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DOPO LA GARIBALDATA
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Dopo la Garibaldata
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Dopo la Garibaldata
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Nuovi avvenimenti finiscono di spegnere gli echi della grande battaglia elettorale italiana di aprile, e dimostrano che la forza economica del dollaro può parimenti attuare le sue conquiste con e senza le bombe di aereo di Grecia, con e senza le schede d'Italia. Passata la pietosa scalmana, è più facile far capire quanto già allora era di solare chiarezza, che da quello spareggio numerico nulla poteva derivare e che dopo il 18 famoso tutto sarebbe continuato ad andare come prima in Italia. Eppure, in quei giorni vari milioni di poveri succubi credettero di avere in mano nella scheda dai tanti simboli la chiave per fare la storia.

Alta tra le tante reciproche rampogne dei contendenti fu quella che rinfacciava al Fronte la sua malafede nel paludarsi del segno garibaldino, e gridò all'offesa recata al nome dell'Eroe nazionale da quello che la propaganda antifrontista dipingeva come pericolosi rivoluzionari pronti a far saltare le strutture della società, della patria e dello Stato.

Se scandalo vi fu, non era quello di aver disonorato Garibaldi facendone il segnacolo di forze antinazionali, ma quello invece di aver preteso di rappresentare sotto quel simbolo le forze, le tradizioni e gli ideali della classe operaia rivoluzionaria, e l'offesa era recata non al ricordo del Generale, idolo a giusta ragione delle generazioni borghesi ottocentesche, bensì alle migliori e più degne tradizioni del movimento proletario italiano, che le inesauribili risorse del super-opportunismo nostrano non perverranno a obliterare e cancellare dalla storia.

Nel 1905, ricorrendo il centenario della nascita di Giuseppe Garibaldi, l'Italia ufficiale organizzò festeggiamenti e commemorazioni. La tendenza a gettarsi in questo movimento per dargli «un carattere di sinistra» era tanto banale quanto ovvia. Garibaldi era stato sempre presentato letterariamente non solo come avversario della monarchia e del Vaticano, ma come campione dell'indistinto democratismo internazionale avanzato; ed era citato come autore della frase divenuta ritornello dell'Inno dei Lavoratori: «Il socialismo è il sole dell'avvenire». La borghesia di destra onorava in lui il generale vittorioso e il fondatore dell'unità nazionale in alleanza ai Savoia; poteva sembrare un vero trionfo avanti lettera della tattica «bolscevico-leninista» (presentata oggi come l'ultimo trovato «900» dell'abilità rivoluzionaria) quello di gettarsi dentro, costellare i cortei di bandiere rosse e sopraffare le note ufficiali della marcia reale con le grida di: Viva Garibaldi! Abbasso il Papa e il Re!

Il movimento operaio italiano di allora era aderente ad uno scarso tessuto sociale industriale, era di recente tradizione marxista, sia teorica che organizzativa, in quanto i suoi primi decenni si erano ispirati prevalentemente ad indirizzi di facile sovversivismo romantico e all'epoca della Prima Internazionale vi dominavano i bakuniniani, mentre solo nel 1892 i socialisti marxisti si erano separati dagli anarchici come partito. D'altra parte soggiaceva largamente alle influenze dell'azione affiancata con i partiti borghesi di sinistra, radicali e repubblicani, ribadita nei moti del '98 e nelle battaglie elettorali dell'epoca.

Eppure quel movimento che poteva dirsi primordiale ebbe, quasi mezzo secolo addietro, tanta maturità e sensibilità di classe da disertare le manifestazioni garibaldine borghesi e tricolori.

Pochi anni dopo, nel 1911, l'Italia solennizzò un'altra ricorrenza, il cinquantenario della sua unità, attuata nel 1861 dopo le conquiste della seconda guerra contro l'Austria e della spedizione dei Mille. Appunto perché la classe dominante era coerente nel festeggiare coi simboli e le parole d'ordine patriottiche la vittoria storica conseguita a carico dei vecchi regimi austriacanti assolutisti e papisti, il proletariato, che pure dal 1821, anzi dal 1799, al 1861 aveva dato la sua collaborazione e il suo sangue alle vittorie borghesi, mostrò di possedere nel suo inquadramento sindacale e politico una sufficiente coscienza di classe, boicottò le dimostrazioni statali e regie, si schierò contro di esse e contrappose vigorosamente ai simboli e alle parole del democratismo patriottico le sue posizioni socialiste ed internazionaliste.

Nel 1912 l'Italia giolittiana fece le sue prove nel campo dell'imperialismo con quella guerra di Libia che rappresentò un momento di peso non secondario nel divenire del moderno capitalismo europeo.

La borghesia, in una nuova sbornia tricolore, inneggiò ai marinai e ai soldati partenti con la canzone «Torna torna Garibaldi», ma ancora una volta gli operai ed i socialisti furono fieramente dall'altra parte contro le consegne e le influenze borghesi, contro Garibaldi.

Nel 1914-15, nell'altra più grande battaglia di classe contro l'interventismo che affasciava tutte le sfumature borghesi dai nazionalisti ai repubblicani quando fu mobilitata in pieno tutta la tradizione e la retorica garibaldesca per l'irredentismo patriottico, per la guerra antiteutonica e democratica, quando gli stessi garibaldetti della terza generazione risalirono sul palcoscenico della grande commedia con le camicie rosse e le insegne delle legioni delle Ardenne, anche e soprattutto allora la classe lavoratrice italiana rifiutò quelle suggestioni del nemico interno e rimase solidamente sul terreno socialista.

In tutti questi storici episodi vi furono confusionari arrivisti e rinnegati che passarono dalla parte opposta e cercarono di intorbidare le acque con la propaganda ruffiana di un connubio tra le finalità operaie socialiste e le direttive del sinistrismo borghese massoneggiante, ma il grosso del movimento non si lasciò ingannare e i socialgaribaldanti furono messi fuori a pedate.

D'altra parte queste posizioni di elementare chiarezza non erano proprie dell'ala estremista del partito, ma erano base comune ai socialisti tutti, anche a quelli di tendenze via via più moderate alla Serrati, alla Lazzari, alla Treves, alla Turati, alla Modigliani.

Mentre il proletariato italiano, attraverso la opposizione alla guerra 1914-18 e le grandi battaglie di classe del dopoguerra, si portava sulle direttive più solidamente rivoluzionarie della Internazionale di Mosca, il suo avversario di classe svolse con assoluta continuità la sua contro-azione che culminò nel fascismo, generandola dal troncone dell'interventismo e del maggio radioso, in cui non a caso il segnale della guerra D'Annunzio l'aveva lanciato dal garibaldino scoglio di Quarto, e le forze antisocialiste si ordinarono nei fasci patriottici, di azione garibaldina e di combattimento dei Mussolini e dei Nenni.

Se dunque i socialcomunisti nostrani di oggi sono partiti in battaglia avendo sulla bandiera la faccia di Garibaldi, valgano i simboli quel che valgano, ciò conferma che essi continuano la linea storica dei disertori della classe operaia e che, degni successori dei rifiuti che il movimento socialista seppe liquidare con vergogna nel '12, nel '14, nel '15, nel '21, sempre più vanno volgendo le terga al marxismo rivoluzionario e alla lotta di classe.

Se è vero che il vecchio di Caprera, forte nell'azione ma assai poco ferrato nella dottrina politica, tanto da meritare malgrado la simpatia dichiarata ai comunardi i non pochi e piuttosto atroci strali di Carlo Marx, riprodotti a buon proposito dalla stampa antifrontista, fu tuttavia da tanto da antivedere nel socialismo la forza viva dell'avvenire, questi marxisti nostrani sono scesi all'opposto tanto in basso da non sapere più che cosa raccattare dal passato per farne la loro consegna. Nei loro giornali, insieme alla riesumazione di tutta una ridicola paccottiglia quarantottesca e patriottarda, molto più risibile ancora di quella dei fasti romani del littorio, si sono viste stampate a carattere cubitali frasi come queste: lottiamo per gli ideali dei nostri padri. I quali nostri padri, logicamente, appunto perché liberali garibaldini mazziniani e sinistri alla carducciana maniera, andavano su tutte le furie quando sentivano le enunciazioni marxiste e classiste della generazione oggi anziana dei seguaci del socialismo.

Al fine di fare gioco politico, d'acchiappar voti, di disturbare l'avversario e che so altro, a che ricorreranno ancora i nostri «progressivi» in questo accelerato indietreggiamento attraverso la storia? Su quale consegna si farà una nuova campagna? Avendo sottratto Garibaldi ai borghesi, il prossimo capolavoro strategico sarà forse di portar via a De Gasperi Tommaso d'Aquino o Ignazio di Loyola?

La chiave della fiera contesa era evidente. Mentre i socialfrontisti si sforzavano di guadagnare voti negli strati dei ceti medi continuando nella loro opera annosa di immergere il socialismo operaio in laghi di scolorina, e si presentavano come nazionali patriottici legalitari pacifisti credenti e conformisti in tutti i sensi, gli avversari, non meno ciarlatani e falsi, rendevano loro il segnalato servigio di restituire ad essi con tonnellate di carta e miliardi di kilocicli - tutte le plastiche sono possibili al dollaro - la remota verginità di rivoluzionari.

I frontisti avevano tutto l'interesse ad accreditare tra le masse proletarie la frottola che la loro vittoria avrebbe significato l'inizio della rivoluzione antiborghese in Italia, e sfruttavano a questo scopo, oltre la diffusione di interne «capillari» menzogne, il pubblico clamore avversario, mentre dal canto loro cercavano, con le contrapposte - e queste veritiere - affermazioni di aver tutto barattato del programma bolscevico e dittatoriale, di aggiungere ai voti operai quelli di un largo strato di incerti e di anfibi, e ne assumevano nelle loro liste alcuni ineffabili rappresentanti «indipendenti», reclutando i tipi più dimessi e spregevoli del pur orripilante campo del personale politico italiano (e sarà interessante seguire in quale spazzaturaio finiranno costoro). I socialcomunisti hanno gridato alla sopraffazione, perché la campagna della paura che tingeva di rosso vivo il loro rosa ultrasudicio avrebbe portato loro via i milioni di voti necessari a vincere, spaventando masse di elettori troppo timorati di Dio, dell'ordine e della proprietà. Ma le elezioni della paura hanno invece aiutato proprio i «popolari» a barare, perché hanno mascherato agli occhi degli elettori proletari la loro diserzione dalle tradizioni della lotta socialista e operaia in Italia, ed hanno fatto sì che i lavoratori, oltre a credere ancora una volta disgraziatamente all'inganno della conquista democratica e schedaiola del potere, abbiano ritenuto in larghe masse di agire contro la borghesia votando il fronte, visto che borghesi e preti tanto gridavano ai pericoli di esso, alla certezza, se avesse vinto, della repubblica italiana dei Soviet!

Questa sciocca denunzia del mezzo della paura, che è per sé stessa una abiura del testo fondamentale del comunismo: «le classi dominanti ben possono tremare dinanzi ad una rivoluzione comunista» corona il dispregio e di più l'ignoranza della storia della lotta di classe in Italia. Lo stesso «migliore», che passa per polemista temuto nel pollaio italiota dei politici, lamentò in uno o più dei suoi discorsi che la borghesia italiana avesse sempre usato questo mezzo di descrivere come spaventoso il movimento proletario, e citò le elezioni amministrative del 1914 a Milano, in cui la lista capeggiata da socialisti moderatissimi alla Caldara o Filippetti era presentata come Barbarossa alle porte di Milano. Ma la citazione era data al rovescio. Fu l'«Avanti!» a salutare la vittoria in quella campagna, condotta sulla linea di una intransigenza antiborghese di principio, coll'articolo: «Barbarossa padrone di Milano». Mussolini, per imaginifico a vuoto che sia stato in molte fasi, potrebbe insegnare a questi signori che, volendo dare all'azione operaia un mito, si cerca non un mito nazionale, ma uno antinazionale. Del resto molti di questi marxisti da Canzone di Legnano erano interventisti prima che lo divenisse il futuro duce.

Se d'altra parte essi avessero vinto, né Barbarossa né baffogrigio sarebbero calati in Italia. Non le conte schedaiole determinano le situazioni, ma i fattori economici che si concretano in posizioni di forza, in controlli inesorabili sulla produzione e il consumo, in polizie organizzate e stipendiate, in flotte incrocianti nel mare di lor signori.

Eletto chicchessia al governo della repubblica, non avrebbe altra scelta che rinunziare, o offrirsi in servigio all'ingranamento di forze capitalistiche mondiali che maneggia lo Stato vassallo italiano. Quanto al fare del «sabotaggio», è altra illusione su quello che è il compito dei portabandiera parlamentari. Sono le sfere dell'affarismo borghese e delle alte magistrature militari e civili che possono a loro mercé sabotare i politicanti portafogliati, e non viceversa.

Il meccanismo elettorale è oggi caduto nel campo inesorabile del conformismo e della soggezione delle masse alle influenze dei centri ad altissimo potenziale, così come i granelli di limatura di ferro si adagiano docili secondo le linee di forza del campo magnetico. L'elettore non è legato ad una confessione ideologica né ad una organizzazione di partito, ma alla suggestione del potere, e nella cabina non risolve certo i grandi problemi della storia e della scienza sociale, ma novantanove volte su cento il solo che è alla sua portata: chi vincerà? Così come fa il giocatore alla Sisal; e, di più, imbrocca meglio chi non ha nessuna competenza sulla materia del gioco e mentisce alle sue stesse intime simpatie.

Questo arduo problema di indovinare chi è il più forte lo affronta il candidato rispetto al governo, il governante rispetto al campo internazionale. Lo affronta l'elettore rispetto al candidato che vota; cerca, non reca, un appoggio personale nella difficile lotta di ogni giorno.

Se si fosse saputo il 17 aprile che vinceva De Gasperi, invece del 50 per cento gli davano il 90 per cento dei suffragi. A questo ci arrivava la dialettica dei frontisti, ed ogni argomento serio era superato e prostituito dinanzi a quello massimo: Vinceremo! (E potremo pagare, coi soldi di Pantalone, galoppini, cagnotti e graziosi sodali «indipendenti»). Mussolini non diceva altro, De Gasperi lo diceva e lo sta facendo senza ritegno.

Tutta la politica e la tattica degli avversari dei democristiani sono state disfattiste. La lunga pratica dell'opportunismo dei capi delle organizzazioni dette di massa ha condotto ad una situazione in cui non è più inseribile una avanzata progressiva, nella lotta sul terreno delle elezioni, di un partito che abbia un programma ed un atteggiamento di opposizione di principio e che proclami agli elettori il rifiuto della illusione che comunque per via democratica possano le classi sfruttate arrivare al potere.

Oggi l'elezionismo è pensabile solo in funzione della promessa del potere, di lembi di potere.

Questo è il risultato della malfamata tattica delle alleanze, dei blocchi, dei fronti unici. Esso è dimostrato nel disfattismo non solo di ogni preparazione rivoluzionaria e di ogni forza classista, ma degli stessi scopi contingenti che i frontisti italiani si pongono, chiamateli pure come volete, stalinisti moscoviti antiamericani o altro.

Questo metodo disgraziato ha portato più facilmente avanti De Gasperi e il suo partito, come avrebbe portato quel qualunque attruppamento cui al capitale mondiale piacesse confidare il controllo in Italia. è stupido piangerci.

Si iniziò coll'indegno baratto di tutta la posizione classista della lotta proletaria nella consegna del «viva la libertà» e della unità antifascista. Si passò per le tappe dei Comitati di Liberazione, dell'Esarchia, del governo Tripartito, sempre lasciando credere ai lavoratori che, prese ipoteche su fette della cittadella del potere, piano piano la borghesia capitalistica sarebbe stata spinta fuori dagli altri settori. Il processo invece procedeva inesorabile in senso inverso.

Rotto il tripartito e ridotto il fronte alla unità di azione tra i due partiti opportunisti, eredi abusivi dei nomi di comunista e socialista, lo sfaldamento non fece che continuare. La parte di questo fronte informe che poggia su ceti medi e su influenze borghesi, mano mano che decifra che la forza e il successo sono dalla parte americana, si cala a gruppi successivi fuori bordo. Ne abbiamo viste nel passato di queste diserzioni in serie... Il partito socialista che sembrava saldamente agganciato all'organismo filorusso cominciò collo scindersi una prima volta. Fu vano gridare che si trattava di pochi capi, perché un paio di milioni di quei voti che facevano venire l'acquolina in bocca ai maneggioni, e purtroppo a tanti e tanti ingenui, se ne andò con loro. Oggi si annunzia un nuovo sfaldamento, e sul piano nazionale come su quello internazionale gli sfaldamenti seguono inevitabili all'impiego vellutato di quei mezzi di feroce beneficenza che sono il piano Marshall, l'ERP e così via: piegate le schiene e avrete qualcosa nello stomaco. Lo stomaco della grande massa lavoratrice ed elettrice resterà allo stesso punto, ma non sarà così dei «quadri» passati a tempo dall'altra parte. Sembra che anche le grinte più feroci con questo sistema si vadano spianando. E chi sa che non si finisca col vedere a questi passi Barbarossa in persona!

In questo quadro di disfatta, che non è in fondo che la disfatta dei traditori del proletariato, l'aspetto più ripugnante è il ripiego su posizioni e dichiarazioni di sinistra e l'invocazione al marxismo, che si sentono oltre frontiera e dentro frontiera e nel bailamme dello sbandarsi del partito socialista. Semiammutolito Nenni, i tipi come Basso sono caratteristici esempi di questi marxisti a ritorni mestruali.

Il nome di Marx e di Lenin e le loro tesi possenti, sulle labbra di quelli che ne hanno fatto inaudito scempio, sono avviliti alla stessa funzione di imbonitura di tutte le altre mistiche ingannatrici. Il marxismo e il leninismo non hanno codici o vangeli, la loro affermazione risiede nella continua, ininterrotta conferma del metodo nel piano della interpretazione e in quello dell'azione. Invocati al momento dello sbaraglio nello stile da sacrestani dell'ipse dixit, si abbassano allo stesso compito truffaldino che hanno i nomi dei santi sulle bocche dei preti o quelli degli eroi nazionali sulle bocche dei patriottardi.

Con uno schieramento delle forze della classe operaia al di fuori della tattica del fronte unico e popolare, che rifuggisse da rivendicazioni antitetiche al programma proletario e da promesse di vittorie legali, che avesse saputo disprezzare la illusoria conquista rappresentata dal riottenimento della facoltà democratica, ben altra posizione di resistenza avrebbero ora dinanzi a sé i piani di assoggettamento del capitalismo di oltreoceano e le cricche di venduti arruolate dalla fosca libidine di amministrare i soccorsi.

Invece l'imperialismo capitalistico, le classi privilegiate, gli stati maggiori dell'affarismo, la Chiesa, l'alta burocrazia hanno campo libero in Italia.

Poco li disturba il chiasso che riesce ancora a fare una opposizione battuta che non ha avuto una parola contro il rastrellamento delle armi conservate dagli operai, che affigge manifesti con «Viva la Polizia!», che sa solo invocare il rispetto della costituzione, che pone come obiettivo agli scioperi ammaestrati rivendicazioni così audaci come la concessione di qualche posto nel gabinetto agli onorevoli del fronte popolare, e, se offerto, avrebbe la suprema viltà di accettarlo rimettendo la sordina a Marx non solo, ma anche all'ombra pallida che si va farisaicamente rievocando di Giordano Bruno.

La democrazia sorta dall'abbattimento del fascismo impegnò a quell'obiettivo le forze operaie promettendo che, vinta la reazione, avrebbe avanzato a ritmo progressivo. Ma noi le contestiamo di essere un progresso rispetto al fascismo, e anche se incedesse travolgente, neghiamo che con essa avanzerebbe la causa della rivoluzione proletaria e del comunismo. Comunque essa tradisce la sua stessa promessa: ognuno può senza ardui sforzi teoretici constatare il senso trionfalmente progressivo della situazione in Italia; bilancio di cinquant'anni di peste bloccarda: la chierica avanza, il fronte rincula.

Source: «Prometeo» n. 10 del giugno 1948

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