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STRUTTURA ECONOMICA E SOCIALE DELLA RUSSIA D’OGGI (XIV)



Content:

Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XIV)
125 – Una guerra, venti nemici
126 – Fronte tedesco-ucraino
127 – Fronte cosacco e caucasico
128 – Interventi dell’intesa
129 – Est. Cecoslovacchi e Kolčak
130 – Fronte meridionale: Denikin
131 – Fronte occidentale: Judenič
132 – Fronte del sud: Wrangel
133 – La guerra russo-polacca
134 – La pace rossa
135 – Sempre il dettato di Lenin
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Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (XIV)

125 – Una guerra, venti nemici

Come non si poteva impostare la discussione sull’economia russa senza l’esame del processo rivoluzionario, e in esso delle prospettive e dei programmi che in quella lunga lotta su fronti mutevoli per il potere furono avanzati appunto circa la formazione di quella struttura avvenire, ragione ed obiettivo della lotta medesima, così non si può chiudere questa parte storico-politica per passare a quella storico-economica (in quanto separabili) senza considerare nella prima la serie tremenda delle guerre civili che la coronarono, e fino a che non si chiusero ovunque con la vittoria non consentirono che tutto lo sforzo si portasse sulla struttura sociale.

Non è possibile qui scrivere di questa, che si dovrebbe chiamare epopea come quella che in tempo meno moderno segnò l’urto tra la civiltà europea e quella araba, una storica narrazione in ordine cronologico, ma è necessario ricordarne la sintesi allo scopo di valutare il peso di questo periodo ardente nel bilancio dello sforzo della rivoluzione, che forse chi giudica da oggi, e non fa parte di quelli della vecchia generazione che visse da lungi e da presso l’ansia di quelle alternative paurose, non mette nella giusta proporzione con l’evento divenuto più famoso e riferito alla fase acuta, all’acme della lotta nella capitale, alle giornate di Ottobre, la cui importanza sarebbe stata cancellata dalla storia di oggi se uno solo dei tentativi innumerevoli di capovolgere Ottobre armi alla mano avesse raggiunto il successo,

Divideremo la serie in fronti seguendo ciascuno dall’inizio alla fine, e appena accennando per ognuno di essi l’origine delle forze controrivoluzionarie, in gruppi politici e quindi sociali interni, e in invii di forze di intervento da Stati esteri; l’inizio, le fasi e alternanze principali e la fine, che ovunque fu segnata con la stessa parola, annientamento, liquidazione, rastrellamento, e una o due volte soltanto con le parole pace, evacuazione, fuga. Dieci, venti guerre: la rivoluzione doveva vincerle tutte; alla controrivoluzione bastava vincerne una: non vinse. Questa colossale lezione della storia resta al proletariato mondiale, quale che sia stata la vicenda che fece finire, ma non per trauma, la Rivoluzione Socialista in Russia.

In questo tragico ciclo le prime date si debbono scrivere subito dopo l’Ottobre 1917, l’ultima alla fine del 1922! Il momento massimo in cui gli attacchi specialmente da nord-ovest e da sud sembravano aver ragione di Pietrogrado e di Mosca, può considerarsi l’autunno del 1919. Due anni di disperata difesa, due e più anni di riconquista dei territori alla rivoluzione.

126 – Fronte tedesco-ucraino

Sappiamo che tra le forze con cui si dichiara in stato di guerra il III Congresso panrusso dei Soviet, il 31 gennaio 1918, vi è il governo della Rada ucraina, che si allea coi tedeschi durante le già note fasi dell’armistizio e della pace di Brest Litovsk, continuazione diretta della guerra coi tedeschi. Sappiamo le successive avanzate di questi, fino all’accettazione delle durissime condizioni ultimative il 3 marzo 1918. Se si segue il confine tra Germania e Russia quale era avanti la prima guerra mondiale, andando dal Baltico al Mar Nero, vi erano prima tre province russe: Estonia, Lettonia, Lituania, quindi la parte russa della Polonia con Varsavia, e dietro questa la Russia Bianca o Bielorussia, quindi l’Ucraina, regione sud-ovest della Russia che toccava allora la Polonia austriaca e il resto dell’impero asburgico, e quindi la Romania. Dopo Brest la Germania incorpora Estonia, Lettonia, Lituania, tutta la Polonia, e viene a confinare con la Russia Bianca, che ha per capitale Minsk, 700 km. a sud di Pietrogrado, e poi con l’Ucraina, che ha per capitale Kiev, altri 300 km. circa più a sud. La Bielorussia non ha grande importanza, con una diecina di milioni di abitanti oggi, contro 40 della ricca Ucraina, che ha oltre Kiev le grandi città di Charkov, Odessa, Dniepropetrovsk ecc. Il fronte fino all’Ucraina fu dalla Germania rispettato, in quanto attaccare sarebbe stato rompere il trattato di pace con prevedibile grave impressione sul proletariato tedesco già in fermento. Ma il governo ucraino della Rada divenne praticamente un vassallo di Berlino; e una vera guerra cominciò in tutta l’Ucraina tra le grandi forze bolsceviche e quelle governative dei bianchi e social-opportunisti. Ben presto il potere dei Soviet si sarebbe esteso a tutta l’Ucraina, se questa non fosse stata occupata dagli «alleati» germanici che sostenevano il governo di Kiev. Sotto questa forma truppe tedesche scacciarono i bolscevichi tra l’aprile e il maggio del 1918 da Charkov, Odessa, Rostov sul Don e Taganrog, porto alla foce del Don sul Mare di Azov, e dalla Crimea. Il 29 aprile i tedeschi deposero la Rada e nominarono hetman o dittatore il generale bianco Skoropadskyj. Era una forma di invasione della Russia rossa bolscevica da parte dei tedeschi, malgrado la pace formale. Tuttavia, questo fronte si dissolse dopo l’armistizio generale in Europa nel dicembre 1918, e l’armata tedesca si ritirò entro le sue frontiere antiche, lasciando automaticamente il terreno alle forze bolsceviche, e chiudendo questa prima fase di lotta nel sud-ovest.

127 – Fronte cosacco e caucasico

Durante il 1918 gli aiuti tedeschi raggiungono le armate bianche che tra il Don e il Volga erano state riunite da vari generali zaristi cui già il III Congresso della riferita data dichiarò guerra: Alekseev nel sud-est e fino a nord del Caucaso, Kaledin sul Don, Kornilov nel vicino Kuban. Con essi era anche il bianco Mamontov, e vari reparti di cavalleria cosacca, già nerbo dell’esercito imperiale. Nell’agosto 1918 Krasnov era a soli 15 km dal centro importante di Zarizin sul Volga, chiave di tutto il sud-est russo (poi Stalingrado), ma le forze rosse di Vorošilov il 20 agosto contrattaccarono liberando la tante volte disputata città. Di nuovo accerchiata, questa viene liberata il 16 e il 17 ottobre dalla «Divisione di acciaio» chiamata dal Caucaso.

Le forze degli imperi centrali agivano anche a sud del Caucaso con reparti turchi e tedeschi. L’Europa confina alla catena del Caucaso che va dal Mar Nero al Mar Caspio, geograficamente, ma politicamente la Russia aveva a sud tre regioni, Georgia con l’alta Tiflis e Batum sul Mar Nero, Azerbaigian con Bakù sul Caspio, e Armenia tra le due con Erivan. Il 15 aprile 1918 i turchi presero Batum e si diffusero in tutta la Transcaucasia, importantissima ai fini di guerra per i giacimenti petroliferi. Caduti gli imperi centrali, la lotta su questo fronte seguirà contro gli inglesi in fase ulteriore.

128 – Interventi dell’intesa

Mentre la rivoluzione duramente lotta da sud e da ovest con i tedeschi, i loro accaniti nemici nell’apertissima guerra concentricamente a loro volta intervengono sperando mirare al cuore della rivoluzione. La prima mossa spetta al Giappone, che sbarca reparti a Vladivostok il 5 aprile del 1918, unendosi ai bianchi della regione del litorale e fondando un governo dell’Estremo Oriente che, se era il più lontano da Mosca, fu anche l’ultimo ad essere cacciato dal territorio sovietico; e solo il 14 novembre del 1922, quattro anni e mezzo dopo, avendo i giapponesi evacuata Vladivostok, la Repubblica dell’Estremo Oriente, creata dal Giappone come Stato-tampone, diviene parte della Russia sovietica.

Si formava intanto ad opera della flotta britannica il fronte nord: gli inglesi sbarcano a Murmansk l’1 luglio del 1918 e ad Arcangelo, più a nord-est, nell’Artico, l’1 agosto, fondando coi bianchi locali un Governo del Nord.

Il 15 agosto anche truppe americane vengono a sbarcare nell’estrema Siberia dando man forte agli allora alleati giapponesi. Gli Stati dell’Intesa: Inghilterra, Giappone, Stati Uniti hanno le stessissime intenzioni dei loro nemici in conflitto guerreggiato, tedeschi, austriaci, turchi e bulgari: far crollare il potere dei bolscevichi e dei lavoratori rivoluzionari.

Poteva la Francia giacobina mancare a simile nobile convegno? Essa vi si unirà non troppo gloriosamente appena la fifa degli ancora validi eserciti di Guglielmone, che solo la frana di Brest Litovsk ha potuto scompaginare, le sarà passata. Il 17 dicembre navi francesi sbarcano truppe ad Odessa e si inoltrano nell’interno. Si tratta di prendere la consegna dalle divisioni boches che in quello stesso mese precipitosamente si ritiravano, come abbiamo visto. Chi ha vissuto i tempi di queste solenne lezioni della storia non potrebbe mai averli dimenticati: e come mai si poteva da esseri ragionevoli piagnucolare ancora sulla borghesia francese quando Hitler nel 1940 le rovinò addosso come Guglielmo nel 1914, piagnucolare come aveva fatto il Mussolini dell’autunno di quel 1914, cui tutti i fessi gridavano: lascerete sgozzare la Francia? – quello stesso Mussolini che poi la sgozzò nel 1940 con poca spesa, quando alle prime mosse delle divisioni corazzate naziste Marianna si affrettò a riporre nel fodero la spada di Vercingetorige, di Carnot e di Joffre? Di qui e di là, gente non cuciva col Filo del Tempo.

Il 21 marzo le truppe francesi sono a Cherson, ma nelle loro vene è il sangue proletario degli Eguali e dei Comunardi; esse rifiutano l’ignobile arte del boia; a bordo degli incrociatori i marinai, con Marty, si sono ammutinati; il 2 di aprile 1919 Odessa viene evacuata dai francesi e le navi riprendono il mare. Episodio che bene si lega alla serie possente di rivoluzioni di lavoratori che segnano di tappe rosse la storia di Francia in date non dimenticate; uno dei pochi generosi apporti che noi dall’Ovest abbiamo saputo dare alla disperata difesa dei compagni, dei fratelli di Russia.

Particolarmente impegnati nel tentato jugulamento della rivoluzione sono gli inglesi col truculento liberatore dell’umanità Winston Churchill. Non gli basta il fronte dell’Artico, bloccato dalle distanze e dal clima. Il Soviet di Bakù sul Caspio dominato dai felloni menscevichi ed esserre - gli stessi partiti che il 25 maggio avevano chiamato in Georgia i tedeschi e consegnato loro la città di Poti – a lieve maggioranza il 25 luglio del 1918 chiama in aiuto gli inglesi contro i bolscevichi. La storia si ripete: Verdun vile città di confettieri… all’inimico aprì le porte. Il 3 agosto gli inglesi, muovendo dalla Persia, arrivano al comando del generale Dunsterville ed occupano il territorio dell’Azerbaigian. Questo impeccabile gentleman non si contenta di fare da predone di oleodotti, ma da autentico boia fa fucilare 26 compagni commissari bolscevichi, tra cui Šaumjan, Presidente del Soviet, con l’aiuto dei socialrivoluzionari. Il 13 settembre si chiude questa gloriosa azione col rientro in Persia delle truppe di Dunsterville.

Altra azione inglese fu la rivolta di Jaroslavl, città a 200 km a nord di Mosca, capitanata dal bianco Savinkov e istigata dall’agente inglese Lockhart. Scoppiata il 6 luglio 1918, già il 21 era stata soffocata dai bolscevichi. Le minacce dal nord su Mosca non destarono mai un vero allarme e il fronte di Arcangelo fu nel seguito ritirato e reimbarcato dagli inglesi.

129 – Est. Cecoslovacchi e Kolčak

Come nell’anno 1918 la sconfitta militare pose fine ai tentativi delle forze tedesche all’ovest e al sud, così ebbero fine i tentativi di intervento diretto con forze regolari straniere: le potenze vincitrici non cessarono di fare piani contro la Russia sovietica, ed anzi svilupparono azioni assai più minacciose in tutto il corso del 1919, ma si portarono anch’esse in pieno sul terreno della guerra civile, organizzando ed armando, sempre col mezzo di generali zaristi, forze «indigene» della popolazione russa avversa al regime bolscevico, illudendosi di far leva su resistenze sociali alla rivoluzione, che certo non mancavano soprattutto tra le classi medie delle campagne. Ne sorsero una serie di aspri conflitti, cui si aggiunsero tuttavia talune vere guerre di Stati, come con la Finlandia e poi la Polonia. Il 12 maggio 1918 una vittoria sui rossi del generale Mannerheim troncava le speranze per una repubblica sovietica in Finlandia: con diretti aiuti dell’Intesa la guerra sul fronte di Carelia durò senza decisivi successi da una delle parti fino al principio del 1920. Anche qui la storia dettò lezioni eloquenti: la guerra di «liberazione nazionale» della Finlandia da Mosca fu messa in piedi dai tedeschi, che la appoggiarono ugualmente quando al posto dei Románov venne Lenin: senza soluzione di continuità al 1918 tale funzione venne pari pari ereditata dagli inglesi ed alleati e dalla travolgente e grossolana simpatia banale degli americani, cicisbei a sangue freddo nel mondo di Madonna Libertà. Quante lezioni, ma come perdute; e soprattutto quando le stesse dozzinali simpatie avallarono lo sconcio amplesso 1941 tra Russia ed America supermilitariste!

Un episodio a sé stante fu la rivolta dei cecoslovacchi prigionieri di guerra dello zar in una zona del medio Volga. Questi ex soldati erano di origine sociale e politica piccolo-borghese e in parte operaia: riformisti e radicali, irredentisti dall’Austria. Essi ebbero dalla rivoluzione la libertà e si pensò avviarli per la Siberia, quando serpeggiò nelle loro file la ribellione ai bolscevichi. Il movimento cominciò nel maggio del 1918, e fu in tutti i modi sostenuto da agenti francesi. Muniti di armi abbondanti gli ex prigionieri prendono Novo-Nikolaievsk (oggi Pugacevsk) sul Volga, il 26 maggio, Celiabinsk, tra il Volga e gli Urali, il 27, Penza, di qua dal fiume, circa 400 chilometri ad est di Mosca, il 29, Omsk in Siberia oltre gli Urali il 7 giugno; Samara (oggi Kuibiscev), sul fiume, l’8, Ufa, ad est sulla Kama, il 5 luglio, Simbirsk (oggi Ulianovsk) sul Volga, il 22 luglio, Ekaterinburg negli Urali (oggi Sverdlovsk) il 25, e il nodo fluviale di Kazan da cui minacciano Nizni Novgorod (oggi Gorkj) il 27.

Ovunque e specie all’est si uniscono forze dei bianchi, degli esserre e perfino operai delle industrie di Votkinsk e Igievsk (città lungo la Kama) che li seguono. Si formano due governi: quello di Samara che si fa dire «della Assemblea Costituente», e quello di Omsk tenuto dai bianchi e per essi dal generale Kolčak, rimasto famoso. Si è così formato un poderoso fronte orientale, e l’Armata rossa si organizza per attaccarlo: una prima offensiva conduce alla riconquista di Kazan e si cominciano a rastrellare i resti dei cecoslovacchi lungo il Volga. Ma Kolčak ritiratosi oltre gli Urali forma un nuovo esercito, dopo che nel dicembre 1918 con un colpo di Stato ha preso da solo il potere rovesciando gli esserre e i menscevichi. Egli muove contro Perm (oggi Molotov) deciso a riprendere la via di Mosca. La città cade il 2 gennaio 1919, il 6 marzo Kolčak è oltre gli Urali e il 15 prende Ufa. Il 28 aprile 1919 l’Armata rossa, che è stata riorganizzata, riprende la controffensiva con successo. Il 26 maggio il Consiglio militare degli Alleati di Parigi offre al capo controrivoluzionario riconoscimento ed appoggi, ma il giorno seguente i rossi lo scacciano da Sterlitamsk, presso Perm. Il 4 giugno Kolčak aderisce alle proposte di Parigi. Ma nel corso di questi mesi egli è stato ributtato oltre gli Urali e non riguadagnerà più terreno. Mosca, che è stata nel frattempo minacciata dal sud, mentre Pietrogrado lo era dal nord-ovest e sud-ovest, non teme più la minaccia da oriente. Il 14 novembre cadono Jamburg ed Omsk, capitale di Kolčak in Siberia, e il 4 dicembre il compagno Ivan Smirnov, uno dei tanti dirigenti di partito mostratisi ottimi generali, può telegrafare: Kolčak ha perduto la sua armata. In gennaio 1920 anche questo energico rastrellamento è compiuto; il capo stesso preso e passato per le armi.

130 – Fronte meridionale: Denikin

Non appena finita la guerra europea, come dicemmo, gli Alleati si prefiggono di prendere il posto dei tedeschi che evacuano l’Ucraina, e rimettere in piedi il fronte sud e sud-ovest. Il 24 novembre del 1918 adunano una conferenza a Jassy, in Romania, dei russi bianchi, ossia zaristi, pienamente sostenuti da Churchill: il generale Denikin viene proclamato dittatore della Russia. Come sappiamo questi aveva forze nel Caucaso settentrionale fin dal principio del 1918: il 26 si proclama comandante in capo di tutte le forze russe della Russia meridionale; dunque tedeschi, francesi ed inglesi non ve ne sono più: bensì i loro rifornimenti di denaro, armi e mezzi di ogni genere, e meglio quelli degli anglo-francesi. La grande offensiva, pericolosissima per i bolscevichi, dal sud, si sferra nel maggio del 1919 e la base principale è nel Kuban, tra il Mar di Azov e il Caucaso.

Le tappe dell’avanzata e della riconquista della tormentatissima Ucraina sono travolgenti. Il 15 giugno Denikin prende Kupiansk, 100 km. ad est di Charkov, poi Charkov stessa. Con ulteriore spinta il 4 settembre prende Kiev, la capitale, e il 22 è a Kursk, sulla direttrice Charkov-Mosca, da cui dista solo 500 km. Si intende che alle spalle tutto è suo: Crimea, Don, bacino del Donetz. La grave minaccia preme su Orel, a soli 250 km. da Mosca, che è presa il 13 ottobre. Il Comitato centrale bolscevico prende misure di emergenza, e finalmente il 21 ottobre l’Armata Rossa schierata tra Orel e Voronetz dette battaglia e l’esercito di Denikin riportò una grave sconfitta. Il 27 novembre Kursk, punto vitale, era ripreso dai rossi.

Disorganizzata la potente armata di Denikin nella fine del 1919 le forze rivoluzionarie si danno alla difficile opera di risistemare il terreno liberato e irto di macerie e di insidie. Prima di parlare di ricostruzione di tutto ciò che è stato devastato ed è indispensabile alla vita della popolazione, già è un compito tremendo la bonifica dell’ambiente umano denso di spie, di sabotatori e di nemici politici. La guerra civile differisce da quella statale per il fatto che non può nel territorio occupato mettere tutto a ferro e fuoco, far bottino e distruggere ulteriormente gli impianti, ma anche per il fatto che deve con drastiche misure neutralizzare la parte dei civili che sono dissimulati partigiani delle forze controrivoluzionarie.

Durante questa dura bisogna, in cui la sicurezza alle spalle delle truppe avanzanti non può essere assicurata da misure di intimidazione indiscriminata, ma bisogna discriminare socialmente tra i compagni e i nemici di classe, Denikin poté ridursi molto più a sud e riorganizzare grazie ai solidi aiuti stranieri la sua base del Caucaso settentrionale. Nel marzo egli tentò di muovere ancora verso il nord, ma questa volta l’Armata Rossa lo fermò assai più a sud. Arrestatolo rientrò a Rostov sul basso Don e il 27 marzo 1920 prese Novorossijsk, al di là dello stretto di Kersc (per cui il Mar d’Azov comunica col Mar Nero) sulla costa. Questa posizione comanda tutta la Ciscaucausia, vecchio baluardo dei Bianchi, e permise la definitiva liquidazione delle forze di essi, chiudendo questa grave fase del conflitto armato.

131 – Fronte occidentale: Judenič

Questo altro gravissimo tentativo che mirava a Pietrogrado prima che a Mosca e che nel tempo fu del tutto concomitante con la guerra di Denikin, fu altra diretta ispirazione degli inglesi e di Churchill. La direzione wilsoniana della Lega delle Nazioni aveva consacrata la «libertà» dei popoli di Finlandia ed Estonia che dovevano servire da basi di attacco ai bolscevichi. Intanto si organizzava in terreno russo l’armata di Judenič. Tutti i tentativi furono fatti per saldare le operazioni di queste forze prezzolate dallo straniero capitalista con quelle nazionali di Mannerheim, ma la Finlandia non voleva fare operazioni di invasione e si fermò sulla sua storica frontiera della Carelia, vicinissima alla base navale di Kronstadt alla foce della Neva e a Pietrogrado. Dal posto di frontiera di Terioki, dove qualche delegato al Comintern nel giugno 1920 non fu dai finlandesi lasciato passare, non correvano che 25 km. per Pietrogrado, ove si inaugurava il II Congresso.

Quanto all’Estonia, avendo la Russia di allora rinunziato ad incorporarla, sebbene durante tutta la lotta di Judenič gli fosse servita di base logistica, il 2 febbraio 1920, dopo un armistizio, firmava la pace con Mosca.

L’impresa di Judenič si inizia colla prima estate del 1919 ed egli muove da nord-ovest minacciando direttamente Pietrogrado; a cui nel maggio, ossia quando Denikin muove dalle basi del Mar Nero, è già molto vicino. Stalin fu allora mandato a Pietrogrado, dove Zinoviev dirigeva partito e Soviet, e con decisive misure formazioni militari e guardie rosse liberarono la città, mentre i marinai rossi liberavano la fortezza di Krasnaja Gorka caduta nelle mani dei nemici. Judenič indietreggiò, ma il 25 entrava a Pskov, 250 chilometri a sud-est, organizzandovi la sua base di operazione. Il 13 giugno avvenne il passo di Churchill per smuovere i finlandesi.

In ottobre Judenič sferra il suo maggiore e più pericoloso attacco, e il 16 prende Gatcina. Il 20–21 ha luogo con l’intervento diretto di Trotsky la battaglia decisiva sull’altura di Pulkovo, poco ad est di Pietrogrado: per Judenič è il crollo finale, e la rossa seconda capitale è libera dal pericolo, nello stesso giorno in cui tra Orel e Voronetz, come abbiamo detto nel precedente paragrafo, le forze di Denikin venivano schiacciate. Il momento di più alto rischio era superato, sui tre fronti più importanti della lunga guerra civile la controrivoluzione era sgominata.

132 – Fronte del sud: Wrangel

Tuttavia ancora un’ondata doveva venire ad abbattersi sulla cinta ormai allentata da eroici colpi di ariete che aveva tentato di stringersi attorno alle due metropoli, cervello e cuore della grande Rivoluzione.

Una nuova armata bianca si è formata in aprile 1920 ed è affidata al barone Wrangel, altra creatura anglo-francese, che avanza dalla Crimea. Le forze nemiche sono ancora imponenti, e dopo aver appena respirato per la lotta con Denikin e Judenič l’esercito rosso deve ancora spiegarsi su due fronti: Wrangel a sud, e all’occidente, come vedremo, la Polonia.

Il bacino carbonifero del Donetz, la regione del Don e del Kuban erano stati di nuovo perduti dai rivoluzionari troppo impegnati all’ovest, ma nel novembre del 1920 è possibile affrontare in forze Wrangel: in una battaglia sull’istmo di Perekop che unisce al continente la penisola di Crimea egli subisce un tremendo rovescio e fugge per salvare la vita: per la metà di novembre tutta la Crimea, tante volte perduta e ripresa, è di nuovo ripulita dalle bande dei bianchi.

133 – La guerra russo-polacca

Questo episodio storico ebbe una portata incalcolabile e sembrò rimettere in movimento tutte le forze proletarie di Europa: credemmo davvero che al levarsi delle bandiere rosse sulla progredita, industriale, occidentale Varsavia tutto il sottosuolo nell’ovest avrebbe tremato e la faccia della vecchia Europa sarebbe tutta cambiata, come al principio del XIX secolo quando la incendiarono le baionette della grande rivoluzione borghese.

Nella sistemazione data dagli americani alla nuova Europa dell’utopia wilsoniana la città bilingue di Vilno era rimasta in disputa tra Lituania e Polonia, con un lungo conflitto finito con la sopraffazione polacca a dispetto degli stessi ordini ginevrini. I polacchi fin dall’autunno del 1919 sconfinarono nella Russia Bianca e ne occuparono la capitale Minsk, con alcune parti della Volinia e della Polonia: Sostarono, al tempo della minacciosa avanzata di Denikin in tutta l’Ucraina, perché la vittoria dei bianchi zaristi avrebbe potuto avversare le pretese polacche di espansione e perfino di indipendenza. Battuto in fine del 1919 Denikin definitivamente, le forze polacche, sostenute con ogni mezzo dalla Francia e dal suo emissario generale Weygand, si mossero occupando tra gennaio e marzo 1920 le città di Dvinsk, Latgalia e Mosyr, che sono tra Russia Bianca e Ucraina, tra Minsk e Kiev. Le forze lituane appoggiano l’invasione, che il 26 aprile è in pieno sviluppo, condotta dalle truppe del governo di Petljura, sotto il comando del «liberatore della Polonia» Piłsudski. Qui scrive Trotsky:
«Per quanto una tale guerra fosse imposta all’armata rossa, lo scopo del governo sovietico non era solo di parare l’attacco, ma di portare la Rivoluzione in Polonia e in tal modo aprire con la forza la porta per il Comunismo in Europa»[115].
Ecco il linguaggio di uno Stato ed un esercito rivoluzionari: quando essi diverranno imperialisti, allora il miserabile loro linguaggio si impasterà di difesa dall’aggressione alla Patria, di pacifismo, di coesistenza – la loro azione, di vile tradimento.

Il 30 aprile Trotsky così scrisse al Comitato Centrale:
«Precisamente perché è una lotta di vita o di morte essa avrà un carattere estremamente intenso ed aspro».
Ed ammonì contro la speranza ultraottimistica di una rivoluzione in Polonia (i soliti falsi sinistri sostenevano ancora una volta che non si dovesse combattere in campo aperto esercito contro esercito, ma contare sulla forza notevole dei proletari e comunisti di Polonia).
«Che la guerra termini con una rivoluzione dei lavoratori in Polonia, non vi può essere dubbio, ma non vi è nessuna base per credere che la guerra cominci con una simile rivoluzione»[116].

Trotsky ha dimostrato di non essere stato favorevole, per la debolezza delle forze militari sovietiche, alla diretta «marcia su Varsavia». Ma Lenin era fautore di questa idea, egli sentiva che la rivoluzione di Europa non poteva essere ulteriormente aspettata, e, come sempre, che senza di essa tutto sarebbe stato perduto; quell’idea allora inebriò noi tutti che seguivamo ansiosi la distanza dalla proletaria Varsavia, che tante prove prima e dopo ha dato di eroismo di classe, autentica Parigi dell’Est, delle avanguardie della Rivoluzione mondiale.

L’8 maggio i polacchi conquistano di forza Kiev, la capitale ucraina, e i bolscevichi rispondono col loro sforzo più potente. Il nemico indietreggia sotto il contrattacco di tutto il fronte: tra l’entusiasmo del mondo proletario si seguono le notizie incalzanti: il 13 giugno la rossa Kiev è ancora una volta nostra; l’11 luglio si è a Minsk; il 14 a Vilno: i polacchi sono fuggiti fino al fiume Bug. Il 1° agosto Tuchačevskij è a Brest: Varsavia è meno di 100 chilometri ad ovest; l’11 l’Armata Rossa è schierata davanti alla città.

Purtroppo questa marcia trionfale fu duramente fermata, con un colpo terribile all’entusiasmo rivoluzionario. Le discussioni sul disastro durano ancora adesso. L’ala sinistra russa si era proiettata verso sud-ovest in direzione di Leopoli (Lemberg, Lvov) al comando di Vorošilov e Budënnyj. S. S. Kamenev (da non confondere col più noto Lev), comandante in capo, dispose che l’armata di cavalleria si lanciasse verso nord per prendere di fianco i difensori di Varsavia, puntando su Lublino, che è tra Lvov e Varsavia. Questo ordine era dovuto a Trotsky, presidente del Comitato rivoluzionario di guerra, mentre Stalin che era presso Vorošilov sembra sostenesse l’avanzata su Lvov, da cui si giunse a dieci chilometri; e, dopo, la conversione. La manovra non riuscì, e il 16 agosto i polacchi, davanti a Varsavia, su consiglio di Weygand, attaccarono Tuchačevskij e lo batterono. Il 17 agosto, spezzato il fronte, non restò al comando russo che ordinare la generale ritirata abbandonando il territorio polacco. La grande speranza era perduta, il 21 settembre si iniziarono le trattative per la pace avendo i franco-polacchi malgrado il clamoroso successo considerata vana l’idea di invadere il territorio sovietico. La pace di Riga fu firmata il 20 ottobre 1920. Da allora quel fronte, quel confine tormentato, non doveva più muoversi fino al settembre 1939, quando 19 anni dopo Hitler e Stalin si divisero la Polonia schiacciata dai tedeschi. Oggi la Polonia è Stato satellite dell’imperialismo militare di Mosca: Leopoli è restata nelle frontiere russe vere e proprie, con molte altre città polacche come Brest e Grodno; sono russe le finno-tedesche Estonia, Lettonia e Lituania; Königsberg si chiama Kaliningrad. Questa frontiera camminerà molto ancora fino a che le grandi capitali non si leveranno vittoriose in piedi, come Varsavia alla fine della guerra tentò di fare soccombendo con i suoi combattenti operai sotto le rovine delle case spianate dai tedeschi una per una, mentre dalle antiche posizioni di Tuchačevskij il vittorioso generalissimo Stalin era fermo a guardare. Come Berlino tentò a sua volta, e un giorno ancora lontano ritenterà.

Nei duri amari dibattiti del decimo congresso del partito comunista russo nel marzo del 1921 si farà il bilancio di quel cruciale rovescio: Lenin ascolterà pallido le reciproche accuse. Forse non pensava egli alla questione del successore, che abbacina la corrente opinione, ma guardava il miraggio immenso della rivoluzione mondiale che, allontanandosi da noi di un gran tratto, ci imponeva una lunga e dura attesa, ma una non diversa certezza.

134 – La pace rossa

La situazione della lotta armata andò per tal modo stabilizzandosi, dopo la serie di fasi convulse di cui crediamo aver presentato le principali. Molti e molti altri furono gli episodi prima che sparissero tutte le minacce al conquistato potere: si dovrebbe dire degli anarchici di Machno che ancora nel difficile agosto 1920 insidiavano strade e ferrovie ucraine, delle ribellioni di Semënov e Ungern in Oriente, di guardie bianche finlandesi in Carelia, di quella tremenda dei marinai di Kronstadt ove indubbiamente comunisti estremisti ed anarchici erano coinvolti, e che fu vinta nel cinquantenario della Comune di Parigi il 18 marzo 1921: la storia non ha tutti i materiali per giudicare un tale episodio.

Crediamo estraneo al nostro tema tutto il succedersi dei dibattiti sulle responsabilità delle crisi che segnarono le tappe della lunga guerra interna. Le confutazioni di Leone Trotsky alle incredibili narrazioni della «Storia» staliniana ufficiale sono di valore decisivo: esse sono perfino superflue agli occhi di chi ha qualche volta constatato l’entusiasmo dei soldati rossi, non tanto per la persona impareggiabile quanto per l’opera luminosa del grande capo guerriero della Rivoluzione. La sua risposta finale a Stalin schiaccia il vincitore sotto la dignità e l’altezza del vinto.

Quasi mai, dice il grande organizzatore della vittoria, che più volte vedemmo davanti i grandi quadri geografici luminosi segnare i punti delle vittorie e delle disfatte, con costante razionale e ordinata visione delle misure da adottare, con freddezza di tecnico e non con pose di condottiero, quasi mai (egli dice serenamente) io fui sui fronti delle sicure vittorie studiate e attuate riparando le frane e i vuoti e gli sbagli, se non i tradimenti (di cui si volle incredibilmente caricare la sua partita), perché il mio impegno era sui punti di minore resistenza, di probabile prossima frattura, nella semplice, come egli dice, nostra strategia per linee interne, che imponeva di correre ai tratti deboli del cerchio, che arrivò ad avere un raggio di soli duecento chilometri. Solo a Pulkovo egli narra di avere direttamente comandato la vittoria su Judenič[117].

La grandezza della vittoria bolscevica nella guerra civile è tanto alta e il significato di questo processo vulcanico della guerra di classe tanto vasto, che solo un folle ed una banda di disfattisti può compiacersi, per luride ragioni di bottega, di descrivere l’eroica falange della difesa rossa come un verminaio di agenti del nemico.

A noi interessa non l’eroe cui tributare la corona, ma l’illustrazione della vastità del compito, che consistette nel difendere colle armi il potere raggiunto dopo una lunga campagna rivoluzionaria, colle tappe dal 1905 al 1917.

Fino al 1921 e 1922, stabilizzato il territorio della dittatura comunista fino ai limiti di quello che era sotto l’impero dello zar, si susseguono le fondazioni delle repubbliche comuniste unite e federate alla Russia; l’elenco sarebbe interminabile: Georgia e Daghestan nella fine del 1921, Crimea in quell’ottobre, Buchara nel settembre del 1920; ecc. Lungamente tormentata dalle lotte che abbiamo esposte fu la Transcaucasia, particolarmente esposta alle insidie del capitalismo mondiale. Nel febbraio del 1921 Stalin fece occupare la Georgia dalle forze armate, mentre il partito desiderava averla per spontanea adesione, ma fu tra le ultime operazioni territoriali di tipo militare. Il 12 marzo 1922 era proclamata la repubblica Transcaucasica (oggi Armenia, Azerbaigian e Georgia).

La guerra civile era finita e cominciava l’epoca della politica economica, amministrativa, di cui diremo nella nostra seconda parte. Non con questo sarà però chiuso l’argomento politico. La lotta tra diverse correnti, che non potevano non rispondere a forze sociali effettive, continuerà a lungo nel partito. Essa non darà quasi mai luogo ad atti di forza armata dei dissidenti, bensì a repressioni dal centro così vaste che ebbero il carattere di vero sterminio di movimenti nemici del centro statale. L’esposizione dei fatti e dei programmi economici, riportandoci nel pieno del problema storico di cui abbiamo ammannito i dati formidabili, non ci permetterà di tacere di questa lotta accanita e di non dedicare nell’esposizione della struttura economico-sociale alcuni capitoli allo scontro con le opposizioni, al terrore nel partito e nello Stato, e alle ferocissime purghe che travolsero tanti dei protagonisti delle lunghe vicende che avevan condotto il partito rivoluzionario al potere, con la sua luminosa conquista e la gloriosa sua difesa. Lunga lotta in cui dietro questi nomi, di perseguitati non tanto coi plotoni di esecuzione quanto con una impalcatura di infamia, indiscutibilmente si trovò un moto di masse del proletariato russo, non in grado di sollevare il peso soffocante sotto cui, rimasta sola in un mondo nemico, la rivoluzione comunista di Russia, in un processo originale, ma leggibile appieno dalla dottrina marxista, sanguinosamente se pure senza una nuova vera guerra civile, ha per la gloria dell’eterno nemico dovuto piegare.

135 – Sempre il dettato di Lenin

Abbiamo sempre illustrato il nostro sviluppo con la dimostrazione che esso si adagia sulla prospettiva russa di Lenin. Ciò è un fatto che non si deduce dal «Lenin ha sempre ragione» dei filistei, perché i lettori sanno che sulla prospettiva europea, alla scala tattica degli anni che cominciano dal 1919, dissentiamo su punti essenziali dalla previsione di Lenin. Quando egli vedeva vicina la rivoluzione occidentale che non venne, non sbagliava. Non sono questi errori, ma meriti rivoluzionari. Ma quando non vide la minaccia dell’opportunismo che avrebbe rialzato la testa, egli sbagliò: perché non lo considerò inseparabile dagli sviluppi di certe manovre tattiche acconsentite.

Nell’economia dello sviluppo russo e nella politica del partito egli non sbagliò, questo è importante, perché nulla ha a che fare con personali infallibilità buone per i gonzi, al fine vitale di fissare la dialettica integrità di tutta una costruzione dottrinale storica.

Ecco come impostò la questione del trattamento agli avversari opportunisti entro la Russia e durante la lotta suprema (luglio 1919):
«Affare nostro è porre apertamente la questione: Che cosa è meglio? Acciuffare e mettere in prigione e talvolta anche fucilare centinaia di traditori tra i cadetti, i senza partito, i menscevichi, i socialisti rivoluzionari, che ‹agiscono› (chi con le armi in pugno, chi con un complotto, chi facendo propaganda contro la mobilitazione, come i tipografi e i ferrovieri menscevichi, ecc.) contro il potere dei Soviet, cioè per Denikin, o lasciare arrivare le cose a un punto tale da permettere a Kolčak e a Denikin di sterminare, fucilare, fustigare a morte decine di migliaia di operai e contadini? La scelta non è difficile»[118].

La Rivoluzione non discriminò in Russia, e fu vittoriosa.

Discriminò tra i nemici fuori di Russia, consentendo un metodo che oggi è giunto fino alla peggiore ignominia, e non è stata solo vinta, ma disonorata ed insozzata.

Dopo la vittoria su Kolčak nell’agosto del 1919 – e con ciò sospendiamo le citazioni – Lenin scrive:
«O dittatura (cioè potere di ferro) dei proprietari fondiari e dei capitalisti – o dittatura della classe operaia.
Non ce via dimezzo. Sognano invano una via dimezzo i figli di papà, gli intellettuali, quei signorini che hanno studiato male su cattivi libri. In nessuna parte del mondo c’è, né può esserci, via di mezzo. O dittatura della borghesia (dissimulata sotto le frasi pompose dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi sul potere del popolo, sulla costituente, sulle libertà, ecc.) o dittatura del proletariato. Chi non l’ha imparato da tutta la storia del secolo decimonono è un perfetto idiota; ma in Russia abbiamo visto tutti come i menscevichi e i socialisti rivoluzionari, sotto Kerenski e sotto Kolčak, sognavano questa via di mezzo«
[119].

Una generazione fa noi con Lenin abbiamo sognato la rivoluzione fuori di Russia. Cosa oggi sognate voi, giovani proletari del 1956? Quale via di mezzo? Quali cattivi libri studiate male; e da perfetti idioti?



Notes:
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  1. L. Trotsky, «Stalin», Cit., pag. 447. [⤒]

  2. L. Trotsky, «Stalin», Cit., pag. 448. [⤒]

  3. L. Trotsky, «Stalin», Cit., pag. 441. [⤒]

  4. «Tutti alla lotta contro Denikin, in Lenin, «Opere», XXIX, pag. 415. [⤒]

  5. «Lettera agli operai e ai contadini dopo la vittoria su Kolčak», in Lenin, «Opere», XXIX, pagg. 512–513. [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», N. 3, Febbraio 1956

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