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L’IMPERIALISMO ITALIANO ALLA PROVA DEL «CASO ÖCALAN»


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L’imperialismo italiano alla prova del «caso Öcalan»
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L’imperialismo italiano alla prova del «caso Öcalan»

Da tempo sulle coste italiane sbarcano esiliati e profughi provenienti dai paesi capitalistici più arretrati del bacino mediterraneo. Ma di recente, in fuga dagli orrori della fame e delle guerre, stanno arrivando in Italia profughi dal Kosovo e dal Kurdistan.

Su carrette del mare che stanno a galla per miracolo, vessati dai trafficanti di profughi – scafisti o comandanti di navi – dopo l’arrivo di qualche migliaio di albanesi, è stata la volta di kosovari e di kurdi. Non potevano mancare le grida degli strati borghesi perbenisti all’ invasione! E non potevano mancare le ribadite richieste di controllo dell’ immigrazione e dell’ espulsione dei clandestini da parte di ampio arco politico. Prima il governo ulivista di Prodi, ora il governo di centrosinistra di D’Alema non hanno fatto che ribadire la posizione degli interessi dell’imperialismo italiano, e cioè che l’immigrazione è consentita, ma a numero chiuso – ad esempio non più di 38 000 persone – è del tutto regolamentata, salvo procedere alle sanatorie verso le persone di immigrazione precedente e abitanti il nostro italico suolo da un anno e più.

È anche capitato di leggere in qualche giornale che, data la bassissima natalità in Italia, gli immigrati erano da benedire visto che pensavan loro ad alzarne la percentuale.

Alla pari di ogni altro grande paese imperialista, anche l’Italia negli ultimi anni ha dovuto fare i conti con il problema dell’ immigrazione, e dell’ immigrazione clandestina in particolare. Non sono mancati, e non mancheranno certo, episodi sempre più frequenti di immigrati che, dopo essere stati taglieggiati dai trafficanti di profughi, vengono taglieggiati dai datori di lavoro (in nero), dai padroni di casa, dai negozianti. L’Italia, uno dei più ricchi paesi del mondo, costituisce per molti immigrati una meta importante perché quel che si può ricavare in qualche mese anche da un lavoraccio da bestie e in nero entro i nostri confini corrisponde ad una intera vita di lavoro nei paesi di provenienza. E la legislazione, non particolarmente dura ancora, appare agli occhi di molti immigrati più facile da aggirare. E così, lo stivale italico, da portaerei delle potenze occidentali in mezzo al mediterraneo, può trasformarsi per molti immigrati in un lembo di terra raggiungibile e in cui sostare per sopravvivere.

Per la classe dominante italiana, che nel proprio passato ha conosciuto fenomeni di forte emigrazione italiana all’estero – in Argentine e nel Sud America, negli Stati Uniti piuttosto che in Australia, o semplicemente in Svizzera o in Belgio – di fronte alla quale ben poche barriere furono alzate e che sentiva l’obbligo morale di difendere in qualche modo, si pone ora il problema contrario, quello di fare in modo che i paesi da cui provengono gli immigrati alzino le loro barriere; se del caso, come per l’Albania, essa è disposta a portarsi direttamente sul luogo con i propri «esperti» e i propri poliziotti. Imperialismo in guanti di velluto, insomma.

Il proletariato italiano, ancora sordo alle proprie esigenze elementari di classe, tanto da farsi prendere per il naso da anni da partiti e sindacati ormai dichiaratamente venduti alla borghesia, non è in grado oggi di solidarizzare con i proletari immigrati, lottando per loro, perché non sia loro negata la possibilità di un lavoro, di una casa, di una prospettiva di vita. Ma è di questa solidarietà che i proletari immigrati, clandestinamente o meno, hanno davvero bisogno. Senza l’aiuto dei proletari italiani questi fratelli di classe sbandati e disperatamente alla ricerca di una minima possibilità di sopravvivenza sono inevitabilmente alla mercé dei trafficanti di carne umana, alla mercé delle organizzazioni malavitose, alla mercé delle cento mafie sempre pronte ad approfittare delle tragedie sociali; sono inevitabilmente alla mercé delle polizie di ogni paese, che abbiano il «volto umano» o che usino senza parsimonia il calcio del fucile.

Con il naufragio della nave albanese di fronte alle coste pugliesi e i relativi morti, causato dalla nave da guerra italiana Sibilla, nella pasqua del 1997, 'Italia aveva dimostrato ai suoi ingombranti alleati europei, che il problema dell’ immigrazione clandestina – immigrazione che gli alleati europei temevano non si fermasse in Italia ma proseguisse verso la Francia, la Germania ecc. – veniva preso molto sul serio dal governo di Roma, fino alla tragedia che, certo, non si voleva ripetere, ma costituiva comunque un segnale preciso della politica sull’ immigrazione.

Un altro segnale preciso della politica sull’ immigrazione da parte del governo di Roma lo si riconosce dall’allestimento dei cosiddetti campi di accoglienza, nei quali i clandestini vengono letteralmente internati, indagati a dovere prima di essere, nella maggior parte dei casi, espulsi.

Ora si è aggiunto un tassello, imprevisto, nella scacchiera su cui il governo di Roma muove le sue pedine. Arriva in Italia, con documenti falsi, direttamente in aereo da Mosca, nientemeno che Abdullah Öcalan, capo del Pkk curdo, il cosiddetto Partito dei lavoratori curdi, il quale appena messo piede a terra si fa riconoscere e chiede asilo politico.

Su mandato d’arresto internazionale, da parte della Germania e della Turchia, la polizia italiana ferma Öcalan, lo arresta e lo mette in gattabuia. Ed esplode il «caso Öcalan».

Esplode, nel senso che nello stesso governo D’Alema emergono contrasti non irrilevanti. Manconi, portavoce dei Verdi, e Diliberto, ministro della Giustizia, dichiarano apertamente il loro sostegno al capo del Pkk e alla sua richiesta d’asilo politico, mentre Scognamiglio, dell’Udr, e Dini, ministro degli Esteri, sono per la sua estradizione in Germania o per la sua espulsione. Questo «caso» non è di semplice soluzione per i nostri governanti: il governo socialdemocratico di Schröder non intende chiedere l’estradizione di Öcalan in Germania dove è accusato di omicidio, di terrorismo e quant’altro, per timore di innescare gravi tensioni fra curdi e turchi (vi sono presenti 2 milioni di turchi e mezzo milione di curdi); il governo D’Alema, ligio alle leggi che non permettono di estradare chicchessia verso i paesi in cui vige la pena di morte, nega l’estradizione di Öcalan alla Turchia (che da anni tenta di mettergli le mani addosso ma gli è sempre sfuggito); le istituzioni europee fanno orecchie da mercante, e lasciano la patata bollente in mano al governo italiano. In tutte queste mezze manovre Öcalan, che dichiara velocemente di voler lavorare per la pacificazione fra curdi e turchi e di abbandonare la lotta armata per l’indipendenza del Kurdistan, e che invia messaggi di pace anche al papa, ottiene la libertà vigilata con l’obbligo di abitare a Roma.

Nel frattempo le diplomazie di mezza Europa, di Washington, di Mosca e perfino di Tripoli si mobilitano per «risolvere» il caso. La via che sta prendendo la questione sembra essere quella di un processo per terrorismo da tenere o in Italia, o di fronte ad una corte europea. E intanto i governanti italiani, ad esclusione dei governanti turchi che hanno minacciato ritorsioni economiche nei confronti dell’Italia e che hanno cavalcato l’ondata di nazionalismo apposta sviluppata per ragioni interne, hanno iniziato a ricevere testimonianze di benemerenza da parte di tutti gli alleati, anche da parte americana che all’inizio si «intromise» maldestramente. L’imperialismo italiano, che non si aspettava di dover gestire un caso così delicato, sta trovando il modo di utilizzarlo a propri fini secondo una vecchia tattica: fermi sulle proprie leggi, dal volto umanitario rispetto ai combattenti che si oppongono all’oppressione nazionale, disponibili ad ogni tipo di compromesso purché non si destini alla sola Italia il compito di cavar le castagne dal fuoco.

In tutto questo, quel che si è perso completamente, è la «questione curda», che sta così a cuore a Rifondazione, e di cui nessuno in verità parla visto che è stata confinata nelle vicende personali del capo del Pkk.

I curdi continueranno a subire l’oppressione nazionale sia da parte della Turchia, che è il paese più forte e in cui abita la maggior parte della popolazione curda sia da parte dell’ Irak, dell’ Iran e della Siria. E i partiti nazionalisti curdi, comunque borghesi che adottino il terrorismo o meno, continueranno a cercare appoggi presso le diverse potenze per ottenere un risultato che consenta loro di svolgere in pieno la loro missione storica: sfruttare direttamente il proletariato e il contadiname povero curdo traendone direttamente i benefici economici e politici. A questo scopo, alla pari dell’Olp di Arafat, il Pkk, il Pdk o qualsiasi altro partito che si imporrà sulle masse curde, sì piegherà ai compromessi che le grandi potenze chiederanno, primo fra tutti la cancellazione della lotta armata e, in seconda istanza, ’obiettivo di indipendenza nazionale con proprio Stato. Alla pari della Palestina negata, vi sarà un Kurdistan negato: tanto sarà, anche se otterranno prima o poi una specie di «autonomia» sotto la vigilanza dell’ ONU e, comunque, sotto il tallone turco.

I proletari curdi hanno in realtà una prospettiva del tutto diversa, ma che non vedono oggi come molti proletari al mondo, e soprattutto in Occidente, non vedono: la prospettiva della lotta di classe, di quella lotta che supera ogni barriera nazionale, ogni differenza e ogni oppressione nazionale, accomunando i lavoratori salariati di tutte le nazionalità sullo stesso fronte anticapitalistico. La lotta di classe è la sola via d’uscita anche per i proletari che subiscono, oltre all’oppressione tipica del capitalismo moderno, quella del lavoro salariato, l’oppressione razziale o nazionale. E i proletari turchi, se non vogliono passare alla storia come complici dell’oppressione razziale contro i curdi, hanno un modo preciso di dimostrare ai fratelli di classe curdi la propria solidarietà: lottare anche per essi contro la propria borghesia nazionale, e contro l’oppressione razziale che la borghesia turca mette in atto da sempre contro la popolazione curda attraverso i massacri e le torture, i villaggi rasi al suolo e il tentato genocidio come successe a suo tempo nei confronti degli armeni.

I proletari turchi non hanno nulla da spartire con la borghesia turca, tantomeno le colpe dell’oppressione anticurda. In linea di principio, e in corrispondenza della valutazione storica delle lotte nazionalrivoluzionarie borghesi[1], i comunisti marxisti sostengono il diritto di autodecisione dei popoli coerentemente con le posizioni richiamate da Lenin su questa questione, ma questo non significherà mai confondere la lotta di classe anticapitalistica del proletariato moderno con la lotta nazionale democratica e borghese. Se il popolo curdo ha la volontà e la forza di costituirsi in nazione separata da ogni altra e in Stato indipendente ha il diritto di farlo; al proletariato curdo diciamo che la sua condizione fondamentale di sfruttato in quanto lavoratore salariato non cambia se lo sfruttamento cui viene sottoposto si svolge in uno Stato indipendente e nazionale, difensore della tradizione culturale e linguistica, o in uno Stato oppressore. Tolta di mezzo un oppressione, quella nazionale, resta in pieno vigore l’oppressione capitalistica salariale contro la quale non vi sono ricette democratiche possibili, ma solo la lotta indipendente di classe del proletariato.

Notes:
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  1. Sulla questione dell’emancipazione del proletariato curdo, vedi il nostro articolo intitolato: «Curdi: emancipazione del popolo curdo, o del proletariato curdo?», nel nr. 43–44, Ott. 94–Genn. 95, de «il comunista». [⤒]


Source: «il comunista», anno XVI – N.63, Dicembre 1998

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