro limiti, i movimenti «antiglobalizzazione», che sono movimenti reali, ma ideologicamente e, quasi tutti, anche praticamente prigionieri della democrazia borghese e dei suoi apparati – governativi o non governativi che siano –, mettono in evidenza alcuni aspetti del potere capitalistico che devono far riflettere e devono portare i proletari a riconoscere in se stessi e nella propria nascosta forza sociale la chiave della lotta contro il capitalismo.

Prima di tutto si rende evidente a tutti che i grandi della terra, 8, 9 o 10 che siano, non hanno mai chiesto, non chiedono e non chiederanno mai a nessuno se è loro diritto o no prendere decisioni che coinvolgono tutti i paesi del mondo: la ragione del «diritto» sta nella forza, e più questa forza è concentrata ed armata e più quel «diritto» viene imposto, piaccia o non piaccia ai democratici più convinti. Dunque, prima lezione: è la forza organizzata, in associazioni, in partiti, in apparati statali, che determina il corso della storia, ed è con la forza che si impongono i diritti.

In secondo luogo, emerge chiaro a tutti che gli interessi specifici dei più grandi e potenti gruppi multinazionali e imperialistici del mondo, sono gli interessi che primeggiano su tutti gli altri. Gli Stati borghesi sono sempre più il «comitato d’affari dei capitalisti» di cui difendono gli interessi; gli Stati imperialisti più potenti e dominatori del mercato mondiale dettano con la forza della loro potenza economica, finanziaria e militare le condizioni di partecipazione al mercato mondiale di tutti gli altri paesi, aumentando quindi la pressione e l’oppressione imperialistica su tutte le popolazioni del mondo, proletarizzando via via sempre più larghe masse di contadini espulsi dalle loro campagne e dalle loro attività, ed aumentando nello stesso tempo il tasso di sfruttamento di un proletariato che si evidenzia sempre più come massa salariata mondiale.

In terzo luogo, risulta chiaro anche al più distratto, che i grandi della terra, più si sviluppa l’economia capitalistica, più si sviluppano gli elementi di crisi e di contrasto fra gli stessi grandi imperialismi, e più essi hanno bisogno di riunirsi sempre più frequentemente e ad ogni livello istituzionale non solo per monitorare l’andamento dell’economia mondiale e dell’economia di ogni paese, ma soprattutto per tentare di trovare di volta in volta quegli accordi attraverso i quali difendere meglio i propri interessi nazionali specifici in un mercato mondiale che in realtà – come da sempre sostenuto dal marxismo – non è per nulla facilmente governabile. Nel mercato mondiale, anzi, la congenita anarchia del mercato capitalistico dei primordi non fa che ingigantire – parallelamente allo sviluppo iperfolle della produzione capitalistica – le sue brutali conseguenze. Ma le riunioni dei grandi della terra hanno allo stesso tempo bisogno di «serenità», di «tranquillità», di «sicurezza» perché in quegli incontri vengono decise cose anche molto importanti per i destini della tale o tal altra holding, della tale o tal altra economia nazionale, della tale o tal altra alleanza. I capitalisti vogliono essere lasciati in pace nel loro gran lavorio a difesa dei propri giganteschi profitti, e giungono a militarizzare le città nellE quali decidono di incontrarsi – come a Genova – se i movimenti sociali che li contestano osano «disobbedire»; e ad usare poliziotti ben armati – come a Göteborg – pronti anche a sparare ad altezza d’uomo sE questi pensano di essere «sopraffatti» dai manifestanti. Per una volta ancora, è dimostrato che la forza, e la forza armata, decide chi ha «diritto» a riunirsi e decidere sui destini del mondo (i grandi della terra) e chi no (i gruppi di contestatori).

In quarto luogo, il rinnovarsi del giochetto del dialogo e della militarizzazione delle città, rivela per l’ennesima volta che la borghesia dominante non si limita ad usare il solito metodo della carota e del bastone, ma tende costantemente a diffondere l’idea che ogni contestazione del suo potere e dei suoi interessi è «accettabile» solo se recintata nei confini da lei stessa definiti, ed è «inacettabile» se la protesta sociale supera quei confini. La tolleranza democratica, quindi, tende a restringersi, ed ogni movimento che non sta alle regole imposte di volta in volta dal potere borghese viene considerato appunto «irregolare», sospettato di ideologia ed azioni violente, insomma criminalizzato. La democrazia borghese rivela così l’altra sua faccia, quella più vera: le regole democratiche scritte non hanno valore se non quando vengono interpretate direttamente dai rappresentanti del potere borghese. Chi le interpreta «liberamente» o «alla lettera» rischia di trovarsi fuori dei confini delle regole democratiche imposte dal potere borghese e perciò nella condizione di essere perseguito, nel caso bastonato, arrestato o sparato, dalle forze dell’ordine – dell’ordine borghese appunto.

In quinto luogo, la protesta sociale contro le conseguenze più brutali del dominio capitalistico sulla società dimostra una volta di più che il capitalismo – in quanto modo di produzione, potere politico e società – non possiede al suo interno la possibilità concreta di trasformarsi in un altro modo di produzione, in altro potere politico E quindi in un’altra società. Tale impossibilità non risiede nell’arroganza delle multinazionali, nell’inciviltà degli imprenditori d’assalto, nella mancanza di coscienza di uomini di cattiva volontà, nelle idee di superiorità razziale o religiosa dei popoli, ma risiede nelle basi economiche del capitalismo stesso. Capitale e lavoro salariato sono le due forze produttive basilari della società borghese; il capitale domina la società, e perciò la classe borghese, quella che detiene la proprietà privata del capitale, è la classe dominante; il lavoro salariato è la fonte principale della ricchezza sociale, e fornisce ai capitalisti, dato il loro dominio sulla società, la sorgente dei loro profitti che è rappresentata dal pluslavoro, dal tempo di lavoro non pagato ai lavoratori salariati e che si trasforma in plusvalore, estorto ai lavoratori salariati direttamente nella loro attività produttiva quotidiana, giorno per giorno. Il capitale non può che riprodurre le condizioni della sua crescita, della sua riproduzione. Crescendo sempre più il suo sviluppo, aumentano in proporzione le conseguenze disastrose ormai note a tutti: ricchezza da un lato, povertà, miseria, morte dall’altro. E non c’è forza al mondo che sia in grado di deviarne il tragico corso; non c’è riuscito il liberalismo, non c’è riuscito il riformismo, non ce l’ha fatta il falso comunismo sovietico o il più falso comunismo cinese.

Il capitalismo, pur andando periodicamente incontro a crisi sempre più acute e di dimensioni planetarie, e incontro a scontri di guerra sempre più estesi e distruttivi non si fermerà da solo e non esiste alcun movimento democratico, legalitario, pacifista che abbia la possibilità (ammesso e non concesso che lo voglia) di interromperne lo sviluppo. Di volta in volta possono essere trovati dei palliativi, delle «soluzioni» cosiddette «intermedie», quel «qualcosa che è meglio di niente», ma la realtà vera la si legge nel fatto che lo sviluppo del capitalismo mentre da un lato ingigantisce l’accumulo di ricchezza in poche mani e in pochi paesi dall’altro espande enormemente su 3/4 della popolazione mondiale la miseria, la fame, la morte. La forbice tra paesi industrializzati e capitalisticamente avanzati e paesi capitalisticamente arretrati, col passare dei decenni, si è allargata sempre più; e tenderà sempre più ad allargarsi. Il capitalismo non è riformabile, ma, come sosteneva Marx, va abbattuto e sostituito con un altro modo di produzione e un’altra società, un modo di produzione non di merci ma di beni d’uso e una società non mercantile ma di specie che abbia al centro gli uomini e i loro rapporti sociali e non il mercato.

In sesto luogo, i proletari devono tirare una lezione squisitamente politica dalla situazione che sta svolgendosi sotto i loro occhi.

Esiste nella società borghese di oggi, come in quella di ieri, una forza sociale in grado di opporsi con successo al dominio e alla strapotenza della borghesia dominante: questa forza risiede nel proletariato, ossia nell’unica classe di questa società che non ha nulla da guadagnare dal persistere del modo di produzione capitalistico, dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e dall’appropriazione privata dell’intera produzione sociale, o dallo sviluppo del capitale finanziario. Ma il proletariato, che storicamente è classe contrapposta alle classi borghesi e preborghesi, può concretamente diventare classe che agisce nella società alla sola condizione di separare i suoi destini, i suoi obiettivi, le sue rivendicazioni da quelli di tutte le altre classi della società; dunque di riconoscersi come classe distinta e contrapposta, organizzandosi in modo indipendente da ogni altra classe e ogni altro apparato o istituzione esistente, e mettendo in cima ai propri obiettivi immediati la difesa intransigente degli interessi esclusivamente proletari.

La lotta che il proletari necessariamente devono fare per poter semplicemente sopravvivere non può mai essere efficace se si limita alla sfera individuale, o se viene condizionata dalle esigenze economiche dell’azienda in cui vengono sfruttati o dalle esigenze di pace sociale che la borghesia mette costantemente avanti per poter meglio dedicarsi alla difesa e allo sviluppo de propri profitti. La lotta proletaria ha la possibilità di ottenere dei risultati e di estendersi nelle file proletarie alla condizione di unire concretamente i proletari nella difesa dei comuni interessi immediati e di svolgersi con mezzi e metodi classisti, cioè che non dipendano dalla difesa degli interessi padronali e degli interessi… del paese.

E la solidarietà fra proletari diventa un punto di forza in più nella lotta anticapitalistica nella misura in cui è una solidarietà di lotta, che contribuisce con atti concreti alla miglior difesa della stessa lotta.

I proletari devono rialzare la testa, osare, rimettersi a lottare soltanto per gli interessi di classe che li accomunano in tutto il mondo

Proletari,

Porsi i problemi dell’Aids in Africa, della fame nei paesi poveri, dell’alta mortalità dei bambini nei paesi del Sud del mondo, dei milioni di profughi dalle mille guerre che punteggiano il globo, dei disastri ambientali sempre più numerosi provocati dal selvaggio assalto alle risorse del pianeta e dalla sempre più acuta concorrenza capitalistica nella competitività del mercato, in tempi in cui lo sviluppo tecnologico dà la possibilità di informazione da ogni angolo del mondo, è un fatto logico e solo l’estesa insensibilità per la sorte degli uomini su questa terra tiene lontano da questi problemi larghi strati di popolazione dei paesi opulenti. Ma anche l’informazione che giunge attraverso la tv, la radio, i giornali, e oggi anche attraverso internet, è in mano alla classe dominante che la dirige, la confeziona, la distribuisce, la controlla, la nasconde, la elimina, a seconda dei suoi interessi di propaganda. E, vista la sostanziale inefficacia – dal punto di vista della soluzione di quei problemi – dei movimenti che si occupano con più o meno dedizione dei problemi sopra ricordati, non abbiamo dubbi sul fatto che la classe borghese dominante ha tutto l’interesse che ci si preoccupi della fame nel mondo piuttosto che della concreta lotta operaia in difesa delle condizioni di vita e di lavoro nelle galere capitalistiche. Perché solo questa concreta lotta operaia può effettivamente essere portatrice di un movimento sociale concretamente anticapitalistico e antiborghese.

Ciò che interessa alla classe borghese è che si stia lontani dal terreno della effettiva e aperta lotta fra le classi, sul quale terreno soltanto si può sviluppare il movimento sociale della concreta ed efficace opposizione alla pressione e allo strapotere del capitalismo. Quindi, dato che le contraddizioni del capitalismo sviluppano comunque dei movimenti di protesta e in qualche modo antagonisti allo statú quo, le classi borghesi preferiscono di gran lunga dover fronteggiare movimenti comE quelli dell’«antiglobalizzazione» che chiedono più democrazia, più equità sociale, più attenzione verso i poveri e meno assalto selvaggio delle multinazionali che in ogni angolo della terra cercano di trarre più profitti possibile in tempi sempre più veloci, piuttosto che avere a che fare con un altro tipo di protesta, un altro tipo di antagonismo, quello appunto proletario e classista. Perché? Perché i movimenti d’opinione, e i movimenti democratici, anche se agiscono attraverso azioni violente, sono sempre prima o poi recuperabili, come hanno ampiamente dimostrato i movimenti della contestazione del '68, e i movimenti della lotta armata degli anni Settanta, le Brigate Rosse in primo luogo. Mentre il movimento indipendente di classe del proletariato, come hanno dimostrato le lotte rivoluzionarie a partire dal giugno del 1848 in tutte le principali capitali europee e dalla Comune di Parigi per giungere alla rivoluzione bolscevica dell’Ottobre 1917, non è per nulla recuperabile: per vincerlo la borghesia democratica ha dovuto utilizzare non solo le armi della propaganda, della corruzione economica, del tradimento dei capi proletari, ma ha dovuto passare per le armi milioni di proletari, vera ecatombe sempre dimenticata dai media e dai professori.

Si dirà: ma tutto questo è successo tanto tempo fa, oggi le cose sono cambiate, c’è più democrazia, c’è più cultura, ci sono più mezzi a disposizione, c’è internet!

Niente di più illusorio! Le multinazionali, al pari di ogni capitalista, traggono i loro giganteschi profitti sempre dalla stessa fonte: dallo sfruttamento del lavoro salariato, dunque dall’estorsione del plusvalore dal tempo di lavoro che non viene pagato al lavoratore salariato! I profitti capitalistici, la ricchezza capitalistica, provengono da questa vera e propria miniera! E fino a quando le classi borghesi riusciranno a mantenere il dominio non solo economico, ma politico, ideologico e militare sul proletariato di tutto il mondo, quella miniera apparirà come «inesauribile».

Qui sta il punto. La ricchezza accumulata dalle classi dominanti borghesi in duecento anni di capitalismo è talmente vasta che, appunto nello stadio imperialista dello sviluppo capitalistico, il giro d’affari di una sola delle grandi holding finanziarie multinazionali è superiore al prodotto interno lordo di un grande numero di paesi della cosiddetta periferia capitalistica. È grazie al possesso di questa gigantesca ricchezza che le classi borghesi tengono in pugno gli Stati e il mondo. Ma se la ricchezza capitalistica dipende così fortemente dal lavoro salariato, vuol dire che il proletariato che rappresenta il lavoro salariato in tutto il mondo ha obiettivamente in mano la possibilità di interrompere il flusso di profitti nelle tasche dei capitalisti: in modo temporaneo, ad esempio con lo sciopero, attraverso il quale si possono ottenere dei risultati parziali se lo si attua in modo molto duro – classista, appunto –, ma non si rovescia ancora la situazione a favore delle classi salariate; o in modo molto più profondo e decisivo come nel caso della lotta di classe portata fino al livello della lotta rivoluzionaria per conquistare il potere politico, rovesciando praticamente il potere dittatoriale della borghesia e instaurando al suo posto il potere dittatoriale del proletariato.

È questo il vero spettro per ogni classe borghese di questo mondo: trovarsi di fronte, come nel 1871 a Parigi o nel 1917 a Mosca e a Pietroburgo, il proletariato rivoluzionario che ha accettato lo scontro, deciso ad andare fino in fondo, guidato dal suo partito di classe.

La borghesia dominante, abituata da duecento anni di dittatura capitalistica sulla società, sa che il metodo più efficace per ottenere il più largo consenso nelle masse popolari è quello democratico. Lo ha sperimentato più volte, ma sa anche che le contraddizioni che sorgono continuamente dalla sua stessa società mettono e metteranno in movimento i diversi strati sociali e non solo la classe proletaria. La frenesia e l’ingordigia che il capitalismo sviluppato mette ai propri rappresentanti borghesi sono tali che, in determinate situazioni, anche non in presenza di un vero pericolo rivoluzionario da parte del proletariato – come fu negli anni del primo dopoguerra in cui in Italia si impose il fascismo e in Germania il nazismo –, il controllo sociale col metodo democratico non garantirebbe tempi e modi di arricchimento capitalistico e perciò il metodo da usare è quello più diretto della dittatura aperta e militare – come in America Latina, in Africa, nel Vicino e nell’estremo Oriente, e come al tempo dei colonnelli in Grecia o di Franco in Spagna. In ogni caso, l’obiettivo sociale è fondamentalmente sempre lo stesso: controllo sociale e sottomissione del proletariato, a tutto beneficio della grande fabbrica di profitti che è il capitalismo.

Democrazia, quindi, a dosi massicce, e soprattutto in termini di ideologia e di propaganda; ma non è esclusa la repressione, la dittatura militare, il metodo fascista, a seconda della situazione che si crea nel rapporto di forze fra le classi principali della società, fra borghesia e proletariato. E che le democrazie postseconda guerra mondiale (cosiddette «anti-fasciste») si siano progressivamente «fascistizzate» è dimostrato da tutta una serie di fatti: la concentrazione sempre più marcata dei capitali, la sempre più evidente impotenza delle istituzioni democratiche di fronte alla potenza economica dei grandi gruppi industriali e bancari, e delle grandi multinazionali, la progressiva militarizzazione del territorio, il processo di integrazione dei grandi sindacati nello Stato, il collaborazionismo interclassista a tutti i livelli e su tutti i terreni. E più si procede verso tempi di dura concorrenza sul mercato mondiale, più i caratteri della democrazia blindata svelano la realtà della dittatura della classe borghese dominante.

È il proletariato, per la sua condizione di senza riserve e di produttore della ricchezza sociale, per la sua condizione di classe storicamente antagonista alla classe borghese per interessi non solo storici ma anche immediati, per la sua presenza in tutti i paesi del mondo, per la sua tradizione classista e rivoluzionaria; è il proletariato l’unica classe sociale che possiede ciò che nessun’altra classe possiede: il programma rivoluzionario, i fini storici che superano ogni società divisa in classi, e in particolare l’ultima di queste, la società borghese, la dottrina marxista del socialismo scientifico che non si limita a «spiegare» come funziona veramente il capitalismo, ma soprattutto spiega dove lo sviluppo del capitalismo conduce, e perché. Questo programma rivoluzionario, questa dottrina del socialismo scientifico, e la tradizione classista del movimento operaio e del movimento comunista, fanno da base al partito di classe del proletariato, senza il quale partito il proletariato non avrà alcuna possibilità storica di vincere la guerra di classe contro la borghesia.

Ma il partito di classe non incontrerà mai il proletariato sE questi non si desta dal torpore pluridecennale che lo annichilisce, se non si sbarazza delle incrostazioni democratiche e collaborazioniste che lo tengono ostaggio del potere borghese da decenni, se non torna ad agire come classe che prende nelle proprie mani le proprie sorti e si riorganizza sul terreno della lotta di classe, sul terreno dei dichiarati antagonismi di classe fra proletari e borghesi, sul terreno dell’indipendenza politica e pratica dagli apparati interclassisti utili esclusivamente alla difesa della conservazione sociale, e perciò alla borghesia dominante.

Proletari,

dovete ritrovare il coraggio di osare: dire no alle esigenze aziendali, dire no al primeggiare delle esigenze del mercato, dire no ai ricatti sul posto di lavoro e sul salario, dire no alle trattative che non mettano in primissimo piano la difesa del salario e la riduzione della giornata lavorativa, dire no alle sperequazioni fra lavoratori immigrati e lavoratori autoctoni, dire no ad ogni sopruso dei capi e capetti, padroni o padroncini, dire no al collaborazionismo col padrone e con le istituzioni borghesi.

Proletari,

il vostro avvenire è soltanto nelle vostre mani: dovete trovare il coraggio di rialzare la testa e riprendere la via della lotta classista sbarazzandovi delle illusioni riformiste, gradualiste, collaborazioniste, pacifiste che in tutti questi anni vi hanno impedito di guardare in faccia la realtà: nessun industriale, nessun potente, nessun governo borghese, nessun parlamento democratico, nessuna istituzione borghese nazionale o sovranazionale hanno fatto, fanno o faranno qualcosa di determinante a favore delle vostre condizioni di vita!

Ogni miglioramento anche minimo, ogni attenuazione del peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, sono il risultato della vostra lotta. È la lotta dei proletari nei decenni precedenti che ha ottenuto tutta la serie di miglioramenti a livello salariale, normativo, previdenziale, sanitario, pensionistico che oggi la classe borghese si sta rimangiando pezzo a pezzo. Ed è attraverso l’associazione economica classista, come la CGL dei primi due decenni del Novecento, che i proletari hanno sviluppato la propria difesa organizzata e la propria solidarietà di classe, ciò che invece la degenerazione riformista e collaborazionista ha distrutto consegnando alla borghesia la classe proletaria completamente inerme e demoralizzata.

Il salario, prima ancora del posto di lavoro, deve ridiventare la prima rivendicazione per la quale lottare. La riduzione drastica della giornata di lavoro e il conseguente rifiuto degli straordinari, devono diventare le altre rivendicazioni base della lotta immediata di tutti i proletari. La lotta contro ogni discriminazione salariale e normativa tra operai autoctoni ed operai extracomunitari, deve caratterizzare la solidarietà proletaria. La lotta contro ogni sopruso, in fabbrica e nella vita quotidiana, deve ridiventare l’anello politico che congiunge la lotta immediata alla lotta più generale del proletariato contro i capitalisti e i loro apparati di potere.

Se i proletari non cominceranno a lottare nuovamente su questo terreno, non avranno nessuna possibilità di lottare seriamente per obiettivi più importanti, di livello meno immediato e più politico. Lottare, ad esempio, contro lo strapotere delle multinazionali, contro lo sfruttamento bestiale che attuano nei confronti dei proletari dei paesi più arretrati, contro i disastri ambientali, contro le produzioni estremamente nocive sempre più trasferite nei paesi più poveri, potrà diventarE qualcosa di concreto ed efficace, anche per i proletari di quei paesi, alla sola condizione che i proletari dei paesi capitalistici avanzati abbiano raggiunto quel livello di organizzazione classista e di tensione di lotta in grado di obbligare i vertici delle multinazionali a concedere ai proletari dei paesi della periferia capitalistica le stesse condizioni salariali e di lavoro concesse ai proletari della «casa madre». Questo è il contenuto della lotta di classe e della solidarietà di classe fra proletari di tutti i paesi del mondo. Ma, per ottenere un risultato del genere è necessario che i proletari dei nostri paesi imperialisti, ricchi, opulenti, spreconi, non si facciano più piegare alle esclusive esigenze del «buon andamento dell’economia aziendale», della «competitività delle nostre merci», della «difesa degli interessi nazionali nel mercato mondiale», perché queste esigenze sono la via attraverso la quale passano proprio gli interessi del capitale, gli interessi delle grandi holding finanziarie e dei grandi gruppi multinazionali.

Essere concretamente e dal punto di vista proletario contro la «globalizzazione», intesa come acutizzazione dello sfruttamento capitalistico in tutti i paesi del mondo, maggiore nei paesi capitalisticamente arretrati, significa essere per la riorganizzazione classista del proletariato sul terreno della difesa delle condizioni di vita e di lavoro prima di tutto in «casa propria», dunque agire nel senso di organizzare la lotta proletaria prima di tutto contro la «propria» borghesia, contro i «propri» padroni, contro i «propri» governanti. E già questo obiettivo, data la voragine aperta dal collaborazionismo nella tradizione di lotta del proletariato, è da considerare come un grande e difficile traguardo. I comunisti rivoluzionari, lontano da ogni illusione democratrica e piccoloborghese, lavorano in questa direzione!

Il Partito Comunista Internazionale («Il Comunista»)


Source: Supplemento al nr. 75 de «Il Comunista». «IL COMUNISTA» – C.P. 10835 – I-20110 MILANO.

[top] [home] [mail] [search]