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IL FASCISMO


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Il fascismo
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Il fascismo

Queste note non sono scritte per trarre dal bilancio un giudizio sul fascismo dagli ultimi e sensazionali avvenimenti romani, ma partono dalla conclusione del congresso fascista, se pure questo ha dimostrato solo di essere superfluo per la definizione di un giudizio critico sul fascismo.[1].

Il movimento fascista ha portato al Congresso il bagaglio di una potente organizzazione, e mentre si proponeva di farne un clamoroso spiegamento pubblico nella Capitale, si è anche atteggiato a voler gettare, sotto gli occhi del pubblico, le basi della sua ideologia programmatica. I suoi dirigenti si sono immaginati di avere questo dovere: dare ad una organizzazione tanto sviluppata la giustificazione di una dottrina e di un indirizzo politico «nuovi».

Il passivo fascista che si può trarre dalle giornate dello sciopero generale romano è una bazzecola al confronto di quello che emerge dai risultati del Congresso, nei riguardi di quanto abbiamo detto. È evidente che una spiegazione, e, se si vuole, una giustificazione del fascismo si deve trovare al di fuori di questo sforzo di nuove costruzioni programmatiche, che è finito nel nulla, tanto come opera collettiva che come tentativo soggettivo di un capo, che non riuscirà ad essere un «maestro» se pure farà infallantemente la strada di un «uomo politico» nel senso più disgraziatamente tradizionale dell’espressione.

Il fascismo, questo futurismo della politica, non si è levato di un millimetro dal volgarissimo livello della mediocrità politica borghese. Perché?

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Il Congresso, si è detto, si riduce al discorso di Mussolini. Questo discorso è un aborto. Dall’analisi degli altri partiti non è passato per nulla ad una sintesi, onde scaturisce la posizione per cui un partito fascista si differenzia da tutti gli altri. Soprattutto non si è visto che posizione nuova esiste per il fascismo dinanzi alle tradizionali ideologie politiche dei partiti borghesi, una volta che esso si riesce in qualche modo a situare in una attitudine di fiera avversione dinanzi al socialismo e al movimento operaio.

Il tentativo di esporre una ideologia fasciata densa di critiche demolitrici di vecchi schemi, anche, e soprattutto, nella veste di brillanti paradossi, si è risolto in una serie di affermazioni che non erano né nuove una per una, né legate nella novità della sintesi ad un legame qualsiasi, ma rimasticavano senza alcuna efficacia motivi della polemica politica già ripetutamente palleggiati da questa a quella scuola, e cucinati in tutte le salse dalla morbosa mania di incessanti mutazioni che tormenta i politicucci della decadenza borghese contemporanea. Abbiamo così assistito invece che all’annunzio solenne della nuova verità – e quello che si dice del discorso Mussolini si può dire di tutta la letteratura fascista – ad una rassegna di tutta la flora di batteri culturali che sono propri della fermentazione putrida della ideologia borghese, datasi in questa epoca di suprema crisi di un regime a morbose esercitazioni sulle formule rubacchiate al sindacalismo, all’anarchismo più o meno individualista, ai ruderi della metafisica spiritualistica e religiosa, a tutto fuorché, per fortunata eccezione, al nostro orripilante e brutale marxismo bolscevico.

Difatti quale conclusione può uscire da una ridda di tesi senza costrutto, come quelle dell’anticlericalismo massonico tirato fuori per negare il programma del partito popolare, mentre si usufruisce di certi coefficienti di religiosità militante – o quelle del liberismo economico squadernato per seppellire sotto «la realtà capitalista» gli inani tentativi di collettivismo, mentre si accendono d’altra parte i ceri alla dottrina del liberalismo politico? Cosa vuol dire affermare che si condivide del comunismo la nozione antidemocratica della dittatura, quando questa dittatura non è che la coartazione della «libera» economia capitalista che si dichiara più che mai vitale? E mentre si vanta la repubblica far balenare le prospettive di un regime preparlamentare, dittatoriale e quindi ultradinastico; o anche contrapporre alla dottrina del cosiddetto partito liberale quella della destra storica, che non era se non più seriamente o intimamente liberale in teoria e in pratica?

Se da tutte queste enunciazioni fosse uscita una conclusione che le sistemasse in un risultato armonico, esse resterebbero nelle loro contraddizioni con la forza dei paradossi di cui ogni nuova ideologia si ammanta quasi a provare con qualche virtuosità dialettica il suo vigore e la sua saldezza. Ma in questo caso la sintesi conclusiva è mancata, e tutta quella farragine di vecchie storielle non dà che un bilancio fallimentare.

Il punto critico era il definire la posizione del fascismo innanzi ai partiti del blocco centrale borghese. Bene o male qualche cosa c’era per piazzarsi come avversari del partito socialista, e di quello popolare, ma la negazione del partito liberale e la necessità di ammazzarlo per rimpiazzarlo in qualche modo, non ha potuto essere decentemente teorizzata, tradotto in un programma di partito. Il che, diciamolo subito, non vuole essere un contributo alla tesi che il fascismo non possa essere un partito, come di fatto sarà, conciliando egregiamente le sue bislacche avversioni, e alla monarchia, e alla democrazia parlamentare, e persino... al socialismo di Stato. Tutto ciò ci mette solo di fronte ad un movimento che dispone di una effettiva e forte organizzazione, che oltre che militare può essere anche benissimo politica ed elettorale, ma che manca di una sua ideologia programmatica. L’esame del Congresso fascista, e per esso del discorso Mussolini in cui il fremito per metter fori l’autodefinizione è stato massimo, ci serve a stabilire che il fascismo è impotente all’autodefinirsi. E questo fatto che dimostra come invece possiamo ottimamente passare a definirlo noi, si ritrova poi logicamente situato sulla strada della nostra critica analizzatrice.

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La parola ideologia è un po’ metafisica, ma noi la adoperiamo a significare il bagaglio programmatico di un movimento, la sua coscienza di una serie di termini da raggiungere colla azione. Naturalmente tutto ciò importa un metodo di interpretare e di concepire i fatti della vita sociale e della storia. E premettiamo questo per dire che la borghesia, nell’epoca attuale, appunto perché è una classe sul declino della sua vita storica, ha una ideologia sdoppiata, ed i suoi programmi esteriori non corrispondono alla sua coscienza interiore e i suoi interessi e dell’azione da esplicare per tutelarsi. Quando la borghesia era classe rivoluzionaria allora essa aveva in tutto il suo vigore la «coscienza» della ideologia sociale e politica che le è propria e che vogliamo chiamare col nome di quel «liberalismo» che il fascismo si proclama venuto a spiantare. La borghesia «credeva» e «voleva» secondo le tavole del programma liberale o democratico: i suoi interessi scottanti consistevano nel liberare la gestazione del suo sistema economico dalle pastoie delle legislazioni e costituzioni dell’«ancien regime» ed essa era convinta che la realizzazione di un manifesto di libertà politica e la concessione di tutti i possibili diritti e facoltà all’ultimo cittadino, coincidessero non solo colla universalità umanitaria della sua filosofia, ma col massimo sviluppo della sua vita economica.

E infatti il liberalismo borghese se era ottima arma politica per fare dello Stato l’esecutore supremo della economia feudale e dei privilegi dei primi due «Stati», era anche un non disprezzabile attrezzo perché la funzione «di classe» dello Stato parlamentare borghese si esplicasse non solo verso il passato e le sue restaurazioni, ma altresì contro le manifestazioni del «quarto Stato» e gli attacchi del movimento proletario. Era la coscienza di questa seconda funzione della democrazia, di questo suo cambiamento di fronte storico della trasformazione di essa da fattore rivoluzionario in fattore conservatore, che mancava nella prima fase di vita della borghesia, e se vogliamo, nella destra storica italiana, a guisa di esempio. Gli ideologi del liberalismo non solo «dicevano» ma «credevano» che questo metodo di costituzione dell’apparato politico era a benefizio di tutto «il popolo» e costituiva un terreno di parità di diritti per tutti i membri della società: essi non concepivano ancora che per salvare le istituzioni borghesi di cui erano gli esponenti, potesse essere necessario stracciare le garanzie liberali scritte nella dottrina politica e nelle costituzioni borghesi. Il nemico dello Stato non poteva essere che il nemico di tutti, il delinquente, il violatore del contratto della convenzione sociale.

Successivamente riesce evidente alla classe dominante che il regime democratico serve anche contro il proletariato come un ottimo «sfiatatoio» della eccessiva pressione del suo malcontento economico, e la borghesia si convince sempre più che il meccanismo liberale serve magnificamente i suoi interessi di classe. Solo essa lo sente ora come un mezzo, e non come un fine dottrinale e astratto, e si rende conto che l’uso di questo mezzo non è affatto incompatibile colla funzione integratrice dello Stato borghese, di repressione anche violenta del movimento proletario. Uno Stato liberale che per difendersi da attacchi deve lacerare le garanzie di libertà è una prova storica della fallacia della dottrina liberale, come interpretazione della missione della borghesia e della natura del suo apparecchio di Governo. Viene in luce la sua vera finalità: difendere gli interessi del capitalismo, con tutti i mezzi: col diversivo delle mascherature democratiche, e col supplemento delle repressioni armate quando il primo non basti a frenare ogni movimento che voglia attentare alla compagine dello Stato stesso.

Ma questa è una dottrina «rivoluzionaria» della funzione dello Stato borghese e liberale. O meglio è rivoluzionario enunciarla, è perciò nella presente fase storica la classe borghese deve metterla in pratica e negarla in teoria. Perché lo Stato borghese esplichi questa sua naturale funzione repressiva e controrivoluzionaria, si deve dunque avere una implicita demolizione della pretesa verità del liberalismo come dottrina, ma non è affatto necessario tornare indietro e sottoporre a revisione la costituzione dall’apparecchio statale. La borghesia non ha l’incomodo di pentirsi di essere stata liberale, né quello di abiurare il liberalismo; è il logico sviluppo biologico del suo organismo di dominio che lo ha preparato ed attrezzato a difendere colle mitragliatrici e le galere la causa «della libertà».

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Il movimento borghese finché enuncia dei programmi e fa della dottrina politica, non può squadernare questa necessità della difesa di classe con tutti i mezzi, anche con quelli che sarebbero teoricamente esclusi dalle costituzioni e dalle leggi dello Stato. Sarebbe una falsa manovra conservatrice. E d’altra parte è indiscutibile che i novantanove centesimi della classe dominante sentono come sarebbe falsamente conservatore ripudiare anche formalmente il sistema della democrazia parlamentare ed invocare una modificazione dell’apparecchio statale nel senso medievale o aristocratico o autocratico. Come nessuno Stato prenapoleonico era attrezzato per gli orrori della guerra più e meglio (e non solo nel senso dei mezzi tecnici) di quelli democratici moderni, così non ve ne sono mai stati meglio attrezzati di questi democratici per la reazione e la repressione interna, e per la difesa della propria esistenza.

È logico allora che nell’attuale periodo delle repressioni contro il movimento rivoluzionario della classe operaia, il movimento politico, la partecipazione alla vita politica dei cittadini di classe borghese, o delle clientele borghesi, prenda nuovi aspetti. Non bastano più i partiti «costituzionali» attrezzati per far uscire nelle lotte elettorali dalle consultazioni del popolo la risposta che la maggioranza firma per la sopravvivenza del regime capitalistico; occorre che la classe che sta attorno allo Stato ne fiancheggi le funzioni secondo le nuove esigenze. Il movimento politico conservatore e controrivoluzionario deve assumere una funzione e una organizzazione a carattere militare ed in previsione della guerra civile. Allo Stato conviene che questa formazione avvenga «nel paese» tra la massa dei cittadini, poiché allora le funzioni di repressione si concilieranno meglio con la disperata difesa della illusione che lo Stato è il padre comune di tutti i cittadini, di tutti i partiti, e di tutte le classi.

Corrispondentemente al fatto che il metodo rivoluzionario guadagna la classe operaia, preparandola ad una lotta e ad un inquadramento per l’azione militare, una volta che essa abbandona la speranza di una emancipazione per le vie legali di quella attività politica che lo Stato consente, il partito dell’ordine si inquadra e si arma per difendersi.

Il fatto che a fianco dello Stato, e sotto la logica protezione di questo, esso faccia «più presto» e «meglio» del proletariato ad armarsi, e prenda l’offensiva contro posizioni proletarie che il regime liberale borghese aveva tollerato, non deve essere confuso con il sorgere di un partito che sia contro lo Stato nel senso dell’impadronirsene per dargli forme preliberali.

È qui – il lettore lo ha di leggieri inteso – che noi vediamo la spiegazione del sorgere del fascismo. Esso integra e non demolisce il liberalismo borghese. Esso realizza nella organizzazione che sta attorno alla macchina ufficiale dello Stato, la doppia funzione difensiva che la borghesia conduce.

Probabilmente coll’intensificarsi della pressione rivoluzionaria del proletariato, la borghesia tenderà a spingere al massimo la intensificazione dei due metodi difensivi, che non sono incompatibili, ma paralleli. Essa ostenterà la più audace politica democratica e socialdemocratica mentre sguinzaglierà le squadre della organizzazione militare bianca per seminare il terrore nelle file del proletariato. Ma questo è altro aspetto della questione, e serve solo a dimostrare quanto sia inane l’antitesi: fascismo-democrazia parlamentare, la cui inconsistenza appunto si conferma nella attività elettorale del fascismo.

Divenire partito elettorale, non è poi un volo d’aquila. Per farlo non è indispensabile risolvere l’arduo problema di costituire il programma «nuovo». E appunto il fascismo non potrà mai stendere in tavole programmatiche la sua ragion d’essere, ne costruire una coscienza, in quanto è il portato di uno sdoppiamento di programma e di coscienza di una classe, in quanto se dovesse parlare a nome di una dottrina, dovrebbe rientrare nei quadri del liberalismo tradizionale che gli ha affidato l’incarico di violare la sua teoria «ad uso esteriore» per riservarsi quello di seguitarla a predicare.

Quindi il fascismo non ha saputo autodefinirsi al Congresso di Roma, né lo saprà mai (senza per questo dover rinunziare a vivere e ad esplicare la sua funzione) in quanto la sua formula di costituzione è: tutta organizzazione niente ideologia – come in rispondenza dialettica quella del partito liberale è: tutta ideologia niente organizzazione.

Sarebbe assai interessante, dopo aver sommariamente dimostrato come lo sdoppiamento tra dottrina e organizzazione sia caratteristico dei movimenti di una classe in decadenza, porre in evidenza come la sintesi della ideologia con la organizzazione – con un criterio rigorosamente realistico e storico – sia propria dei movimenti di avanzata rivoluzionaria. E quindi conchiudere con un atto di speranza, che quando si conosce l’avversario e le stesse ragioni della sua forza, meglio di quanto sappia esso stesso, e si fonda la forza propria su una solida coscienza dei propri obbiettivi, non si può non contare sulla definitiva vittoria contro di lui.

Notes:
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  1. Al II Congresso Nazionale dei Fascisti, tenutosi a Roma dal 7 al 10 novembre 1921, fu fondato il Partito Nazionale Fascista. 30 000 fascisti si erano riuniti nella capitale e, per festeggiare, marciarono di nuovo per la città, lasciando 5 morti e 120 feriti. Dopo l’assassinio di un ferroviere il 9 novembre 1921, il proletariato romano indisse uno sciopero generale, che né il governo né un ultimatum fascista riuscirono a spezzare. Lo sciopero continuò fino al 14 novembre, quattro giorni dopo la fine del congresso fascista. Il programma del PNF adottato al congresso è stato pubblicato solo il 27 novembre.[ ⤒]


Source: «Il Comunista», № 30, November 1921

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