United States of Europa
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UNITED STATES OF EUROPA
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Al di là del sempre torbido orizzonte della tormentata Europa un miraggio è stato ripetutamente additato dagli ideologi di cui questa nobilissima antica terra è tanto feconda, quanto di avventurieri mercatori e capitani di industria e di guerra: la pacifica federazione dei tanti storici Stati, così vari e diversi nelle loro vicende e nelle loro strutture, in continuo conflitto da secoli, sotto il reggimento feudale come sotto quello borghese, nel clima del dispotismo come in quello della democrazia elettiva.

Stati Uniti di Europa! A più riprese è sembrata ai liberali di avanguardia, ai capi delle insurrezioni popolari e delle lotte di indipendenza nazionale, lungo tutto il troppo intelligente e troppo bellicoso diciannovesimo secolo, una gloriosa divisa.

Ma essa non ha mancato di suggestionare anche i capi della nuova classe operaia, moventesi nel campo marxista rivoluzionario, e basti l'esempio di un ingegno così possente come quello di Trotzky.

La via per cui si giunge a una tale rivendicazione è di tutta evidenza. L'internazionalismo della lotta proletaria, il suo continuo urtarsi, nella politica e nell'organizzazione socialista, con le difficoltà determinate dalle questioni nazionali e dalle guerre degli Stati; le devastazioni dell'opportunismo nella prima guerra generale del ventesimo secolo, che con la degenerazione patriottarda rovinarono il lungo cammino dei più grandi partiti socialisti, la certezza che la rivoluzione proletaria europea sarebbe rivoluzione mondiale, inducono ad una tale aspirazione storica, soprattutto fanno pensare che la consegna dell'Unità Europea sia tra quelle - se ve ne sono - atte a riportare le masse dai periodi di ripiegamento e d'incertezza sul piano e sul fronte della battaglia di classe.

Dinanzi a questi impulsi generosi per un ritorno nell'incendio dell'azione ed una spinta in avanti verso quei periodi di febbre sociale nei quali il presente si mostra pronto a plasticamente forgiarsi nell'avvenire lungamente atteso, sembrano piccola cosa i dubbi e le chiarificazioni, che di solito si imputano a semplicismo dottrinale.

Pensiamo noi marxisti, parlando di una federazione di Stati europei, ad una intesa, ad un organamento permanente tra gli attuali Stati nei quali la classe borghese tiene il potere? Ovvero consideriamo possibile una Europa unita soltanto nel senso che la classe operaia, dopo l'abbattimento del capitalismo nei singoli Stati, rinsalderà i suoi legami al disopra delle frontiere di nazione di razza e di lingua, per pervenire a cancellarle? Pensiamo noi possibile, eventualmente, un legame federativo fra Stati in cui domina la borghesia e Stati in cui il proletariato sia vincitore?

Queste sono questioni di prospettiva storica; e certamente Trotzky, come ogni marxista rivoluzionario, considerava che una federazione di Stati europei capitalistici avrebbe rappresentato, una volta attuata e se attuata, il centrale nemico contro cui il proletariato europeo avrebbe dovuto dirigere il suo sforzo rivoluzionario per strappargli il potere; che la rivoluzione europea socialista non potrebbe essere vincitrice, nel quadro di una Europa divisa in autonome potenze, se non quando il potere borghese fosse stato travolto in alcune almeno delle più avanzate e più grandi; che il potere rivoluzionario che si fosse attuato in un primo Stato o in una parte d'Europa non potrebbe tenere rapporti ed avere alleanze che con i partiti operai in lotta contro i governi degli Stati capitalistici senza assurde fasi storiche di convivenza.

Ma la ragione politica del lancio di una rivendicazione federalista è diversa, a detta dei fautori di simili indirizzi tattici.

I comunisti più coscienti, la minoranza di avanguardia tra i lavoratori, sono in grado di intendere che sulla costituzione dello Stato non deve aversi altro obiettivo che quello della dittatura proletaria, dopo lo spezzamento delle presenti macchine di potere; ma tale avanguardia non può lottare e vincere che trascinando nella lotta i più vasti strati delle classi lavoratrici, che i presenti regimi opprimono ed affamano e le guerre dilaniano spietatamente. Il grido per un'Europa non più avvelenata da odi nazionali e non più percorsa da armate alle quali i lavoratori militarizzati si massacrano agli ordini del capitale sarebbe tra quelli che spingono queste masse nel movimento, nel corso del quale la direttiva integrale comunista può guadagnare in settimane quello che non guadagnerebbe in decenni di stretto lavoro programmatico di partito.

Tale generoso scorcio di strategia rivoluzionaria, anche quando veniva da origini non sospette, traverso una serie di disastrose esperienze ha sempre dimostrato di cadere nel gioco delle insidie opportuniste, nella confusione tra le vere forze di classe e quelle equivoche che si accampano nelle frange di contatto tra il proletariato avanzato e la grande borghesia, nella conseguenza, completamente negativa, che sono stati proprio gli elementi più preparati e maturi nella teoria e nella milizia di partito a slittare verso la sostituzione al programma rivoluzionario di insidiosi miraggi piccolo borghesi, vuoti, addormentatori, disfattisti.

Una conferma di questa decisa critica alla troppo elastica strategia della lotta di classe, una ennesima conferma, è data dal fatto che quella fiammante parola degli Stati Uniti d'Europa cui, quando ancora gli Stati nazionali borghesi, saldi nel principio di illimitata sovranità autonoma, l'avrebbero accolta come dichiarazione di guerra alla morte, Trotzky dedicò pagine vigorose non certo imputabili di abbandono della dottrina, è oggi la parola storica di forze che sono al servizio più sfacciato dell'alto capitale e che si schierano, senza farne mistero, per le sue più vaste imprese dirette all'asservimento del mondo.

I marxisti non posseggono, per quanto ansiosamente attendano la tempesta sociale, ricette per muovere in ogni storica congiuntura le acque quando sono stagnanti.

Non hanno cambiato nei periodi di ristagno la teoria della immancabile tempesta rivoluzionaria, né Marx ed Engels tra il 1849 e il 1864, o dopo il 1872 fino alla loro morte, né Lenin tra il 1906 e il 1916. Le tempeste sociali sono tornate, come torneranno; e nel loro gonfiarsi sempre destano e generano i combattenti del comunismo, quanti e quali occorreranno per vincere, alla fine.

• • •

Nella classica impostazione marxistica il socialismo non paventava le eventualità di guerra, poiché non aveva mai condizionato alla costituzione di una pacifica internazionale borghese il porsi della esigenza storica di abbattere della borghesia il potere. La guerra, al Congresso di Basilea del 1912, fu considerata l'occasione non per una campagna pacifista umanitaria ma per la rivoluzione sociale. Il «Manifesto» aveva già detto che ogni partito proletario ha un compito nei limiti nazionali poiché tende anzitutto ad abbattere la propria borghesia. La guerra non solo non è motivo per concedere alla classe dominante una tregua interna, e tanto meno per passare al suo servizio contro lo Stato nemico, ma, come teorizzò Lenin, conduce per via tanto più diretta alla possibilità della rivoluzione, quanto più è rovinosa per la borghesia della nostra patria.

Il fatto che nei grandi paesi borghesi nella Prima e Seconda Guerra Mondiale queste direttive siano state clamorosamente infrante, e proletari socialisti e comunisti si siano divisi in Europa tra le due bandiere della guerra borghese, non trova il suo rimedio in federazioni internazionali ed europee, non lo trova nella campagna generica per scongiurare pericoli di ulteriori guerre.

Ciò contro cui si deve lottare, per ridare vita al movimento rivoluzionario internazionalista, è l'incatenamento delle masse, traverso il tradimento dei capi dei loro organismi di classe, alle campagne ideologiche e propagandistiche tendenti da ambo i lati dei fronti a popolarizzare gli scopi delle imprese militari delle borghesie nazionali. Ciò che importa è preparare partiti e masse a resistere nel momento decisivo alla ondata di smarrimento e di disgregazione che prende la forma precisa di un invito a sospendere le massime richieste rivoluzionarie, e sostituirvi traguardi intermedi presentati come storicamente attuali e di preminente importanza.

Importa dunque preparare il movimento alla certezza che nelle grandi guerre i poteri della borghesia non combattono per idee e principii generali, per fare avanzare di nuove tappe l'evoluzione sociale, per assicurare una forma più tollerabile e umana di capitalismo al posto di una deteriore.

L'origine e la causa delle guerre non sono in una crociata per principii generali e per conquiste sociali. Le grandi guerre moderne sono determinate dalle esigenze di classe della borghesia, sono l'indispensabile quadro in cui può attuarsi l'accumulazione iniziale e successiva del capitale moderno. Rileggiamo la drammatica apologia del nostro nemico, nel «Manifesto»: La borghesia lotta senza posa; dapprima contro l'aristocrazia, poi contro le parti di sé stessa i cui interessi contrastano al progresso dell'industria; sempre poi con le borghesie straniere! Rileggiamola nel Capitale: La scoperta delle contrade aurifere e argentifere dell'America, la decimazione e la schiavizzazione dei popoli indigeni sepolti nel lavoro delle miniere, le conquiste e le depredazioni nelle Indie Orientali, la trasformazione dell'Africa in una specie di parco commerciale per la caccia alle pelli nere, ecco gli idilliaci processi di accumulazione primitiva che segnano l'aurora dell'epoca capitalistica. Subito dopo scoppia la guerra mercantile; essa ha per teatro il mondo intiero: cominciata con la rivolta dell'Olanda contro la Spagna, essa assume gigantesche proporzioni nella guerra antigiacobina dell'Inghilterra, si prolunga fino ai nostri giorni in spedizioni da pirati come le famose guerre dell'oppio contro la Cina.

A questo fondamentale periodo segue quello che finisce con una frase famosa: la violenza è la levatrice di ogni antica società, gravida di una società nuova. La violenza stessa è una potenza economica! I vari momenti dell'accumulazione primitiva si ripartiscono in su le prime, seguendo un ordine più o meno cronologico, in Portogallo, in Spagna, in Olanda, in Francia e in Inghilterra, fino a che quest'ultima nell'ultimo terzo del XVIII secolo li combina tutti in un complesso sistematico che comprende nello stesso tempo il regime coloniale, il credito pubblico, la finanza moderna ed il sistema protezionistico.

Questi capisaldi sono talmente essenziali che l'obiettivo centrale dell'assalto rivoluzionario è sempre stato, nella visione mondiale dei marxisti, il colosso britannico, modello primo universale della schiavitù capitalistica. Trotzky può essere stato tra i fautori della tesi: nei grandi conflitti della storia, che tutto incendiando antecedono tuttavia quello proprio del nostro programma, noi possiamo dover scegliere, restando dialetticamente noi stessi, una delle due posizioni. Ma indubbiamente accompagnò a questa un'altra tesi: giammai potremmo scegliere la parte dove sta l'Inghilterra! Il marxismo non è codificato in versetti; dove il suo fondatore scrisse nel 1867 Inghilterra dobbiamo nel 1949 leggere Stati Uniti d'America.

Non abbiamo sottolineato a caso l'espressione di Marx sulla guerra antigiacobina, definita squisito esempio della guerra mercantile capitalistica. Deboli traduzioni rendono con le parole: «contro la rivoluzione francese» il termine, non certo adoperato a caso, di «Antijakobinerkrieg». L'argomento principe per le crociate borghesi di guerra, due volte contro la Germania, domani contro la Russia, adoperato contro la spiegazione imperialista e mercantile della guerra, sta infatti nel magnificare le vittoriose imprese della borghesia estremista e terrorista francese contro le coalizioni capitanate dall'Inghilterra, in cui tutto sarebbe stato sulla punta delle baionette dei sanculotti: filosofia, ideali, conquiste della nuova epoca di uguaglianza e di libertà umana.

L'intervento antifrancese dell'Inghilterra, che secondo la corrente banale impostazione avrebbe avuto come scopo la restaurazione di un regime sociale feudalistico contro la rivoluzione democratica, era invece un momento decisivo del cammino della accumulazione capitalistica, tendeva alla diffusione nell'Europa e nel mondo della economia industriale, del sistema borghese. E non era l'Inghilterra il primo nella storia dei regimi di potere borghese, non aveva data la prima rivoluzione e tagliata per prima la testa del re? Secondo il detto di Cromwell e poi di Elisabetta: «L'Inghilterra cammina con Dio». Secondo la dizione marxista, con l'Inghilterra cammina il dio moderno, il Capitale. E non continuarono le coalizioni contro Bonaparte, esecutore della rivoluzione borghese sul continente? E questa rivoluzione non dilagò sull'Europa, traverso le vittorie sulle coalizioni e la Santa Alleanza, come traverso la sconfitta finale di Napoleone e la Restaurazione in Francia?

Il metodo marxista legge la storia dopo aver spezzato i cristalli della menzogna idealistica, che capovolgono le immagini.

Ma vogliamo tornare più indietro di Marx, allo stesso autentico capo dei rivoluzionari giacobini e terroristi. Il 17 novembre 1793, alla Convenzione Nazionale, Robespierre, capo ormai del governo dopo l'esecuzione del re e la dispersione dei girondini, parla sulla politica internazionale della repubblica. Nessuno più di Robespierre fa magnifico abuso della retorica rivoluzionaria, e nelle sue tirate di obbligo ricorre ad ogni passo la fremente invocazione alla libertà contro i tiranni, alla virtù contro il delitto, alla patria, al popolo e agli altri miti dell'allora vergine pensiero borghese estremista. Ma il tessuto del discorso mostra la chiarezza di visione del grande capo politico sugli eventi contemporanei, ad un punto tale che gli squarci vibranti di passione e di eloquenza restano eclissati, e i mozzorecchi di oggi parlerebbero di una fredda politica realista.

Robespierre non apologizza la guerra estirpatrice del feudalesimo in Europa, tutt'altro.
«
Più che alla forza delle armi la propaganda delle idee della gloriosa nostra rivoluzione doveva essere affidata alla potenza della ragione».
Le belle frasi sono orpello, ma il contenuto veramente dialettico della requisitoria contro i girondini, esitanti a giustiziare Capeto, sta nell'accusarli di provocazione guerrafondaia, di tradimento fatto colla insolenza diplomatica grossolana, in complicità coi moderati interni, per attirare la repubblica nella rovina, facendo intervenire nella lotta la Spagna, dichiarando intempestivamente la guerra agli stessi inglesi, disgustando i soli alleati di Parigi, gli americani. E impressionano l'assemblea e le tribune i fatti positivi categoricamente invocati a fissare tali responsabilità controrivoluzionarie.

L'Inghilterra non viene accusata dal fiero tribuno di essersi resa solidale con gli emigrati e di lottare per la rivincita della nobiltà e dei Borboni. Viene accusata proprio di finalità mercantili e imperialistiche, le stesse che avevano causato aspro dissidio con la Francia ben prima della caduta della monarchia; viene specificamente accusata del piano di rovesciare il re Luigi XVI per condurre sul trono di Francia il duca di York con l'appoggio del ramo di Orléans, del demagogo Philippe Egalité.
«
Questo piano doveva assicurare all'Inghilterra i tre grandi oggetti della sua ambizione e della sua gelosia: Tolone, Dunkerque e le nostre Colonie, Padrone così di questi importanti possedimenti, padrone del mare e della Francia, il Governo inglese avrebbe subito forzato l'America a ritornare sotto la sua dominazione».

Tutti ricordano che pochi anni prima della Grande Rivoluzione, i coloni del Nord America si erano sottratti alla dominazione di Londra grazie all'appoggio di generali francesi, e gli ammiragli del re Sole avevano spiegato in decisive vittorie la loro bandiera.

«È da segnalarsi che l'attuale gabinetto inglese ha condotto, in Francia e negli Stati Uniti, due intrighi paralleli, che tendevano allo stesso scopo; mentre cercava di separare il Mezzogiorno della Francia dal Nord, cospirava per staccare le province settentrionali dell'America dalle meridionali, ed ora, mentre si sforza di incitare al federalismo la nostra repubblica, lavora a Filadelfia a rompere i legami confederali che uniscono le varie parti della Repubblica Americana (segni di grande attenzione)».

Tra le apostrofi dell'oratore al ministro inglese Pitt, una è notevole:
«
Egli vuol conciliare il dispotismo con l'accrescimento della prosperità commerciale, come se il dispotismo non fosse il flagello del commercio».

Colui che i luoghi comuni dipingono come esempio di cieco e settario fanatismo, domina invece serenamente la materia della sua esposizione e legge chiaramente nei fatti, nel mandato ricevuto dalla storia di spianare, con la parola o con la ghigliottina, la via alle nuove prorompenti forze di produzione.

Si potrebbe in uno scorcio storico mostrare che tutti i grandi ordinatori di nuovi sistemi sociali, fin dai più antichi, furono marxisti. Nella forma dei grandi ideologismi popolari seppero tutti esprimere il contemporaneo prorompere di nuovi materiali rapporti imposti alla vita sociale.

• • •

Federazione Europea! Il principale difetto di questa formula è che essa sceglie a modello il regime dell'implacabile capitalismo di oltre Atlantico, beve fino alla feccia la leggenda imbecille che sia più umano e meno barbaro di quello europeo, attribuisce scioccamente tali illusori vantaggi alla forma federativa della costituzione. Per il determinismo economico è ben chiaro dove debba cercarsi la differenza nei cicli di origine del capitalismo di qua e di là dell'Oceano. Vi si ferma Marx più e più volte illustrando il processo di trapianto del sistema del salariato, mano mano che il periodo di occupazione delle terre vergini si chiude, e scompare il tipo del libero pioniere e colono. «La guerra civile americana (che possiamo ben dire vaticinata nell'illuminato bilancio robespierriano della situazione mondiale 1793) ha avuto per conseguenza un enorme debito nazionale, una aumentata pressione tributaria, la nascita della più vile aristocrazia finanziaria, la infeudazione di una gran parte delle terre pubbliche a società di speculatori che gestiscono le strade ferrate, le miniere; in una parola, il più rapido accentramento del capitale. La grande repubblica ha quindi cessato di essere la terra promessa dei lavoratori emigranti. La produzione capitalistica vi cammina a passi di gigante, specialmente negli Stati dell'Est, quantunque l'abbassamento dei salari e la servitù degli operai siano lungi ancora dall'avervi raggiunto il livello normale europeo».

La guerra civile americana, altra tappa dell'accumulazione del capitale, ha per la dialettica marxista una fondamentale importanza. Se ne deride l'interpretazione che lo schiavismo del Sud fosse più negriero dell'industrialismo del Nord Est; al tempo stesso vi si vede un deciso passo innanzi per la lotta di classe moderna e la emancipazione proletaria. Alla fine del periodo stagnante, nella prefazione del 1867, Marx scrive:
«
In quella maniera che la Guerra dell'Indipendenza Americana nel secolo XVIII suonò le campane a stormo per la classe media europea, lo ha fatto la Guerra Civile Americana del secolo XIX per la classe operaia in Europa».
Si è molto lavorato ad intaccare la potenza delle previsioni marxiste: resta il fatto che nel 1871 per la prima volta in una grande capitale d'Europa sorgeva, per le armi della rivoluzione, il primo Stato operaio, annegato dalla reazione borghese in un mare di sangue.

Questa grande questione storica e sociale, per cui nulla vi è di più anti-marxista e di più filisteo delle smaccate e abusate apologie della civiltà statunitense, oggi largamente propalate da tutta una rete di prezzolati propagandisti, richiama l'altra del centralismo e federalismo, per cui Lenin disse nel 1917: al problema della repubblica federale, della repubblica accentrata e della autonomia locale, il nostro partito ha dedicato e dedica ancora un'attenzione insufficiente nella sua propaganda e nell'agitazione.

Come sempre la soluzione di Marx, di Engels, di Lenin splende di originalità ed è materiale indigerito al più dei socialisti da dozzina. Occorre premettere a tutto che le costituzioni sono per il marxismo sovrastrutture e non forze motrici del divenire sociale. «La rivoluzione non è una questione di forma di organizzazione». Il compito di levatrice di una nuova società lo assegnammo alla violenza, non alla codificata giustizia.

Di questa dialettica si mostra ben impregnato lo stesso capo dei giacobini quando ingiuria l'idra federalista in Francia, e ammira la gloria degli illustri Comuni americani.

Centralista fu Robespierre e la sua Repubblica Una e Indivisibile; centralisti sono Marx ed Engels, e Lenin con loro, rivendicando l'aperto contrasto col federalismo sociale di Proudhon. Ma tanto a proposito dello Stato rivoluzionario borghese, quanto per lo Stato proletario futuro, si dimostra che l'oppressione e il soffocamento alla periferia, la negazione di ogni concetto di iniziativa locale, si attuano proprio nello Stato federale e non in quello centralizzato. La repubblica giacobina unitaria volle nel paese l'azione spontanea delle comuni rivoluzionarie locali, nelle quali però si organizzava la dittatura per la unità di classe della giovane borghesia vittoriosa, concorde nello schiacciare alla base ed al centro ogni resistenza degli odiati aristocratici. La Comune di Parigi non volle la dittatura della capitale sulla provincia, ma lottò in nome e nell'interesse dei lavoratori di tutta la Francia contro la borghesia proprietaria finanziaria industriale e militarista. Nelle forme mature degli Stati borghesi il federalismo è l'optimum della forma conservatrice della dittatura di classe contro la rivoluzione operaia. Lenin riporta l'analisi di Engels a proposito del sistema svizzero, americano e così via: lo Stato confederato o il governo cantonale sono in certo modo liberi rispetto al governo federale; ma sono anche liberi nei riguardi del distretto e del comune. Ciò significa che nei distretti e nei comuni locali manca ogni autonomia e vi è la dittatura burocratica del cantone o dello Stato confederato. La utilizzazione dell'uno o dell'altro sistema nei vari Stati della borghese classe dominante, dipende dalle variabili circostanze dello sviluppo. Ma sempre la formula federativa è una magnifica armatura per soffocare le mille spinte locali contro la forma istituzionale, tendenti alla potente unità nazionale e mondiale della rivoluzione di classe.

Perciò Lenin conclude che
«
la maggior libertà locale che abbia conosciuta la storia è stata data dalla repubblica accentrata e non dalla repubblica federale».

È suggestivo come l'antifederalista Robespierre veda questa stessa verità, prevedendo che coi piani di egemonia in Europa del governo inglese, quel popolo perderebbe la sua interna libertà.
«
Lo stesso progetto di mettere un principe inglese sul trono dei Borboni era un attentato contro la libertà del suo paese, perché un re d'Inghilterra, la cui famiglia regnasse anche in Francia e nell'Hannover, terrebbe nelle sue mani tutti i mezzi per asservire il suo popolo».

Esempi di questi sistemi federali, connessi al solido dispotismo interno di classe, con o senza costituzioni scritte, furono e sono: il sistema inglese dei Dominions; il rapporto Stati Uniti-America del Sud; la situazione, sotto altra fraseologia, della odierna sfera russa in Europa Orientale e Balcani. Nazisti, fascisti, giapponesi non avevano in campo internazionale diverso traguardo.

• • •

Il Movimento Federalista Europeo, coi suoi stupidi progetti interparlamentari, maschera della realtà di una organizzazione di guerra a comando extra-europeo, non risponde ad altro che al migliore consolidamento della dittatura del Capitale americano sulle varie regioni europee, e al tempo stesso della interna dominazione sul proletariato americano, le cui vane illusioni di prosperità hanno per sicuro sbocco, nel volgere del ciclo storico, l'austerità che la più ipocrita delle borghesie fa inghiottire alla classe operaia d'Inghilterra.

L'armatura federale in Europa assicura nel modo migliore, col reclutamento di eserciti mercenari del capitale, di polizie di classe, che non potranno esservi più comuni rosse a Parigi, a Milano, a Bruxelles o a Monaco - come un sistema similare garantisce che non ve ne saranno a Varsavia, a Budapest o a Vienna.

La inversione dei giusti rapporti del centralismo rivoluzionario si è purtroppo verificata, infatti, nelle file del movimento di classe. La piramide della stretta unità, che non è soltanto unità di uomini e gruppi locali, ma di principii di metodi e di azione nel più lungo corso storico, è stata rovesciata ed infranta. I partiti, che bugiardamente si dicono comunisti, ostentano di essere ovunque partiti di politica nazionale, hanno disciolta la gloriosa Internazionale di Mosca del 1919, Partito Comunista d'Europa e del mondo, si dicono collegati in un equivoco ufficio di informazioni che non ha nessun carattere di organismo di partito, e fa mistero delle sue decisioni non per esigenze di tecnica insurrezionale, ma per sporco politicantismo federalista, per la comoda libertà di barattare in qualunque senso, a qualunque svolto, i principii i programmi e i metodi del movimento.

Per ciò stesso - e di questo tremendo problema la democrazia elettiva delle cariche non è che una insulsa caricatura - agli iscritti in quei partiti è stata tolta per sempre, rispetto ad una cricca di capi locali, ogni forza di vita e di iniziativa, chiudendo la sola via per la quale, affondate le radici nella generale realtà dell'oppressione sociale, sorge a fiammeggiante unità mondiale la Rivoluzione.

Source: «Prometeo», n. 14 del 1950

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