LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
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QUALE RISPOSTA ALLA GUERRA?


Content:

Quale risposta alla guerra?
Il «diritto di ingerenza umanitaria»
Finis Yugoslavie
Stati Uniti, ONU, Europa
Diritti di «sovranità» e «non ingerenza»
Il diritto di «autodeterminazione»
Quale nemico?
L’unica soluzione storica possibile
Viva i governi «di sinistra»!
Natura del capitalismo
Gli eserciti moderni e l’obiezione di coscienza
«Diritto» e forza
La tradizione internazionalista di classe
L’amara prospettiva odierna
Che fare?
Source


Quale risposta alla guerra?

La chiamano «missione umanitaria», ma è guerra! Siamo in guerra. L’Italia è in guerra, la NATO è in guerra contro la Federazione Yugoslava. Contemporaneamente, quest’ultima ha intensificato le sue sanguinarie operazioni militari contro la maggioranza albanese del Kossovo.

È la prima volta, dalla fine della II guerra mondiale, che la NATO interviene direttamente in Europa e che si scavalca l’ONU senza interpellarlo.

I cultori del cosiddetto «diritto internazionale» avranno di che dibattere e incrementare le loro pingui tariffe di consulenza. Tre «diritti» si confrontano sulla scena e pretendono «giustizia»: quello di «ingerenza umanitaria» dichiarato dagli Occidentali, quello di «sovranità » e «non ingerenza» invocato dai Serbi, quello di «autodeterminazione» proclamato dall’UCK, sedicente «esercito di liberazione del Kossovo».

Il «diritto di ingerenza umanitaria»

Affermando di bombardare la Serbia per proteggere gli abitanti del Kossovo la NATO mente: perché né la NATO né l’ONU hanno mai inviato le loro armate in Palestina, dove fin dal 1947 Israele ignora le risoluzioni delle Nazioni Unite? Perché le vite di centinaia di migliaia di palestinesi che hanno lasciato la loro terra e le migliaia di palestinesi uccisi da allora e fino ad oggi, non hanno comportato il «diritto di ingerenza umanitaria»? Perché la NATO tollera al suo interno un paese, la Turchia, che massacra e tortura migliaia di Curdi a cui nega l’uso della propria lingua e l’«autodeterminazione»? Perché i suoi B-52 e i suoi Phantoms stanno bombardando Belgrado e non Istanbul? Perché l’Italia e l’Europa proprio in questi giorni hanno accolto a braccia aperte Jiang Zemin, premier del regime cinese responsabile del massacro di piazza Tien An Men del 1989 e dell’oppressione in Tibet?
Chi ha venduto le armi agli Hutu e ai Tutsi del Ruanda: forse il leader serbo Milošević?

Gli esempi della malafede e dell’ipocrisia occidentale potrebbero continuare a lungo, ma quelli citati sono sufficienti a smascherare la brutale verità: per i paesi della Nato i dannati del Kossovo non sono che merce di scambio nel cinico gioco diplomatico-militare il cui obiettivo di fondo è lo smembramento della Yugoslavia. Un fine a cui l’Occidente lavora da tempo, ma che è divenuto praticabile in particolare a partire dall’89, cioè dal «crollo» dell’URSS e del muro di Berlino.

Finis Yugoslavie

La ex Yugoslavia, ricordiamolo, fu voluta proprio dalle potenze imperialistiche occidentali al termine del I conflitto mondiale per farla finita con gli imperi austro-ungarico e turco; fu creata artificialmente mettendo insieme popolazioni slave di lontana origine comune ma che – divise da odi secolari – non avevano (né hanno) mai costituito una nazione e che non cessarono di combattersi sino alla fine della II guerra mondiale, allorquando la Yugoslavia rinacque dalle ceneri per la volontà degli alleati. Non poteva dunque sopravvivere agli accordi di Yalta.

La fine degli equilibri stabiliti al termine della II guerra mondiale e la disgregazione del Patto di Varsavia capeggiato da Mosca hanno infatti portato con sé, da allora, la riunificazione tedesca e, con essa, il mutamento di tutta la cartina politica dell’Est europeo. Un tale risultato non è certo caduto dal cielo, ma è stato ottenuto con il concorso degli imperialismi europei e americano: sono ben noti gli stretti legami della Germania con la Slovenia e la Croazia, che essa riconobbe per prima quando proclamarono la propria indipendenza da Belgrado; altrettanto noti sono i legami di Tirana con Roma, che vi intrattiene da anni (con la scusa di impedire l’immigrazione albanese nel nostro paese, in realtà per difendere i nostri imprenditori in Albania) un contingente militare; soldati italiani e americani stazionano in Macedonia; è poi un segreto di Pulcinella che l’UCK è finanziato dagli Usa, e che gode di rifornimenti che passano per l’Albania.

Stati Uniti, ONU, Europa

In sostanza, gli Occidentali nei Balcani ci vanno per proteggere, non le popolazioni locali, al cui sterminio hanno contribuito soffiando sul fuoco dei conflitti inter-etnici, ma i propri interessi economici e strategici.

Sinora, l’Occidente aveva dovuto mascherare i propri interventi militari dietro il paravento dei «caschi blu» dell’ONU. Come in Bosnia, dove essi sono intervenuti a sostegno di un piano occidentale di «balcanizzazione» (frazionamento) dell’area, anche qui con la scusa di proteggere le popolazioni minacciate di genocidio dai Serbi, e chiudendo perciò gli occhi sul fatto che in materia di massacri Croati e Bosniaci non sono stati da meno.

Non è vero dunque, come Cossutta e Bertinotti vorrebbero far credere, che se l’intervento attuale fosse stato targato ONU, sarebbe stato ammissibile. Persino Scalfari («Repubblica» 28/3) ha scritto che l’ONU è di fatto un burattino delle potenze insediate nel suo Consiglio di Sicurezza e soprattutto degli USA. L’azione NATO di oggi non è in contrapposizione, ma in linea di continuità con quella ONU di ieri. In ogni caso quest’ultimo si è accodato, dando la sua benedizione alla volontà bellicistica americana.

Lo stesso hanno fatto i paesi europei e l’Italia. Perché è vero che esistono divergenze sul modo di gestire la situazione dei Balcani; è vero che l’Italia non ha rotto tutti i ponti con la Serbia; è vero che gli europei avrebbero preferito trattare ancora, consci come sono che i problemi politici interni di una guerra prolungata ricadrebbero soprattutto su di loro, e non sugli statunitensi, che possono permettersi di guardarla dalla TV come se fosse un bel film hollywoodiano. Ma ciò non significa affatto che i loro appetiti siano meno rapaci. Sono solo più deboli. Europei e italiani non sono dunque bianche colombe vittime di una imposizione della superpotenza americana: sono ipocriti sudditi di chi meglio di loro può fare ciò che tutti vorrebbero: imporre ai Balcani la propria legge, mettere le mani su aree economicamente o strategicamente preziose.

Da parte occidentale si tratta dunque di una guerra imperialistica di aggressione. Che cosa volevano imporre infatti le potenze imperialistiche alla Serbia mediante la recente fallimentare «trattativa» di Rambouillet? Niente meno che la presenza di un contingente NATO in Kossovo, ossia sul territorio dell’ attuale federazione Yugoslava.

Diritti di «sovranità» e «non ingerenza»

Il governo serbo ha dunque buon gioco oggi nel vestire i panni del «paese sovrano» attaccato dall’esercito «aggressore» della NATO. Belgrado si appella al fatto che il Kossovo le appartiene fin dalle guerre balcaniche del 1912–13 contro l’Impero Turco. Il governo di Milošević, come ogni governo borghese, pretende, secondo il principio di «non ingerenza», di avere mano libera in casa propria per dominare, sfruttare e, se occorre, reprimere con la forza ogni opposizione interna.

Per quanto riguarda il Kossovo, la sua popolazione è al 90 % albanese, ossia diversa per origine etnica, lingua, cultura, religione da quella serba. Ai kossovari il governo di Belgrado nega sistematicamente l’uso della propria lingua e qualsiasi forma di autonomia, usando contemporaneamente la forza più brutale contro le rivendicazioni della popolazione albanese. Come il governo turco e iracheno contro i Curdi, così quello yugoslavo sparge ogni giorno il sangue di un popolo povero e discriminato, per mantenere intatti i privilegi dei Serbi nell’ambito delle federazione yugoslava.

Il diritto di «autodeterminazione»

L’UCK, a sua volta, si appella ad un altro diritto, quello di «autodeterminazione». Ogni popolo, secondo tale concetto, avrebbe diritto a formare un proprio Stato nazionale indipendente. Ora, non c’è dubbio che, a determinate condizioni, la formazione di uno Stato nazionale costituisca un fattore di progresso. È stato così per le guerre di liberazione moderne, a partire da quella americana contro l’Inghilterra nel XVIII secolo. Esse hanno dato luogo alla nascita degli stati capitalistici nazionali, dell’industria moderna, della classe operaia con le sue lotte, ponendo in tal modo le premesse per una superiore società comunista. È stato così del pari per le lotte antimperialistiche di questo secolo in Cina, Algeria, Vietnam, e in molti altri paesi nei quali si è potuto avviare un analogo processo di industrializzazione e di sviluppo delle moderne lotte di classe. Anche laddove si è voluto mascherare tale sviluppo capitalistico-borghese da edificazione del socialismo, questo è stato il significato storico progressivo delle guerre nazionali.

Perciò hanno torto i pacifisti che condannano ogni guerra: le guerre rivoluzionarie borghesi di ieri erano legittime, e lo saranno quelle future che vedessero alla loro testa le classi sfruttate, indipendentemente dall’identificazione dell’«aggressore».

Ma il Kossovo non è una nazione. Se per i kossovari valesse ancora la vecchia parola d’ordine nazionale che infiammò i cuori dei garibaldini o dei Vietkong, essa dovrebbe semmai riguardare un processo pan-albanese. Ma l’UCK non vuole l’unificazione con la poverissima Albania, meno sviluppata. In realtà l’indipendenza del Kossovo non è che una creatura diplomatica dell’Occidente, ed in particolare degli Stati Uniti, per tarpare con uno Stato-cuscinetto le ambizioni nazionali tanto della Serbia quanto dell’Albania. Questa, a sua volta, creata dalle potenze imperialistiche nel 1913 per impedire la formazione di una «Grande Serbia», non ha mai espresso un movimento nazionale degno del termine, e al presente si trova internamente divisa da cricche di potere, l’una forte nel Nord del paese, l’altra prevalente al Sud, l’una legata a filo doppio con Roma, l’altra più orientata verso Washington.

Quale nemico?

Nessuno dei contendenti sul campo merita dunque l’appoggio di quelli che, qualsiasi sia l’esito della guerra, ne saranno le vere vittime: i lavoratori, i proletari , gli sfruttati di tutte le parti contendenti. Toccherà a loro subire il peso della guerra: vuoi perché, come i soldati Serbi di leva, saranno obbligati a combattere; vuoi perché, come i civili Serbi e Kossovari, saranno oggetto di bombardamenti, massacri, torture, distruzioni; vuoi perché, come accadrà anche ai proletari Occidentali, le enormi spese di guerra si tradurranno in un’intensificazione del loro sfruttamento.

Quando finirà la guerra, le classi dominanti, sconfitte o vincitrici, saranno ancora al potere, e imporranno ai loro proletari di lavorare per la ricostruzione, per rimpiazzare le armi distrutte, per costruirne di nuove e più moderne. Scopriranno allora, dopo aver sperperato in guerra cifre favolose, che non vi sono soldi per le pensioni e la sanità. Che se l’economia va male la colpa è dei salari troppo alti, della mancanza di «flessibilità» e di libertà di licenziamento. Fino al giorno in cui si lanceranno in nuove guerre e in nuove distruzioni, dove gli alleati di ieri, sconfitto il nemico comune, si scaglieranno gli uni contro gli altri. E allora, forse sarà la guerra generale e mondiale che i fatti attuali sembrano già parzialmente preannunciare.

Sono queste classi privilegiate il vero nemico di chiunque, in Serbia come in Kossovo o in Occidente, soffre sotto il giogo dello sfruttamento, dell’oppressione e della discriminazione.

L’unica soluzione storica possibile

Solo da un’alleanza delle classi oppresse e sfruttate dei Balcani, appoggiate dai proletari occidentali, potrebbe venire una soluzione radicale e definitiva. Solo chi non ha privilegi da difendere può concepire l’unica alternativa razionale ai massacri e alla guerra permanente: una federazione in cui nessun popolo, etnia o lingua balcanica godesse di privilegi; in cui nessun cittadino, di qualunque origine, soffrisse di discriminazioni giuridiche o culturali.

Una simile soluzione è però lontana mille miglia dalle possibilità dei governi di oggi, comitati d’affari borghesi che stanno lì proprio per acquisire privilegi e opprimere. Essa potrebbe derivare solo da una profonda rivoluzione sociale in grado di conferire il controllo della macchina statale alla classe direttamente antagonista del capitale, la classe operaia, in vista del superamento delle classi. Prospettiva certo non vicina.

Viva i governi «di sinistra»!

Da Washington a Berlino, da Roma a Parigi, a Londra, chi è al timone dei paesi più potenti della terra? Le «sinistre»! Il democratico Clinton, il diessino D’Alema, il socialista Jospin, il socialdemocratico Schröder, il laburista Blair, nessuno ha arretrato di un passo quando si è trattato di sgranare il rosario di morte. Eccoli i governi che bisognava votare per evitare che «vincessero le destre»! Perché, «tutto sommato» erano «meno peggio» di Berlusconi, di Kohl o di Le Pen! Democratici accaniti, esaltatori della virtù della scheda, siete serviti! Capirete stavolta che i governi borghesi, di destra o di sinistra, rappresentano la dittatura del capitale per la difesa dei propri interessi? Che da un secolo ormai non v’è più alcuna sostanziale differenza tra «destra» e «sinistra»? Che la democrazia borghese è decaduta a facciata luccicante per grulli che nasconde la più sordida e corrotta gestione totalitaria del potere? Che di fronte alle questioni che contano, tutte le lobbies borghesi sono ormai legate da un sommo «inciucio» universale e che possono litigare oramai solo su questioni tipo il «presidenzialismo» alla francese o il «maggioritario» con correzione «proporzionale» del secondo turno alla . . . livornese?

Natura del capitalismo

II capitalismo non scatena guerre per errore o perché al governo vi sia l’uomo o il partito sbagliato, magari di «destra». Le scatena perché ve lo spingono, ineliminabilmente e periodicamente, le sue contraddizioni. Le contraddizioni di un sistema che, come afferma il «Manifesto dei Comunisti» di Marx, possiede «troppa ricchezza, troppo commercio», e che ogni tanto deve distruggerne una parte – attraverso crisi e guerre – affinché quella che rimane possa continuare a dare profitti e per stabilire quale capitale nazionale debba prevalere sugli altri.

Gli eserciti moderni e l’obiezione di coscienza

D’altronde le guerre imperialistiche contemporanee, quando limitate e locali, sono combattute da eserciti di professionisti e/o di volontari: mercenari moderni al soldo del capitale, tanto poco animati da voglia di rischiare la pelle in battaglia e da spirito nazionale quanto le armate di ventura del XVI secolo; indifferenti però e assai più affidabili del vecchio esercito di leva quando si tratta di sterminare popolazioni inermi schiacciando, al sicuro nei propri santuari, un bottone come in un videogame. Con buona pace degli obiettori di coscienza, i quali hanno ritenuto una conquista «democratica» la possibilità di non prestare servizio militare, forma di «protesta» di cui la borghesia è ben felice: essa sa bene infatti che il potere poggia sul ferro delle armi, e che i pacifisti disarmati non potranno impedirle, in caso di un nuovo conflitto interimperialistico mondiale, la mobilitazione della popolazione, vuoi sul fronte interno della produzione vuoi su quello esterno, come «carne da cannone» controllata dai professionisti delle armi.

«Diritto» e forza

Il «diritto» non ha dunque mai risolto, né lo farà in questo caso, la contesa. Ancora una volta, come sempre nella storia, deciderà la forza. Coloro che hanno scritto gli articoli e i commi del cosiddetto «diritto internazionale» sono gli stessi che lo calpestano, così come sbeffeggiano le Costituzioni pretese sacre, le quali, come quella italiana, vietano l’uso della forza per dirimere le controversie internazionali.

Non vi sono insomma petizioni, referendum, consultazioni, articoli di legge e obiezioni di coscienza che possano fermare la macchina da guerra. Occorrerebbe opporre forza alla forza. Forza per far tacere le armi, forza per bloccare la produzione bellica. Ma al momento attuale non si vede ancora, a livello internazionale, da quale parte questa forza possa venire.

La tradizione internazionalista di classe

L’ultima grande fiammata di internazionalismo risale ormai a quasi un secolo fa, alla prima guerra mondiale, quando nella Russia in marcia verso la rivoluzione, in Germania, altrove i soldati si rifiutarono di continuare a combattere; quando in tutti i paesi, anche quelli dove gli eserciti non vennero disgregati dalla ribellione, episodi di fraternizzazione e di diserzione di massa si susseguirono numerosi. Ma allora esisteva, minoritaria ma rilevante, una componente rivoluzionaria della classe operaia internazionale. Essa, secondo le parole di Lenin, lavorava per «trasformare la guerra imperialistica in guerra civile» e individuava «il nemico principale» nella propria borghesia nazionale. Esistevano all’epoca, anche se spesso dirette da riformisti e collaborazionisti, grandi organizzazioni classiste dei lavoratori che già avevano addestrato la propria forza sia in memorabili lotte sindacali, sia contro il colonialismo, come in Italia durante la campagna di Libia.

L’amara prospettiva odierna

Nulla di tutto questo è attualmente visibile all’orizzonte. Oggi i sindacati frequentano di preferenza i salotti buoni della finanza e dell’industria, non programmano azioni di lotta ma strategie aziendali. In caso di guerra sospendono tutte le agitazioni sindacali, come hanno fatto CGIL-CISL-UIL in Italia (ben poche sono sinora le strutture locali e categoriali della «triplice» che malgrado la posizione delle centrali hanno preso qualche iniziativa) mentre solo qualche sigla ultra-minoritaria come il sindacalismo «di base» trova il coraggio e la dignità per mobilitarsi. Ieri i comunisti invitavano a rovesciare il potere borghese, oggi sono al governo o – come «Rifondazione» in Italia – lo hanno appoggiato fino all’altro giorno. Ieri gli scioperi si susseguivano nelle fabbriche, oggi gli operai serbi della Zastava sono disposti a fare gli «scudi umani» per difendere la propria e i proletari occidentali continuano indifferenti a far girare la macchina produttiva.

Ieri le forze internazionaliste e quelle nazionaliste si combattevano apertamente. Oggi le poche e deboli manifestazioni contro la guerra vedono convergere davanti alle basi della NATO un guazzabuglio di tendenze disparate che vanno da pacifisti, «centri sociali» e «Rifondazione» (che si appellano alla Costituzione stracciata) al nazionalismo serbo, per cui simpatizzano persino i leghisti. Ciò in buona sostanza significa che il fronte interno, una delle componenti fondamentali della guerra moderna e della forza che i belligeranti dispiegano, tiene. La guerra dunque ha potuto essere iniziata e durerà, esponendo coloro che intendono contrastarla frontalmente, da una parte a rischi non lievi di repressione, dall’altra a quello, più insidioso, di cercare ad ogni costo il risultato immediato accettando, a tal fine, appoggi e connubi con forze che nulla hanno a che fare con la politica classista e internazionalista.

Che fare?

Quella attuale non è LA GUERRA per antonomasia alla cui cessazione tutto sacrificare pur di far trionfare di bel nuovo il bene, la democrazia, il dialogo.

Dalla fine del II conflitto interimperialistico ad oggi non v’è stato forse giorno nel mondo in cui i cannoni abbiano taciuto, in cui vittime inermi non siano cadute se è vero che i morti delle guerre locali, da allora, superano i caduti dal '39 al '45. Semmai questa guerra dà ai rivoluzionari un’occasione impareggiabile per denunciare il carattere del capitalismo, dei suoi governi di ogni colore, di tutte le sue guerre e le sue «paci», fondate comunque sullo sfruttamento del lavoro, sulla fame di milioni di uomini, su migliaia di incidenti lavorativi, su un incessante corollario di conflitti locali. Non basta deprecare questa guerra; occorre denunciarne la radice: il sistema capitalistico mondiale.

L’obiettivo fondamentale non è la fine del conflitto, ma quella del capitalismo. Volgendosi prioritariamente al primo obiettivo le scarse forze contrarie alla presente guerra imperialistica non potrebbero – finché perdureranno gli attuali rapporti di forza tra le classi – che lasciarsi trascinare nel pantano di iniziative ambigue o velleitarie.

Scegliere il secondo non significa, beninteso, rinunziare a tutte le forme di pressione che si rendessero possibili per contrastare il conflitto. Ogni movimento reale in tale direzione va appoggiato. Ma non bisogna farsi illusioni sull’entità delle proprie forze e guardare lontano: alla manovra tattica a fui immediati occorre avere il coraggio di preferire la strategia di lunga durata finalizzata al risorgere di un’autentica politica di classe in pace e in guerra.

NO ALL’INTERVENTO IMPERIALISTICO NEI BALCANI

NO AL NAZIONALISMO SERBO

NO AL SEPARATISMO KOSSOVARO

CONTRO OGNI DISCRIMINAZIONE E PRIVILEGIO NAZIONALE

PER L’INTERNAZIONALISMO


Source: Partito Comunista Internazionale
36035 Marano (VI)

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