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INELIMINABILITÀ DELLA LOTTA DI CLASSE


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Ineliminabilità della lotta di classe
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Ineliminabilità della lotta di classe

Abbiamo esposto in un precedente articolo come l’insieme delle lotte che hanno caratterizzato il movimento operaio negli ultimi tempi – di cui prendiamo atto senza sopravalutarne l’importanza storica – si inseriscano in una linea di sviluppo capitalistico nella sua fase ascendente, e tenderanno senza dubbio ad inasprirsi mano mano che la spinta produttiva, per le contraddizioni proprie del sistema economico capitalistico, verrà esaurendosi. Con le analisi che ci proponiamo di svolgere in seguito, daremo un quadro della situazione della classe operaia per quanto concerne la sua organizzazione e l’influenza costante che il padronato mantiene, purtroppo, su di essa. Queste analisi dovranno necessariamente partire dall’esame dell’oggetto principale delle lotte rivendicative, il salario, la sua struttura, evoluzione della sua forma, suo livello.

Prima di arrivare a ciò è tuttavia indispensabile ribadire la confutazione di due concezioni piccolo borghesi: una tendente a dimostrare come, attraverso i successi di carattere economico generale e una «equa ripartizione del reddito» (cioè ad un aumento graduale dei salari) verrebbe liquidata per sempre la dottrina rivoluzionaria saldata alla teoria della miseria crescente; l’altra, alla prima conseguente, affermante l’inconciliabilità tra lotte rivendicative immediate e lotta finale per la presa del potere.

Queste «tesi», proprie dei partiti più dichiaratamente social-riformisti che riescono ad interessare, in quanto ne esprimono gli interessi, quella parte del proletariato classicamente definita «aristocrazia operaia», che il capitalismo nella sua fase imperialistica forma intorno a sé, sono oggi rivendicate anche da coloro che al marxismo pretendono di rifarsi e che pongono tale processo, congiuntamente ad una lotta antimonopolistica e democratica, come un fattore indispensabile per il «superamento degli squilibrii economici e sociali» (vedi relazione di Novella al congresso nazionale della CGIL): in altre parole, per il superamento della lotta di classe.

È stato più volte chiarito su questo giornale quale sia l’esatta enunciazione della teoria marxista della «miseria crescente», e come suo contenuto sia innanzitutto il processo di costante espropriazione, proletarizzazione e «alienazione» di un gran numero di artigiani, piccoli proprietari, contadini, insomma, dei piccoli detentori in proprio in mezzi di produzione. Analizzando il processo di accumulazione, Marx ha fra l’altro dimostrato che questo, premendo sulla domanda della merce forza-lavoro, può farne oscillare il prezzo al di sopra del suo valore, cioè della somma di sussistenze necessarie alla sua riproduzione (teoricamente, per tutta la grandezza del plusvalore) senza tuttavia sopprimere l’antagonismo tra capitale e lavoro salariato.

Chi interpreti meccanicamente tale fenomeno, può credere di concluderne che, via via che il capitale si accumula, in un processo falsamente presentato come di sviluppo graduale, il salario assorbirà l’intero plusvalore; ma alla luce di una interpretazione dialettica che prenda in esame tutti gli aspetti del fenomeno e li metta in rapporto reciproco, appare evidente che, all’incontro, il capitale accumulandosi ed espropriando crea sempre nuove masse di «liberi» lavoratori i quali vanno a formare il cosiddetto «esercito di riserva» e, ingrossando l’offerta di forza-lavoro, ad inasprire la concorrenza fra i lavoratori. In tale modo la classe dominante riesce a costituirsi una scorta di forza-lavoro come di qualsiasi altra merce, dalla quale attinge nei momenti di sviluppo e che rigetta nei momenti di stasi e di crisi, soggiogando maggiormente a sé l’intera classe operaia.

Va inoltre ricordato il modo con cui il capitale si accumula nelle proporzioni della sua composizione organica di capitale costante (lavoro morto) e capitale variabile (lavoro vivo). È noto, infatti, che il capitale costante cresce in proporzione superiore al capitale variabile, alienando sempre più il lavoro umano anche in considerazione dell’inasprimento, che va di pari passo, della sua suddivisione. Tutto ciò porta a concludere che, al fuori delle condizioni più o meno favorevoli in cui venga a trovarsi la classe lavoratrice in determinati periodi, l’antagonismo fra capitale e lavoro, invece d’essere soppresso, tende sempre più ad accentuarsi.

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Si potrebbe obiettare che in alcuni paesi fortemente industrializzati la classe operaia ha raggiunto una posizione di privilegio rispetto a quella dei paesi in cui tale processo ha ritardato. Qui il discorso si allarga e bisognerebbe rifarsi al quadro che Lenin fece dell’imperialismo e dell’opera di corruzione che la classe dominante conduce creando, grazie al supersfruttamento della forza-lavoro nei paesi coloniali, gli strati privilegiati di operai abitualmente definiti «aristocratici». Nell’«Imperialismo», una delle tesi contro le quali la magistrale dialettica leninista si scaglia, è quella kautskyana del super-imperialismo, secondo cui la concentrazione del capitale porterebbe a dare origine ad un unico gigantesco monopolio dominante e controllante dall’alto l’intera economia, di cui eliminerebbe la concorrenza e le fondamentali contraddizioni interne. A una tale concezione Lenin contrappone quella dello sviluppo disuguale del capitale, confermata fra l’altro dai grandiosi moti rivoluzionari nei paesi coloniali e dalla decadenza economica delle vecchie nazioni imperialiste. Ciò dimostra l’instabilità, nell’economia di mercato capitalistica, di qualunque posizione di privilegio: e a conferma di ciò basta rifarsi allo sciopero dei siderurgici americani del '59, al livello di disoccupazione crescente negli stessi Stati Uniti, e da ultimo allo sciopero dei lavoratori belgi, che pure erano e sono considerati come appartenenti all’aristocrazia operaia.

Gli Stalin-kruscioviani non solo hanno fatto propria – con la teoria della coesistenza pacifica – la «teoria» della conciliazione degli urti fra le classi e dei contrasti fra gli Stati, ma l’hanno spinta al limite estremo del tradimento. Nel tentativo di giustificare la validità della legge del valore nella pretesa «economia socialista» russa, essi sostengono la conciliabilità fra economia di mercato e interessi dei lavoratori, purché venga condotta a fondo una lotta antimonopolistica e di alleanza con gli strati piccolo-borghesi e contadini, per un ritorno alla libera concorrenza in cui la legge degli equivalenti riacquisti tutta la sua funzione perché, a sentir loro, essa è oggi valida solo nei paesi «socialisti» dove ogni azienda realizza (udite!) un saggio medio di profitto e l’accumulazione è pianificata con uguale intensità.

Non staremo ora a confutare una tale mostruosità; ci interessano solo i riflessi che sul piano sindacale ha una tale teoria, perché a fianco di questa sta oggi la rivendicazione di un salario legato alla produttività del lavoro, di un salario che cresca automaticamente senza che una lotta sia necessaria. Cosi la classe lavoratrice è ridotta ad una appendice del capitalismo, e il sindacato, da arma per tale lotta, diventa un organismo burocratico con sole funzioni di controllo allorché, una volta stabilito il «tasso» con cui il salario deve aumentare, la legge venga rispettata.

È il pieno abbandono della teoria marxista dello sviluppo economico capitalistico e delle contraddizioni insite nel suo sistema, il quale, lungi dal poter seguire uno sviluppo graduale, cade costantemente in crisi di produzione e di smercio, mantenendo il proletariato in una situazione d’instabilità e di alienazione continua.

È inoltre la negazione del compito storico per cui il proletariato si distingue da tutte le plebi misere e sfruttate che sono comparse e si sono alternate sulla scena della storia. Il proletariato non lotta solo perché gli venga assicurata una maggior quantità di beni di consumo, ma – di là da questo obiettivo immediato e sempre distrutto nella società attuale – per la conquista dei mezzi di produzione e dello stesso prodotto dai quali è stato separato e al cui possesso sa che la sua emancipazione è legata.

La lotta rivendicativa non risolve, anche se condotta con successo, il problema dello sfruttamento proletario, ma è tuttavia indispensabile per l’organizzazione della classe, e quindi anche per la maturazione di una coscienza politica unitaria, grazie alla presenza del partito comunista. È in questo senso che il sindacato svolge un’importante funzione nel processo attraverso il quale si prepara alla lotta finale per la presa del potere sotto la guida del partito di classe, per strappare la sua emancipazione e, negandosi, quella dell’umanità intera.


Source: «Il Programma Comunista» n. 5 – 11 marzo 1961

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