In Italia abbiamo una vecchia esperienza delle «catastrofi che si abbattono sul paese» ed abbiamo una certa specializzazione nel «montarle». Terremoti, eruzioni vulcaniche, inondazioni, nubifragi, epidemie… Indiscutibilmente gli effetti sono sensibili soprattutto sui popoli ad alta densità e più poveri, e se cataclismi spesso più terrificanti assai dei nostri si abbattono su tutti gli angoli della terra, non sempre tali sfavorevoli condizioni sociali coincidono con quelle geografiche e geologiche. Ma ogni popolo ed ogni paese ha le sue delizie: tifoni, siccità, maremoti, carestie, onde di caldo e di gelo ignote a noi del «giardino d’Europa»; e aprendo il giornale se ne trova immancabilmente più di una notizia, dalle Filippine alle Ande, dalla calotta glaciale ai deserti africani.
Il nostro capitalismo, come cento volte detto, poco importante quantitativamente, ma all’avanguardia non da oggi, in senso «qualitativo», della borghese civiltà, di cui offrì i più grandi precursori tra lo splendere del Rinascimento, ha sviluppato in modo maestro l’economia della sciagura.
Noi non ci sogniamo di spremere una lagrimuccia se i monsoni spiantano intere città sulle coste dell’Oceano Indiano, e se le sommerge nel raz de marée, il mare scatenato, da terremoti subacquei, ma per il Polesine abbiamo saputo fare arrivare elemosine da tutto il mondo.
La nostra monarchia era gloriosa per sapere accorrere non dove si danzava (Pordenone) ma dove si moriva di colera (Napoli), o sulle rovine di Reggio e Messina rase al suolo dalle scosse sismiche del 1908. Oggi il nostro pezzettino di Presidente lo hanno portato in Sardegna e, se gli stalinisti non han detto balle, gli hanno fatte vedere squadre in azione di «lavoratori di Pot&eumkin» che poi correvano all’altra bocca di scenario, come fanno i guerrieri dell’Aida. Dalle acque del Po esondato non si faceva a tempo a trarre i profughi, ma ben vi si ponevano a mollo stival-gommati deputati deputatesse e ministri, dopo aver predisposto macchine da presa e microfoni per la pitoccata mondiale in grande stile. Qui abbiamo la formula geniale: interviene lo Stato! E la stiamo applicando da buoni novant’anni. Il sinistrato italico di professione al posto della grazia di Dio e della mano della Provvidenza ha posto il contributo statale, ed è convinto che il bilancio nazionale ha limiti più vasti della misericordia del Signore. Un buon italiano spende con gioia diecimila lire spremute dalle sue tasche per arrivare dopo mesi e mesi a «mangiarsi mille lire del governo». E non appena in una di queste contingenze periodiche, che oggi si chiamano con termine di moda emergenze, ma che affiorano ad ogni novella stagione, si innestano le immancabili misure e provvidenze del potere centrale, una banda di non meno specializzati «sinistristi», rimboccatesi le maniche, si tuffa nella ruffianeria delle pratiche e nell’orgia degli appalti.
Con autorità, il ministro delle Finanze di turno, oggi Vanoni, sospende ogni altra funzione dello Stato e dichiara che non darà un soldo di finanza per tutte le altre «leggi speciali», perché tutti i mezzi vanno convogliati nei provvedimenti per la sciagura di attualità.
Miglior prova non si potrebbe avere che lo Stato non serve a nulla e che se la mano di Dio ci fosse, farebbe un vero regalo ai sinistrati di tutti i tipi terremotando o bancarottando questo Stato ciarlatano e dilettante.
Ma se la scempiaggine del piccolo e medio borghese rifulge al massimo quando cerca rimedio al terrore che lo gela nella tepida speranza del sussidio e dell’indennizzo largitogli dal governo, non meno insensata appare la reazione dei capoccia delle masse lavoratrici che nel disastro, essi gridano, hanno tutto perduto, e purtroppo non le loro catene.
Questi capi che si pretendono «marxisti» hanno, in queste congiunture supreme, che spezzano nel proletariato il benessere derivante dal normale sfruttamento capitalistico, una formula economica più scema ancora di quella dell’intervento di Stato. La formula è ben nota: paghino i ricchi!
Vanoni viene allora vituperato perché non ha saputo scoprire e tassare gli alti redditi.
Ma un briciolo solo di marxismo basta a stabilire come gli alti redditi allignano dove avvengono le alte distruzione, e su esse si innestano i grandi affari. La borghesia si paghi la guerra! dissero nel 1919 quei falsi pastori anziché invitare il proletariato ad abbatterla. La italica borghesia è sempre lì, e con entusiasmo investe i suoi redditi nel pagarsi guerre ed altri flagelli, che glieli riportano quadruplicati.
Quando la catastrofe distrugge abitazioni coltivazioni e fabbriche e piomba nella inattività popolazioni lavoratrici, essa indubbiamente distrugge una ricchezza. Ma non è possibile rimediarvi con un prelievo sulla ricchezza altrove esistente, come con la miserabile operazione di razzolare in giro pastrani vecchi, quando la propaganda, raccolta e trasporto costano assai più del valore del logoro indumento.
Quella ricchezza sparita era accumulo di lavoro passato, secolare. Per eliminare l’effetto della catastrofe occorre una massa enorme di lavoro attuale, vivente. Se quindi della ricchezza diamo la definizione non astratta, ma concreta e sociale, essa ci appare come il diritto in certi individui formanti la classe dominante di prelevare sul lavoro vivo e contemporaneo. Nella nuova mobilitazione di lavoro si formeranno nuovi redditi e nuova ricchezza privilegiata; e l’economia capitalista non offre nessun mezzo di «spostare» ricchezza altrove accumulata per sanare il vuoto fatto in quella sarda o veneta, come non si potrebbe pigliar pari pari gli argini del Tevere per ristabilire quelli inghiottiti dal Po.
Ecco perché è una cretinata l’idea di fare un prelievo patrimoniale contro i titolari di campi e case e officine intatti, per ripristinare quelli sconvolti.
Centro del capitalismo non è la titolarità su tali immobili, ma un tipo di economia che consente prelievo e profitto su quanto in cicli incessanti crea il lavoro dell’uomo, e subordina a quel prelievo l’impiego di questo lavoro.
Così l’idea di rimediare alla crisi edilizia di guerra col blocco dei redditi dei proprietari di case non distrutte, ha condotto la dotazione di abitazioni a condizioni peggiori di quelle determinate dai bombardamenti. Ma i demagoghi urlano, con facile argomento, e dicendo cose «accessibili alle masse lavoratrici», perché non si tocchi il blocco.
Base dell’analisi economica marxista è la distinzione tra lavoro morto e lavoro vivente. Noi definiamo il capitalismo non come titolarità sui cumuli di lavoro passato cristallizzato, ma come diritto di sottrazione dal lavoro vivo ed attivo. Ecco perché l’economia presente non può condurre ad una buona soluzione che realizzi, col minimo di sforzo di lavoro attuale, la razionale conservazione di quanto ci ha trasmesso il lavoro passato, e le basi migliori per l’effetto del lavoro futuro. Alla economia borghese interessa la frenesia del ritmo di lavoro contemporaneo, ed essa favorisce la distruzione di masse tuttora utili di lavoro passato, fregandosene dei posteri.
Marx spiega che le economie antiche, fondate più sui valori di uso che sul valore di scambio, non avevano quanto la presente necessità di estorcere sopralavoro, e ricorda che era solo una eccezione ai fini della estrazione dell’oro e dell’argento (non per nulla dalla moneta nacque il capitalismo) il sottoporre il lavoratore allo sforzo fino alla morte, come in Diodoro Siculo.
La fame di sopralavoro («Capitale» VIII, 2: Il capitale famelico di sopralavoro) non solo conduce ad estorcere ai vivi tanta forza di lavoro da abbreviarne l’esistenza, ma rende un buon affare la distruzione di lavoro morto, al fine di sostituirne i prodotti ancora utili con altro lavoro vivo. Come Maramaldo, il capitalismo, oppressore dei vivi, è omicida anche dei morti:
«Appena popoli la cui produzione si muove nelle forme inferiori del lavoro degli schiavi, della corvée ecc., vengono attratti in un mercato internazionale dominato dal modo di produzione capitalistico, il quale fa evolvere a interesse preponderante la vendita dei loro prodotti all’estero, allora sull’orrore barbarico della schiavitù, della servitù della gleba, ecc. s’innesta l’orrore civilizzato del sovraccarico di lavoro». Il titolo originale del citato paragrafo è: «Der Heisshunger nach Mehrarbeit», letteralmente: «la fame ardente di sopralavoro».
La fame di sopralavoro del capitalismo pargoletto, definita dalla potenza della nostra dottrina, contiene già tutta l’analisi della moderna fase di capitalismo cresciuto a dismisura: la feroce fame di catastrofe e di rovina.
Lungi dall’essere una nostra trovata (all’inferno i trovieri, soprattutto quando stonano perfino nel fare «doremifa», e si credono creatori) la distinzione tra lavoro morto e vivo sta nella basilare distinzione di capitale costante e capitale variabile. Tutti gli oggetti prodotti dal lavoro, che non vanno al diretto consumo ma sono impiegati in altra lavorazione (oggi dicono beni strumentali) formano il capitale costante.
«Col loro ingresso in nuovi processi lavorativi in qualità di mezzi di produzione, i prodotti perdono il carattere di prodotti e funzionano ormai soltanto come fattori oggettivi del lavoro vivente». Ciò vale per le materie prime principali ed accessorie, le macchine ed ogni altro impianto che progressivamente si logora: la perdita del logorio che va compensata chiede al capitalista di investire altra quota, sempre di capitale costante, che l’economia corrente chiama di ammortamento. Ammortizzare velocemente, è l’ideale supremo di questa economia necroforica.
Ricordammo, a proposito del «diavolo in corpo», come in Marx il capitale ha la funzione demoniaca di incorporare lavoro vivente nel lavoro morto, diventato cosa. Che gioia che gli argini del Po non siano immortali, e vi si possa oggi allegramente «incorporare lavoro vivente»! Progetti e capitolati sono stati approntati in pochi giorni! Ma bravi: avete il diavolo in corpo.
«Commendatore, l’ufficio progetti della nostra Impresa si è fatto un dovere di predisporre studi tecnici ed economici: le sottopongo la pappa già bella e cucinata».
E i sassi di Monselice sono stimati, nell’analisi dei prezzi, più del marmo di Carrara:
«Conservare valore aggiungendo valore è una dote di natura della forza lavoro in atto, del lavoro vivente; dote di natura che non costa niente all’operaio, ma frutta molto al capitalista: gli frutta la conservazione del valore capitale esistente».
Questo capitale semplicemente «conservato», grazie sempre all’opera del lavoro vivente, è chiamato da Marx parte costante del capitale, o capitale costante. Ma:
«la parte del capitale convertita [vulgo: investita] in forza lavoro [salario] cambia [invece] il proprio valore nel processo di produzione. (…) E produce un’eccedenza, il plusvalore».
La diciamo perciò parte variabile, e semplicemente capitale variabile.
La chiave è tutta qui. La economia borghese mette il guadagno in rapporto al capitale costante, che sta lì e non si muove: anzi che andrebbe al diavolo se l’opera del lavoratore non lo «conservasse». L’economia marxista mette all’opposto il profitto in rapporto al solo capitale variabile e dimostra come il lavoro attivo proletario: a) conserva il capitale costante (lavoro morto); b) esalta il capitale variabile (lavoro vivo). Questa esaltazione, il plusvalore, è l’imprenditore che se la becca.
Questo, spiega Marx, di stabilire il saggio senza tener conto del capitale costante, equivale a porre lo stesso uguale a zero: operazione corrente nell’analisi matematica di tutte le questioni in cui giocano grandezze variabili.
Posto il capitale costante nullo, resta in piedi il giganteggiare del profitto capitalistico. Dire questo, è lo stesso che dire che resta il profitto di intrapresa, se l’incomodo di custodire il capitale costante è tolto al capitalista.
Questa ipotesi non è che la odierna realtà del capitalismo di stato.
Passare il capitale allo Stato, significa porre il capitale costante uguale a zero. Nulla muta nel rapporto tra imprenditore ed operaio perché questo dipende solo dalle grandezze capitale variabile e plusvalore.
Analisi del capitalismo di Stato cosa nuova? Senza prosopopea, siamo in grado di servirla quale la sappiamo dal 1867 e da prima. È brevissima: c = 0.
Non lasceremo Marx senza dare, dopo la fredda formuletta, un passo ardente:
«Il capitale è lavoro morto, che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia». Il capitale moderno, avendo bisogno di consumatori perché ha bisogno di produrre sempre di più, ha tutto l’interesse ad inutilizzare al più presto possibile i prodotti del lavoro morto per imporne la rinnovazione con lavoro vivo, il solo dal quale «succhia» profitti. Ecco perché va a nozze quando la guerra viene, ed ecco perché si è così bene allenato alla prassi della catastrofe. In America la produzione di automobili è formidabile, ma tutte o quasi le famiglie hanno la macchina: si arriverebbe all’esaurimento delle richieste. Ed allora conviene che le automobili durino poco. Per ottenere tanto, prima di tutto si costruiscono male e con serie di pezzi abborracciate. Se gli utenti si rompono più spesso l’osso del collo importa poco: si perde un cliente, ma vi è una macchina di più da sostituire. Poi si fa ricorso alla moda, col largo sussidio cretinizzante della propaganda pubblicitaria, per cui tutti vorrebbero avere l’ultimo modello, come le donne che si vergognano se portano un vestito, magari intatto, «dell’anno scorso». I fessi abboccano, e non importa se ha più vita una Ford costruita nel 1920 che una vettura nuova di trinca 1951. Ed infine le macchine disusate non si utilizzano nemmeno come ferraccio, e si gettano nei cimiteri delle automobili. Chi osasse prenderne una dicendo: la avete buttata via come cosa senza valore, che c’è di male se me la aggiusto e vado in giro? riceve una schioppettata ed una condanna penale.
Per sfruttare lavoro vivo il capitale deve annientare lavoro morto tuttora utile. Amando suggere sangue caldo e giovane, uccide i cadaveri.
Così mentre la manutenzione dell’argine del Po per dieci chilometri esige lavoro umano, poniamo, per un milione all’anno, è più conveniente al capitalismo rifarlo tutto spendendo un miliardo. Altrimenti gli toccherebbe aspettare mill’anni. Ciò vuol forse dire che il governo nero ha sabotato gli argini del Po? No di certo. Vuol dire che nessuno ha fatto pressioni perché stanziasse il misero annuo milioncino, e questo non si è speso perché ingoiato nei finanziamenti di altre «opere grandiose», di «nuova costruzione», che preventivavano miliardi. Ora che il diavolo ha portato via l’argine, si trova qualcuno che, con ottimi motivi di sacrosanto interesse nazionale, attiva l’ufficio progetti, e lo rifà.
A chi la colpa di far preferire i grandiosi investimenti? Ai neri, e ai rossastri. Gli uni e gli altri cianciano che vogliono una politica produttivistica e di pieno impiego. Ora il produttivismo, creatura prediletta di don Benito, consiste nel mettere su cicli «attuali» di lavoro vivo, su cui l’alta impresa e l’alta speculazione fanno miliardi. E allora aggiorniamo a spese di Pantalone le macchine invecchiate degli alti industriali, e aggiorniamo anche gli argini dei fiumi dopo averli lasciati sfondare. La storia di questi ultimi anni di gestione amministrativa dei lavori di stato, e della protezione all’industria, è piena di questi capolavori, che vanno dai rifornimenti di materie prime rivenduti sotto costo ai lavori «a regia» consistenti nella «lotta contro la disoccupazione» a base di «capitale costante uguale a zero». In parole povere, spendiamo tutto in salari, e l’impresa non avendo altra attrezzatura che un badile per uomo, convince il commendatore come sia utile un movimento di terra; prima la si porta tutta da qui a lì; e subito dopo la si riporta da lì a qui.
Se il commendatore esitasse, l’impresa ha sottomano l’organizzatore sindacale: una dimostrazione dei braccianti, badile in spalla, sotto le finestre del ministero, e ci siamo. Viene il troviero e supera Marx: i badili, solo capitale costante, han figliato plusvalore.
Indubbiamente le proporzioni del disastro lungo il Po sono state imponenti, e le valutazioni dei danni sono crescenti. Ammettiamo che la superficie coltivata italiana ha perduto 100 mila ettari ossia 1000 chilometri quadrati, all’incirca un trecentesimo del totale, un 3 per mille. Centomila abitanti hanno dovuto lasciare tale sede, non la più addensata d’Italia, ossia in cifra tonda un cinquecentesimo della popolazione, il 2 per mille.
Se l’economia borghese non fosse pazza, si potrebbe fare un conticino banale. Il patrimonio nazionale ha subito un grave colpo, comunque nella zona non è che in parte distrutto, ad acque ritirate: in sostanza la terra agraria è rimasta e la decomposizione di sostanze vegetali, con l’apporto di melma, in parte compensa la fertilità perduta. Se il danno è un terzo del capitale totale, esso vale l’uno per mille del capitale nazionale. Ma questo ha un «reddito» medio del 5 per cento ossia del 50 per mille. Se per un anno ogni italiano risparmia appena un cinquantesimo del suo consumo, il vuoto è colmato.
Ma la società borghese tutto è, fuori che una cooperativa, anche se gli alti filibustieri del capitale indigeno sfuggono Vanoni dimostrando che le «carature» della loro azienda le hanno distribuite tra tutti i dipendenti.
Tutte le operazioni produttivistiche della economia italiana e internazionale sono dal più al meno tanto distruttivistiche quanto lo sconvolgimento padano: l’acqua entra da una parte e scappa dall’altra.
Un tale problema è insuperabile in campo capitalistico. Se si trattasse del piano di fare in un anno le armi per dare ad Eisenhower le sue cento divisioni, la soluzione si trova. Sono tutte operazioni a ciclo breve ed il capitalismo va a nozze se la commessa di diecimila cannoni ha il termine di cento giorni e non di mille. Non per nulla c’è il pool dell’acciaio!
Ma il pool dell’organizzazione idrogeologica e sismologica non si può fare, a meno che l’alta scienza del tempo borghese non riesca davvero a provocare in serie, come i bombardamenti, anche le alluvioni e i terremoti.
Qui si tratta di lenta e non accelerabile trasmissione secolare, di generazione in generazione, di risultati di lavoro «morto» ma tutelatore dei viventi, della loro vita e del loro minore sacrificio.
Ammesso ad esempio che dal Polesine l’acqua vada via in pochi mesi e si chiuda prima di primavera la falla di Occhiobello, si tratterà di un solo ciclo annuo di raccolto perduto: qualunque «investimento» produttivo non potrà rifarlo, ma la perdita è ridotta.
Se invece si pensa che tutti gli argini del Po e degli altri fiumi potrebbero cadere in difetto frequentemente, tanto per le conseguenze della trascurata manutenzione di un trentennio di crisi, quanto per il disastroso disboschimento in montagna, allora il rimedio riesce ancora più lento. Nessun capitale verrà ad investirsi per la bella faccia dei nostri pronipoti.
Invano scrissero i nostri babbi: Non restano che pochi saggi di foresta vergine, che vegeta senza intervento del lavoro umano. Il sistema forestale diventa quindi pressoché androfisico[1], malgrado il minimo capitale di esercizio. Tuttavia il bosco di alto fusto, il più importante nei riguardi della pubblica economia, esige sempre lunghissima attesa prima di dar prodotti apprezzabili. Sebbene la scienza forestale abbia mostrato che l’anno per il più utile taglio non è quello della massima longevità della essenza, ma quello in cui l’accrescimento corrente equivale l’accrescimento medio, bisogna sempre contare ad esempio in una foresta di querce su 80, 100 e anche 150 anni di attesa. Capitale minimo; attesa a vederlo rendere 150 anni! Di Vittorio e Pastore scaraventerebbero il libro, se mai l’avessero aperto, dalla finestra.
Come nell’operetta: rubar, rubar, il Capital (l’amor) non sa aspettar…!
Vi è di peggio. Relativamente poco si è parlato del disastro in Sardegna, Calabria e Sicilia. Qui il dato geografico è radicalmente diverso.
Nella Valle padana la scarsissima pendenza ha determinato il ristagno delle acque, impantanate su terre argillose e impermeabili nel fondo. Nel Meridione e nelle Isole, per le stesse cause di forte precipitazione e di disboscamento in monte, è stata la enorme pendenza con cui la costa scende sul mare a causare la rovina, e i torrenti in poche ore hanno strappato dall’ossatura rocciosa sabbie e ghiaie, distrutto campi e case, pur facendo poche vittime.
Non solo irreparabile è il saccheggio operato dai liberatori alleati nelle magnifiche foreste dell’Aspromonte e della Sila, ma qui il ripristino dei terreni percorsi dall’alluvione è praticamente impossibile; non solo antieconomico ai fini degli «investitori» e dei, «soccorritori» (più pelosi dei primi, se pensabile).
La poca terra vegetale non solo, ma i radi strati non rocciosi che le facevano da labile supporto sono stati asportati; terra che molte volte in lunghi decenni era stata portata su, cosa incredibile, dal miserrimo coltivatore. Ogni piantagione, anche arborea, è venuta giù colla terra; e galleggiavano sulle acque del mare gli alberi di aranci e limoni divelti, alimento di una coltura e di una industria in certi paesi assai redditizie.
Il nuovo impianto di un vigneto distrutto può farsi entro due anni, ma di un agrumeto non si arriva alla piena resa in frutto che dopo 7 o 10 anni: i capitali di impianto e di esercizio sono fortissimi. Naturalmente non troveremo nei buoni trattati il costo dell’opera impensabile di portare di nuovo la terra sciolta a centinaia di metri di quota; e le acque la riporterebbero via prima che le radici delle piante l’avessero fissata al sottosuolo.
Nemmeno le case si possono ricostruire dove erano: per ragioni tecniche e non economiche. Cinque o sei disgraziati paesi della costa ionica della provincia di Reggio Calabria non saranno più ricostruiti nell’antica sede in collina, ma sulle marine.
Nei secoli di mezzo e dopo che le devastazioni avevano fatte sparire anche le tracce delle magnifiche città costiere della Magna Grecia, all’apice della coltura e dell’arte nel mondo antico, le misere popolazioni agricole si salvarono dalle incursioni di pirati saraceni abitando villaggi costruiti su picchi di monte, poco accessibili e meglio difendibili.
Venuto il governo «piemontese» fece lungo il litorale strade e ferrovie, e dove la malaria non lo vietava, per la prossimità tra monte e spiaggia, ogni paese ebbe presso la stazione la sua «marina». Si rese così conveniente portar via legname.
Non resteranno domani che le marine, ed in esse si ricostruiranno faticosamente alcuni abitati. A che pro’ d’altra parte il contadino risalirebbe la pendice, ove nulla più può allignare, e gli stessi strati rocciosi denudati e slittanti non consentono di rifare le case? E quei lavoratori, alla marina, che faranno? Oggi essi non possono più emigrare; come i calabresi delle bassure malsane ed i lucani delle «crete maledette», rese sterili dall’ingordo taglio dei boschi che rivestivano il monte e degli alberi che erano disseminati per i pascoli di collina.
Certo che in simili condizioni nessun capitale e nessun governo interverrà, a totale vergogna della indecente ipocrisia con cui si è esaltata la solidarietà nazionale ed internazionale.
Non è un fatto morale o sentimentale che sta alla base di tutto questo, ma la contraddizione tra la dinamica convulsa del supercapitalismo a cui siamo arrivati, e ogni sana esigenza di organizzazione del soggiorno dei gruppi umani sulla terra, in modo da trasmettere utili condizioni di vita nel corso del tempo.
Il «premio Nobel» Bertrand Russell, che pontifica in tono pacato sulla stampa internazionale, denunzia che l’uomo sta troppo saccheggiando le risorse naturali, e già se ne può calcolare l’esaurimento. Riconosce che i grandi poteri fanno una politica assurda e pazza, denunzia le aberrazioni dell’economia individualista, e scherza sull’Irlandese che dice: perché devo pensare ai posteri? hanno essi mai fatto nulla per me?
Il Russell pone tra le aberrazioni, insieme a quelle del mistico fatalismo, quella del comunista affermante: togliamo di mezzo il capitalismo e la questione si risolve. Dopo tanto sfoggio di scienza fisica biologica e sociale, egli non riesce a vedere come un fatto altrettanto fisico l’enorme grado di dispersione di risorse sia naturali che sociali, essenzialmente legato ad un dato tipo di produzione, e pensa che tutto si risolverebbe con un predicozzo morale o un fabiano appello alla saggezza degli uomini in alto e in basso.
Il ripiegamento è pietoso: La scienza diviene impotente davanti ai problemi dell’anima!
Quelli che veramente traversano la strada all’umanità nel fare decisivi passi avanti nell’organizzazione della sua vita non sono davvero i sopraffattori e dominatori che ancora osassero fare vanto della loro volontà di potere; ma è il pullulare dei benefattori slavati e dei lanciatori di piani ERP e di catene della fraternità, come di colombaie della pace.
Passando dalla cosmologia all’economia, Russell fa la critica delle illusioni liberali sul toccasana della concorrenza, e deve ammettere:
«Marx aveva predetto che la libera concorrenza tra capitalisti sarebbe finita nel monopolio, la quale previsione si dimostrò giusta quando Rockefeller stabilì virtualmente per il petrolio un regime monopolistico».
Partito dalla esplosione del sole che ci trasformerà un giorno all’istante in gas (il che darebbe ragione all’Irlandese), Russell finisce miseramente, nel lattemiele:
«Le nazioni che desiderano la prosperità devono cercare più la collaborazione che la concorrenza».
È un caso, signor premio Nobel, per voi che avete scritto trattati di logica e metodologia scientifica, che Marx abbia calcolato l’avvento del monopolio con cinquanta anni buoni di anticipo?
Se quella era buona dialettica, l’opposto della concorrenza è il monopolio, non la collaborazione.
Prendete buona nota che Marx previde anche come scioglimento dell’economia capitalistica, monopolio di classe, non la collaborazione, che con tutti i Truman e gli Stalin di buona volontà siete dedito ad incensare, ma la guerra delle classi.
Com'è venuto Rockefeller, «a da veni Baffone»! Ma non dal Kremlino. Quello, in barba a Marx, sta per rasarsi all’americana.
Notes:
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Nella bozza stampata c’è scritto inavvertitamente «afrodisiaco» invece di «androfisico». (sinistra.net, 2021)[⤒]