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SGUARDI ALLA GERMANIA EST: IL «DIRITTO AL LAVORO»


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Sguardi alla Germania Est: il «diritto al lavoro»
La «collaborazione» allo sfruttamento
«La cooperazione aziendale»
Il ruolo del sindacato
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Sguardi alla Germania Est: il «diritto al lavoro»

Come abbiamo visto (n, 8 e 9 del «Programma Comunista» [«Il ‹Socialismo› del Codice del Lavoro nella R.D.T.»]), nella Repubblica democratica Tedesca il sogno di un ordine profondamente «giusto» è inseguito con un accanimento e una «buona volontà», tali ché all’«ingiusto» salario orario si sostituisce, ove possibile, il «giusto» e più redditizio (per il capitale e… per il lavoratore che, onde guadagnare di più, spreme tutte le sue energie) salario a cottimo; e vi abbiamo riconosciuto un’altra prova della persistenza dei rapporti economici e sociali capitalistici.

È più che naturale che, sullo sfondo di questi «armonici» rapporti di lavoro si articolino deliziosamente i «diritti» concessi a piene mani da qualunque Stato capitalista che voglia «fare bella figura», e passare per democratico e comprensivo dei «problemi del lavoro». Tocca, ovviamente, al primo capitolo del «Il ‹Socialismo› del Codice del Lavoro nella R.D.T.» illustrare il carattere particolare dei diritti vigenti nel «socialismo» marca Ulbricht, sottolineando le «conquiste» in essi contenute, conquiste che il capitalismo dei «reazionari» paesi occidentali non sogna neppure.

I diritti concessi nella R.D.T., si legge a pag. 15, – sono i seguenti:

a) diritto al lavoro;
b) diritto alla formazione professionale e alla riqualificazione;
c) diritto al riposo;
d) diritto alla protezione della salute e del lavoro;
e) diritto all’assicurazione di mallatìa, invalidità e vecchiaia;
f) diritto all’attività culturale e sportiva;
g) diritto all’assistenza sanitaria e sociale.

Dopo questo elenco, il «Codice» può dichiarare soddisfatto:
«In ogni Stato, i diritti e le leggi esprimono la volontà della classe dirigente»,
che è vero, ma non è piuttosto compromettente per voi? Le cose si «aggiustano» con la successiva spiegazione:
«Nella R.D.T., dove i mezzi di produzione sono nella loro grande maggioranza di proprietà del popolo, questi diritti sono assicurati dall’esercizio del potere economico e politico da parte degli operai uniti ai contadini, agli intellettuali e agli strati di lavoratori». (Ma che bello: gli intellettuali come classe alleata degli operai, e gli «altri strati di lavoratori» – i preti, forse? – dietro?).

Che la struttura di una società sia socialista o capitalista, o che so io, feudale, trova dunque, dite anche voi, conferma e prova nei diritti e nelle leggi che lo Stato formula e attua. Vediamo dunque un po’ i vostri bei «diritti».

Francamente non ci sembra, dalla scorsa all’elenco sopra riportato, che vi siate sbilanciati troppo, e non troviamo un diritto che non sia già vecchio e malandato nei paesi da voi tanto «odiati» e nei confronti dei quali nutrite, oltre che una invidia smisurata, un sacrosanto complesso d’inferiorità; i paesi, cioè, in cui le leggi «esprimono la volontà della classe dirigente» capitalistica; paesi che, ad ogni minima scossa del sottofondo sociale, si mettono a distribuire diritti a profusione; paesi in cui perfino gli aborriti regimi totalitari, appena debellate le forze rivoluzionarie, cominciano a scodellare diritti e riforme. Il primo diritto che danno è quello al lavoro. Ogni uomo ha diritto a farsi sfruttare (ed a sfruttare), che diamine! E spiegano: gli uomini sono tutti uguali, tutti hanno gli stessi diritti, e intanto battono amichevoli (e democratiche) manate sulle spalle forzute d’un lavoratore ammansito, cui annebbiano il cervello con panzane di «diritti» e «giustizia» dopo di averlo consumato fisicamente nella fabbrica. Il coronamento di tutti i «diritti» si ha quando tutti, lavoratori e sfruttati a braccetto, si recano alle urne, gli uni in attesa che il mondo cambi, gli altri sapendo benissimo che, fin quando esiste con tutti gli altri il diritto elettivo, per loro andrà sempre bene.

Dunque, nel socialismo, strombazza il Codice dello sfruttamento «socialista», i lavoratori avrebbero il diritto al lavoro. Ma questa è bella! Reclamare il diritto al lavoro ponendo in movimento la classe proletaria, è certo utile. Può divenire una leva per metterla in moto, se tale diritto non è ancora stato ottenuto nella società borghese. È una rivendicazione che la pone di fronte allo Stato (e, per fortuna, non di fronte alla singola azienda), mettendolo nella condizione di riconoscere la sua impotenza a garantire le sue strombazzate leggi. Chiarisce la realtà di questo diritto al lavoro in una società in cui le crisi e la disoccupazione sono croniche. La rivendicazione può quindi avere un senso, in determinati momenti, entro la società borghese: è utile per mettere la classe lavoratrice sul piede di guerra; inutile se viene «regalata» dallo Stato. Deve essere una conquista, non un regalo. Non può avere senso dopo, appena conquistato il potere da parte del partito proletario, che lo abolisce sostituendolo con l’obbligo al lavoro per tutti, e la certezza della sua esistenza.

Altro che diritto!

Diritto al lavoro significa che, se un individuo (base della società non comunista) non trova lavoro, può far baccano per averlo. Presuppone quindi la possibilità d’essere senza lavoro e quella di cercarlo, d’essere insomma un corpuscolo vagante nell’economia sociale, affidato alla propria fortuna o sfortuna. Presuppone come ogni diritto, (Marx insegna) la disuguaglianza, l’ingiustizia; tradisce il sopruso. È il diritto del salariato d’essere salariato, cosa di cui, crediamo, farebbe volentieri a meno. Presuppone il lavoro come merce, e l’esistenza del mercato. Presuppone, insomma, un’economia capitalistica.

Nel socialismo nessuno potrà fare valere il diritto al lavoro, come altri diritti, perché tutti saranno obbligati, in quanto membri della società, a prestare l’attività stabilita. Tutti saranno lavoratori e nessuno sarà lavoratore salariato munito di «diritti».

Nella formula legislativa, riflesso inflessibile della turpe realtà sociale, malgrado tanto uso di aggettivi demagogici, è già palese l’uso della forza lavoro, dell’attività umana, come mezzo per l’accumulazione. Non il lavoro di tutti in funzione del miglioramento della società, ma l’utilizzazione della forza di chi è costretto al lavoro dalla dura esistenza (anche se, perdendolo, può balbettare d’averne il diritto) allo scopo di produrre merci. E chi, dalla dura esistenza, non ne è costretto? È semplice: questi potrà stare a vedere. Il lavoro altrui non stanca affatto, anzi è divertente. A pag. 18 del «Codice», leggiamo infatti:

«Naturalmente [naturalmente, naturalmente] nella R.D.T. non esiste nessuna costrizione al lavoro».

Ecco il complemento necessario del diritto al lavoro: che per qualcuno esso non sia un «dovere».

La costrizione al lavoro non è formulata legalmente, ma chi appartiene alla classe dei non-proprietari vi è costretto senza bisogno di nessuna legge se «vuole» riempire lo stomaco, e il «diritto» gli dà solo diritto alla tortura quotidiana. Per chi avrebbe invece un senso l’obbligo al lavoro, perché le sue condizioni gli permettono di strafregarsene del «diritto», non esiste – che diamine, sarebbe poco democratico – la costrizione!

In una delle definizioni della forma che succederà all’attuale società, Federico Engels mette bene in chiaro questo aspetto e riportiamo la citazione a scorno di chi agisce nel senso contrario e pretende tuttavia d’essere fedele ai classici del marxismo:
«Un nuovo ordine sociale è possibile, nel quale spariranno le attuali differenze di classe e nel quale – forse dopo un breve periodo di transizione, un po’ travagliato, ma ad ogni modo utile dal punto di vista morale – grazie allo sfruttamento secondo un piano e all’ulteriore sviluppo delle esistenti immense forze produttive di tutti i membri della società, ad un uguale obbligo al lavoro corrisponderà una situazione in cui anche i mezzi per vivere, per godere la vita, per l’educazione e lo sviluppo di tutte le facoltà fisiche e spirituali saranno a disposizione di tutti, in modi uguale e in misura sempre crescente» (Prefazione del 1891 a «Lavoro salariato e capitale» di Marx, pag. 17, Editori Riuniti, 1957).

Riteniamo che non sia il caso di soffermarci sugli altri diritti elencati, esistenti dappertutto, che comunque «non possono essere attuati che sulla base del diritto al lavoro» («Codice» , p. 18). Liquidando quest’ultimo, vengono dunque liquidati tutti, se è il caso di prendersene il disturbo.

La «collaborazione» allo sfruttamento

«Ma non è tutto» spiega il «Codice», insaziabile, a pag. 17, «perché il diritto al lavoro comprende anche il diritto di partecipare, in modo creativo, alla elaborazione e alla realizzazione dei piani, e d’intervenire nella direzione dell’azienda e dell’economia nel suo complesso».
Nella società socialista, si spiega, dove i mezzi di produzione (e i prodotti?) appartengono «in prevalenza» a tutta la società, il lavoratore oltre ad avere il diritto al lavoro ha
«il diritto e il dovere di contribuire in modo attivo alla affermazione del principio della democrazia socialista: collaborare nel lavoro, nella pianificazione e nel governo».

Nel socialismo, quando cioè la società non sarà ancora libera dal principio egualitario nella distribuzione dei prodotti, principio che fissa la quantità di consumo in base alla quantità indistinta (ore di lavoro, senz'altra qualifica) di attività lavorativa prestata, sarà anche un «dovere» partecipare all’elaborazione dei piani di produzione, subordinandosi comunque alle direttive non-aziendali del partito politico dittatore. Anzi, la prestazione di lavoro obbligatorio e questa collaborazione saranno del tutto inscindibili, e non ci sarà affatto bisogno di codificare la necessità di collaborare al socialismo, esistendo invece la costrizione al lavoro.

Che cosa si intende nella Germania Orientale con:
«intervenire nella direzione dell’economia nel suo complesso»,
come dice il «Codice del Lavoro»? Su che base avvengono questo «intervento», questa «collaborazione»? Sulla base di classe, nell’interesse della classe, nella prospettiva della completa distruzione del mercato che per un certo tempo resiste, anche se menomato; per l’abolizione delle ultime isole di lavoro salariato, per l’eliminazione insomma degli ultimi resti sociali della forma produttiva precedente? Oppure si tratta di una «collaborazione» individualistica, basata sull’incentivo produttivo, cioè l’interesse personale del produttore (cfr. prima parte di questa serie d’articoli), mirante unicamente all’aumento della produttività, svolta per l’accumulazione e la vendita di merci sul mercato?

Nel primo caso la collaborazione è sociale ed è distintiva del socialismo, nel secondo è quella in atto nel capitalismo, e dovuta nella Repubblica Democratica Tedesca all’associazionismo nella produzione, ma subordinata all’anarchia produttiva.

Collaborare, in sé, non ha significato; è necessario analizzare il carattere di questa collaborazione nell’ambiente sociale. Quando abbiamo esaminato i rapporti salariali (nella misura in cui il «Codice» ce ne ha dato la possibilità), abbiamo visto come la «collaborazione socialista» in pratica si riduce alla prestazione produttiva intensificata, nel contrabbando, ormai di norma per gli opportunisti giunti al potere, del socialismo per la forma che estrae più prodotti con maggiore intensità e maggior durata di lavoro umano (salariato), e che, in generale, produce di più. Il produrre di più, in sé, sarebbe socialismo! (Di qui il complesso d’inferiorità e l’inseguimento dei paesi capitalistici occidentali, più avanzati e perciò tutt’altro che da imitare).

Fin quando il rapporto dominante nella società resta il lavoro salariato, collaborare, «creativamente» o meno, significa collaborare al proprio sfruttamento di salariato. Ciò vale perfino quando al potere c’è un vero partito comunista, o come, per esempio, quando occorra non interrompere la produzione in un paese in cui la rivoluzione ha vinto, per poter rifornire dei necessari mezzi di sussistenza la popolazione e appoggiare con tutto il necessario (armi, uomini, vettovagliamento) la rivoluzione degli altri paesi. Ma i comunisti non etichetteranno come socialista tale necessità, che non contrasta col fatto che il potere è in realtà nelle mani del partito rivoluzionario. Ciò sarà messo in conto di quei tali sacrifici che la classe deve storicamente compiere, perché è sulle sue spalle che poggia la nuova umanità. Nessuno nasconderà la realtà: il lavoro salariato dovrà essere sopportato, essendone impossibile l’abolizione in un paese isolato dagli altri, e gli operai sapranno di essere ancora, per forza di cose, sfruttati, solo non più da una classe antagonistica, ma da sé stessi, organizzati come potere politico dominante e in funzione della vittoria negli altri paesi, unica possibilità per raggiungere la meravigliosa meta: abolizione del lavoro salariato, instaurazione del socialismo.

Il lavoro salariato sarà in quel momento non lavoro socialista in sé, ma lavoro utile al socialismo.

Ciò chiarito, resta anche chiarito che «collaborazione» sia mai quella in atto nella Germania Orientale, dove non è mostrata come peculiare del capitalismo, ma contrabbandata come un rapporto della nuova società, non come una triste ma necessaria realtà, ma come una realtà di sogno, conte la prima pietra di un nuovo mondo. Tutto il vecchio mondo, con i suoi rapporti economici, la sua anarchia nella produzione, il suo spreco di energie e di prodotti, e tutte le sue brutture, le sopravvivenze storiche di una forma che ha fatto il suo tempo, sono fatti passare per la nuova società priva di contraddizioni.

Fin quando esiste il lavoro salariato, esso «collabora», nell’azienda, al capitalismo.
«Sino a tanto che l’operaio è operaio salariato, la sua sorte dipende dal capitale. Questa è la tanto rinomata comunità di interessi fra operaio e capitalista (ovvero tra classe salariata e potere dello Stato)». (Carlo Marx, «Lavoro salariato e capitale», pag. 38, Editori Riuniti).
Chiaro, no? I brillanti autori del «Codice del Lavoro» nella R.D.T. si ritengono autorizzati a definire «socialista» la «collaborazione» della classe oppressa all’esaltazione produttiva del loro paese, dal fatto che da loro non esisterebbe la classe sfruttatrice. Ma come mai, allora, esiste il lavoro salariato? Dobbiamo citate altri pezzetti di «Lavoro salariato e capitale»?
«Il capitale presuppone dunque il lavoro salariato, il lavoro salariato presuppone il capitale. Essi si condizionano a vicenda; essi si generano a vicenda» (pag. 37).
Poco dopo, nella stessa pagina:
«La forza-lavoro del salariato si può scambiare con capitale soltanto a condizione di accrescere il capitale, di rafforzare il potere di cui è schiava».

Essi hanno scoperto, esattamente come gli economisti cui Marx si è rivolto con la frase riportata più sopra, che gli interessi del loro Stato e del proletariato sono gli stessi, solo perché il loro Stato e il lavoro proletario sono elementi di uno stesso rapporto: quello dello sfruttamento capitalistico!

«La cooperazione aziendale»

Completiamo con questo articolo lo studio del «Codice del Lavoro» della Repubblica Democratica Tedesca (DDR, o «Germania Est») come riflesso della sua struttura economica e sociale, per i cui precedenti rinviamo ai numeri 8, 9 e 11 di quest’anno.

Un altro fattore determinante del carattere «socialista» della struttura sociale sarebbe la «compartecipazione» dei lavoratori alla direzione economica della società, conquista decantata come il vero successo del socialismo ultimissima versione e universalmente apprezzata per la sua natura democratica sia dai social-riformisti europei, sia dai «comunisti» d’oltre cortina, con codazzo di affiliati d’Occidente. Essi vedono l’avvio al socialismo non nell’organizzazione politica della classe proletaria che distrugge dittatorialmente le vecchie istituzioni sociali, ma nel fatto che strati di lavoratori si inseriscano nella direzione economica della società oggi esistente e stabiliscano entro le singole fabbriche le entità produttive (con la necessità al solito, d’intensificare la produzione per ottenere un maggior profitto sul mercato). In tal modo, a poco a poco la classe operaia permeerebbe di «socialismo» la società borghese attuando pacificamente le note riforme di struttura: «costruirebbe» socialismo senza distruggere capitalismo. Si elimina così la parte distruttrice, che è la più importante anche se rappresenta uno scandalo per la democrazia, e il vero contenuto della dittatura proletaria.

Se in un caso eccezionale la dittatura sarà instaurata senza distruggere uomini, cosa certo augurabile ma da escludere tuttavia nel mondo attuale di sbirri e leccapiedi, essa non potrà mai fare a meno di distruggere istituzioni e violentare vecchie impalcature sociali, alcune delle quali verranno sostituite con strutture opposte, altre semplicemente eliminate.

Ecco perché il passaggio attraverso la dittatura (l’intervento dispotico del «Manifesto») è obbligatorio anche se – per ipotesi assurda – fosse attuabile una via pacifica al socialismo. L’inserimento dei collaboratori operai nella direzione delle imprese non ha in sé alcun carattere socialista; è, finché sussiste il capitalismo, il prolungamento di quello spersonalizzarsi del capitale che già avviene nelle società per azioni. È il capitale che diviene sempre più un potere al di fuori dell’individuo singolo e che domina dall’alto della sua potenza sociale. Del resto, la figura del collaboratore operaio è diffusissima nell’industria occidentale, dove egli diviene il confidente numero uno del padrone e ne è ricompensato generosamente.

Inoltre, instaurato il socialismo, la collaborazione non può essere aziendale. L’impresa più socialista (se così possiamo esprimerci) che vi si realizzerà non sarà certo la collaborazione entro le aziende, ma la distruzione delle aziende come principio produttivo.

A questo il «socialismo tedesco» si guarda bene di tendere.

Esso ha invece trasformato il socialismo in una questione di buona direzione di aziende! Sembra incredibile, ma è così. A pag. 27 del «Codice del Lavoro» della RDT, nel capitolo intitolato «La direzione delle aziende e la compartecipazione dei lavoratori», si spiega che
«in regime capitalistico l’operaio non ha interesse alcuno a migliorare il sistema di direzione che egli identifica con lo sfruttamento padronale. Il suo interesse non mira dunque al perfezionamento dei metodi di direzione, che porterebbe non ad un aumento detto sfruttamento, ma alla diminuzione dello sfruttamento e successivamente alla sua completa liquidazione [!]».

Un buon uomo non può che stropicciarsi gli occhi incredulo. Il miglioramento della direzione aziendale (anche capitalistica!) porterebbe alla diminuzione ed all’eliminazione (culmine della perfezione direttiva) dello sfruttamento. Non è più una questione di rapporti produttivi; il senso della realtà capitalistica starebbe tutto li, nella cattiva direzione delle imprese: non nella fabbrica che produce, per mezzo del lavoro salariato, merci da piazzare sul mercato, ma nella stanza del direttore che organizza «male» il lavoro alle sue dipendenze. Migliorate la direzione, e a poco a poco si spanderà sulle merci che usciranno a ritmo continuo dalla fabbrica un alone «socialistico». Migliore sarà la direzione, più il lavoro sarà produttivo, più merci nasceranno nella unità di tempo di lavoro, tanto più lo sfruttamento… si sgonfierà. Questo il socialismo alla rovescia «lanciato» sui mercati della povera opinione pubblica.

La realtà è ben diversa; altrimenti noi, invece di dedicarci alla rinascite mondiale del partito di classe, ci dedicheremmo con tutte le nostre forze agli studi atti a perfezionare la direzione economica aziendale. Quanto meglio il lavoro salariato è organizzato e diretto, tanto più il lavoro rende, tanto meno il proletariato riceve, perché, anche se il suo salario aumenta, maggiormente cresce la massa di merci prodotta; tanto più esso viene sfruttato: questa la realtà non capovolta. Realtà che non abbiamo scoperta noi, ma indagata da un certo Carlo Marx cent’anni fa. Ne avete sentito parlare, in Germania Est?

Il ruolo del sindacato

Ecco a che cosa si riduce dunque la «compartecipazione creativa» dei lavoratori alla direzione economica: essa ha l’unico compito creativo di «creare» accumulazione di capitale, di produrre sempre più merci. Il lavoratore può fare proposte, certo; ma solo in senso «creativo», cioè a condizione che la proposta riguardi l’utilizzazione più intensa del lavoro, lasciandone intatta la durata. Se poi egli propone di prolungare la giornata lavorativa, ancora meglio. Tutto per il socialismo! E tutto con l’appoggio, non sappiamo se «creativo», dei sindacati, i quali esistono proprio a tale scopo. Le direzioni sindacali aziendali hanno infatti il diritto (Pag. 33):

1) di organizzare l’emulazione socialista, il lavoro collettivo socialista, le conferenze permanenti di produzione e le discussioni sui piani, di partecipare all’elaborazione dei piani aziendali e di controllarne la realizzazione;

2) di introdurre i metodi degli innovatori, di sostenere le proposte dei lavoratori, come pure di partecipare all’istruzione professionale degli apprendisti ed alla riqualificazione dei lavoratori;

3) di partecipare all’elaborazione, di stipulare e di controllare l’applicazione dei contratti collettivi d’azienda e di reparto come tutti gli altri contratti collettivi di azienda previsti dalle leggi;

4) di partecipare all’esecuzione del principio socialista delle prestazioni (?] ed alla conseguente formazione dei rapporti di lavoro e di salario e di contribuire con voto deliberante alle decisioni circa l’utilizzazione dei mezzi finanziari per i fondi premi, culturali e sociali;

5) di partecipare alla trattazione degli affari del personale conformemente alle disposizioni di legge;

6) di controllare l’assistenza agli operai (se si ammalano producono di meno], la costruzione di case e di installazioni sociali e culturali, di partecipare con voto deliberante alla distribuzione delle case di abitazione e di sviluppare l’attività culturale e sportiva nell’azienda;

7) di controllare la realizzazione dette misure di prevenzione contro malattie ed infortuni e di adempiere alle funzioni dette assicurazioni sociali della azienda;

8) di pretendere l’eliminazione di deficienze nell’azienda e di contribuirvi.

È con tutta questa sequela di diritti (un vero spreco) che si «costruisce» creativamente il «socialismo» nella Repubblica Democratica Tedesca. Il socialismo è la vera realizzazione dei «diritti dell’uomo»! Questa frase scherzosa sarebbe presa con la massima serietà da quei pagliacci. Tutto ruota qui su un perno unico, l’aumento della produzione (di merci) senza il minimo accenno alla diminuzione della giornata lavorativa.

L’obiettivo dei sindacati viene apertamente ridotto a quello d’un buon funzionario col compito di far svolgere i rapporti di lavoro (i rapporti nell’ambito della azienda tra la classe dominante e quella dominata), senza impacci e interruzioni. Certo, l’obiettivo dei sindacati è la «costruzione della società socialista». Questo scrive il codice del lavoro, ma se noi esaminiamo i punti succitati, la collaborazione sindacale alla costruzione del socialismo si riduce ad una insana spinta produttivistica e all’eliminazione di tutti gli elementi che potrebbero creare attrito tra i lavoratori e la direzione aziendale. Insomma, si tratta semplicemente di un subdolo prolungamento della direzione aziendale stessa all’interno della fabbrica, che con i mezzi della persuasione e della retorica nazional-fascista mira a mantenere costante il ciclo produttivo. Si tratta proprio di un miglioramento nella direzione aziendale, dell’introduzione di una polizia fidatissima al servizio della produzione di plusvalore!

Il compito dei sindacati è invece, sempre, quello di salvaguardare gli interessi dei proletari; quando lo Stato è capitalista, opponendosi con tutte le forze dell’interesse del capitalismo; quando lo Stato è proletario, non riducendo certo tutta la sua attività alla frase, cucinata in mille salse: massima produzione di merci per la costruzione del socialismo.

I lavoratori (cioè i salariati) vogliono collaborare al «socialismo»? Producano di più. Vogliono «innovare»? Trovino un sistema per produrre più intensamente, come il fabbro H. Richter (cfr. pag. 46 del «Codice»), il quale guidato dalla
«coscienza socialista legata ad uno spirito di inventore, ha realizzato importanti innovazioni. Ha presentato 122 proposte di miglioramento della produzione e della tecnologia, delle quali 118 sono state accolte ed applicate con un utile di oltre 64 mila marchi» (questo l’importante!).
[Dalle proposte del Richter è stato tratto anche un brevetto, indubbiamente «socialista» anch’esso. Noi chiediamo al fabbro Richter, il quale è ormai senza dubbio rimbecillito dai premi riservati agli «innovatori» (che, «oltre alla retribuzione dovuta loro per legge», ricevono premi e decorazioni statali: il decorato del premio «Inventore emerito» riceve una medaglia e un premio fino a 5 mila marchi): le tue utili invenzioni sono servite a diminuire con la maggiore produttività il tempo di lavoro, o il loro pregio è di sfruttare maggiormente il lavoro stesso? Povero fabbro Richter: sappiamo che cosa risponderai: esse servono alla «costruzione del socialismo»!]

Gli innovatori vogliono innovare? Innovino sull’intensità del lavoro, rendendola più frenetica. I sindacati vogliono collaborare? Collaborino ad accrescere la produzione: organizzino «l’emulazione socialista» che è
«la forma più vasta di iniziativa di massa per l’incremento detta produttività del lavoro» (pag. 39, § 15).
Per converso, puniscano chi produce poco o male. Nella vicina Cecoslovacchia, l’insuccesso registrato nell’ultimo piano ha provocato la seguente disposizione:
«I lavoratori che dimostreranno indifferenza per le lacune della produzione saranno tolti dai posti chiave». («Il Giorno», del 7. 4. 1963).

Avevamo già spiegato come l’importante per il «socialismo creativo» fosse la massima produzione.

Questi stralci ci danno la conferma che in tale mania produttivistica s’identifica la forma sociale della Germania Orientale. Essa ce ne richiama irresistibilmente un’altra. I titoli di «emerito inventore», le medaglie, i premi per la produttività, per le innovazioni, per le invenzioni, le «brigate del lavoro» alcune delle quali giungono a conquistarsi il titolo di «brigata del lavoro socialista» lottando – oh, novità –
«per il massimo incremento detta produttività» (pag. 43),
non possono non rievocarci alla memoria il fascismo italiano o tedesco. Proviamo a sostituire l’aggettivo «socialista» con «fascista» e il gioco è fatto. La fraseologia è la stessa, il contenuto identico: produrre, produrre, produrre, sempre di più, senza diminuzione delle ore di lavoro, per il «popolo», per la Nazione; dare sangue e sudore per questo dio immondo che noi identifichiamo con il capitale, lo sfruttare ormai ipertrofico che dovunque si compiace, dopo secoli di succhiamento, di concedere ai propri servi qualche inutile «diritto» nella sua vecchiaia godereccia.


Vedi anche il testo «Il ‹Socialismo› del Codice del Lavoro nella Repubblica Democratica Tedesca»

Source: «Il Programma Comunista» № 11 e № 12 del 1963

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