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STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (XX)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XX)
45 – Lenin e il «suffragio universale»
46 – La guerra civile al marzo 1919
47 – Un Lenin «suffragetto»?!
48 – Il Congresso russo del 1919
49 – La privazione del diritto elettorale
50 – Finale sulla democrazia elettiva
51 – I rapporti di produzione
52 – Non fretta demagogica
53 – Un’abusata parola
54 – Vecchio e nuovo capitalismo
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Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XX)

45 – Lenin e il «suffragio universale»

La relazione di Stalin sulla nuova costituzione del 1936 parte dalla decisione 6 febbraio 1935 del VII Congresso dei Soviet dell’URSS. Questa, prima ancora di dichiarare che si trattava di mettere la nuova Costituzione d’accordo con i rapporti tra le forze di classe allora esistenti in Russia, proclama che si tratta di
«democratizzare del tutto il sistema elettorale, di passare dal suffragio ristretto al suffragio universale, dal suffragio non del tutto eguale al suffragio eguale, dalle elezioni a più gradi al suffragio diretto, dallo scrutinio pubblico allo scrutinio segreto»[167].

Queste direttive sono vantate come un passo verso un sistema «completamente democratico», ed erano infatti una totale imitazione delle costituzioni democratiche borghesi, con il loro canone di suffragio universale, diretto, uguale e segreto; ed il mondo è invitato a considerarle come un abbandono della dittatura per il ritorno alla piena democrazia. Il mondo borghese non volle crederlo, suggestionato dal fatto che restava sempre permesso ed ammesso alle elezioni in Russia un solo partito, quello di governo; credette così di essere furbo; mentre teoricamente e storicamente si trattava appunto di volgere le terga alla dittatura di classe e alla rivoluzione.

Come abbiamo accennato, Stalin, nel difendere dalle critiche vicine e lontane il progetto che la Commissione allora nominata elaborò sotto la sua presidenza, sostiene che l’abolizione dei criteri storicamente essenziali del voto non uguale (da noi illustrato: operai cinque, contadini uno, borghesi zero) era stata «promessa» da Lenin nella sua relazione all’VIII congresso del Partito comunista bolscevico, nel marzo del 1919.

Bisogna distinguere tra due documenti. Quello che cita Stalin è il «Progetto di programma del partito c.b.» che figura (fedeltà a parte) nelle «Opere», al vol. XXIX, pagg. 85–124. Si tratta dunque di un testo scritto prima del Congresso. Ma la questione è anche trattata in altro scritto, che consiste nel «Rapporto sul programma del Partito» svolto da Lenin nel congresso il 19 marzo 1919, in parziale dissenso dal rapporto di Bucharin, relatore sullo stesso tema. Questo nelle «Opere» è allo stesso volume, pagg. 147–166. I testi, a parte la fedeltà dell’uno e dell’altro, sono diversi nella forma, e vanno brevemente considerati entrambi, in relazione alla loro data.

La data numerica significa poco, ma quello che, come sempre ricordiamo, risulta essenziale quando si adopera una citazione è il quadro della situazione generale in cui essa fu scritta, e il gioco delle forze storiche che allora dominavano la scena.

Il testo dato da Stalin nel 1936 è dunque di qualche tempo precedente al 19 marzo 1919, epoca del congresso, in cui la questione è affrontata da Lenin.

46 – La guerra civile al marzo 1919

L’VIII congresso fu preparato e si svolse nel momento cruciale della difesa del potere bolscevico, stabilito da un anno e mezzo, contro gli assalti controrivoluzionari che abbiamo ampiamente trattati in fine della Parte Prima di questa esposizione, considerando tale periodo come facente ancora parte di quelli in cui è al centro il problema politico-militare, con preminenza su quello economico-sociale.

Il 6 marzo Kolčak aveva traversato gli Urali, e il 15 era ai sobborghi di Ufa. Solo in fine di aprile doveva iniziarsi la controffensiva dell’esercito rosso. Il 21 marzo i francesi avanzavano da sud su Cherson, da Odessa, che solo in aprile dovevano evacuare. In maggio si delineavano gli attacchi ancora più gravi di Denikin al sud e Judenič al nord, che dovevano serrare su Leningrado e Mosca, liberate dalla pressione minacciosa solo nell’avanzato autunno. Alle spalle di tutti questi eserciti poderosi erano le potenze imperialiste della vittoriosa Intesa, che avevano ereditata la funzione stessa delle forze germaniche, turche, ecc.

Nella primavera del 1920 Denikin avrebbe dal sud di nuovo tentato, poi sostituito dal più possente esercito di Wrangel; solo dopo l’estate e la guerra polacca finita male davanti Varsavia, si sarebbe potuto parlare di pace.

Nel 1919 gli operai delle città malgrado ogni eroismo e maturità politica erano allo stremo delle forze, l’industria era precipitata al più basso scalino di tutta la sua storia, la carestia imperversava ad ondate, e lo Stato sovietico poteva calcolare di vincere dopo la dura resistenza solo grazie alle forze di validi alleati armati in tutte le province. Tali forze non potevano essere le sole dei contadini poveri e semipoveri: sarebbero state insufficienti. Si dovette sperare di ottenere e si ottenne l’appoggio dei contadini medi, e perfino tentare di evitare che parte dei contadini ricchi seguisse i bianchi e desse loro appoggio di uomini e di mezzi. Tale il problema che domina l’VIII congresso, e che come sempre Lenin non dissimula minimamente, anche quando i meno provveduti suoi compagni vorrebbero mascherare le dure esigenze sotto frasi dottrinali poco esatte, come avviene nel caso di Bucharin, proprio come era avvenuto nella precedente grave crisi del 1918: Brest Litovsk.

Dovevamo ricordare tutto questo per intendere il senso delle dichiarazioni di Lenin, e spiegare il loro obliquo sfruttamento tanti anni dopo.

Non si deve omettere per completare il quadro che, mentre i governi delle potenze democratiche borghesi alimentano la controrivoluzione, giunge agli estremi la feroce incanata della socialdemocrazia e della II Internazionale, che infama e diffama la rivoluzione comunista, e a cui poderosamente contrastano gli scritti teorici di Lenin e di Trotsky e tutta la polemica dei comunisti fuori di Russia.

Non si può trascurare la gravità delle conseguenze di questo lavoro assassino dei menscevichi russi e non russi, che fanno sì che strati incerti ma numerosissimi della popolazione russa fanno aperta lega coi reazionari e i bianchi zaristi nell’intento di rovesciare il potere dei bolscevichi.

47 – Un Lenin «suffragetto»?!

Pareva nel 1936 indiscusso che Stalin fosse mandato da Dio a compiere le promesse di Lenin, e veniva trattato da pazzo chi sosteneva quanto ha oggi ipocritamente ammesso il XX congresso, ossia che Stalin su tutti i punti aveva marciato in controsenso alle consegne di Lenin.

Il primo quindi, con assoluta sicumera e coi soliti interrogativi da «quiz», liquida la faccenda del suffragio:
«Non è tempo, compagni, di applicare questa indicazione di Lenin. «Penso che è tempo». «Mi pare chiaro». «Così stanno le cose».
E la tesi è questa:
«Lenin fin dal 1919 diceva che non era lontano il tempo in cui il potere sovietico avrebbe ritenuto utile introdurre il suffragio universale senza alcune limitazione. Fate attenzione. [sì, facciamola!], senza nessuna limitazione. Questo egli diceva quando l’intervento straniero non era stato ancora liquidato e la nostra industria e l’agricoltura si trovavano in una situazione disperata».

Stalin trae appunto al rovescio le conclusioni di una situazione veramente critica se non disperata per le sorti della rivoluzione socialista. Se le disfatte fossero continuate, e altrettanto per quelle fuori di Russia (Spartaco era già stato sgozzato dalla socialdemocrazia: i bolscevichi seguivano ansiosi Ungheria e Baviera, come in quegli stessi testi leniniani) la storia e un suo lettore del tipo di Lenin avrebbero posto il problema concreto se non era il caso di salvare la sola rivoluzione demoborghese, contro il pieno ritorno dello zarismo feudale. Allora si sarebbe a tal fine ingoiato anche il fetentissimo rospo del suffragio universale! Voglia chi ci segue riguardare il precedente paragrafo 44 e relativa citazione di Lenin.

Quindi, per grave che sia il dirlo, dialetticamente nel marzo 1919, se veramente facciamo rivivere nella nostra memoria e nel nostro studio quella situazione spietata, si imponeva l’ipotesi di ripiegare su una repubblica «borghese» in cui se non ammessi nel governo sarebbero stati tollerati, nel quadro delle forze, socialmente i contadini ricchi e politicamente quei menscevichi e socialrivoluzionari che si mostrarono poi tali canaglie da doverli disperdere a mitragliate, unica alternativa al farsi fare lo stesso servizio da loro. Proveremo ciò col testo stesso del rapporto di Lenin.

Ecco il passo, che non siamo in grado di confrontare in un più lungo testo adoperato da Stalin e, come abbiamo dedotto, da riferire a non oltre il febbraio 1919.
«Il P.C.R. deve spiegare alle masse lavoratrici, per evitare false generalizzazioni di necessità storiche transitorie, che la privazione di una parte dei cittadini del diritto di voto non riguarda affatto, nella Repubblica Sovietica, come invece accadeva nella maggioranza delle repubbliche democratiche borghesi, una categoria determinata di cittadini dichiarati senza diritti a vita, ma concerne soltanto gli sfruttatori, coloro che, in contrasto con le leggi fondamentali della R.S.S. si ostinano a difendere la loro situazione di sfruttatori, a mantenere rapporti capitalistici»[168].

Questo primo periodo anche testualmente non può essere teoricamente rifiutato. L’esclusione dal diritto di voto non deriva da qualità morali, legali, o razziali di una persona ma da un rapporto economico-sociale in cui contingentemente si trova il cittadino: chi è datore di lavoro non vota. Ma se, per espropriazione o per altro processo, si trasforma in salariato, senz'altro ridiviene elettore.

Proseguiamo nel testo che Stalin propina (dobbiamo in genere lavorare sempre su testi propinati dalla stessa fonte, ieri ineccepibile, oggi diffamata).
«Nella Repubblica Sovietica, da una parte, rafforzandosi di giorno in giorno il socialismo e riducendosi il numero di coloro che hanno oggettivamente la possibilità di restare sfruttatori o di mantenere rapporti capitalistici, diminuisce automaticamente la percentuale di coloro che sono privati del diritto del voto. Oggi in Russia questa percentuale non deve superare il 2–3 per cento. D’altra parte, nel più prossimo futuro, la fine dell’invasione straniera e il completamento dell’espropriazione degli espropriatori potranno, in determinate condizioni, creare una situazione in cui il potere statale proletario scelga altri metodi per reprimere la resistenza degli sfruttatori e istituisca il suffragio universale, senza nessuna limitazione».

Questo brano non solo è preso isolato, ma pare manipolato. Come è possibile che Lenin scriva che dopo il fatto (futuro) che sia stata condotta a termine l’espropriazione degli espropriatori vi sia ancora da porsi il problema di «reprimere la resistenza degli sfruttatori»?

È questa la ragione per cui tutta la deduzione si segue meglio in un testo completo come quello del rapporto che Lenin svolse al Congresso, e che considera un quadro di insieme di questioni: russe ed estere, di guerra civile e di rapporti sociali, ed a questo ci riporteremo.

48 – Il Congresso russo del 1919

Tale rapporto di Lenin si inizia con una parte molto importante, di cui ci siamo già bene avvalsi, ed in polemica con Bucharin. Questi aveva fondato la parte economica del programma sulla sola descrizione di un capitalismo di tipo monopolista ed imperialista. Lenin dimostra che è inseparabile la trattazione del capitalismo a concorrenza libera, e ciò tanto per motivi dottrinali marxisti, quanto in rapporto alle forme sociali russe del momento, in cui non solo è ben presente la concorrenza capitalista, ma insieme ad essa esistono forme sociali ancora più arretrate.

Questo grave tema si collega in pieno al testo sull’imposta in natura, e al famoso opuscolo del 1918 che Lenin in esso ampiamente riporta.

Una seconda parte è ancora di critica a Bucharin, ed è non meno importante. Sempre in relazione al quadro storico dello sviluppo russo nelle varie regioni, molte delle quali arretratissime, vengono respinte le esitazioni di Bucharin-Pjatakov sulla autodecisione nazionale dei popoli, e la sua sostituzione con la formula falsamente sinistra dell’«autodecisione del proletariato» (argomento che il nostro movimento ha trattato a Trieste e che sarà oggetto di ulteriori studi).

Tutto questo quadro viene sempre a sottolineare quanta zavorra borghese sia legata allo sviluppo russo, e come solo l’Europa possa rimorchiare la Russia al socialismo e non il contrario, tesi che, dura ad accettare in anni di gloriosa battaglia rivoluzionaria, è stata imposta – oltre che prima dalla sana dottrina – dalla forza inconfutabile della storia.

Lenin passa quindi alla questione del comportamento verso i piccoli proprietari e i contadini medi. Qui egli non riprende solo Bucharin ma anche gli organi dello Stato e del partito che svillaneggiano il contadino medio. Nello stesso congresso Lenin fa anche un rapporto sul lavoro nelle campagne, e sviscera questa questione anche sulle tracce di Marx ed Engels. Sempre in questo discorso Lenin ribatte il tema centrale dell’antitesi alternante: dittatura della borghesia o del proletariato, sole forze attive della storia moderna, e la conduce dal «Capitale» di Marx alla «verifica» della Rivoluzione Russa. Nessuna concessione adunque di natura dottrinale.

Tuttavia, quando si viene al contadino medio, Lenin ne dà una difesa impressionante, e spiega che anche a dire di Engels quella violenza che il proletariato rivoluzionario rivolge contro i fondiari e i capitalisti non può essere con la stessa intensità usata verso il medio contadino. Dice di più; e la citazione non stupisca:
«Persino nei confronti dei contadini ricchi, noi non diciamo con tanta risolutezza come per la borghesia: espropriazione totale dei contadini ricchi e dei kulak. Questa distinzione è fissata nel nostro programma. Noi diciamo: repressione della resistenza dei contadini ricchi, repressione delle loro velleità controrivoluzionarie. Ciò non è l’espropriazione totale»[169].

Voglia il lettore seguire il nostro sforzo di dare i termini dialettici delle successioni storiche. Siamo al solito: Stalin passò nel 1928 a sinistra di Lenin, abolì la NEP e sterminò i kulak, con metodi peggiori di ogni altra fase. Per ora, nel 1919, senza scapitare di un millimetro dalle posizioni del marxismo rivoluzionario, Lenin dice chiaramente: Siamo in una situazione tale da non poter «provocare» nemmeno il contadino ricco. Gli diremo: Se vai con Kolčak ti ridurremo alla fame e, se potremo, ti fucileremo; ma, se respingi l’invito di Kolčak, fa pur conto che faremo una certa differenza fra il tuo trattamento e quello usato al feudatario e al grande capitalista.

Tutto questo discorso non può intendersi senza stretto riferimento al momento che lo Stato e il partito sovietico attraversano. La coerenza teorica rigorosa non impedisce che si prendano le posizioni più utili tra le forze in gioco, soprattutto evitando di millantare di avere già scavalcato ostacoli, con i quali sono tuttora da fare conti scabrosi e sanguinosi.

In tutto questo discorso sui contadini Lenin dice che non si è ancora imparato come trattarli politicamente, ripete ad ogni passo tutti i pericolosi difetti di tali strati (abbiamo già citato vari brani in quel che precede) e soprattutto mette in piena luce la questione economica: la produzione industriale al 1919 è a zero, non si sa che cosa offrire ai contadini in cambio dei loro prodotti, il rapporto è ancora tale che resta al di sotto di una piena società borghese.

Date queste realtà, il partito deve procedere, senza nessuna rinunzia ai suoi principi e scopi rivoluzionari. Ed altro elemento da tener presente è la scarsissima cultura del contadino russo, come del resto ancora scarsa era quella stessa dell’operaio.

Lenin stabilisce che in quella fase, fra le tante di transizione che gli abbiamo sentito ricordare, tra proletari urbani e contadini vi è un patto di unità da rispettare, che non può assurgere ad una dittatura dello Stato operaio nelle campagne, ma deve lasciar passare verso i rurali i mezzi persuasivi di una comune democrazia interna (una specie di patto di non dittatura) che indiscutibilmente in teoria è una eredità democratico-borghese, di cui sarà lungo liberarsi. I 20 anni che Stalin snocciola al rovescio, quando dice che dopo 17 anni si possono costituzionalmente portare le due classi in piena parità![170].

49 – La privazione del diritto elettorale

Ed infine troviamo qui una esposizione di questo problema più coordinata di quella che sta nel passo dato da Stalin nel 1936. Essa è in funzione di un fatto evidente: i bianchi lavorano nelle campagne per superare l’odio di tutti i contadini contro il recente ricordo della servitù baronale e zarista aizzandoli contro i «capi bolscevichi di Pietrogrado e di Mosca». Vedete – essi dicono al contadino, che meno è povero meno di essi diffida – avete trovato dei nuovi padroni, sfruttatori, saccheggiatori. Nelle elezioni le città contano cinque volte di più di voi. Ciò vuol dire che, quando si tratta di darvi i pochi prodotti manufatti che vi servono, vi porteranno via cinque volte più grano del giusto. Il contadino miserrimo ci crederà per ignoranza enorme, il ricco e medio in parte anche per interesse. E Lenin, mentre dice che la dittatura deve essere di ferro e non di gelatina, ha il coraggio di affermare al congresso plaudente: Dobbiamo sì fare i decreti, ma non dobbiamo comandare al contadino medio di rispettarli!

E veniamo finalmente al punto che, non certo inutilmente, ha provocato questa esposizione e discussione di tesi di partito e di fatti di storia.

La prima affermazione di Lenin é:
«L’ultimo punto che mi spetta di esaminare è la funzione dirigente del proletariato e la privazione del diritto di voto».
Sottolineando, l’autore mette questo punto di principio fuori discussione.

Ricorda che tale fatto è sancito dalla Costituzione; ricorda gli attacchi feroci degli opportunisti esteri, e le risposte vigorose loro date a proposito di dittatura, democrazia borghese, e democrazia proletaria.

Aggiunge tuttavia:
«La questione della privazione della borghesia del diritto di voto non è da noi considerata come un criterio assoluto, perché teoricamente si può benissimo ammettere che la dittatura del proletariato reprima ad ogni passo la borghesia, senza tuttavia privarla dei diritti elettorali. Teoricamente ciò è perfettamente possibile e noi non presentiamo quindi la nostra Costituzione come un modello per gli altri paesi. Diciamo unicamente [scusate se è poco, aggiungiamo noi] che chi si immagina di poter passare al socialismo senza reprimere la borghesia non è un socialista»[171].

Ad una critica superficiale può sembrare che questo passo – e il successivo ricordo che la Costituzione non l’hanno fabbricata ed imposta i bolscevichi, ma, come già ricordammo, l’hanno formata i fatti storici reali, e l’hanno stesa materialmente i menscevichi e socialrivoluzionari prima di essere sbattuti fuori anche dai Soviet («Nessuno ha cacciato la borghesia dai Soviet, né prima né dopo la Rivoluzione di Ottobre. La borghesia stessa se ne è esclusa», ossia ha lasciato condurre dai Soviet, formatisi tra le masse, la Rivoluzione contro lo zar che avrebbe dovuto far lei!) – che questi passi parafrasino più o meno quello che insinuiamo sia stato «arrangiato» da Peppe Stalin.

Bisogna andare più a fondo, anche riferendo che Lenin dice (ed è la chiusa del rapporto):
«della ineguaglianza [elettorale] non facciamo un ideale, pure avendo dovuto la nostra Costituzione registrarla, perché il livello culturale è basso, perché l’organizzazione da noi è debole».

Per il marxismo una Costituzione non è infatti un ideale. Noi riteniamo che le Costituzioni siano passeggeri risultati della storia, e non pilastri fondamentali della storia futura di un popolo. Le Costituzioni sono una forma del dominio di classe, e sono caratteristiche delle rivoluzioni borghesi. Un’integrale Rivoluzione socialista farà a meno di carte costituzionali.

Essa farà anche a meno di diritti elettorali. La rivoluzione russa si è dovuta porre un problema di diritti elettorali, perché il problema storico della nascita della democrazia in Russia era ancora in piedi, e, non avendolo maneggiato la imbelle borghesia, ha fatto parte del carico che si sono dovuti addossare i proletari comunisti. Questi come loro compito storico specifico hanno l’estinzione della democrazia, e dello Stato, traverso l’abolizione delle classi (Engels, Lenin). Preso per volere della storia nelle mani quell’altro compito, lo hanno risolto in modo originale, in modo ben diverso da quello dei democratici borghesi e da quello dei socialdemocratici (vedere, dice Lenin, la Repubblica, che si pretende operaia, di Weimar!). Non hanno ideali costituzionali propri, hanno solo il compito dialettico di forzare i passi nelle inevitabili fasi di transizione.

In queste il problema fondamentale è di non perdere il potere. Quello che per Lenin è questione di principio è che bisogna reprimere la borghesia. Il male è non reprimerla, non debellarla, non conculcarla. A questa condizione potrebbe pure succedere che la facessimo votare. L’argomento è beffardo più che polemico e vale quello usato per il kulak: Se si mette contro di noi lo abbatteremo, ma non gli annunziamo di farlo nel caso che resti almeno neutrale nella guerra civile.

Una diversa posizione del problema potrebbe condurre a questo errore: per far vincere il socialismo non occorre schiacciare ed espropriare la borghesia, basta scrivere su una «carta» che non può votare.

La rivoluzione proletaria pura ha per sua via, come da cento passi riportati qui ed altrove, la guerra di classe, e non la conta dei voti. La rivoluzione russa era «doppia» e non pura, ha dovuto passare per guerre di classe e guerre di voti: l’importanza del suo modo di votare è stata di far intendere nella dottrina e nella politica ai proletari del mondo la tesi basilare della dittatura, senza il possesso della quale anche il ricorso alle armi resta privo di rivoluzionario efficiente vigore[172].

50 – Finale sulla democrazia elettiva

Possiamo ora concludere sulla questione dell’ineguale diritto elettivo in Russia, che sollevò allora e solleverà sempre enorme scalpore. Mai i comunisti fecero concessioni in questo sui principi, che nella discussione dottrinale furono dimostrati essere quelli di Marx e di Engels. Uno degli aspetti essenziali del comunismo è la critica della democrazia. Compito della rivoluzione comunista è la liquidazione della democrazia. Questa è un momento storico della serie delle dominazioni di classe ed una facciata della moderna società divisa in classi. In dottrina ne distruggiamo ogni pretesa a elevarsi a «valore» universale ed eterno, come la distruggiamo per il potere statale, altro aspetto di tutte le società di classe antiche e moderne. Il marxismo stabilisce il tendere storico alla società senza classi, che è senza Stato e senza democrazia elettiva: l’estinzione dell’uno e dell’altra.

La coerenza a queste posizioni di principio basta a condannare le attuali farneticazioni sulla «via» al comunismo «attraverso» la democrazia. E le degenerazioni dell’opportunismo di allora e di oggi, che eleva la democrazia a «valore limite», dalle cui linee il cammino al socialismo non può sortire. Nel 1919 ciò era giunto alla citata formula ubriaca: dittatura della democrazia!

Resta il problema del cammino traverso il quale si arriverà a liquidare storicamente lo Stato elettorale. Ed è su questa difficile dottrina, rimessa in alto dal marxista Lenin, che tutti gli avversari hanno speculato.

Appunto perché non siamo seguaci di Ideali, di Utopie, e quindi di Modelli costituzionali su cui si disegni lo Stato nuovo (che per noi è il non-Stato) sappiamo che dialetticamente, come lo stesso capitalismo, la democrazia quale forma storica deve descrivere una certa orbita, per giungere a tramontare. Quindi nelle opere teoriche di Marx, di Engels, di Lenin, di Trotsky troviamo dialetticamente connessi i «rami ascendenti» e i «rami discendenti» di tale orbita. La dialettica ci consente di intendere come si arrivi alla morte della democrazia traverso il suo stesso sviluppo, il suo perfezionamento, la sua spinta all’intrinseco estremo. La Russia era il paese in cui tale ramo doveva ancora essere percorso, anzi cominciato a percorrere, mancando una storia di libertà democratiche ed essendo le prime Dume pallide caricature dei Parlamenti occidentali già in atto da secoli. Decaduta la borghesia locale da tale suo compito di esaltazione democratica, il proletariato e il contadiname lo fanno proprio, e salgono a tappe giganti il ramo ascendente.

Lenin deve sbugiardare Kautsky nella tesi che in Marx si legga il concetto della democrazia come forma limite della rivoluzione proletaria. Ma lo deve anche confutare nella menzogna che la liberazione della Russia dal dispotismo preborghese sia stata svolta dal potere dei Soviet in modo deteriore rispetto ai liberalismi borghesi classici. Ed egli gli contesta che nella rivoluzione dei Soviet lo svincolamento, la spontaneità delle masse in moto hanno raggiunti limiti ignoti anche alle più gloriose rivoluzioni liberali.

Possiamo esprimere questo concetto dicendo che in Occidente le masse lavoratrici si erano non solo dissetate, ma ormai disgustate della linfa scorrente dalla fonte elettorale, che dapprima appare delizia, infine veleno. In Russia la sete di democrazia elettiva era un fatto storico, che non si poteva spegnere con l’astinenza. Questa immagine non deve far pensare ad elementi di ordine psicologico o morale, ma al problema materiale dei rapporti di forze. Da esso dipende che i contadini rovescino o meno milioni di combattenti nell’esercito nemico e non nel nostro. Dalle canagliate dei Kautsky dipende un’influenza che frena le masse europee dal legare le mani dei loro governi nell’azione di manutengolismo delle bande bianche.

In questo senso Lenin in dottrina deve non escludere che il complesso procedere della rivoluzione russa abbia per un momento a bere l’acqua o l’elisir della scheda per tutti.

Altro dice Stalin nel 1936, altro i suoi figli, addirittura degeneri, di oggi. Essi non dicono che il suffragio universale può essere un fiume che ci tocchi di traversare a nuoto, come tanti altri. Essi cadono nella posizione reazionaria che ne fa un oceano i cui limiti non saranno mai varcati.

Un giorno il proletariato di Occidente, che può con un passo solo salire sull’opposta sponda di questo torbido fiume e delle sue melme letali, ritroverà in tutto il suo vigore la tradizione storica della dittatura russa, che gli insegnò per sempre il diritto di stracciare il suffragio popolare universale, anche quando si era dovuto prima traversarlo, in fase borghese del processo.

La lezione è quella che non si va al socialismo senza reprimere la borghesia. Ed è anche permesso toglierle il sacro diritto al suffragio. Potrebbe per avventura il borghese avere in una data contingenza il permesso di accedere all’urna. Ma la rivoluzione rivendica quello, all’andata o al ritorno, di annullarlo come figura economico-sociale, sopprimerlo come figura fisica.

51 – I rapporti di produzione

La grandezza storica ed internazionale della Rivoluzione Russa, come risultato che nulla ha distrutto, né le sconfitte, né le paurose degenerazioni, sta nell’aver preso – nella fase in cui tutto permetteva di attendersi che si sarebbe sviluppata in una rivoluzione europea e mondiale – il massimo ritmo di svolgimento delle forme dello Stato, fino ad una dittatura totale nei confronti delle classi possidenti, malgrado l’interna caratteristica di una tolleranza democratica per ceti piccolo-borghesi agrari, mentre era minimo il passo di evoluzione dei rapporti produttivi e dell’economia sociale.

Dopo aver quindi trattato delle prime misure dello Stato sovietico e del governo comunista, e delle originali vicende attraverso cui furono inquadrate le forme dello Stato eretto in Ottobre, sulle rovine di quello zarista e delle sue propaggini borghesi e social-opportuniste di febbraio-ottobre, possiamo ora tornare al quadro dell’economia del paese sovietico nei primi anni dopo la conquista, durante e dopo la fase di difesa del potere rivoluzionario, di guerreggiata guerra civile.

Come non era possibile e tanto meno utile evitare, abbiamo già toccato in tutto il corso della trattazione, per le ripetute svolte storiche, il quadro di questi rapporti, e tra l’altro descritto il totale disordine, la grave paralisi in cui erano caduti per effetto della guerra mondiale e nel periodo della prima rivoluzione che depose lo zar.

Abbiamo tra l’altro a sufficienza attinto alla fonte data dallo scritto di Lenin che precede Ottobre (a noi soprattutto importa, oltre che seguire le vicende dei fatti economici, assodare che il grandioso moto del comunismo bolscevico ne ebbe chiara e completa visione tappa per tappa, fino a quando un’ondata controrivoluzionaria non apparve, levando la traditrice bandiera del socialismo costruibile e costruito entro l’isola russa): «La catastrofe imminente e come lottare contro di essa» – 10–14 settembre 1917.

Nella fase successiva i compiti economici devono cedere il passo a quelli politici: insurrezione armata – presa del potere centrale – dispersione dell’assemblea parlamentare – liquidazione della guerra imperialista – resistenza agli attacchi armati della controrivoluzione.

Subito dopo Brest Litovsk e la conseguente rottura coi socialisti rivoluzionari, per pochi mesi alleati nel governo, ed anche dopo la non lieve crisi interna del partito bolscevico a proposito dell’accettazione del terribile trattato dettato dai tedeschi, in una situazione economica sfavorevolissima e di fame, ma quando ancora non è salita la pressione delle guerre civili, lo scritto dell’aprile 1918 sui «Compiti immediati del potere sovietico» riassume ad opera di Lenin la prospettiva economica, e più volte vi abbiamo attinto al fine di chiarire che non si parlava menomamente di un’applicazione, come risorsa concreta, di sistemi e produzione e di consumo socialisti, ma di indirizzo rivoluzionario e politicamente socialista nello stabilire le misure del governo e le attività del partito che lo gestiva.

In questo scritto è chiaramente stabilito che si tratta di condurre la gestione dell’economia, anche recisamente definita come borghese e meno che borghese, attraverso una buona «amministrazione» ed «organizzazione». L’avvento della società socialista è cosa ben più alta che l’introdurre una buona organizzazione e una buona amministrazione; si tratterà di cosa radicalmente diversa dalla moralizzazione, pulizia, riordinamento della vita economica, dalla ingenua «révolte contre tous le coquins» della canzone!

In Russia, nell’aprile del 1918, Lenin non dice: facciamo il socialismo; e nemmeno: ora mi rimbocco le maniche e lo faccio! Dice appunto agli operai, avanguardia della rivoluzione sacrificata ed affamata dalla carestia: Addosso ai farabutti, ladri, speculatori, contrabbandieri e banditi, per ottenere una gestione meno rovinosa delle risorse vitali, sia pure nelle antiche forme borghesi mercantili e primitive.

52 – Non fretta demagogica

Lenin comincia col dire che si è già avuta troppa precipitazione nell’espropriare il capitale (ossia nella semplice statizzazione di aziende e gruppi di aziende).
«Finora si ponevano in primo piano i provvedimenti di immediata espropriazione degli espropriatori [bella vecchia frase di Marx, ma frase di agitazione più che di programma, notiamo noi]. Ora passa in primo piano l’organizzazione del censimento e del controllo nelle aziende i cui capitalisti sono già stati espropriati, così come in tutte le altre»[173].
Si tratta di una poderosa messa a punto marxista. Condurre aziende non è socialismo; socialismo è pervenire a produzione non aziendale, compito lontano e mondiale.

Non è qui il caso di corroborare tale tesi con le innumeri citazioni di Marx, da cui risulta che egli diede, ad ogni passo, i caratteri distintivi essenziali tra l’economia socialista e l’economia capitalista.

Interessa seguire ancora un poco il testo di Lenin:
«Se volessimo ora continuare ad espropriare il capitale con lo stesso ritmo di prima certamente subiremmo una sconfitta, giacché è chiaro, evidente per ogni uomo pensante, che il nostro lavoro di organizzazione di un censimento e di un controllo proletario è in ritardo in confronto a quello di immediata ‹espropriazione degli espropriatori›. Se ci accingeremo ora con tutte le forze al lavoro di organizzazione del censimento [o inventano] e del controllo, potremo risolvere questo problema, guadagnare il tempo perduto e portare vittoriosamente a termine la nostra campagna contro il capitale»[174].

Una parte importante di questo lavoro è quella che, come avverrà per vari anni, si riferisce alla necessità di assumere «specialisti» dall’estero.

«Il passaggio al socialismo è impossibile senza specialisti che dirigano i diversi settori della scienza, della tecnica e della ricerca, giacché il socialismo esige un’avanzata cosciente delle masse verso una produttività del lavoro maggiore rispetto a quella del capitalismo, e che parta dai risultati da questo raggiunti».
Lenin dichiara che la poca importanza data al lavoro di censimento e di controllo spiega le perplessità di molti operai e compagni nell’affidare posti direttivi a specialisti «borghesi». E conclude che gli specialisti ci vogliono per imparare dai paesi capitalistici, e che lo Stato sovietico dovrà decidersi a pagarli secondo le loro pretese.

53 – Un’abusata parola

Nella sua campagna per il censimento e il controllo e per l’aumento della produttività del lavoro – questo è un indice che interessa il socialismo (e non quello dell’aumento della produzione) in quanto significa castigamento del tempo di lavoroLenin ricorda che il russo è un cattivo lavoratore, rispetto ai paesi borghesi, e arriva a propugnare l’insegnamento in Russia del famoso sistema Taylor, per la razionalizzazione dei processi di lavoro. Solo che la borghesia lo vede come mezzo per un «maggior prodotto», e il socialismo come mezzo «per un minore sforzo e tempo di lavoro».

A questo punto ci incontriamo con una tesi di Lenin, grandemente sviluppata nell’epoca staliniana e gonfiata fino alle esagerate forme di premi, onorificenze, esaltazioni a quei lavoratori e a quelle comunità locali di lavoratori che raggiungevano il massimo prodotto, o che superavano i compiti loro attribuiti nei vari e multipli piani e programmi di lavoro e di produzione.

Si tratta della tesi sulla «emulazione», parola che doveva avere in verità un triste destino. Lenin parte dal rifiuto della banale tesi con cui i borghesi di tutti i tempi hanno scioccamente dichiarata impossibile la produzione socialista. Sopprimete, essi dissero fin dalle prime polemiche, l’interesse individuale, lo stimolo del guadagno, la spinta a migliorare rispetto al proprio simile, e la produzione si fermerà, nessuno vorrà lavorare. La società vive grazie alla gara, all’emulazione, tra l’uno e l’altro dei suoi membri, che i socialisti vogliono sopprimere.

In verità la risposta è che nella società attuale il 95 per cento degli uomini si assogetta a sforzi di lavoro non per il sogno di migliorare, ma per il fatto reale che, se non lo fa, peggiora, scende altri scalini economici, fino a crepar di fame.

La spinta è data dal bisogno e dalla paura, non dall’invidia per il vicino e dalla gara con lui; in ogni caso è gara a fregarlo, e non a far meglio di lui, a fini sociali.

Lenin rispose allora che la rivoluzione sovietica, destando le masse da un secolare letargo confinante con la completa ignavia, e portandole nel fuoco delle esigenze sociali, agiva come uno stimolante e non come un narcotico dell’attività di lavoro. In effetti non si trattava di passare da un’economia spiccatamente privatistica e individuale all’economia associata, lontana ancora, ma di qualche cosa di opposto: di introdurre, salendo da un’economia naturale patriarcale ad uno scambio nazionale di prodotti, nuove esigenze ed appetiti economici.

Lenin paragona il mezzo borghese di spingere all’emulazione e ai miglioramenti, la pubblicità, con il ben diverso metodo con cui egli sospinge il sistema sovietico ad organizzare una emulazione «di massa». Egli richiede che al controllo e alla formazione di quadri statistici e di censimento economico si accompagni la diffusione dei risultati, mettendo in evidenza nella stampa, tolta di mano ai borghesi, i migliori risultati. Ma le leve cui Lenin accenna non sono compensi in denaro dati dallo Stato, o altri vantaggi e solleticanti onori, bensì lo svolgersi di una maggiore maturità culturale e sensibilità sociale e politica, per cui le notizie degli esempi migliori dovrebbero servire a spronare la generale attività produttiva, in un comune interesse e scopo di classe.

L’imperativo del momento è in effetti un aumento della produzione, che deve venir rialzata dai minimi paurosi, meno che vitali, cui è piombata. L’appello al supremo sforzo della classe che lavora infatti si appoggia da un lato sull’emulazione tra gli strati più efficienti e quelli che la crisi generale ha intorpiditi fino all’estremo, ma si poggia anche sull’impiego, da noi largamente già trattato, di una stretta gerarchia di autorità nella produzione, e delle facoltà dittatoriali anche personali attribuite ai capi gerarchici di essa.

Agli effetti nefasti di questa economia dissestata venne presto ad aggiungersi l’uragano della guerra civile su tutti i fronti; e le sue fiamme e il fumo degli incendi nascosero i veri connotati dell’inquadratura sociale russa, che Lenin era impaziente di sottoporre ad una precisa anatomia e ad una presentazione estimativa e valutativa completa.

54 – Vecchio e nuovo capitalismo

Interessa a noi come fu tratteggiato allora questo quadro, potendo solo da tale punto di partenza chiarificare quali furono le modifiche che sopravvennero nella successione di fasi storiche: consolidamento del potere sovietico, distruzione dell’opposizione di sinistra, progresso economico dal 1926 al 1939, seconda guerra mondiale, spartizione del mondo con gli alleati, rivalità, guerra fredda, ciclo contemporaneo della coesistenza pacifica.

Per far tanto dobbiamo, ancora una volta, e prima di passare alla politica economica dello Stato bolscevico a guerra civile chiusa, servirci dei dibattiti dell’VIII congresso del partito, nella primavera dell’agitatissimo 1919.

Si trattava di un programma da partito giunto al potere, in cui le questioni di principio e di teoria si consideravano ormai sistemate, e si doveva venire al problema effettivo della politica economica del nuovo governo. Non si discuteva più che il partito comunista lotta per attuare politicamente la dittatura proletaria, ma si stabiliva, nel quadro della società russa del tempo, quale impiego il partito dovesse fare di questa conquistata dittatura.

La dottrina aveva già risposto che la dittatura proletaria è una fase di transizione durante la quale devono essere superate le forme capitalistiche.

Bucharin, incaricato di stendere il progetto di programma, imbevuto della vittoria di queste posizioni: necessità della dittatura rivoluzionaria; sua prima attuazione storica in Russia; stretto legame (doveva di lì a poco fondarsi a Mosca la Terza Internazionale) col movimento proletario dei paesi borghesi; e della tesi allora a tutti comune che il passaggio al socialismo era questione da porsi non per la sola Russia, ma come effetto di una rivoluzione internazionale, aveva formulato la parte descrittiva del programma in riferimento alla tappa imperialista del capitalismo mondiale – e in un giusto senso anche russo.

La costruzione poteva sembrare ovvia. Lenin aveva classicamente stabilito la dottrina, conseguentemente e strettamente marxista, dell’imperialismo, legando a questo grandioso fatto storico l’origine della guerra mondiale. Questa aveva coinvolto la Russia e provocato la rivoluzione sociale in questo paese immenso; da tale rivoluzione era sorta la storica concretezza della dittatura. Tutto poggiava su questi due perni: imperialismo capitalista – dittatura proletaria.

È notevole che proprio Lenin (lo dicemmo nel «Dialogato coi Morti»)[175], teorico della fase mondiale imperialista, rettifica questa posizione di Bucharin, per quanto attiene alla Russia. Bucharin aveva tolto dal vecchio programma tutta la parte che descriveva il primo capitalismo concorrentista e liberale, in cui le imprese di produzione si muovevano ognuna in modo autonomo, senza legami di cartelli e trust, e legislazioni di politica dirigista statale.

Ma in Russia, e non solo in Russia, non vi è contrapposizione tra due tipi e tempi di capitalismo: quello liberale e quello monopolista. Si tratta di due facce della stessa forma, come è chiaro fin dai primi saggi di Marx e di Engels sull’economia borghese, anche prima del 1850. Lenin ha descritto i fenomeni dell’imperialismo del novecento, quale conferma delle previsioni stabilite dai marxisti in presenza dei fenomeni dell’economia di capitalismo privato e delle sue apologie liberiste, concorrentiste, benthamiane e così via.

Bucharin era caduto in una contrapposizione scolastica, e la maggioranza della commissione, seguendo Lenin, volle ripristinare tutta la descrizione critica del primo capitalismo.

E Lenin tiene nel suo rapporto al congresso a stabilire che non si trattò di riguardi storiografici o di tradizionalismo, ma di stretto legame con l’attuale realtà del tempo.

«L’imperialismo puro, senza la base fondamentale del capitalismo, non è mai esistito; non esiste in nessun luogo, e non potrà mai esistere. È stata una generalizzazione errata di tutto ciò che è stato detto sui consorzi, i cartelli, i trust, il capitalismo finanziario, quando si è voluto presentare quest’ultimo come se esso non poggiasse affatto sulle basi del vecchio capitalismo»[176].

Lenin dichiara ciò falso. E lo dimostra col rifarsi in modo estremamente interessante alle tesi di Engels che la futura guerra (che venne poi nel 1914), assai più tremenda di tutte le antiche, avrebbe fatto talmente rinculare l’umanità da compromettere le stesse conquiste del capitalismo moderno, accettate come base del marxismo.

Questa posizione di Engels non è «pacifista», nel senso che inciti borghesi e proletari ad agire insieme per evitare la guerra. Essa è rivoluzionaria, perché spiega quello che noi da vario tempo andiamo ripetendo: la lunga guerra ci caccia indietro come condizioni oggettive e soggettive per la rivoluzione socialista: lungi dall’accettarla come nel 1914, i socialisti devono «fermarla con la rivoluzione». Se no, il capitalismo ha fiato per «cominciare tutto da capo».

Anche la seconda guerra non è stata fermata, e la rivoluzione si è ancora allontanata di ventenni: se la terza passerà, preparerà al capitalismo un altro mezzo secolo-cuscinetto, come l’attuale. O gli riproporrà addirittura il problema di rivivere tutta la vita, trasformandolo da vecchio fetente in roseo neonato!

Lenin ricorda le vanterie dei socialisti di guerra che, dinanzi alla sanguinosa rampogna delle masse che avevano spinto nel macello delle nazioni, tiravano il fiato constatando che l’impalcatura economica capitalista non era caduta in uno stato di barbarie
«e deridevano i fanatici o semi-anarchici [come, dice Lenin, essi ci chiamavano] le cui nere previsioni non si sono avverate»[177].

Lenin afferma che, e non solo in Russia, il capitalismo dopo la prima guerra ha regredito su forme antiche, e dà questa definizione della struttura sociale russa in quel tempo, che consideriamo della più alta importanza critica:

«Oggi in Russia subiamo le conseguenze della guerra imperialistica e viviamo all’inizio della dittatura del proletariato. E in pari tempo, in parecchie regioni della Russia che si sono trovate più di prima staccate le une dalle altre, assistiamo in molti luoghi al risorgere del capitalismo e allo sviluppo del suo primo stadio».

Parlava il medesimo Maestro che aveva dato negli anni 1890 la prima analisi del sorgere del capitalismo in Russia, e nel 1915 la prima del sorgere dell’imperialismo mondiale. L’una e l’altra volta mostrando che nulla aggiungeva a Marx.



Notes:
[prev.] [content] [end]

  1. «Storia del P.C. (b) dell’U.R.S.S.», ed. cit., pag. 297. [⤒]

  2. «Aggiunta alla parte politica del programma», in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 109. [⤒]

  3. «Rapporto sul lavoro nelle campagne», 21 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 184. [⤒]

  4. Nel 1925–26, le concessioni forzate al contadino medio (e perfino ricco) saranno fatte passare per elevazione dello stesso contadino medio (e perfino ricco) a «pupilla degli occhi del potere bolscevico», capovolgendo così l’intera costruzione – rigorosamente marxista – di Lenin. E l’Opposizione sarà coperta di insulti per aver osato notarlo e protestare! [⤒]

  5. «Rapporto sul programma del partito», 19 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pagg. 164–165. [⤒]

  6. Il lettore segua l’ulteriore sviluppo del tema della Costituzione 1918 e del diritto elettorale nel «Rapporto del Comitato esecutivo centrale della Russia e del Consiglio dei commissari del popolo», tenuto da Lenin al VII Congresso dei Soviet il 5 dicembre 1919, e nel «Discorso conclusivo» del giorno dopo, dove le argomentazioni sopra riportate vengono riprese con grande efficace polemica. Lo stesso rapporto inizia con la frase lapidaria che riportiamo ad illustrazione di tutto quanto è detto e argomentato nel presente volume:
    «Abbiamo sempre detto, sia prima dell’ottobre, sia durante la Rivoluzione di ottobre, che ci consideriamo e possiamo considerarci soltanto un reparto dell’esercito internazionale del proletariato, e inoltre un reparto che si è trovato più avanti degli altri non in virtù del suo sviluppo e della sua maturità, ma a causa delle condizioni eccezionali della Russia, e che perciò la vittoria della rivoluzione socialista si potrà considerare definitiva soltanto quando il proletariato avrà vinto almeno in alcuni paesi avanzati». (Lenin, «Opere», XXX, pag. 183: i corsivi sono nostri). [⤒]

  7. «I compiti immediati del potere sovietico», in Lenin, «Opere», XXVII, pag. 219. [⤒]

  8. «I compiti immediati del potere sovietico», in Lenin, «Opere», XXVII, pagg. 219–220. [⤒]

  9. «Dialogato coi Morti», cit., pagg. 71–72. [⤒]

  10. «Rapporto sul programma del partito», 19 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 147. [⤒]

  11. «Rapporto sul programma del partito», 19 marzo 1919, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 148. [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 18, Settembre 1956

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