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STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (XXXV)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXV)
91 [192] – Abitazioni e diritto
92 [193] – Codice civile sovietico
93 [194] – Abitazioni e locazioni
94 [195] – Costruzione ed assegnazione di case
95 [196] – L’antimarxismo emulato
96 [197] – La proprietà personale
97 [198] – La questione posta storicamente
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Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XXXV)

91 – Abitazioni e diritto

Abbiamo trattato la questione della casa urbana di abitazione, in quanto precede, sotto il profilo economico, ma limitandoci all’economia di costruzione della casa che ci interessa più dell’economia di gestione, di esercizio. Venendo su tale campo, per la chiarezza delle idee generali, sarà bene ricordare quali rapporti sorgono nel «diritto» sovietico a proposito della casa.

Il lettore intende senza dubbio che noi non mettiamo il problema della casa, e dell’edilizia in genere, al centro dell’economia sociale, ma che ce ne siamo serviti per porre in evidenza la natura del rapporto sociale, e giungere in maniera inconfutabile alla scoperta di un rapporto di produzione del tipo capitalistico, male dissimulato nella facciata della struttura russa.

La nostra imputazione di capitalismo alla gestione dei mezzi e delle forze produttive in Russia è del tutto generale; ma abbiamo qui svolta una via più evidente per confutare l’eterna confusione tra statizzazione e socialismo, su cui da almeno trent’anni lavora la colossale propaganda della terza ondata del tradimento opportunista.

La distinzione tra esercizio della struttura costruita, ed economia della sua costruzione, vale anche per uno stabilimento industriale; e certamente in Russia quantitativamente la costruzione di officine e la loro successiva gestione hanno dato una massa di movimento economico ben superiore a quella della costruzione delle abitazioni, ed anche della costruzione di edifici in genere per tutte le destinazioni, e di quella delle grandi opere pubbliche, forse anche.

Nel fermarci dunque alle case urbane teniamo ben chiara questa distinzione triplice. La costruzione e il montaggio di una fabbrica con tutte le sue macchine ed impianti dà luogo ad un primo rapporto di produzione in quanto un’impresa ne assume contro compenso in denaro la costruzione ed il montaggio (prescindiamo per un istante dalla natura privata, cooperativa, statale di detta impresa).

Una volta eretta la fabbrica questo primo rapporto è chiuso, e se ne apre un secondo con la sua entrata in funzione, ossia si inizia la produzione di quel tipo di manufatto che la fabbrica somministra. Questa fase non temporanea ma permanente, fino a che l’impianto non sia messo in disuso, dà luogo al classico rapporto capitalistico di produzione quando arrivano in fabbrica materie da lavorare e lavoro umano e ne escono i prodotti lavorati in forma di «merce».

Quando al posto della nostra fabbrica vi sia, ad esempio, una opera pubblica di uso generale non pagato, come una strada rotabile, non vi sarà una fase di esercizio comparabile, nemmeno in paese di confessato capitalismo, al rapporto della produzione di merci: la spesa di manutenzione e di ripristino (ammortamenti) non sarà tratta da una entrata mercantile, ma sostenuta dallo Stato o altro pubblico ente.

I casi intermedi, tra questi due estremi della destinazione che oggi direbbero «funzionale» della costruzione «realizzata», sono vari e complessi. Una ferrovia dà luogo ad un esercizio mercantile, dato che i viaggiatori e le merci pagano il trasporto e da tale ricavo si paga un personale, sia la gestione privata o pubblica, attiva o passiva.

La casa di abitazione, dopo eretta ed occupata, dà luogo ad un’attività economica di esercizio in quanto in generale l’abitatore paga per il suo godimento, ma non si tratta di un rapporto di produzione capitalistico, né basta a stabilirlo la relativamente lieve spesa di manutenzione e conservazione. Non vi sono prodotti vendibili, ed in generale nemmeno «servizi» frazionabili in remunerazioni a prezzo, o tariffe.

Nella limpida società borghese ternaria, ove sono presenti i redditieri immobiliari, Marx ci dice che la gestione della casa non dà profitto di impresa ma solo rendita di proprietà. In Russia ci domanderemo se vi è la proprietà della casa e l’onere per il suo uso, e a chi nel caso vada tale ricavo di gestione.

Ma siamo giunti a questo per esserci occupati del rapporto di produzione che inerisce alla costruzione, al montaggio, all’appalto di questi lavori da parte di intraprese il cui bilancio abbiamo voluto studiare e svelare. Ciò in analogia stretta col fatto che nei paesi moderni una parte veramente notevole di investimento del capitale di impresa, che sta bene a fronte di quella che si rovescia nelle industrie «manifatturiere» ed anche di «servizi generali», si dedica all’industria della costruzione, si tratti di case, di edifici generici o di altri impianti.

92 – Codice civile sovietico

Sarà bene guardare alle formule teoriche che sono contenute nelle costituzioni generali e nel codice civile russo, anche se non è facile venire in possesso delle ultime versioni che tutte, notoriamente, si avvicinano sempre più a quelle in vigore nei paesi di diritto borghese (con le note origini dal diritto romano e dal codice napoleonico).

Il codice russo ammette tre tipi di proprietà: statale, cooperativa, privata. Questa distinzione, che riguarda il soggetto del diritto di proprietà, è chiarita nella sua portata dalla distinzione circa l’oggetto della proprietà, ossia la natura dei beni su cui essa si esercita.

Nel diritto sovietico è scomparsa la classica distinzione tra beni immobili e mobili, in quanto il bene immobile tipo, ossia la terra, il suolo, è dichiarato dalla Costituzione proprietà dello Stato, e nessuna sua parte può divenire oggetto di proprietà privata, e in teoria nemmeno cooperativa.

Questo è vero formalmente agli occhi di un ideologo del diritto borghese, in quanto per costui si ha la proprietà integrale e piena quando alla stessa si accompagna il diritto di «alienabilità» contro denaro sul mercato. Nei paesi borghesi ogni titolare del diritto di proprietà può, appena crede, vendere la sua terra; ed anche il titolare di qualche altro diritto meno totale (enfiteusi e simili).

In regime borghese, lo Stato ha una doppia forma di proprietà: demaniale, ossia invendibile sul mercato a privati – patrimoniale, ossia vendibile ad un qualunque compratore, a volontà dello Stato stesso o a giudizio di chi lo gestisce.

Poiché nel codice russo la terra è dichiarata non solo proprietà dello Stato, ma anche «bene non passibile di atto di disposizione privata», insieme ad altri beni e cose che elenca un articolo fondamentale dal titolo «sull’oggetto dei diritti» (il nostro giurista direbbe: res extra civile commercium), essendo ipotizzabile un unico proprietario di terra, che è lo Stato, questo è un proprietario che non può contrarre vendite (né compere) dato che un secondo non ne esiste.

Il codice civile di un paese comunista, prima di divenire del tutto inutile, potrebbe dire più semplicemente: è abolito l’istituto della proprietà sulla terra e sul suolo. Inutile far vivere una «proprietà statale», che in tanto è logicamente necessaria in quanto ha di fronte una proprietà privata.

Comunque, è solo apparente l’abolizione della proprietà privata della terra (e più ancora come vedremo quella degli immobili, tra cui le case) visto che lo Stato può darne concessione ad enti cooperativi e famiglie private come ben sappiamo per il campo agrario. Questa forma giuridica di concessione non la si vuol chiamare proprietà (e si avrebbe ragione anche dal congresso internazionale dei professori di diritto!) perché non comporta l’alienabilità contro denaro. Ma restando sul terreno economico (ossia per un marxista che studi il diritto solo in quanto sovrastruttura contingente dell’economia), quando il godimento è perpetuo, e irrevocabile dallo Stato, non si accompagna ad altro tributo che ad un’imposta come quella che anche la proprietà fondiaria borghese paga ai suoi Stati, ed è perfino trasmissibile per via ereditaria, abbiamo la piena trasformazione della proprietà statale in proprietà cooperativa (grande azienda colcos) e proprietà privata (campicello e casa familiare contadina). Marx direbbe che a pari rapporto di produzione si ha pari forma di proprietà.

Abbiamo anche sempre detto che una riforma legislativa che attribuisca allo Stato la proprietà e la rendita è concepibile per il sistema capitalistico e propugnata da gran tempo da scuole borghesi e «industriali classiche».

I beni non suscettibili in Russia, ed in dottrina legale, di privata disposizione, sono oltre alla terra molti altri, e soprattutto gli impianti e stabilimenti industriali o destinati a servizi di utilità generale. Contiene questa definizione espressamente il divieto di possedere l’attrezzatura «volante» di un cantiere di costruzione, che è un impianto non fisso, non di produzione di manufatti, e nemmeno di servizi permanenti, quali sono invece l’officina e la rete elettrica, ferroviaria, ecc.?

Il problema centrale che abbiamo davanti è quello del primo smascherarsi del profitto di impresa, che non è mai stato assente, attraverso le organizzazioni di costruzione a cui si trovano nei vari discorsi ai congressi curiosi accenni.

93 – Abitazioni e locazioni

Costruita la casa di abitazione, come nel caso di un fabbricato industriale o di un’opera destinata a un servizio pubblico, la «organizzazione» edile si ritira facendone consegna. A chi, e per quale disposizione?

Se interroghiamo il nostro ipotetico congresso mondiale delle università giuridiche, apparirà che la proprietà delle case non esiste, e che sono tutte dello Stato, una volta che tale è la sorte del suolo. Infatti nel puro diritto romano «qui dominus est soli…», chi è proprietario del suolo, lo è anche di quanto sta sotto e sopra «usque ad coelum et inferos», fino al cielo e all’inferno, e tutt’al più escluso solo il possesso di Dio e di Satana…

Tale norma dei polverosi digesti cade però in difetto non solo in legislazioni moderne ma anche in quelle che hanno base nel diritto germanico medioevale; e quindi la miniera sotto e la casa sopra trovano discipline diverse da quelle del suolo. E nel diritto positivo russo abbiamo che, dopo aver defenestrata la definizione di «immobile» per il fatto che la nuda terra non è commerciabile, si riammette la possibilità di case di privata disposizione, ereditabili e vendibili, come pure godibili senza pagare canoni allo Stato o ad altro ente.

Infatti del terzo tipo di proprietà, ossia «privata», non solo possono essere oggetto tutti i generi di uso personale o meno, per cui non faccia specifico divieto la legge, come anche le piccole aziende commerciali ed industriali che abbiano un numero molto piccolo di operai salariati, ma altresì «gli edifici non municipalizzati». La Costituzione 1936, come sappiamo, riconosce nell’art. 7 al componente dell’azienda collettiva (membro del colcos), a parte il godimento di cui abbiamo ampiamente discorso sul campicello, «la proprietà personale sull’azienda accessoria all’appezzamento suddetto, sulla casa per l’abitazione, il bestiame produttivo, il pollame e il minuto inventario rurale». L’art. 8 riconosce analogo diritto di proprietà a contadini singoli e a piccoli artigiani, purché basata esclusivamente sul proprio lavoro personale. Nel codice è riconosciuta la proprietà individuale sul reddito del proprio lavoro, sui risparmi, sulle «case di abitazione» e sui «beni domestici ausiliari» ossia sugli oggetti facenti parte dell’uso e dell’economia domestica, come sugli oggetti di uso personale. Per tutti i detti beni (e quindi anche per la casa di abitazione) è consentito il diritto di successione ereditaria.

Quanto alle case, l’art. 182 (codice civile 1937) dichiara «valida la vendita di edifici di abitazione non municipalizzati o demunicipalizzati» con la sola condizione che «attraverso quell’atto l’acquirente o i suoi familiari non assommino presso di sé più di una proprietà».

La casa di abitazione è dunque suscettibile di compra-vendita, sia evidentemente da parte di successivi possessori, sia da parte del primo costruttore.

Esiste dunque la piena privata proprietà delle case di abitazione, col solo limite che siano adibite all’uso del proprietario e dei familiari.

Infatti la casa di abitazione, sia pure idealmente considerata come distinguibile dal suolo su cui sorge (che è dello Stato), può avere, oltre a tutti gli altri requisiti (perpetuità di godimento, ereditabilità per successione, non revocabilità da parte dello Stato o di altro ente di tali diritti), anche quello che mette d’accordo tutto il congresso dell’universale giure borghese, ossia la vendibilità e acquistabilità contro moneta.

Tutt’al più si può considerare che colui che ha acquistato questa piena e totale proprietà della casa può goderne solo direttamente o attraverso i suoi più stretti congiunti, e non può procurarsene una seconda (non può stipulare più di una volta in tre anni), e quindi non ha il diritto di concederla ad altri contro un canone di locazione. Sarebbe così ammessa la proprietà della casa propria familiare, e non altra.

Viene quindi da chiedersi come tutti quelli che non hanno raggiunta la proprietà della casa che abitano, conseguano il godimento di una casa, e sotto quali rapporti e condizioni, poiché non si mancherà di gridarci in volto che non devono rivolgersi all’odiata figura del «padrone di casa»; alla quale tuttavia nei paesi borghesi coi vincoli, i blocchi e le proroghe sono state tagliate le unghie.

Fermo restando che il suolo è proprietà dello Stato, la legge sovietica, che si fonda indubbiamente sulla espropriazione iniziale di tutta la proprietà edilizia che fu trovata in atto dalla rivoluzione, ha affidato la gestione delle case che non sono possedute da privati abitatori alle municipalità locali.

L’insieme delle case di una città grande o piccola forma un «demanio comunale», tra cui si eccettuano alcuni edifici dell’amministrazione statale centrale, e quelli che traverso un lungo decorso in continuo incremento sono stati attribuiti a privati goditori-proprietari nelle forme ora dette.

Le case disponibili sono distribuite tra coloro che ne abbisognano con un procedimento chiamato di «condensazione» che assegna i locali a ciascuno e fissa il canone di affitto, cui apposito articolo pone limiti tariffari (il 166). Non meniamo scalpore sulla non immediata abolizione di ogni canone di fitto, quale era stata fatta al tempo del comunismo di guerra, ben ricordando che nella classica «Questione delle abitazioni»[292] Engels spiega che l’ente espropriante di esse nell’interesse del proletariato non potrà di primo colpo sopprimere la pigione, essendo chiaro che il demanio case non starebbe in piedi senza un contributo di tempo lavoro dedicato a mantenerlo efficiente. Lo scandalo lo vediamo nella proprietà privata familiare che non paga pigione.

94 – Costruzione ed assegnazione di case

Lo Stato o gli enti pubblici locali possono concedere il diritto di costruzione su dati terreni, contro pagamento di un canone «da parte del costruttore» e con diritto di «godimento e sfruttamento della costruzione» alle condizioni del contratto. Tale diritto può essere attribuito a «privati, cooperative, aziende», ecc. Togliamo le attuali citazioni dall’articolo di Ugo Natali nel nr. 1–2 della stalinista «Cultura Sovietica» del 1946.

Il costruttore non solo può ricavare dalla costruzione i canoni di affitto, ma può anche alienarne le parti, sotto date norme se la figura del costruttore l’ha rivestita un’azienda che ha lo scopo di destinare le case ai soli suoi dipendenti. È vero che al termine della lunga concessione il tutto ritorna all’ente concedente il suolo, e in ultima analisi allo Stato, ma un simile istituto è in molte legislazioni (Inghilterra) ed è notoriamente ottimo ossigeno per la vitalità delle capitalistiche «società di costruzione».

Ecco perché la casa è un bell’esempio di come il diritto di proprietà dei mezzi di produzione, che sembrava scomparso, appare nella deteriore forma del diritto di costruzione. Nato sul terreno infido dell’abitazione tale diritto passa ben presto al diritto di appalto della costruzione, che altro non è che la proiezione, in un’economia statizzata, del diritto di intrapresa privata, sul comune fondamento capitalista.

Quando si procede alla «condensazione» delle abitazioni di un edificio, o di un rione urbano, ossia si tolgono stanze in più ad antichi occupanti per alloggiare altri nuclei familiari, si colpiscono gradatamente tre categorie di utenti: i godenti di reddito non proveniente da lavoro; i professionisti ed artigiani; e solo per ultimi i lavoratori salariati. Nello stesso ordine si procede allo sfratto degli eventuali occupatori eccedenti lo spazio disponibile, e i lavoratori non possono (salvo casi disciplinari come il disturbare un coabitante) essere sfrattati se non vengono provveduti di casa altrove.

In tal modo il codice ha disciplinato l’uso delle case urbane e il contratto di locazione dell’abitazione. Ma il codice prevede anche la locazione, a privati o a cooperatori, di aziende di produzione dello Stato o dei comuni, che è legata a cifre minimum della produzione annua. E da questa norma vediamo riapparire il rapporto di appalto di una fabbrica, che ci richiama a quanto abbiamo svolto sul caso statisticamente predominante dell’appalto di lavori di costruzione e di montaggio, che si estende dalle case agli stabilimenti, ai grandi impianti ed opere pubbliche generali.

È forse, in tale sistema, non certo ordinato e facilmente classificabile, e che nelle risultanze in possesso di chi lo studi ad ogni passo richiama il caos equivoco del mondo borghese della costruzione edile, dell’accaparramento dei suoli, dei cantieri e delle case, ed in genere della proteiforme ed elastica industria dell’intrapresa costruttrice, dai tentacoli inafferrabili e dal ribollire che aggira ogni freno, è forse l’esistenza di una proprietà privata sulle case abitate una eccezione, un residuo di forme passate che si tende a liquidare con forme transitorie di gestione e di amministrazione? Risulta perfettamente il contrario.

È certo che una rivoluzione proletaria potrà facilmente liberarsi della forma sociale della grande proprietà urbana, con la stessa facilità con cui i regimi borghesi hanno potuto in guerra eternare l’uso della casa semplicemente togliendo al padrone i mezzi di forza legale per estromettere il locatario. Tuttavia non solo non potrà, come dice Engels, regalare la casa al pigionante, perché costituirebbe una nuova base alla proprietà perpetua, ma sarà costretta in un primo breve periodo a rispettare la minoritaria proprietà legata all’uso diretto (di famiglia) dell’abitazione. La giusta politica sarà di prendere per il collo «chi si è fatta la casa» e fargli pagare una buona pigione allo Stato: ma è facile vedere come al primo momento si tollereranno, provvisorio del provvisorio, i padroni della loro risibile «home».

Si va in Russia verso una liquidazione di questa forma di proprietà frammentaria e minuta dell’abitazione, che appunto per evitare il concentrarsi in grossi blocchi tiene in vita il famigerato borghese istituto del «condominio sugli edifici», sopra tutti irrazionale, antieconomico e socialmente pestifero? Al contrario! Questo miserabile e reazionario sistema, ricettacolo incubatore di ogni tirchieria individualista e piccolo-borghese, costituisce in Russia un ideale, non meno che nei paesi retti da democratici laici o confessionali!

Basti sentire Chruščëv al XX congresso:
«Oltre alle costruzioni con finanziamento statale, bisogna sviluppare più ampiamente le costruzioni con fondi individuali, aiutare gli operai e gli impiegati a costruirsi la casa con i risparmi personali, aumentare la produzione e la vendita alla popolazione di materiali da costruzione di case prefabbricate».

95 – L’antimarxismo emulato

In che differisce questo linguaggio, questo stile, questo programma di incanalamento delle tendenze «popolari», da quelli che adoperano, nella fiducia di pervenire a sradicare dalle classi lavoratrici dei paesi di tutto il mondo le luminose impronte della tradizione rivoluzionaria suscitata dalla sommovente dottrina del marxismo, gli americani, i keynesiani, quelli della teoria del benessere, della cancellazione di ogni dinamico connotato di classe in una società che tuttavia resti inchiodata sui ceppi del modo capitalista di produrre, i bigotti indecenti di tutte le socialdemocrazie e di tutti i socialcristianesimi?

Quando non si era ancora dimenticato il classico inno che il nostro «Manifesto» levò, fra il terrore di un mondo abbacinato, alle gesta della borghesia mondiale che aveva cancellato, nelle masse immense dei salariati lanciate in turbine per un mondo fragoroso di sonanti officine e di macchinari frementi, gli istinti millenari che vi avevano impresso i residui tradizionali di limitatezza personale religiosa, familiare, domestica, mercantile, propri di vinte economie polverizzate e pidocchiose – allora noi concedemmo ogni fede alla minoranza magnifica che in Russia rappresentava questa avanguardia delle società moderne, preparata sui piani dell’istinto della massa e della dottrina del partito a dilacerare senza alcuna pietà tutti gli schermi di quei vecchi fradici scenari; e mai fede fu meglio riposta. La collera di classe che montò sul sommo dell’onda bolscevica di battaglia scosse sulle loro fondamenta tutti quegli idoli e feticci a cui ancora l’occidente bruciava stupidi incensi. Vedemmo davanti ad essa per sempre fuggire gli ultimi scrupoli paralizzatori legati ai pretesi «valori» della civiltà moderna, che voleva solo chiudere nel giro delle sue molli braccia la vasta terra degli zar, ma allibì vedendo spezzare dal proletariato scatenato ogni vincolo alle sue icone e ai suoi ideologismi ed ai suoi astratti, che si equivalgono quali forze classiste e storiche, si chiamino essi divinità, personalità, libertà, proprietà, culto imbecille dello Stato, della patria, della famiglia, della casa infine, ultima e più sinistra prigione che il fiammeggiare del comunismo mondiale deve disonorare prima, dissolvere poi.

Mentre il giovane proletariato russo, con la sua breve ma sfolgorante storia di classe, che aveva percorsa fulmineamente infrangendo sinistre catene ideologiche, e che più irruente ripercorse avendo nelle mani le fiamme e le armi della guerra di classe, si proiettava all’avanguardia di tutti verso le più audaci conquiste dell’avvenire, in uno dei cicli più iconoclasti della storia umana, fu chiaro alla nostra teoria, mai disgiunta dal nostro entusiasmo, che esso, levandosi, doveva sommuovere il più tremendo di tutti i cumuli di strati sociali che il marxismo avesse mai previsto; vivemmo la storia ed erigemmo coi marxisti russi la scienza del trattamento nella rivoluzione non tanto di nobili e borghesi, per cui era pronta ed ovvia la formula della riduzione al nulla, quanto e soprattutto dei contadini famelici, loro a buon diritto perché non avevano retine per raggi più alti, di terra e libertà, di proprietà non serva e di casa che non fosse canile nella famiglia del padrone terriero

Stabilimmo chiaro che essi avrebbero saputo combattere, ma non potevano sapere e vedere quei traguardi tanto più alti, per i quali solo la classe dei lavoratori di massa e nullatenenti ha organi di senso e di pensiero.

Questo insegnamento ci permise di intendere che per tratto non breve, ma che confidammo potesse essere traversato di slancio con la forza della rivoluzione occidentale, si dovesse filtrare questa massa di disperati servi, dai muscoli rivoluzionari ma dalle menti oppresse da tenebre, attraverso le reti della parcellazione dei campicelli e delle casette tra loro lontane e purtroppo nemiche, dialetticamente immergendo, e non vi era da temere a riconoscerlo, il fiammante slancio delle masse urbane nella rurale fame di egoismo personale, microdomestico, microaziendale, come sola via storica per spingersi poi fuori dall’inferno della limitatezza individuale, che vive nel culto ingenuo quanto sciagurato della zolla, del peculio, della vacca, del figlio animale da lavoro posseduto, del padre nutrito titolo monetario, delle quattro mura cretine che separano dal mondo, come disse Engels della meno angusta cerchia del mir[293].

Non venne l’onda montante della rivoluzione di occidente con le altre formidabili armate di senza-riserva, di proletari puri delle città – e delle campagne capitalistiche da secoli – e fummo pronti a registrare l’evento storico che, col raffreddarsi della tensione rivoluzionaria ad ovest, si dovesse scontare l’imprigionamento della campagna contadina russa in forme istintive da bassa rivoluzione borghese-individualista, per una dura tappa storica ulteriore.

Ma abbiamo visto cosa e vicenda più orrenda: non solo che il ferratissimo e spregiudicatissimo proletariato industriale russo fosse riportato indietro alla parità di potere col contadiname frammentario; ma che al primo si ponesse come modello, come traguardo, come programma, al posto di quelli comunisti che aveva conquistato nella forza del più grande partito di dottrina della storia, il modo di vivere miserabile dell’agricoltura molecolare affondata nel pantano dell’egoismo sociale.

96 – La proprietà personale

Una vecchia canzone che ci insegue dai tempi lontani della prima polemica sulla rivendicazione comunista: «Il socialismo non sopprimerà la proprietà personale». Si vuole con ciò dire che il socialismo consiste nel sostituire all’appropriazione privata degli strumenti di produzione, e quindi dei loro prodotti, la loro appropriazione da parte della società. La massa del prodotto sociale verrà assegnata ai produttori, ma ognuno, ricevuta la sua parte di consumo, tra il momento dell’assegnazione e quello della consumazione ne ha la «proprietà personale», come si dirà sempre il mio pane, il mio companatico, le mie scarpe, il mio mantello…

Questo non è un ragionamento scientifico ma solo un vecchio espediente di propaganda per attenuare la paura che faceva al tardigrado «senso comune» la rivoluzionaria proposta di cancellare ogni proprietà individuale.

Prima di provarne il vizio con la teoria e coi suoi testi di base, ne abbiamo ora trovata una prova storica: arriveremmo a questa enormità, che il socialismo conservi la proprietà personale della casa, in quanto la stessa, pur non essendo un genere di sussistenza e di consumo, può essere goduta individualmente?

Fatta questa scivolata è facile rilevare che tale godimento non è personale, ma familiare, per piccole collettività domestiche, ed ecco che nel socialismo avremmo fatto rientrare a bandiere spiegate l’istituto della «famiglia» che consuma e gode in comune dati benefici, e con esso il cardine di ogni società di proprietà privata, fino alla forma capitalistica: la trasmissione ereditaria, che è uno dei piloni angolari dell’accumulazione della ricchezza privata.

Andrebbe riletto l’intero capitolo «Proletari e comunisti» del «Manifesto», che stritola le obiezioni tradizionaliste alle posizioni comunistiche contro la proprietà, la libertà, la personalità, la cultura, la famiglia, la patria, la religione.

Nella moderna società borghese, dice il «Manifesto», non vi è proprietà acquistata col lavoro.
«Il lavoro del proletario crea il capitale, cioè crea la proprietà che sfrutta il lavoro salariato».
Quando si accusano i comunisti di abolire ogni proprietà, si allude forse alla proprietà del piccolo-borghese e del piccolo agricoltore che precedette la proprietà borghese? Codesta non abbiamo bisogno di abolirla; lo sviluppo dell’industria l’ha abolita e la abolisce quotidianamente.

Ora il punto è questo: vogliamo noi forse capovolgere questo processo borghese di espropriazione della piccola proprietà, che in epoche precedenti si era formata, genericamente parlando, col lavoro? No, noi vogliamo soltanto che esso si completi, per avere tutte le condizioni del socialismo. Possiamo essere costretti a riconoscere, pur essendo passati 110 anni da quelle tavole formidabili, che resta in questo campo molto da espropriare, e tollerare che queste antiche forme conducano il loro ciclo; ma non certo disfare quel tanto di loro evoluzione che la stessa società borghese ha attuata.

E come, senza essere paranoici, si concilia questo abbicì sempre indiscusso con l’incoraggiamento alla proprietà della casa «formata col risparmio del lavoratore»? Una tale frase delinquenziale può pronunciarla Keynes, e con lui soltanto chi abbia lacerato tutte le pagine del marxismo.

Vogliamo tuttavia seguire il tentativo di considerare la casa non come una parte di capitale (ciò stabilirebbe decentemente ogni keynesiano che aspiri ad attribuire individualmente e familiarmente non solo pezzetti di case, ma anche di intraprese di produzione industriale, di titoli azionari; ogni modernissimo capitalista democratico - coerente lui, e coerenti noi cui capitale e democrazia suscitano lo stesso schifo) ma come parte di quel consumo individuale di prima necessità, per cui non abbiamo mai annunziata la privazione del diritto di disporre.

Il «Manifesto» infatti dice:
«Quello che l’operaio salariato si appropria con la sua attività gli basta soltanto per riprodurre la sua nuda esistenza. Noi non vogliamo affatto abolire questa appropriazione personale dei prodotti del lavoro necessari per la riproduzione della vita immediata, appropriazione la quale non lascia alcun utile netto che possa dare un potere sul lavoro altrui».

Questo passo segue a quelli che hanno spazzato via la «proprietà acquistata col lavoro personale» e quella privata borghese, e tratta della proprietà nata dal salario – fin che esista.

Da questo passo è uscita la parafrasi che il socialismo fa salva la proprietà individuale del consumo, di cui non vieta la «appropriazione» nel breve ciclo tra erogazione della forza di lavoro e consumo del cibo che la ripristina. Ma ogni accantonamento, ogni «risparmio», esula da questa appropriazione fatta salva, ed è concessione alla posizione opposta, l’accumulo di rendite che diano modo di dominare il lavoro altrui.

Scientificamente parlando è il caso di riservare il vocabolo proprietà ed appropriazione a questo secondo rapporto, di messa in riserva di risorse da usare «per dominare il lavoro altrui», rapporto che è finito nella società socialista, e parlare di «disposizione» da parte del lavoratore di quanto gli compete per provvedere al suo consumo «immediato» nel senso che non va a riserva, ma può coprire in ciclo brevissimo la gamma dei bisogni.

97 – La questione posta storicamente

Scientificamente e fuori delle prime concessioni filosofiche alla contrapposizione dei principi, per un solo attimo pensati metafisicamente, il marxismo mette esattamente al loro posto i termini ed i rapporti di appropriazione e di espropriazione. Siamo nel classico centrale caso di uso della dialettica.

Nel capitolo XXIV del «Capitale» Marx fa in nota uno dei suoi tanti omaggi al geniale dialettico Sismondi, che aveva scritto:
«Noi ci troviamo in una situazione del tutto nuova per la società… tendiamo a separare ogni specie di proprietà da ogni specie di lavoro».
Frase da gigante, quanto è da sporco pigmeo quella di Chruščëv sull’ideale della saldatura del lavoro risparmiato con la proprietà perpetua della casa e, peggio, non individuale, ma familiare[294].

La separazione della proprietà dal lavoro Marx la svolge in tutta la dottrina dell’accumulazione capitalistica: noi la chiamiamo con rigore «Espropriazione dei produttori immediati». E leggiamo (cento volte e più nella vita):
«La proprietà privata acquistata col proprio lavoro, fondata per così dire [e per così profetizzare che taluno sarebbe sceso fino a Chruščëv] sull’unione intrinseca della singola e autonoma individualità lavoratrice e delle sue condizioni di lavoro, viene soppiantata dalla proprietà privata capitalistica, che si basa sullo sfruttamento di lavoro che è sì lavoro altrui, ma, formalmente, è libero».

La classica descrizione segue il suo corso indimenticabile. Questa espropriazione di molecolari proprietà private, che il capitale compie, è nel nostro formulano già una socializzazione. Ma presto
«anche la ulteriore socializzazione del lavoro e l’ulteriore metamorfosi del suolo e degli altri mezzi di produzione in mezzi di produzione sfruttati socialmente assumono una nuova forma».
Questo corsivo lo dedichiamo a sottolineare che nel marxismo il suolo, la terra, è «un mezzo di produzione». Vi diamo il tema: La casa, il suolo non agrario, sono mezzi di produzione? Marx dovette ricordare il teorema generale nella lettera sul programma di Gotha a smemorati discepoli: il suolo e la terra sono compresi negli strumenti di lavoro. Ma la casa non è compresa tra gli strumenti di lavoro, ci si può dire per la disperata difesa della «riappropriazione» della casa. E vero. Ma la casa non è nemmeno un «prodotto» rapidamente consumabile – per distruzione – prima di poter divenire monopolio di chi domina il lavoro altrui. In questo passo Marx indica i due monopoli della società borghese: quello dei capitalisti sugli strumenti costruiti dal lavoro, e quello «dei proprietari della terra», che in questo senso è, come detto, uno strumento di lavoro anch’essa.

Le case ed i suoli urbani non sono mezzi di produzione in senso proprio: non sono, come dice lo Statuto della Prima Internazionale, fonti della vita, ma la loro appropriazione che non sia sociale ma personale è una base di monopolio borghese e non è concepibile che esista nella società socialista; in quanto residui storicamente, una società anche tendenzialmente socialista la può subire, ma non fondare, incoraggiare, diffondere alla Chruščëv. Se lo fa, è perché è borghese.

Non si tratta solo di un’aspirazione antisocialista e controrivoluzionaria ma di una aspirazione assurda e falsaria, che sia apologizzata a Mosca o a New York. La casa dei singoli raggiungerà una piccola minoranza, o cadrà nei vortici dell’accumulazione capitalista. Il risparmio sarà espropriato dal capitale, come con la odierna confisca dei titoli di Stato forzati.

Torniamo indietro, nella nostra corsa storica. Qual è per Marx la nuova forma della socializzazione che succede alla prima in cui i capitalisti espropriano le impotenti proprietà dell’autonomia familiare? È la forma dialettica:
«Chi deve essere espropriato non è più il lavoratore indipendente, ma il capitalista».
Non gridino i Chruščëv che!'hanno fatto! Qui sono i grandi capitalisti che vanno espropriando i minori, finché (Engels, «Anti-Dühring») non agisce lo Stato. Ma
«a un certo grado dello sviluppo, neanche la forma delle società per azioni non è più sufficiente. In un modo o nell’altro, con o senza trust, il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve assumerne la direzione»[295].

E torniamo alla pagina base di Marx:
«Il modo di appropriazione capitalistico […] costituisce la prima negazione della proprietà individuale, fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la sua propria negazione. E la negazione della negazione. E questa non ristabilisce la proprietà privata ma [ecco il passo che sembrò ermetico] la proprietà individuale sulla base della conquista dell’era capitalistica, la cooperazione e il possesso comune della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso».

Ma l’ermetismo insinuato da Dühring fu risolto dal nostro «cristallino Engels», in cui Stalin fu il primo a non saper leggere:
«Per chiunque capisce il senso delle parole, ciò significa che la proprietà privata si estende alla terra e agli altri mezzi di produzione, e la proprietà individuale ai prodotti, quindi agli oggetti d’uso [di consumo]»[296].

A ribadire questa portata dell’espressione di Marx sulla proprietà individuale, Engels cita, come altre volte abbiamo riportato, il passo di Marx nello stesso primo libro del «Capitale» che – al solito – descrive la società socialista.
«Una associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione sociali e spendano coscientemente le loro molte forze lavoro individuali come una sola forza lavoro sociale…»
viene supposta da Marx. In essa
«l’intero prodotto dell’associazione è prodotto sociale. Una parte serve a sua volta da mezzo di produzione. Rimane sociale. Ma un’altra parte viene consumata come mezzo di sussistenza dai membri dell’associazione: quindi deve essere ripartita fra essi»[297].

A disposizione del singolo produttore nella società socialista viene messa solo la quota immediatamente consumabile del prodotto sociale che gli compete, e questo Marx chiamò proprietà individuale storicamente in contrapposto alla proprietà privata borghese sorta dall’espropriazione degli antichi lavoratori autonomi, e che a grande distanza storica e in forme radicalmente nuove ne rivendica la riaffermazione dialettica, sorta dall’espropriazione degli espropriatori.

L’oggetto della formula «proprietà individuale» fisicamente sparisce nel consumarla. Solo questo lo salva dall’essere riespropriato.

Sorge da tutto ciò che la casa stabile e usabile (ma non consumabile) in successione da persone fisiche mutevoli e diverse non può mai essere compresa nella quota dal continuo flusso assegnata alla disposizione personale di ciascuno e che costui può consumare subito e sul posto o in altro luogo ed ora.

La casa non può venir assegnata alla persona e alla famiglia senza che si ricada in una forma di proprietà precedente all’epoca borghese, in cui si confondevano totalmente il luogo di soggiorno e riposo e quello di lavoro, forma palesemente deteriore rispetto a quella borghese, sicché non si tratta di un capovolgimento dialettico ma di un banale rinculo su strade già percorse dalla storia sociale.

È ben chiaro che un tale processo seduce i difensori dell’ordine borghese, che sono tutti schierati a frenarlo e chiamarlo indietro dalla china inesorabile in cui lo travolgono le leggi scoperte e proclamate dalla potenza del marxismo.

Ed è ben chiaro che l’adesione ad un simile metodo sociale da parte della politica russa non può preludere ad altro che all’accettazione di questo piano generale dei neo-malthusiani moderni, i quali vogliono rimettere in ripartizione non solo la parte consumabile del prodotto di lavoro, ma anche quella del profitto di impresa e di capitale, insieme alle particole di rendita della ricchezza ben rappresentate nel godimento dell’abitazione urbana. Ciò è altro passo verso l’ammissione e la confessione che l’economia russa di capitalismo di Stato si risolve palesemente in una copia conforme delle economie di capitalismo privato, confesse in occidente.

La questione della casa è un nodo cruciale di tale dimostrazione, in cui la valutazione delle relazioni economiche converge con quella delle influenze psicologiche, ideologiche e politiche che ci hanno consentito il parallelo tra il colcosiano agrario dispositore di terra, di casa, di capitale scorte, e il proletariato industriale avviato alla casa di proprietà familiare ereditaria, arredata domani all’americana di refrigeratore, televisore e tutto l’altro instalment multiforme e stupefacente, e che farà un giorno analoga fine.

Alla posizione di vantaggio economico e sociale che, tramite il rapporto con lo Stato, corre oggi in Russia tra il ceto medio e gli operai industriali, corrisponde nella sovrastruttura politica il processo di plasmatura dell’ideologia operaia su un modello piccolo-borghese, che spegne gli ultimi ritorni di fiamma dell’incendio bolscevico, e chiama il plauso, l’appoggio, la collaborazione e la direzione suprema del grande capite internazionale e degli imperi di Occidente, primo fra tutti quello di America. Questo, preso coraggio dalla liquidazione delle ultime vampe che lucevano nell’aggressività stalinista, mostra ormai alla luce del sole i grappoli delle bombe atomiche, che assicurano della servile emulazione e della lunga pace.



Notes:
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  1. «La questione delle abitazioni», tr. it. Editori Riuniti, Roma, 1971, pagg. 120–121. [⤒]

  2. «Il contadino russo vive tutto immerso nella sua obscina: il resto del mondo gli interessa solo in quanto si ripercuote nella sua ‹comune›. Ciò è tanto vero, che in russo la parola mir significa nello stesso tempo ‹il mondo›, o ‹l’universo›, e ‹la comune›; e vesc mir (‹il mondo intero›) l’assemblea dei membri della comune» («Soziales aus Russland», 1875, nel cit. Marx-Engels, «India, Cina, Russia», pag. 226). [⤒]

  3. Le citazioni da Marx in questo paragrafo si leggono nel Libro I del «Capitale», cap. XXIV, par. 7, ed. it. cit., pag. 825. Per tutto l’argomento sul piano teorico generale, cfr. «Il programma rivoluzionario della società comunista elimina ogni forma di proprietà del suolo, degli impianti di produzione e dei prodotti del lavoro», nei nr. 16+17/1958 de «Il programma comunista», poi riprodotto nei nr. 21–24/1975 dello stesso quindicinale. [⤒]

  4. «Anti-Dühring», Editori Riuniti, Roma, 1968, pagg. 295–296. [⤒]

  5. «Anti-Dühring», Editori Riuniti, Roma, 1968, pag. 139. [⤒]

  6. «Il Capitale», Libro I, cap. 1, par. 4 (Editori Riuniti, pag. 110). [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 10, Maggio 1957

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