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«POLITIQUE D’ABORD»!


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«Politique d’abord»!
Ieri
Oggi
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Sul filo del tempo

«Politique d’abord»!

Come è notissimo perfino ai lettori delle riviste politiche illustrate, la frase fu rilanciata in Italia da Pietro Nenni fin dai primissimi giorni in cui si trattava di raccogliere l’eredità di Benito Mussolini.

Che senso poteva avere questa esigenza, ancora attuale dopo quasi un decennio di schermaglie? Essa alla fine espresse ed esprime in modo quasi leale il vero contenuto della miserrima vicenda delle lotte tra i gruppi politici successori del fascismo italiano.

A partire dalla estate del 1943, via Sicilia, via Salerno, via Anzio, fremendo nelle retrovie di una fretta che mancava del tutto ai corpi combattenti americani e associati, cui legava le gambe la notizia di avere di fronte scarni reparti germanici, tende a Roma una banda, meglio un mosaico di banderelle, di oppositori, di perseguitati, di esiliati, e in non pochi casi di schifati dalla inquadratura fascista qui governante. I capi politici ed i ministri in pectore dell’era nuova ci sono tutti, allucinati da un lungo digiuno di potere e di politico dimenamento.

Da destra a sinistra tutta questa gente non sbandiera programmi e principii universali, o internazionali: nessun gruppo di capi si prefigge di orientare la sua azione in Italia verso il risorgere di movimenti e partiti di battaglia per una nuova, rivoluzionaria, palingenesi della società europea e mondiale. Per tutti la lotta armata finisce colla vittoria delle armate di sbarco e la rottura delle ultime linee e formazioni tedesche; e si tratta di passare a rifare, a riordinare l’Italia. Nessun partito di lotta, di opposizione, e tanto meno di rivoluzione: tutti partiti di amministrazione e di governo, tutti in veste di eredi della già scontata rivoluzione, o secondo risorgimento italiano, che sta a cavallo delle date gloriose: 25 giugno, 8 settembre, 19 maggio, in cui dal suolo fiammeggiante della patria insorsero marescialli imperiali, re, imperatori, principi ereditari, pontefici romani; e capeggiarono le insurrezioni!

Quale la maggiore premura di questi gruppi dirigenti ansiosi di provarsi nel rimettere piede sul suolo ancora una volta redento? Ripetiamo, avessero essi avanzato, incalzato e vinto per un postulato rivoluzionario generale, per la conquista del potere in Europa e nel mondo alla classe proletaria, e quindi per lo smantellamento della società capitalista, che aveva partorito e partorirà fascismi e guerre, essi sarebbero stati fin dal primo momento pronti e maturi all’azione: organizzare, propagandare, agitare, inquadrare le masse per l’assalto demolitore ai pilastri del regime borghese anche nella riguadagnata Italia. Ma no; essi non hanno che il proposito di chiudere ogni lotta e scontro violento; e darsi al riordinamento contingente del paese rovinato a loro dire da venti anni di disamministrazione e ladreria fascista e da quattro anni di guerra, militarmente invero non impegnativa, ma catastrofica per i bombardamenti spietati «di propaganda» dei civilizzatori e liberatori.

Con tali propositi sarebbe stato logico fermarsi, guardarsi attorno, studiare, capire la situazione contingente – essi contingentisti per la pelle – di questo paese in cui ritornavano a ripristinare buon governo, sana amministrazione, rivendicata autorità ai competenti perseguitati (o infamia!) per motivi ideologici. Quindi esaminare i problemi tecnici, come ad essi piace dire, e darsi a preparare nel campo amministrativo legislativo e sociale le attesissime «riforme di struttura» per soddisfare un popolo, dopo la dominazione fascista, assetato di giustizia.

Il Pietro Nenni in questa fase non fu che il meno ipocrita di tutti. Ma che studiare, ma che capire, ma che vedere quali erano i mutamenti di struttura sociale tra il 1922 e il 1944 (il riformismo ci puzza ferocemente e appunto per questo possiamo dire con tranquilla serenità che erano mutamenti per quattro quinti positivi, mentre dal 1944 ad oggi sono per quattro quinti negativi), ma che darsi a preparare leggi sociali e piani di ricostruzione sensati! Ma che portare la soluzione di questi quesiti a livello della larga massa, riabilitandola dalla menomazione e minorazione fascista che aveva riservato ogni funzione decisiva alla gerarchia oligarchica! Ma che; ma che: politique d’abord!

Il diritto di stabilire i destini d’Italia per legge storica, passa con un colpo di bacchetta magica dal gruppo dei perseguitatori al gruppo dei perseguitati più illustri (nulla di male se ce ne scappa più di uno tanto poco illustre quanto nulla perseguitato); le urgenze della storia non lasciano il tempo di passare la bisogna al «popolo», che è bastato liberare, e alimentare di inni alla democrazia, essendo automatico che questa vince ogni qualvolta al posto del carceriere riesce a sedersi il carcerato.

Ed allora quello che urge è spartirci – dice Nenni, esprimendo audacemente il generale segreto pensiero – la torta dei poteri e dei posti, schermagliando tra noi sopraggiunti secondo il potenziale che deriviamo da quanto abbiamo dietro le spalle – e chi al britanno, chi allo yankee, chi al gallico, chi al cosacco, in nome d’Italia, si poggia – e da quanto abbiamo davanti a noi come possibilità di fare gioco nel mobilitare i futuri elettori che, a partita giocata, e a vergogna della memoria fascista, saran convocati a liberi voti!

Chiaro che in simile periodo di abili mosse sulla scacchiera le «masse» ed il «popolo» ad ogni passo invocati, sono fuori del gioco. Sono dunque rapporti tra partiti, ognuno, ben definito e collegato su una sua tradizione storica di programma e di lotta, quindi chiaramente riconoscibile come espressione di interessi sociali? No; il risalire ai partiti, concesso che un partito in periodo di forti offensive subite ben può agire senza il collegamento ininterrotto a una base vasta, tramite piccoli gruppi e comitati clandestini ed esteri se del caso, non basta a spiegare la dinamica di un simile accaparramento.

Proprio nel caso di Nenni il dato partito è quanto mai mutevole. Egli è l’esponente del partito socialista che all’inizio della fase ventennale di parentesi è il più fiero nemico della Internazionale di Mosca e del partito comunista. Al 1943–44 il suo partito deve ancora spezzarsi in due e poi tre tronchi divisi radicalmente dall’asservimento ai russi da una parte e agli americani dall’altra. E se seguitiamo l’analisi degli altri partiti la storia vale lo stesso: la tradizione ventennale è lo stesso contorta, quanto ad appoggio e opposizione al fascismo, quanto ad atteggiamento di fronte alla monarchia, o di fronte alla chiesa: ci risparmiamo l’esame.

Politique d’abord, non vuole dunque solo dire: indietro la massa e la base, indietro la realtà anche contingente delle situazioni economiche, tecniche, costruttive, amministrative; siano di scena le formazioni politiche in cui la nazione si divide, ossia i partiti. Vuole dire indietro anche questi, che ancora non si sono né schierati né messi in attività (né più si sottrarranno, prima ad un conformismo unico «risorgimentale», dopo a una coppia di conformismi convenzionalmente, retoricamente avversi tra loro, che più non si riscatteranno dalla passività di stile ventennio, e se volete di stile popolar-progressivo). Ed allora se le classi e i partiti non sono di scena, la formula, sfrontata ma veritiera, a quali rapporti di forza si riferisce? Quali sono gli attori sul palcoscenico, salvo ad indagare dopo se gli attori e specie i protagonisti non siano marionette di cui sono tirati i fili? Tutto si riduce ad un intrigo tra persone, tra «personalità», tra «uomini politici»; ciò viene apertamente confessato. E dal 1944 ad oggi dietro questa lacrimevole scena e meglio che mai, molto meglio che nel ventennio, il capitalismo e l’affarismo più spinto, che divengono ad arte sempre più anonimi, imperversano nella loro dittatura: l’Italia, che quei signori dicono importare loro più dei loro principii universali di partito, l’Italia è amministrata nel modo peggiore della sua storia, non solo recente; si fanno da burocrati amministratori e tecnici più fesserie che mai, si ruba più di quanto si sia mai rubato. E questo stato di cose va, dato il metodo premesso, imputato in egual misura a partiti al governo e partiti all’opposizione, dato che si tratta di opposizione costituzionale, collaborazionista e «nazionale».

Le inquadrature delle masse, affogate nel conformismo e nella corruzione riformista assistenziale e patronesca, che sviluppa la stessissima linea fascista, sono dunque svincolate dalla guida «di classe», sono svincolate dalla guida «di partito» e sono costrette ad orientarsi solo sulla guida di «Uomini», di «Capi», di «Nomi» famosi.

I partiti che pretendevano di continuare il filone di quelli proletari non fanno più mistero di avere adottata questa, e questa sola bussola: morti deificati da una parte, e levati su altari (meno pericolosi come persone fisiche ma sempre pericolosi per l’uso traditore della loro fama), viventi idolatrati come Padri, Migliori o Perfetti, alla cui opera direttiva si attribuisce ogni virtù di fare la storia. Allo sforzo gigantesco dell’originario marxismo che dimostrò che l’economia è politica, la lotta sociale è politica, la guerra civile è politica, si surroga oggi la ignobile ammissione che è politica non lo scontro a vasto sfondo degli interessi delle classi e dei partiti che si affrontano, per e contro le rivoluzioni, ma è politica il basso caudeggiare un tipo dal nome notissimo, l’ammirazione cretina, l’adulazione più vile, da parte non di un singolo fessoide, che importerebbe poco, ma delle collettività organizzate.

Ieri

La facilità con la quale si verificò il fenomeno dell’opportunismo, che vale conquista subdola, che ad un dato momento esplode, delle organizzazioni della classe dominata da parte della classe dominatrice e dei suoi poteri, derivò anche, insieme a tutto il gioco delle formidabili risorse che possiede l’apparato tradizionale delle forme di produzione, da questo abuso fatto nelle file rivoluzionarie del culto delle persone e dei nomi. Citatemi i soliti (pochi ahinoi) esempi di dirigenti proletari che hanno svolto tutta la loro vita militante senza defezionare e deflettere: ed io terrò in piedi la tesi che l’elemento seguito, ammirazione, fiducia, attaccamento, anche a queste persone e a questi nomi non è stato elemento deteriore e dannoso.

Taluno ha ancora nelle orecchie il clamore dell’applauso strappato da Mussolini al congresso di Reggio del 1912 nell’invettiva contro Bonomi Cabrini, Bissolati e Podrecca: «il partito non è una vetrina per uomini illustri». Eppure la perorazione veniva da un «vetrinista» nato, come mostrarono i fatti successivi, e basta riflettere che vari decenni dopo l’odio proletario per Mussolini bastava a ridare verginità ai traditori Bissolati e Bonomi, morti in odore di santità: tanto le masse sul terreno del giudizio sulle persone sono labili e fallaci.

Sostituita la fede cieca in un nome al rispetto dei principii delle tesi delle norme di azione del partito come ente impersonale, assicurata dal favore ingenuo delle masse e degli stessi militanti l’influenza di una persona, che alla pruriginosa ambizione, latente o meno, accompagnava doti (novantacinque volte almeno su cento assolutamente spurie) di ingegno, cultura, eloquenza, abilità e coraggio, riuscirono storicamente possibili le fenomenali svolte, le incredibili virate di bordo, con cui interi partiti e frazioni notevoli di partito spezzarono la linea della loro dottrina e della loro tradizione, e fecero sì che la classe rivoluzionaria abbandonasse o addirittura invertisse il suo fronte di combattimento.

Strati di militanti e folle proletarie incassarono incredibilmente mutamenti mirabolanti di formule e di ricette; e quando non caddero nell’inganno ebbero ondeggiamenti esiziali. Fallì ad esempio Mussolini nel tentativo di trascinare il partito socialista italiano nella ubriacatura di guerra, ma alla sezione socialista di Milano che nell’ottobre 1914 unanime lo urlava via, osò gridare partendo: mi odiate perché mi amate!

Una lunga e tragica esperienza dovrebbe dunque avere appreso che nella azione di partito bisogna adoperare tutti secondo le loro svariatissime attitudini e possibilità, ma che «non bisogna amare nessuno», ed essere pronti a buttare via chiunque, anche se avesse fatto su ogni anno di vita undici mesi di galera. La decisione sulle proposte di azione ai grandi svolti deve riuscire a farsi al di fuori della «autorità» personale di maestri, capi e dirigenti ed in base alle norme prefissate di principio e di azione del nostro movimento: postulato difficilissimo, ben lo sappiamo, ma senza il quale non si vede via perché un movimento potente riappaia.

L’esaltazione per le res gestae, per le gloriose imprese di questo o di quel preteso condottiero di folle, il mareggiare oceanico alle sue tirate o ai suoi atteggiamenti, ha sempre servito di passerella alle più sorprendenti manipolazioni sui principii del movimento. Seguaci e capo molte volte avevano talmente vissuta l’esteriorità drammatica della lotta, che avevano ignorate, dimenticate, forse mai penetrate, le «tavole» di teoria e di azione senza le quali non vi è partito, non vi è ascesa e vittoria di rivoluzioni. E perciò quando il capo bara a sé stesso e agli altri e cambia le carte, avviene in mille casi lo smarrimento.

Sugli esempi ci siamo cento volte fermati. Scoppia la guerra imperialista 1914 e in tutti i paesi d’Europa autentici capi anche teorici del socialismo affermano coerente ai principii l’appoggio proletario alla guerra. Gli argomenti sono i più sfrontati: in Francia, Germania, Inghilterra, si tratta della maggioranza con tutti i più noti uomini che defeziona, in Italia ad esempio è una minoranza, ma vi è Mussolini appunto, capo dell’ala più rivoluzionaria; e ancora cronologicamente prima di lui tanti altri. Tutta questa gente ha fatto mille volte la spiegazione del «Manifesto dei comunisti»; oggi, impassibile, dichiara: è vero che «i proletari non hanno patria», ma questa espressione vale per il periodo che precede la vittoria del proletariato. Ora il testo dice che questa, portando al potere la classe più numerosa, sarebbe la vera «conquista della democrazia». Conclusione audace e brillante: in tutti i paesi, sia pure capitalisti, in cui vi è elettorato e parlamento, i proletari hanno avuta una patria, e devono difenderla!

Qualcosa crollava sotto i piedi di tutti i rivoluzionari, e mentre in Italia i socialisti dell’ala estrema si riavevano e gettavano già Benito, che sbalorditivamente era passato alla tesi: come lasciare sgozzare la libera Francia, come esitare tra l’Inghilterra e i dispotici imperi di centro?! – Lenin doveva schiaffeggiare Kautsky maestro dei marxisti radicali che chiamava alla difesa della democrazia germanica contro lo zarismo; e peggio ancora seppellire vivo il suo grande maestro Plechanov, teorico formidabile del marxismo, che addirittura sosteneva l’unione sacra con lo Zar di Russia!

Rifatto tutto, tutto riorganizzato, sollevata dal fango la bandiera, tutto ha potuto di nuovo vacillare e crollare, poiché i capi della Terza Internazionale e della Rivoluzione Russa di ieri, assicuratisi alle loro «ditte» la privativa, hanno potuto rimettere su – senza essere lasciati dal grosso del movimento – quelle stesse posizioni di principio e di azione già svergognate: difesa nazionale, collaborazione governativa, blocco democratico, legalitarismo costituzionale, e, con la continua copertura delle vecchie glorie personali dei vivi e dei morti, ogni giorno pretendono che tutta questa lordura sia conseguente con la teoria e la politica di Marx e di Lenin.

Qual meraviglia che un Nenni, dopo avere candidamente detto: qui non è questione delle vedute filosofiche sul divenire del mondo e della umanità, e nemmeno di esercitare utilmente campi, officine o ferrovie in Italia, ma solo di vedercela tra noi poche dozzine di divi del palcoscenico politico, nella salita e discesa delle azioni personali, acquisti il diritto di passeggiare sui principii fondamentali con divina indifferenza? Nell’articolo scritto dopo che lo hanno chiamato l’uomo più pericoloso in Europa, spiega che è stato lui a chiudere la fase rivoluzionaria (!) dell’immediato dopoguerra per passare alla distensione e alla pace. (Che accidente di fase rivoluzionaria? Allora stavano nel ministero di un Savoia, ora stanno all’opposizione accesa: erano belli e distesi già nel 1943, e prima, tra frati e staffieri di corte!). E tira fuori, come cosa notissima, un teorema di questo genere: se è vero come è vero, che la classe operaia esprime interessi universali e generali…!

Che ci potrebbe dire di più? La classe operaia non esprime e difende i suoi interessi contro quelli della classe borghese, ma consiglia, tramite i suoi grandi capi, la via migliore per la convivenza arcadica di entrambe in un governo italiano di nuovo tripartito, e in un patto di alleanza Washington-Mosca! Ed intanto non un operaio su mille riesce a confrontare queste tesi con quelle basilari di Marx sulla lotta di classe e sulla dittatura di classe, con i fondamentali criteri per cui negammo all’origine che si pervenisse nella storia a «valori» e fini comuni a tutti gli uomini, e definimmo tali successive formulazioni sempre come travestimento di interessi di una data parte, classe, della società…

La sfrontatezza e l’ignoranza dei capi arrivati e arrivisti fa fondamento sulla prona adesione dei ranghi, in cui tutti hanno rimesso il «controllo» sul rispetto ai canoni del partito alla solita formula: lo ha detto lui.

Oggi

Se da queste alternative disastrose della lotta del proletariato esiste una uscita, questa sta nel prendere di fronte la vecchia questione del merito e demerito degli uomini, e riuscire a liberarsi dal criterio dominante di lasciare ai capi, anche se hanno passato di grandi lottatori, l’arbitrio di innovare e sconvolgere le regole della normativa comune ed impersonale.

Alle polemiche su persone e tra persone, all’uso ed abuso dei nominativi, va sostituito il controllo e la verifica sulle enunciazioni che il movimento, nei successivi duri tentativi di riordinarsi, mette alla base del suo lavoro e della sua lotta.

Un sintomo del fatto che con processi più o meno complicati, dati elementi si lasciano condurre dalla voluttà di avere una parte su quel tale palcoscenico, dalla libidine di sentir riecheggiare il proprio nome, e dallo sfizio di essere chiamato capo e titolare di un curriculum di meriti, e di alte prove sta nella disinvoltura, spesso incosciente, con cui leggermente si dimostra di non aver mai vagliato le direttive di base, e di improvvisare ad un dato momento dissensi da tesi a cui per anni non si era trovata eccezione; o viceversa di aderire a tesi di cui si era accertata la aperta condanna da parte della organizzazione.

Essendosi purtroppo avuti fenomeni di tale natura anche nel seno del piccolo movimento che raccoglie gli avversari della degenerazione stalinista, della terza ondata di opportunismo nella storia del proletariato, non è possibile non mettere in rapporto i due aspetti: la provata ignoranza e trascuranza delle tesi di base del partito, la tardiva posizione di controtesi che fin dall’inizio dell’impostazione programmatica erano scartate all’unanimità senza protesta o riserva di nessuno, e il riaffiorare del personalismo, della mania di fare «vera opera politica», di valutare i problemi di partito come rapporti di persone e di gruppetti, di risolverli non con formulazioni di principio e di metodo ma con ridicole «garanzie» che dati ometti si prestino, si promettano o si insidiino.

Il piccolo movimento che ispira queste pagine ha condotto un lavoro poco chiassoso, ma non per questo meno notevole, ormai per lo spazio di otto anni, tendendo da un lato a ripresentare tutto il programma con coerenza unità ed organicità tra testo e testo, lavoro e lavoro, in maniera che della affrontata costruzione le varie strutture siano inseparabili, e quindi tutte da prendere o tutte da lasciare – e dall’altro lato sottraendosi ad ogni paternità personale grazie ad una incessante, ostinata dimostrazione che nulla è stato non solo improvvisato ma nemmeno scoperto, e che si sono soltanto fermamente ricalcate le classiche linee della sinistra marxista, ossia del solo marxismo, e della difesa che forze di varie generazioni e di tutti i paesi fecero contro le tre successive storiche inondazioni opportuniste, che debellarono tre Internazionali.

Orbene, è strano che tardivi critici, dopo tante e così ribattute ripetizioni, non si siano accorti di avere accettato tesi per otto anni, che poi, caduti in uno smarrimento curioso, vengono d’emblée a ripudiare. Se questo è accaduto, strano non è che venga da una specie di tendenza che – vecchia, vecchissima solfa – ha il dada degli uomini, della volontà degli uomini, dell’azione e dell’attivismo degli uomini… Questi, con iniziale piccola o grande, si vorrebbero dimostrare come necessari strumenti del moto rivoluzionario, in realtà è il secondo che piacerebbe asservire a piccole emozioni e soddisfazioni epidermiche dei primi.

Prima ancora che i gruppi italiani del Sud e del Nord potessero comunicare, e quindi fin dal 1944, fu apportato un testo o Piattaforma della Sinistra che servì poi di comune base. Tale testo diviso in capitoli apparve in vari numeri di Prometeo più tardi, tra il 1946 e il 1947. Il primo numero della rivista, del luglio 1946, nel Tracciato di impostazione ribadiva gli stessi concetti. Infine nel n. 3 dell’ottobre 1946 trovò posto un Supplemento alla Piattaforma, ancora in pubblicazione per capitoli, scritto in fine del '45 dopo la pace e al primo delinearsi del conflitto tra sovietici ed occidentali. Punti, che oggi avrebbero sollevato dubbi teoretici, erano fin da allora e senza obiezioni solidamente e ripetutamente stabiliti: ciò basta per stabilire che gli elementi sbandati di oggi usano il lavoro di principio in modo artificiale, ed una ennesima volta danno esempio del metodo deteriore: fare scempio delle direttive teoriche e programmatiche per la sopravvenuta impazienza di provvedere a… politique d’abord!

Prenderemo il punto del cosiddetto indifferentismo rispetto al nuovo eventuale conflitto imperialista, che vuol vietare di prevedere diversi effetti dalle diverse alternative della guerra, che si ostina a fermarsi ad una bruta identificazione di tutti i «capitalismi» eguali tra loro sotto tutti i climi, che grida allo scandalo se si richiamano le notissime tesi marxiste, engelsiane, leniniste, sul diverso peso storico e sociale delle guerre nei vari periodi e nei vari continenti. In fondo un nuovo banalissimo «serratismo» come quello – battuto in breccia vigorosa dalla Sinistra italiana pur dove dissentiva da Lenin sulla tattica – con cui vennero rifiutate da dure meningi di vecchi militanti le tesi nazionali, coloniali, agrarie della Terza Internazionale. Strano poi che questi serratisti rinati e neo-semplicisti assertori del volgare dualismo che tutto riduce alla cantilena: operaio contro padrone, si rifanno alle coeve tesi di Lenin proprio e solo dove questi trangugiò il metodo parlamentare in Occidente. Strano e tanto «politico» nevvero?

Orbene costoro non lessero in quel supplemento di Piattaforma (Prometeo n. 3, p. 114) benché preceduto da una presentazione che lo rendeva testo impegnativo a fini dottrinari e pratici, la lunga dimostrazione sulla valutazione marxista delle guerre, contro l’indifferentismo. Chiamato proprio per nome e cognome.

Ma se il pubblico conosceva quel testo nell’ottobre del 1946, nel partito era noto ed accettato, esplicitamente e non tacitamente, un anno prima.

«…Sarà certamente mossa alla impostazione ora delineata (ossia alla doppia critica degli allora incipienti crociatismi, cui si chiamava la classe operaia: quello occidentale contro il totalitarismo e per la libertà, quello orientale per il socialismo sovietico e popolare contro il capitalismo) l’accusa di dogmatico apriorismo, di cieco indifferentismo alle multiformi possibilità di sviluppo della realtà storica».

«Adottate talune formule fisse: ‹Lotta di classe›, ‹Intransigenza›, ‹Neutralità›, i comunisti di sinistra, senza prendersi la briga di compiere l’analisi delle situazioni nel tormentoso loro divenire, concluderebbero sempre per una sterile e negativa indifferenza teorica e pratica tra le strapotenti forze in conflitto».

«Ô mai possibile a marxisti, ossia a sostenitori dell’analisi scientifica più spregiudicata e libera da dogmi applicati ai fenomeni sociali e storici, asserire che sia proprio indifferente, per tutto lo svolgersi del processo che condurrà dal regime capitalistico a quello socialista, la vittoria o la sconfitta, ieri degli Imperi Centrali, oggi del nazifascismo, domani della plutocrazia americana, o del totalitarismo pseudo-sovietico? Con questa tesi insinuante l’opportunismo ha sempre iniziate e finora vinte le sue battaglie».

«…Noi affermiamo senz'altro che alle diverse soluzioni non solo delle grandi guerre interessanti tutto il mondo, ma di qualunque guerra, anche più limitata, hanno corrisposto e corrisponderanno diversissimi effetti sui rapporti delle forze sociali, in campi limitati e nel mondo intero, e sulle possibilità di sviluppo dell’azione di classe. Di ciò hanno mostrato applicazioni ai più diversi momenti storici Marx, Engels e Lenin, e nella elaborazione della Piattaforma del nostro movimento se ne deve dare continua applicazione e dimostrazione».

Poteva sfuggire una così recisa posizione? Evitiamo di riportare la lunga seguente pagina che svolge dialetticamente la dimostrazione che questi diversi effetti delle guerre vanno previsti, ma nella fase storica presente e nella Europa progredita capitalisticamente ogni coalizione bellica da parte dei partiti proletari è tradimento.

Lo stesso svolgimento è richiamato nel Tracciato di impostazione (Prometeo n. 1, pp. 11 e 14) e nella prima Piattaforma (n.6, p. 265) ove è chiaramente svolta la utilità della ipotesi di vittoria di Hitler. Evitiamo le citazioni.

Chi avesse conosciuto questi testi sapeva che essi – organicamente, ripetiamo, sicché decentemente si può tutto respingere, ma mai una parte sola – conducevano parallela la dimostrazione di queste conclusioni: 1) Lo scioglimento delle guerre tra Stati influisce in modi diversissimi sulla lotta di classe sociale. 2) I marxisti respingono ogni definizione di «guerra ideologica» ossia di spiegazione della guerra come deliberata crociata per fini di principio e di idee generali. 3) Oggi (oggi vuol dire, nei paesi sviluppati, dal 1871) mai i comunisti possono e devono appoggiare uno Stato in guerra.

Successive esposizioni e studi, in Prometeo e nei Fili del Tempo, hanno ribadite queste posizioni limpide seppure complesse con esaurienti richiami storici e citazioni che confermano le vedute della scuola marxista nei detti sensi e nelle varie svolte. Ma da quei primi testi si dichiara come Marx – e ne vedremo altri passi veramente suggestivi – tifava per qualcuno in tutte le guerre della sua vita, e come la Prima Internazionale valutò dialetticamente in due sensi la guerra del 1870.

I serratisti, se tutto questo non digerivano, dovevano dirlo a tempo. Dire ora che uscire dall’indifferentismo più equilibrato significa favorire uno dei due gruppi, che enunciare la tesi già allora scritta della tanto attesa catastrofe per l’Inghilterra di ieri, l’America di oggi, vale una conversione allo stalinismo, che cosa è, se non bassa politica nel senso Nenni? Quella largamente citata Piattaforma finisce con queste parole (1945): «Parola di azione semplice e chiara: né un uomo né un soldo per nessuno dei due». E tale conclusione di prassi si fonda proprio su quei tre detti pilastri di principio.

Estenderemo la dimostrazione analoga ad altri punti di finto dissenso: tendenza della Russia, capitalismo di stato, appoggio alla nascita rivoluzionaria del capitalismo nelle prime fasi storiche, e simili…

Siamo dunque in presenza di un fenomeno che, in grande o in piccolo, abbiamo tante volte visto: prima si schierano quei birilletti che sono gli Uomini nell’infinito loro ridicolo, e nella loro spassosa presunzione «attivista» e «influenzista», che conferma a fondo il determinismo poiché quanto gioca non è che un fisiologico prurito irresistibile. Poi si entra nel recinto dei principii e vi si agita la sconcia scure della confusione, rovinando il lavoro di anni ed anni. E le tesi si scelgono non in coerenza a quanto altra volta si disse, si ratificò e si diffuse, ma secondo la (facilissima ad ogni fesso) previsione sull’effetto in giro. Quante volte Marx ed Engels hanno amaramente ammonito quanto sia immancabile l’effettaccio di quelle: Meno teoria! Più azione! Più coraggio! Più battaglia! Meno calcoli sulle forze nemiche, indegne di veri eroi che ad ogni momento sono intenti a «passare alla storia»!

Tanto ciò è vero che in tutti questi casi, ai fini dello svolgimento di una stessa pratica manovra, si cambia più volte l’armamentario di principio, e si lanciano più tipi di improvvisate professioni di fede. L’uomo politico nato, sempre travolto nel fuoco dell’azione, pericoloso quanto un Nenni, legge e scrive distratto, e le tira fuori come gli viene.

Talvolta gli si rimproverano le espressioni in altre lingue non tradotte. Sarà così per il titolo del presente Filo? Traduciamolo allora: politica da bordello!


Source: «Battaglia Comunista», N.15, 4–17 settembre 1952

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