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È LA LOTTA CHE CREA L’ORGANIZZAZIONE


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È la lotta che crea l’organizzazione
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È la lotta che crea l’organizzazione

È un fatto notorio che, dopo un lungo periodo di stasi, il 1960 ha segnato l’inizio di una ripresa delle lotte operaie e degli scioperi rivendicativi, accompagnati da manifestazioni di piazza e da più o meno aspri scontri fra scioperanti e custodi dell’ordine capitalistico. Sorpresi da questo brusco e certo inatteso risveglio di combattività proletaria, i bonzi politici e sindacali si sforzano ora di far credere che fra le cause determinanti della spinta impetuosa delle masse vi sia
«il peso della nuova politica sindacale della CGIL e delle sue organizzazioni, così come è uscita dai congressi della primavera scorsa e si è via via arricchita successivamente» (Luciano Lama nell’ultimo numero di «Rinascita»).

I primi a ridestarsi alla lotta, e a sperimentare la «bontà» del nuovo orientamento politico dell’organizzazione sindacale e della sua linea «articolata» – che, a dire dei bonzi, avrebbe arricchito gli operai di «nuove esperienze assai avanzate» (sempre più ricchi, sempre più poveri e bastonati!) –, furono i siderurgici della Falk e dell’Ilva. A queste prime lotte aziendali, che risalgono al maggio, seguirono quelle degli elettromeccanici della Siemens e della Face; a un mese di distanza entrarono in campo i cantieristi dell’Ansaldo e della Piaggio; a breve distanza di tempo, altre categorie e gruppi, fonditori, elettromeccanici e via dicendo, una fabbrica accanto e dopo l’altra, tutte isolate, fino alla grande battaglia dello scorso dicembre, condotta dagli operai con una serietà, un ardore ed una compattezza ammirevoli.

Nessuna di queste lotte, tuttavia, riesce a superare i limiti della fabbrica, del complesso industriale, del mestiere, del settore specialmente interessato: ognuna si svolge in ambiente chiuso – anche se le rivendicazioni avanzate sono comuni a tutti gli scioperanti – con le conseguenze negative che noi abbiamo tante volte denunziate.

Tuttavia, secondo i fautori della nuova (ma non tanto) tattica sindacale, questa dispersione del movimento ha avuto il merito «di far saltare in poco tempo molti schemi tradizionali» e mostrare che si può lottare da soli e con successo in settori e gruppi separati, in unione con la CISL, l’UIL ed altre Confederazioni; che
«si può combattere e vittoriosamente con rivendicazioni di settore, anche se non si giunge, per ora, a contratti di settore; si può lottare per lunghi periodi… senza stancarsi, a condizione che gli operai sappiano che cosa vogliono e abbiano fiducia di ottenerlo».
Ecco che cosa ha «insegnato» la nuova politica, per imporre la quale la CGIL ha dovuto stendere una rete di filo spinato intorno alle fabbriche e ai settori ed impedire che il morbo della lotta generale dilagasse!

Il movimento operaio ha conosciuto nella sua storia, fra le molte forme di lotta, anche quelle frammentarie, gli scioperi di mestiere, di settore e di fabbrica (specie nei momenti di accalmia), molto prima che gli attuali burocrati li teorizzassero come politica «nuova» e «articolata». Che si possa lottare per rivendicazioni settoriali, di fabbrica o anche di reparto, è ovvio; ma solo chi ha voltato le terga al socialismo può sostenere che queste forme inferiori e secondarie di lotta rappresentino una conquista, una rivelazione da sostituire ai falsi «schemi» del passato, un’arma segreta da usare per la conquista di «posizioni avanzate». Quando, come a Milano e in altri centri industriali del Nord, diecine e diecine di migliaia di operai scendono in sciopero, separatamente, fabbrica per fabbrica, con rivendicazioni di settore, ed altre diecine di migliaia di operai delle categorie più importanti (metallurgici, siderurgici, tranvieri, ferrovieri, ecc.) entrano simultaneamente in agitazione, non attendendo che un ordine per schierarsi a fianco dei loro compagni di altri settori, il dovere delle organizzazioni proletarie è proprio l’inverso di quello oggi praticato, non è mai di elevare argini e chiudere in compartimenti stagni tutte le lotte parziali o, peggio ancora, accrescere il frazionamento, e disperdere in mille rivoli una battaglia che potrebbe trasformarsi in una gigantesca e comune guerra di classe. Solo quando gli operai superano i limiti del mestiere, della fabbrica, del complesso, del settore, della città, della regione, solo quando trionfano sul sezionamento, la dispersione e la polverizzazione cui sono condannati dalla società capitalistica, solo allora possono conquistare «obiettivi avanzati» e, ciò che più conta, allargare il proprio orizzonte politico, comprendere l’irreducibilità del contrasto fra le classi, prendere coscienza della propria forza e della lotta generale di tutti i proletari contro l’ordinamento capitalistico. È un insegnamento secolare, antico quanto il proletariato e quanto il marxismo.

Schemi superati, gridano i burocrati sindacali e i pompieri del PCI, e, dopo aver vantato la «tattica nuova» come una «conquista», si trincerano dietro l’argomento che
«l’esiguità delle nostre strutture e la povertà delle nostre elaborazioni rivendicative ci hanno impedito di estendere le lotte su un fronte più vasto, come le condizioni oggettive avrebbero consentito. Per ogni operaio che ha combattuto, un altro almeno altrettanto pronto all’azione è rimasto fermo».
Ah, dunque, non è il frutto di una «tattica nuova»: è il frutto della «povertà ed esiguità organizzativa» e della deficienza dei fondi sindacali! Miserabile pretesto per giustificare di fronte alle masse una politica rinunciataria e traditrice; dite piuttosto che l’estensione del fronte della lotta non c’è stato perché non lo si è voluto, e non lo si è voluto perché la forza scatenata da una grande azione di massa non si concilia con i «nuovi schemi» della CGIL, col legalitarismo democratico e col pacifismo coesistenzialista e costituzionale del PCI. La tesi secondo cui non ci si può lanciare in una grande offensiva di massa senza avere le casse piene e senza che la stragrande maggioranza degli operai sia organizzata, è vecchia come il cucco, ed è già stata oggetto di decisive confutazioni da parte dei marxisti degni di questo nome e della stessa storia del movimento proletario. Era la tesi delle potentissime organizzazioni socialdemocratiche tedesche, contro cui Luxemburg si scagliò dopo il 1905:
«Questa teoria è assolutamente utopistica… Gli operai dovrebbero, prima di poter rischiare un’azione di massa, essere tutti organizzati. Ma le circostanze, le condizioni dell’evoluzione capitalistica e dello Stato borghese, fanno sì che, nel corso ‹normale› delle cose, senza violente lotte di classe, certe categorie, o meglio le categorie più importanti, le più deboli, le più schiacciate dal capitale e dallo Stato, non possono assolutamente organizzarsi».
Non l’organizzazione fa nascere la lotta; al contrario, è la lotta che genera l’organizzazione.

Forse che il proletariato italiano, tanto per limitarci ai fatti «di casa nostra», aspettò che tutti gli operai, uomini e donne, fossero iscritti ai sindacati, e che le casseforti di questi ultimi fossero piene, prima di intraprendere le grandi e spesso eroiche azioni di classe di cui tutta la storia è punteggiata? Anche a tacere delle memorabili battaglie del primo dopoguerra, fino al 1914 i sindacati italiani non contavano che 800 mila iscritti: eppure, si dimostrarono abbastanza forti per lanciarsi in lotte grandiose, scioperi generali, economici e politici, dimostrazioni di piazza, combattimenti di strada. E, in tutte queste lotte, raddoppiarono la loro consistenza. Oggi, la CGIL vanta tre milioni e 200 mila organizzati; eppure, – guarda un po’ –, i suoi burocrati si trincerano dietro l’«esiguità delle strutture», la «debolezza delle rivendicazioni», la povertà delle finanze, pur di non arrischiarsi in estese azioni di massa! La verità è che le forme di lotta valide quando sindacato e partito battevano una strada di classe non servono più, sono anzi nocive, a chi assicura che
«i lavoratori possono e vogliono essere un fondamento incrollabile per una politica di sviluppo delle aziende statali, perché diventino una forza di rottura del predominio monopolistico»;
a chi si prefigge lo scopo di
«conferire al sindacato una forza contrattuale che operi in permanenza e non soltanto a lunghi intervalli, quali quelli che si stabiliscono fra una scadenza e l’altra dei contratti nazionali; che si imponga al padrone anche senza la necessità di una lotta continua».

Ecco il supremo ideale di questi signori; eliminare la necessità della «lotta continua», sostituire alla lotta di classe la collaborazione con lo Stato, trasformare il sindacato in un’agenzia riconosciuta dell’ordine pubblico, raddolcire i rapporti fra capitale e lavoro, ridurre la lotta proletaria a innocue scaramucce aziendali e… montecitoriane. Eccoli, i «nuovi schemi»; eccole, le grandi «conquiste». Battono cassa: e non hanno quattrini. Si gonfiano come il bue della favola, e non riescono a muoversi. Sono forti di milioni di iscritti, e deboli come un moscerino di fronte all’elefante borghese…


Source: «Il Programma Comunista» – n. 3 del 10 febbraio 1961

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