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IL TESTO DI LENIN SU «L’ESTREMISMO, MALATTÌA D’INFANZIA DEL COMUNISMO», CONDANNA DEI FUTURI RINNEGATI (I)


Il testo più sfruttato e falsato da oltre cento anni da tutte le carogne opportuniste, e la cui impudente invocazione caratterizza e definisce la carogna


Content:

Il testo di Lenin su «l’estremismo, mallatìa d’infanzia del comunismo», condanna dei futuri rinnegati
Premessa

I. La scena del dramma storico del 1920
Primavera del 1920
Punto centrale: la dittatura del partito
Giusta diagnosi del tradire dei «capi»
La durata della dittatura
Strategia e tattica dell’internazionale
La trama del lavoro di Lenin
Notes
Source

II. Storia della Russia o dell’umanità?
III. Cardini del bolscevismo: centralizzazione e disciplina
IV. Corsa storica (concentrata nel tempo) del bolscevismo
V. Lotta contro i due campi antibolscevichi: riformista e anarchico
VI. Chiave della «autorizzazione ai compromessi» che Lenin avrebbe data
VII. Appendice sulle questioni italiane


Il testo di Lenin su «l’estremismo, mallatìa d’infanzia del comunismo», condanna dei futuri rinnegati

I. La scena del dramma storico del 1920

Nella commemorazione di Lenin tenuta poco dopo la sua morte alla Casa del Popolo di Roma a iniziativa della sinistra comunista italiana (se ne veda anche la traduzione in francese, più bella dell’originale, data nel n. 12 di «Programme Communiste», la nostra rivista teorica internazionale, luglio-settembre 1960) il conferenziere, dopo aver fatto giustizia del «preteso opportunismo tattico di Lenin», citava un passo dell’inizio del classico «Stato e rivoluzione» con queste parole:
«Lenin dice che è fatale che i grandi pionieri rivoluzionari vengano falsificati, come è stato di Marx e dei suoi migliori seguaci. Sfuggirà Lenin stesso a questa sorte? Certamente no

Da questa facile previsione sono passati 36 anni, e il loro bilancio, tessuto passo per passo dalla critica spietata della sinistra, sta a dimostrare che il volume di sterco falsario che l’opportunismo ha tentato di accumulare sulla figura di Lenin è almeno dieci volte più nauseante di quello che fu rovesciato su Marx.

Il mezzo vile dei falsificatori è sempre lo stesso: costruire una leggenda al posto della realtà storica che generò il formarsi del metodo e del programma di quei massimi comunisti, pescare in questa leggenda con citazioni locali, artefatte, staccate dalle condizioni effettive di lotta che dettero luogo al formarsi di quei testi classici, e capovolgerne sfrontatamente il valore speculando sulle difficili condizioni di combattimento della classe rivoluzionaria che, nel più gran numero dei casi, per lo stesso difetto economico in cui vive, deve contentarsi di prendere in rigatterie di terza e quarta mano l’arsenale delle sue armi teoriche.

Ma un lavoro marxista condotto, come avviene nelle nostre file, senza dilettantismi vuoti e vanesi, e disprezzabili arrivismi di facile affitto da sponde corruttrici, consente di mostrare che dell’«Estremismo» non vi è pagina, non vi è frase, che non debba ricadere come sferza implacabile sulla faccia bronzea dei traditori e dei rinnegati.

Per accingerci a questo, bisogna lasciare da parte retorica e demagogia e riportarsi alla storia positiva dei fatti, ove solo – e non nella bassa cronaca pettegola di eventi contemporanei – si legge la traccia luminosa unica della dottrina e della attuazione rivoluzionaria, che da un secolo i coboldi tentano porre in contrasto.

Primavera del 1920

In soli quattro anni da quando Lenin era sbarcato in Russia si era avuto l’Ottobre 1917, e, traverso lo svergognamento dell’opportunismo della II Internazionale naufragata nella guerra, da un anno appena (marzo 1919) la III era stata fondata.

Attorno al partito bolscevico da tutte le parti del mondo giungevano maledizioni e plausi, feroci invettive e ardenti adesioni. Nell’epoca a cui ora ci riferiamo il primo impegno del partito russo non aveva ancora cessato di essere la guerra combattuta, la guerra civile contro i bianchi, Denikin, Kolčak, Judenič, Wrangel, le mille valanghe poggiate su piani di attacco tedeschi, inglesi, francesi, giapponesi. Tale periodo, da noi a fondo trattato negli ampi lavori sul cammino della rivoluzione di Russia, aveva tenuto in primissima linea questa lotta non solo politica ma apertamente militare: tutto andava subordinato alla vittoria.

Se Lenin fosse stato quell’opportunista in cui hanno tentato di trasformarlo da quarant’anni, non avrebbe trovato un minuto per scegliere tra le adesioni e le dichiarazioni di guerra. Tra un mondo di feroci nemici, tutti gli amici sarebbero stati accettati senza alcun benefizio di inventario, tali erano le urgenze di trovare appoggi nel mondo internazionale da cui tutte le borghesie centuplicavano i loro sforzi feroci, imbestiate dal terrore della dittatura rossa.

Lenin invece scrive quel testo per la preparazione del II congresso convocato per il giugno 1920. Egli sa dalle lezioni della storia che – come questo testo in prima linea dimostra – la vittoria in Russia è venuta perché il partito è stato nella sua formazione e preparazione spietato e senza riguardi nel riconoscere nemici e alleati. La sua prima preoccupazione è che il partito rivoluzionario mondiale non si formi senza una rigorosa base di dottrina programmatica e di organizzazione, anche a costo di dover respingere molti e molti aderenti da fuori Russia.

Di questa operazione selettiva si dà la versione banale prendendo a prestito le maniere della politica borghese parlamentare. Era già chiaro che vi era un pericolo dalla «destra» in quanto elementi a cavallo tra la II e la III Internazionale avrebbero gradito penetrare nella nuova a fare opera di intorbidamento: il centrismo, il kautskismo; contro questi Lenin aveva già fieramente martellato. Ma vi erano altre adesioni da rivedere attentamente, ed erano quelle che venivano, nel gergo politicante, da «sinistra». Si trattava di anarchici, di libertari, di sindacalisti cosiddetti rivoluzionari della scuola di Sorel.

Tutti questi elementi aderivano agli eventi di Russia in forza della loro accettazione della violenza armata nella lotta di classe. Ma Lenin sapeva troppo bene che lo scaldarsi di molti fessi (per lo più squisiti fifoni individuali) per lo spettacolo di una cazzottatura o di una sparatoriella, nulla aveva a che vedere con la posizione rivoluzionaria. Sapeva che questi elementi, detti con grave errore di sinistra, sono spesso di origine proletaria e sinceri nel loro sbagliare, ma sapeva altrettanto bene che non si tratta di impartire assoluzioni morali ma di organizzare le forze rivoluzionarie, e solo verso questi deviati usava termini meno cocenti di quelli dati agli opportunisti di destra (sebbene nell’una e nell’altra schiera siano operai ingannati e siano intellettualoidi aspiranti a capi).

Il pericolo centrale contenuto in questo falsissimo estremismo consiste nel rifiuto degli insegnamenti fondamentali della rivoluzione russa circa lo stato e il partito come mezzi essenziali della rivoluzione, lungo tutta una fase storica. In dottrina e nella organizzazione gli anarchici erano stati giudicati nella polemica di Marx ed Engels nella I Internazionale. In Russia, dice Lenin qui, si erano mostrati fuori strada quando erano prevalenti, nel 1870–1880, «rivelando la inettitudine dell’anarchismo come teoria rivoluzionaria». Quanto ai sindacalisti soreliani, erano meno noti a Lenin perché propri dei paesi latini, ove prevalentemente la critica della loro dottrina era partita da marxisti di destra quasi fino alla guerra (non da noi in Italia; del resto, nel social-sciovinismo è noto che caddero socialisti riformisti, sindacalisti soreliani e anche anarchici: Francia e Italia).

Ma Lenin vedeva avanzarsi la scuola errata in un’ala detta di sinistra dei comunisti tedeschi del partito di Spartakus, che si era scisso in KPD (partito comunista di Germania) e KAPD (partito comunista operaio di Germania), e nei gruppi olandesi della Tribune di Gorter e Pannekoek.

Perché questa corrente, malgrado la sua dichiarata simpatia per la rivoluzione di Ottobre, preoccupa Lenin? Proprio perché Lenin non era un opportunista, ma un difensore del rigore teorico.

Lenin scusa quasi i falsi sinistri di Russia e Francia perché non erano mai stati sulla linea di una tradizione marxista. Col suo geniale intuito si preoccupa di quelli che si dicono tuttora marxisti, come noi facciamo oggi per quelli che si dicono… Leninisti. Lenin cita un articolo di Karl Erler dal titolo edificante «Scioglimento del partito» e con questa perla:
«La classe operaia non può demolire lo stato borghese senza annientare la democrazia borghese, e non può annientare la democrazia borghese senza distruggere i partiti».
Lenin qui non può non esplodere:
«Le teste più confuse tra i sindacalisti e gli anarchici latini possono essere soddisfatte: solidi tedeschi, che si ritengono solidamente marxisti, arrivano a dire incredibili scempiaggini!».

Punto centrale: la dittatura del partito

L’Internazionale comunista non poteva definirsi solo dal riunire quei socialisti che come mezzo della lotta di classe del proletariato rivendicano la violenza armata. La distinzione sarebbe stata insufficiente. Ora tutti questi gruppi Lenin ha giustamente in sospetto (ma non tanquanto i destri, se a un certo punto dice:
«Anche al IX congresso del nostro partito russo (aprile 1920) ci fu una piccola opposizione, che parlò contro la ‹dittatura dei capi› contro l’‹oligarchia› ecc. Quindi nella «mallatìa infantile» del ‹comunismo di sinistra› fra i tedeschi, non c’è nulla di strano, nulla di nuovo, nulla di terribile. È una mallatìa che passa senza pericolo, e dopo di essa l’organismo diviene persino più forte»).
Ecco l’idea di Lenin sulla famosa mallatìa infantile. Ma egli ben sapeva quale altro pericolo venisse dai centristi e dalla famosa «destra». È stata la «mallatìa senile» del comunismo, che ha condotto l’organismo rivoluzionario alla morte odierna, con effetto di gran lunga più deleterio della rovinosa crisi della II Internazionale.

Nell’onda di commenti che la rivoluzione russa portò con sé, la più gran parte dei nostri critici e detrattori, senza nulla aver capito della grandiosa teoria di Marx-Lenin sulla dittatura del proletariato, e con un coro che andava dai borghesi di destra ai democratici e agli anarchici, prese a inveire contro i «dittatori», o il dittatore Lenin.

I liberali dimenticavano le figure colossali dei loro dittatori, da Cromwell a Robespierre a Garibaldi; tra i libertari ve ne furono di quelli, citati nella ricordata commemorazione, che avevano scempiamente scritto lutto o festa? I sinistri di Olanda, Germania e altri paesi esitavano sulla «dittatura», e Lenin giustamente mostrò che lo facevano perché imbevuti di una mentalità democratica e piccolo borghese non diversa da quella che sollevò lo scandalo dei centristi kautskiani e di tutti gli imbecilli che da allora fino a oggi hanno gridato: socialismo non è che democrazia, che libertà per tutti! E sono le stesse figure sporche che oggi parlano a nome di Lenin.

Perché è proprio in queste pagine, che sarebbero state scritte contro noi veri marxisti di sinistra, che Lenin disperde da par suo ogni esitazione e ogni distinzione di principio tra dittatura del proletariato, dittatura del partito, e anche dittatura di date persone.

Lenin infatti, nel suo V paragrafo intitolato: «Il comunismo in Germania. I capi, il partito, la classe, le masse», cita ampiamente un opuscolo dei comunisti tedeschi di sinistra, che pone la vuota alternativa: si deve, per principio, aspirare alla dittatura del partito comunista, o a quella della classe proletaria? E che poco più oltre contrappone due soluzioni: il partito dei capi che agisce dall’alto, e il partito delle masse che aspetta l’ascesa della lotta dal basso.

La critica a questo punto svolta da Lenin si riduce a stabilire che se si rinunzia al «dominio del partito» che scandalizzava quei comunisti, si rinunzia alla dittatura del proletariato e alla rivoluzione, e se si vuole che il partito non agisca per mezzo di «capi» solo per paura di questa parola, si ricade nella stessa impotenza. Il nostro è un partito diverso da tutti i partiti, il nostro ingranaggio di uomini rivoluzionari è diverso da tutti gli ingranaggi adulatori e pubblicitari degli altri movimenti. E Lenin riattaccherà questo alla necessità vitale della organizzazione «illegale».

Nella sua formidabile dote di chiarezza, Lenin non ci darà qui definizioni filosofiche di quelle «categorie» che sono masse, classe, partito e capi. I tempi urgevano e la sistemazione venne per altra via. Ma il testo di Lenin toglie di mezzo ogni esitazione sulla necessità che la dittatura sia del partito, e in determinati estremi anche di dati uomini del partito; il che da allora a oggi fa inorridire tutti i ben pensanti, pronti tuttavia sempre a prosternarsi a vertici di quattro duci, o, come diciamo noi, di quattro Battilocchi.

Altro che permessi da designazioni elettorali e consultazioni interne!

«Il solo fatto di porre il dilemma ‹dittatura del partito oppure dittatura della classe?› ‹dittatura (partito) dei capi oppure dittatura (partito) delle masse?› attesta una incredibile e irrimediabile confusione di idee… Tutti sanno che le masse si dividono in classi; che si possono contrapporre le masse e le classi soltanto quando si contrapponga l’immensa maggioranza generica, non articolata secondo la posizione nell’ordinamento sociale della produzione, alle categorie che occupano un posto speciale nello stesso; che le classi sono dirette di solito e nella maggior parte dei casi, almeno nei paesi civili moderni, da partiti politici, che i partiti politici come regola generale sono diretti da gruppi più o meno stabili di persone rivestite della maggiore autorità, dotate di influenza e di esperienza maggiore, elette ai posti di maggiore responsabilità e chiamate capi. Tutto ciò è elementare, semplice e chiaro». (Ed. Mosca 1948, cfr., pag. 565.)

Giusta diagnosi del tradire dei «capi»

Queste limpide parole richiamano quelle di Engels sugli anarchici spagnoli:
«Una rivoluzione è il fatto più autoritario che ci sia».
La rivoluzione di classe è una guerra, guerra civile; occorrono un esercito, uno stato maggiore, un partito, e con la vittoria uno stato, un governo, degli uomini al potere.

Il testo qui spiega che la confusione delle idee è sorta dalla necessità di agire in una situazione illegale, quale si generò in Germania dopo la prima guerra, al posto della precedente piena legalità.

«Quando da tale consuetudine, per causa del corso tempestoso della rivoluzione e dello sviluppo della guerra civile, si dovette rapidamente passare all’avvicendarsi della legalità e della illegalità, alla combinazione dell’una e dell’altra, ai metodi ‹incomodi› e ‹non democratici› di selezione o formazione o conservazione dei ‹gruppi di capi›, costoro si sono smarriti e hanno cominciato a tirar fuori delle sciocchezze madornali». (Pag. 566).

Molti buoni proletari scottati dai tradimenti dei socialisti del 1914 acquisirono la diffidenza verso il capo, qualunque fosse. Lenin ricorda che la degenerazione dei capi è cosa antica e chiarita per i marxisti, e non si risolve con la «contrapposizione dei capi alle masse». Non si tratta di capi cattivi e masse buone, ma di processo degenerativo dei capi e delle masse.

«Marx ed Engels spiegarono molte volte le cause profonde di questo fenomeno… con l’esempio dell’Inghilterra… negli anni 1852–1892. La posizione monopolistica dell’Inghilterra separò dalla massa un ‹aristocrazia operaia› a metà piccolo borghese, opportunista. I capi di questa aristocrazia operaia passavano continuamente dalla parte della borghesia, erano mantenuti da questa, direttamente o indirettamente. Marx si guadagnò l’odio onorifico di questi farabutti, bollandoli apertamente come traditori.» (Ivi.)

Questo fenomeno, Lenin dice, si è ripetuto colla guerra nella II Internazionale.

«È comparso dovunque il tipo del capo opportunista, traditore, social-sciovinista, che sostiene gli interessi della sua corporazione, dello strato costituito dalla aristocrazia operaia. Si è creato un distacco dei partiti opportunistici dalle ‹masse›, cioè dagli strati più estesi dei lavoratori, dalla loro maggioranza, dagli operai peggio pagati. La vittoria del proletariato rivoluzionario è impossibile senza lottare contro questo male, senza smascherare, svergognare e scacciare i capi opportunistici e social-traditori; questa è la politica fatta dalla III Internazionale.» (Ivi.)

Quale marxista può confondere questa posizione storica con la proposta libertaria: il male è nel partito, il male è nei famosi «capi»?

La questione era di principio e di programma e non di tattica contingente o peggio locale, nazionale, tedesca. Il fatto storico che vi sono stati capi e interi partiti, gli uni e gli altri che si richiamavano al proletariato e anche alla sua specifica e classica dottrina rivoluzionaria, che malgrado tanto sono passati dalla parte del nemico di classe, non conduce a ripudiare l’arma partito e l’arma, se così vogliamo chiamarla, «capo». La dottrina marxista infatti dal suo sorgere ha confutato per sempre tali obiezioni, dal «Manifesto» che esige la organizzazione del proletariato in partito di classe (che secondo gli statuti della I Internazionale è «opposto a tutti gli altri partiti») agli scritti di Marx ed Engels sulla rivoluzione e controrivoluzione in Germania; e via.

Oggi possiamo dire di più. Al tempo di Marx e di Lenin non si era dato ancora che uno «stato» della vittoria proletaria, come quello russo, degenerasse fino a passare dalla parte del nemico di classe nella politica estera (alleanze di guerra) e interna (misure economico-sociali capitalistiche). Un tale fatto storico da solo basta a mostrare quanto sia imbecille non vedere che l’opportunismo di oggi ha consumato qualcosa di venti volte più infame di quello di ieri, noto a Marx e a Lenin; non ha solo disonorato parriti e uomini del proletariato bensì ha disonorato il primo stato della dittatura proletaria. Ma tale fatto che si esprime dicendo non solo: l’uomo è corruttibile, il proletariato è corruttibile, il socialista e comunista è corruttibile, e il partito è corruttibile; ma: lo stesso stato proletario è corruttibile – per effetto di rapporti di reali forze storiche e non perché la carne sia fragile, e altre spiegazioni etiche! – non autorizza a dire: rinunziamo allo stato; il potere è una porcheria, e tutti corrompe!

Questa eresia teorica era nota bene a Marx e a Lenin che la stritolarono per sempre. E Lenin scorge negli errori di principio dei sinistri tedeschi la stessa sbagliata idea: orrore del potere; e ribadisce che tutte dobbiamo saperle impugnare queste armi difficili: gli uomini, il partito, il timone del governo statale. Il problema è di indicare la via storica per cui i nostri militanti politici, il nostro partito rivoluzionario, il nostro apparato di stato, saranno diametralmente diversi da tutti quelli che ha presentato il passato, in parte purtroppo anche prolerari: e giungeranno alla forma originale teorizzata dalla nostra dottrina.

Lenin che ha posto questo problema insuperabilmente ma – uomo e mortale come era – non ne ha vista giungere la soluzione, capi che i sinistri di Germania, come avevano aperto il fianco ai dubbi contro la forma partito, dubitavano anche della forma stato, e non avevano, in dottrina, capito la forma storica della dittatura, enunciata senza esitazioni dal marxismo. Essi falsamente credevano che rapidamente si dovesse sciogliere il partito per non vedere più traditori, e perfino sciogliere lo stato per evitare le famose, piccolo borghesi, «seduzioni corruttrici dell’esercizio del patere».

La durata della dittatura

Prima di chiudere questa dimostrazione, che il pericolo contro il quale si levò Lenin non era l’errore di tattica del quale diremo in secondo tempo, ma un fondamentale errore di principio, e quindi un errore al quale non si rimedia con sole misure di organizzazione interna di partito – e in quel momento storico si trattava di prendere le misure «costituenti» del nuovo partito comunista mondiale, nella quale sede si evita l’errore, nel più dei casi, non facendosi allettare dall’acquisto di un flusso di aderenti, ma tagliando nel vivo con il ferro senza pietismi delle scissioni e delle diffamate «scomuniche», – sarà bene dare il passo di Lenin, di incomparabile vigore, dal quale si deduce che la dittatura si deve accettare non per un breve istante, ma per tutta una dura e lunga fase storica. Essa non è un provvedimento «di emergenza», come nel gergo alla moda oggi si direbbe, ma è la parte vitale, l’ossigeno, che alimenta la nostra teoria e la nostra battaglia.

«Nel proclamare l’inutilità e il carattere borghese dei partiti politici… si vede come da un piccolo errore si può sempre arrivare a un errore madornale, se lo si spinge sino in fondo.
La negazione del partito e della disciplina di partito; ecco il risultato al quale è giunta l’opposizione. E ciò equivale al completo disarmo del proletariato di fronte alla borghesia. Ciò equivale appunto a quella dispersione, a quella incostanza, a quella incapacità di essere fermi, di essere uniti, di coordinare le azioni, che sono proprie della piccola borghesia e che rovinano inevitabilmente ogni movimento rivoluzionario del proletariato se vengono trattate con indulgenza»
.

Da questo punto in poi il passo è talmente classico, e – a questo concluderemo il presente studio – collima talmente in pieno con le tesi della sinistra marxista italiana, quali le sosteniamo oggi che non vi è più Lenin, e quali sostenemmo quando era presente e avevamo sostenute prima del collegamento del nostro movimento in Italia colla nuova Internazionale e con Lenin (collegamento che avvenne appunto in quei mesi del 1920, in cui egli personalmente organizzò che andasse a Mosca un delegato della frazione comunista astensionista del partito socialista, non compreso nella delegazione «democraticamente scelta») che, da questo punto in poi, le sottolineature sono apposte da noi e non da Lenin al testo.

«Dal punto di vista del comunismo, negare il partito significa voler saltare dalla vigilia del crollo del capitalismo (in Germania), non alla fase più bassa o a quella media, ma alla fase superiore del comunismo. Noi in Russia (nel terzo anno dopo l’abbattimento della borghesia) muoviamo i primi passi sulla via del passaggio dal capitalismo al sociclismo, ossia alla fase inferiore del comunismo. Le classi hanno continuato a esistere ed esisteranno ancora per anni [sottolineato in Lenin], dappertutto, anche dopo [idem] la conquista del potere da parte del proletariato. Può darsi che questo termine sia più breve in Inghilterra, dove non ci sono i contadini (ma ci sono tuttavia i piccoli produttori!). Sopprimere le classi non significa soltanto cacciare [o uccidere, nota nostra] i proprietari fondiari e i capitalisti – ciò che noi abbiamo fatto con relativa facilità – ma vuol dire [è Lenin che qui sottolinea] eliminare i piccoli produttori di merci, che è impossibile cacciare, impossibile schiacciare, con i quali bisogna trovare un’intesa, che si possono (si devono) trasformare, rieducare solo con un lavoro di organizzazione molto lungo, molto lento e molto prudente. Essi circondano il proletariato, da ogni parte, di un ambiente piccolo borghese, lo penetrano di questo ambiente, lo corrompono, spingono continuamente il proletariato a ricadere nella mancanza di carattere, nella dispersione, nell’individualismo, nelle alternative di entusiasmo e di abbattimento, che sono proprie della piccola borghesia. Occorre la più severa centralizzazione e disciplina nel seno del partito politico del proletariato per opporsi a questi difetti, per far si che il proletariato adempia giustamente, con buon successo, vittoriosamente, la funzione organizzatrice (che è la sua funzione capitale). [Gli ultimi corsivi in Lenin vogliono dire che i semiproletari possono avere aiutato nella lotta civile, ma poi disorganizzano e decentrano: ora, sottolineeremo noi.] La dittatura del proletariato è una lotta tenace, cruenta e incruenta, violenta e pacifica, militare ed economica, pedagogica e amministrativa, contro le forze e le tradizioni della vecchia società. La forza dell’abitudine di milioni e decine di milioni di uomini è la più terribile della forze. Senza un partito di ferro, temprato nella lotta, senza un partito che goda la fiducia di tutto quanto vi è di onesto nella sua classe [noi chiosiamo che come nelle masse anche nella classe vi sono residui malsani, vittime della influenza contro-rivoluzionaria, e che in principio, dove non sono trattabili pedagogicamente, si tratteranno senza pietismi repressivamente], senza un partito che sappia osservare lo stato d’animo delle masse e influenzarlo [non subirlo!] è impossibile condurre con successo una lotta simile.
Vincere la grande borghesia centralizzata [leggi monopolista e fascista] è mille volte più facile che «vincere» milioni e milioni di piccoli produttori, i quali, mediante la loro attività quotidiana, continua, non appariscente, impercettibile, dissolvente, pervengono a quei medesimi risultati che abbisognano alla borghesia e che portano alla restaurazione [corsivi in L.] della borghesia. Chi indebolisce, sia pur di poco, la disciplina ferrea del partito, del proletariato (soprattutto durante la dittatura del proletariato) aiuta in realtà la borghesia contro il proletariato
(Pagg. 567–68.)

Con questa esplicita e decisa formulazione Lenin ha voluto togliere di mezzo un’altra ubbia dei comunisti di sinistra, che pensavano che il soviet operaio fosse un surrogato del partito comunista, e quindi la sua istituzione, che vale la dittatura del proletariato in quanto i borghesi non votano per i soviet, autorizzasse a «sciogliere il partito politico», fino al punto di suggerire di convocare i soviet prima della lotta rivoluzionaria. I sinistri italiani fin dal 1919 avevano combattuta decisamente questa tesi antimarxista, che fu poi condannata al II congresso nella risoluzione sui soviet o consigli di fabbrica, di cui converrà riparlare.

Strategia e tattica dell’internazionale

La stampa dell’opportunismo stalinista in questi giorni ha sottolineato che dell’Estremismo di Lenin ricorre il quarantennio. Per questa gentaccia non vi è che cerimoniale, e notes di appunti delle date fisse per salamelecchi convenzionali, compleanni onomastici e simili facezie. Naturalmente, dell’«Estremismo» interessano i brani cento volte, e sempre imbrogliando, usati contro la sinistra italiana, che sono riportati sebbene siano più che altro elogiativi. Ma questo è il minimo punto di cui ci occuperemo, e anche con Lenin ci premeva che si discutesse del metodo internazionale, e non della provincetta italica.

Qui preme a noi stabilire che Lenin trattò questioni di tattica contingente o nazionale al solo scopo di chiarire punti di principio circa la costituzione e la strategia storica del movimento comunista rivoluzionario, con lo sguardo sempre fisso ai traguardi della rivoluzione mondiale e della organizzazione del partito comunista mondiale.

Mostreremo che in questa opera vitale la sinistra italiana lo sostenne, e meglio di tutti lo comprese in punti cruciali. Ma per la chiarezza della nostra esposizione, che non può essere breve, vanno citati i punti di tattica che secondo la più nota accezione furono in quella occasione imputati ai tedesco-olandesi, in quanto è stato sempre comodo identificare con la posizione di quelli anche la posizione degli italiani.

L’opposizione tedesca si affermava su due punti pratici. Anzitutto, sosteneva la uscita dei comunisti dai sindacati opportunisti, detti in quel torno «reazionari»; e su tale punto nulla aveva di comune coi comunisti italiani. Sebbene in Italia vi fossero, con tendenza anarchica, quei sindacati di sinistra che il KAPD proponeva di fondare in Germania, noi in Italia mai sostenemmo la scissione sindacale e lavorammo nel seno della riformistissima Confederazione Generale del Lavoro per abbetterne i capi, giusta la precisa tattica preferita da Lenin. Qui la soluzione tattica discende dai principi direttamente. La funzione rivoluzionaria è nel partito in forma primaria, e non nei sindacati, e nei consigli di fabbrica. Quindi la esigenza era, e Lenin approvava ovviamente, di formare il nuovo partito comunista scindendo il partito politico, e non boicottando il sindacato di destra o altro sindacato; anzi propugnando, allora, il sindacato unitario.

Ma il secondo errore dei sinistri tedeschi era il boicottaggio delle elezioni parlamentari. Ecco, si grida dai filistei, che Lenin dovette stigmatizzare tedeschi e italiani. Ma Lenin sapeva e insegnò che altra era la posizione nei due casi.

Non è facile che il fesso comune capisca che altro è negare la funzione primaria del partito comunista nella insurrezione rivoluzionaria e nello stato, per lasciarla ad altri organi proletari «immediati» come sindacati, consigli e soviet, nel che è l’immediatismo, nostro principale nemico, e da questa negazione dell’aspetto politico della lotta far discendere la negazione anche di quella parlamentare; altro è il contrapporre, al dato passaggio storico, politica legalitaria a politica rivoluzionaria, punto sul quale discutemmo con Lenin senza metterci d’accordo, ma accettando per disciplina la sua soluzione.

Ci sarà facile in fine di questo studio o in uno successivo, dedicato al parlamentarismo, dimostrare che qui davvero in principio noi eravamo con Lenin, e la divergenza era tattica, mentre i traditori di oggi in principio sono, nella questione del parlamentarismo, contro Lenin e contro noi. Infatti nel II congresso si discusse sulla via migliore per distruggere il parlamentarismo, e Lenin colla maggioranza prevalente sostenne che la distruzione si facesse dall’interno di esso e non dal di fuori. Si andò dentro, e i parlamenti non solo sono sempre lì, ma i buffoni che si dicono Leninisti giurano sulla loro eternità e sono pronti a battersi per difenderli. Dietro a loro su questo punto, le masse sono non meno deviate e vanno a votare con socialdemocratica fede che si tratti di una «via al socialismo».

La trama del lavoro di Lenin

Per mostrare il nostro divario da quelli che citano per frasi staccate, e in questo non possono che essere allievi dei deformatori stalinisti, dedurremo le posizioni di programma e di principio da un esame di tutte le parti, ordinate, dell’opuscolo sull’«Estremismo».

Ricorderemo il sommario, dopo di aver fornito altri dati storici. Nelle tesi del II congresso «sui compiti principali della Internazionale comunista» il punto 18 dichiara inadeguate le concezioni sui rapporti tra il partito, la classe operaia e le masse, di una serie di movimenti, che sono indicati nel Partito operaio comunista di Germania, in parte nel Partito comunista svizzero, nella rivista ungherese «Kommunismus» (di cui la bella lotta per la rivoluzione russa non celava errori dottrinali in senso idealista), nella Federazione operaia socialista inglese, negli IWW (lavoratori industriali del mondo) statunitensi, negli Shop Stewards scozzesi (comitati di fabbrica). È vero che anche qui si condanna insieme il boicottaggio sindacale e quello dei parlamenti, ma in effetti si tratta di una presa di posizione di marxisti ortodossi contro ciò che ancora oggi noi combattiamo, anche in gruppi antistalinisti, sotto il nome di «immediatismo».

Altro particolare. In una riunione precongresso a Leningrado si discusse se questi movimenti potevano essere ammessi al congresso come sezioni, e non come soli uditori. Tra una certa meraviglia anche dei russi il delegato della sinistra italiana propose la loro esclusione con l’argomento che si era al congresso della Internazionale dei partiti politici, e solo partiti comunisti potevano aderire. Ciò fu poi chiarito a fondo nelle «condizioni di ammissione», i celebri 21 punti.

Vogliamo dunque fare uso dell’«Estremismo» di Lenin? Bene. Si tratta di leggerlo e di saperlo leggere. Il quadro storico lo abbiamo dato. Il sommario è questo:
1. – In qual senso si può parlare della importanza internazionale della rivoluzione russa?
2. – Una delle condizioni principali del successo dei bolscevichi.
3. – Le tappe principali nella storia del bolscevismo.
4. – Lottando con quali nemici nel seno del movimento operaio il bolscevismo è cresciuto, si è rafforzato e temprato.
5. – Il comunismo «di sinistra» in Germania. I capi – il partito – la classe – le masse.
6. – I rivoluzionari devono lavorare nei sindacati reazionari?
7. – Si deve partecipare ai parlamenti borghesi?
8. – «Nessun compromesso»?
9. – Il comunismo «di sinistra» in Inghilterra.
10. – Alcune conclusioni.
Appendice:
1. – La scissione dei comunisti tedeschi.
2. – I comunisti e gli «indipendenti» in Germania.
3. – Turati e consorti in Italia.
4. – False conclusioni da giuste premesse.

Come abbiamo detto, abbiamo ricordato il momento storico in cui Lenin si indusse a scrivere questo testo, importantissimo per tesi valide in tutti i tempi e che oggi i proclamati Leninisti ufficiali oltraggiano a ogni ora. Poi ci siamo fermati sul tema del paragrafo 5 per mostrare quale fu la preoccupazione principale di Lenin: il pericolo dello svalutamento della funzione primaria del partito, e il timore della dittatura del partito. Una vera classica condanna dell’abusato antipoliticismo immediatista e operaista, sempre dal marxismo classico battuto in breccia.

Toccheremo nel seguito tutti gli altri punti. Circa la questione del parlamentarismo sottolineeremo che la linea di Lenin prevede boicottaggio e partecipazione; ricorderemo la storia del partito italiano, e la ridicola fase della uscita insieme all’Aventino borghese voluta dai centristi, mentre la sinistra che più non dirigeva il partito impose il rientro.

Citeremo un passo in cui Lenin mostra che forse gli astensionisti avrebbero fatto bene a scindersi a Bologna, Ottobre 1919, dalla enorme maggioranza che, volendo le elezioni, le voleva con Turati.

Circa la teoria del compromesso ricorderemo che si tratta del rifiuto della pace di Brest-Litowsk nel 1918, mentre la sinistra italiana, senza nessun collegamento, fece propria la tesi di Lenin della firma del trattato coi briganti tedeschi, e non quella della guerra rivoluzionaria fino allo sterminio[1].

Sulla questione dei sindacati e consigli di fabbrica sarà facile mostrare che, allora e dopo, la tesi combattuta dall’Internazionale fu proprio quella degli ordinovisti gramsciani, di sospetta ortodossia sempre.

Riconosciamo che un simile modo di leggere Lenin o Marx è laborioso. Ma è il solo che difende dalla rovina opportunista dilagante.

Chi vuole andare per effettacci e appagarsi di luoghi comuni e frasi subdolamente staccate, si accomodi nel letamaio.



Notes:
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  1. Cfr. nella nostra «Storia della Sinistra Comunista», Milano, ediz. «Il Programma Comunista», 1964, soprattutto l’articolo a pag. 342 e segg.: «Le direttive della rivoluzione russa in una fase decisiva», dall’«Avanti!» 25–5–1918. [⤒]


Source: Tratto da «La sinistra comunista in Italia sulla linea marxista di Lenin», ediz. «Il Programma Comunista», 1964

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