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PIENA E ROTTA DELLA CIVILTÀ BORGHESE


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Piena e rotta della civiltà borghese
Ieri
Oggi
Notes
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Sul filo del tempo

Piena e rotta della civiltà borghese

Le inondazioni nella valle del Po e il confuso dibattito sulle loro cause e sulla responsabilità di organizzazioni ed enti che non hanno saputo attuare la difesa, con tutto lo stucchevole reciproco rinfaccio di «speculazioni» sulla sventura, chiamano in causa una delle più diffuse false opinioni comuni a tutti i contendenti: la contemporanea società capitalistica, con il correlativo sviluppo della scienza, della tecnica e della produzione, mette la specie umana nelle condizioni migliori per lottare contro le difficoltà dell’ambiente naturale. Di qui la colpa contingente del governo e del partito A e B nel non saper sfruttare questo magnifico potenziale a disposizione, nelle errate e colpevoli misure amministrative e politiche. Di qui il non meno classico: levati di lì; ci vo’ star io.

Se è vero che il potenziale industriale ed economico del mondo capitalistico è in aumento e non in deflessione, è altrettanto vero che maggiore è la sua virulenza, peggiori sono le condizioni di vita della massa umana di fronte ai cataclismi naturali e storici. A differenza della piena periodica dei fiumi, la piena dell’accumulazione frenetica del capitalismo non ha come prospettiva la «decrescenza» di una curva discendente delle letture all’idrometro, ma la catastrofe della rotta.

Ieri

Stretta è la relazione che corre tra lo svolgimento millenario della tecnica di lavoro dell’uomo, e i rapporti con l’ambiente naturale. L’uomo primitivo, come l’animale, raccoglie e consuma frutti spontanei colla semplice operazione prensile, e come l’animale fugge senza controllo davanti al dirompere del fenomeno naturale che ne minacci la vita. Come la produzione artificiale di prodotti pel consumo, e l’accumulazione di riserve di prodotti stessi e di utensili, lo costringe a fissarsi, così lo costringe a difendersi dalle minacce di meteore e sconvolgimento naturali. Una tale difesa, non diversamente da quella contro altri gruppi concorrenti alla sede migliore, o predatori della accumulata riserva, non può che essere collettiva. Da queste esigenze collettive, come tante volte vedemmo, nasce la divisione in classi e lo sfruttamento da parte dei dominatori.

In Marx, «il modo di produzione capitalistico presuppone il dominio dell’uomo sulla natura»[1]. Esso presuppone anche la guerra della natura contro l’uomo. Una troppo generosa e prodiga natura non sarebbe ambiente favorevole al sorgere del capitalismo:
«Non la fertilità assoluta del suolo, ma la sua differenziazione, la molteplicità dei suoi prodotti naturali, è quel che costituisce la base naturale della divisione sociale del lavoro (…). Nella storia dell’industria la parte più decisiva è rappresentata dalla necessità di controllare socialmente una forza naturale, e quindi di economizzarla, appropriarsela per la prima volta o addomesticarla su larga scala, mediante opere della mano umana. Così la regolazione delle acque in Egitto, Lombardia, Olanda, ecc. oppure in India, Persia, ecc., dove la irrigazione per mezzo di canali artificiali apporta al suolo non soltanto l’acqua indispensabile ma anche, contemporaneamente, con i depositi di fango che l’acqua trascina con sé dalle montagne, il concime minerale. Il segreto della fioritura industriale della Spagna e della Sicilia sotto la dominazione araba fu la canalizzazione.
[In nota]: Una delle basi materiali del potere dello Stato sui piccoli organismi produttivi, non connessi fra loro, era in India la regolamentazione dell’afflusso delle acque. I dominatori maomettani dell’India avevano capito ciò meglio dei loro successori inglesi. Ricorderemo soltanto la carestia del 1866, che costò la vita a più di un milione di indù nel distretto di Orissa, governatorato del Bengala»
.

È ben noto che recentissimo è l’infierire di simili carestie, malgrado l’immane potenziale capitalista mondiale… La lotta contro la natura genera l’industria, e l’uomo vive sui due sacri elementi danteschi: natura ed arte (il terzo è Dio). Il capitalismo genera dall’industria lo sfruttamento dell’uomo. Il borghese non aborrirà da violenza contro Dio, natura ed arte.

L’alto capitalismo modernissimo segna gravi punti di rinculo nella lotta di difesa contro le aggressioni delle forze naturali alla specie umana, e le ragioni ne sono strettamente sociali e di classe, tanto da invertire il vantaggio che deriva dal progresso della scienza teorica ed applicata. Attendiamo pure ad incolparlo di avere esasperata cogli scoppi atomici l’intensità delle precipitazioni meteoriche, o domani «sfottuta» la natura fino a rischiare di rendere inabitabile la terra e la sua atmosfera, e magari di farne scoppiare lo stesso scheletro per avere innescate «reazioni a catena» nei complessi nucleari di tutti gli elementi. Per ora stabiliamo una legge economica e sociale di parallelismo tra la sua maggiore efficienza nello sfruttare il lavoro e la vita degli uomini, e quella sempre minore nella razionale difesa contro l’ambiente naturale, inteso nel senso più vasto.

La crosta terrestre si modifica per processi geologici che l’uomo impara a sempre meglio conoscere e sempre meno attribuire a voleri misteriosi di corrucciate potenze, e che entro dati limiti impara a correggere e controllare. Quando, nella preistoria, la valle del Po era una immensa laguna per cui l’Adriatico lambiva i piedi delle Alpi, i primi abitatori, che evidentemente non avevano la fortuna di poter piatire dalla pelosa carità d’America i «mezzi anfibi», occupavano abitazioni costruite su palafitte sorgenti dall’acqua. Era la civiltà delle «terramare», di cui Venezia è un lontano sviluppo: era troppo semplice per fondarci sopra «affari da ricostruzione» e appalti di fornitura dei legnami! Colla piena la palafitta non crollava: crollano le moderne case di muratura: eppure quali mezzi oggi si avrebbero per costruire case, strade e ferrovie pensili! Essi basterebbero a garantire la incolumità delle popolazioni. Utopia! Il conto economico non torna, mentre torna quello di fare duecento miliardi di opere di riparazione e ricostruzione.

In epoca storica, risalgono nientemeno che agli Etruschi le prime arginature del Po. Da secoli e secoli il processo naturale di degradazione dei fianchi montani e di trasporto in alluvione delle materie sospese nelle acque defluenti aveva formata l’immensa e fertile bassura, e conveniva assicurarvi la permanenza di popoli agricoli. Le successive popolazioni e regimi seguitarono ad elevare alti argini ai fianchi del grande fiume, ma ciò non valse ad impedire immani cataclismi con cui lo stesso mutò il suo corso. È, del quinto secolo il salto del letto del Po presso Guastalla su un nuovo percorso, che era allora quello dell’ultimo tratto dell’Oglio, affluente di sinistra.

Nel tredicesimo secolo, nel tratto verso la foce, il gran fiume abbandona il ramo sud del vasto delta, l’attuale secondario «Po di Volano» e si porta nel letto attuale da Pontelagoscuro al mare. Questi paurosi «salti» avvengono sempre da sud verso nord. Una legge generale vuole attribuire a tutti i fiumi del pianeta tale tendenza allo spostamento verso il polo, per motivi geofisici. Ma per il Po la legge è evidente, per la diversissima natura degli affluenti di sinistra e di destra. I primi vengono dalle Alpi e sono corsi d’acqua limpida, per essersi fermata nei grandi laghi, e per avere le piene massime non in corrispondenza alle piogge torrenziali, quanto alla primaverile fusione dei ghiacciai. Quindi questi affluenti, di massima, non portano torbide e depositi di sabbie sul letto del fiume maestro. Invece da sud, dall’Appennino, i brevi e torrentizi affluenti di destra, con scarti enormi tra l’afflusso di magra e di piena, rovesciano i detriti dell’erosione montana e interrano sul lato destro il letto del Po, che ogni tanto sfugge l’ostacolo e si riversa più a nord.

Non occorre sciovinismo per sapere che da questo problema è nata la scienza dell’idraulica fluviale, che da secoli si pone il problema della utilità e funzione delle arginature, e lo connette con quello della distribuzione in canali delle acque irrigue, e poi della navigazione fluviale. Dopo le opere romane, si ha notizia dei primi canali nella valle del Po dal 1037. Dopo la vittoria di Legnano i milanesi conducono ad Abbiategrasso il Naviglio grande, che nel 1271 era reso navigabile. Sorge con ciò l’agricoltura capitalistica, la prima in Europa, e le grandi opere idrauliche sono eseguite dai poteri statali: dai canali a conche studiati dal genio di Leonardo, che detta anche norme sul regime fluviale, al canale Cavour iniziato nel 1860.

La costruzione degli argini per il contenimento dei fiumi solleva un grande problema: quello dei fiumi pensili. Mentre i fiumi alpini come il Ticino e l’Adda sono in gran parte del corso incassati tra sponde naturali, gli affluenti di destra e il Po da Cremona in poi sono pensili. Ciò vuol dire che il livello dell’acqua, non solo, ma fin del letto del corso d’acqua, sta più in alto delle campagne circostanti. Gli argini impediscono che le stesse siano sommerse, e un canale colatore con andamento parallelo a quello del fiume ne raccoglie le acque locali e le riconduce più a valle nel fiume stesso: sono le grandi bonifiche; e mano mano che queste si avvicinano al mare il deversamento avviene con mezzi meccanici, fino a tenere asciutti comprensori che sono a quota più bassa non solo del fiume, ma del mare stesso. Tutto il Polesine è una immensa bassa: Adria è alta 4 metri sul mare; Rovigo 5; alla loro altezza il letto del Po è più alto, ed ancora più quello dell’Adige. È chiaro che una rotta degli argini trasforma tutta la provincia di Rovigo in un immenso lago.

Un grande dibattito tra gli idraulici fluviali è quello se l’innalzamento del letto di tali fiumi sia progressivo. Lo affermarono idraulici francesi un secolo fa, lo contrastarono i maestri dell’idraulica italiana, e nei congressi oggi ancora se ne discute. Non può tuttavia negarsi che le torbide del fiume col loro deposito allontanano la foce prolungandola in mare, anche se non si fermano sulle ultime tratte del letto del fiume. Per effetto di tale incessante processo non può non diminuire la pendenza del letto e del pelo d’acqua, e per legge idraulica la velocità della corrente a pari portata di deflusso: quindi la necessità di innalzare storicamente gli argini appare indefinita ed inesorabile, e progressiva anche la natura disastrosa delle eventuali rotte.

In questo campo la disponibilità dei mezzi meccanici moderni ha contribuito a diffondere il metodo di sfruttare grandi estensioni di fertilissimo terreno, tenendolo mediante esaurimento continuo all’asciutto. Il rischio degli occupatori e dei lavoratori preoccupa relativamente una economia di profitto, e al danno della possibile distruzione di opere si oppone da un lato la fertilizzazione che segue le invasioni di melma, e dall’altro il fattore economico: fare dei lavori è sempre un affare capitalista.

Nell’evo moderno su tutto il litorale italiano in bassura erano diffuse le classiche bonifiche di colmata: alternativamente le acque dei fiumi erano lasciate dilagare in grandi vasche di deposito il cui livello lentamente si elevava, col doppio vantaggio di non lasciare andare in mare terreno utile e fertile, e di portare estensioni sempre maggiori al sicuro da inondazione e malsania futura. Tale sistema razionale fu trovato troppo lento per le esigenze dell’investimento dei capitali. Altro tendenzioso argomento fu ed è tratto dalla densità della popolazione in continuo aumento, che non consente perdita di terra utile. Sono così state distrutte quasi tutte le bonifiche antiche studiate con pazienti, esatte livellazioni di idraulici del regime austriaco, toscano, borbonico, ecc.

È chiaro che dovendo oggi decidere tra le varie soluzioni radicali dei problemi, non solo si urta alla incapacità del capitalismo di guardare lontano circa la trasmissione di impianti da generazione in generazione, ma si urtano forti interessi locali di produttori agrari e industriali che hanno interesse a non vedere intaccate date zone, e fanno leva sull’attaccamento delle misere popolazioni alle loro inospitali sedi. Da tempo si propugnano soluzioni per creare «diversivi» al Po.

Tale studio è sempre assai difficile per l’incertezza dei risultati rispetto alle previsioni, cosa che dà enorme fastidio in clima affaristico. Una soluzione, verso destra, consiste in un taglio da Pontelagoscuro alle valli o lagune di Comacchio: il relativo canale artificiale ridurrebbe a circa la terza parte la lunghezza di percorso dell’alveo attuale fino al mare. Una tale soluzione urta i grandi investimenti nella bonifica ferrarese, e l’industria dell’allevamento peschereccio, e troverebbe resistenze. Ma non minori ne troverebbero soluzioni che andassero con lunga visione, più conformi – forse – al processo naturale, verso una riunione dei corsi del Po e dell’Adige tra cui si svolge la bassa Polesana, creando nel Talweg di questa, percorsa oggi da una rete di piccoli alvei, un grandissimo collettore, e forse in avvenire ulteriore un diversivo di uno dei due fiumi se non di entrambi.

In tempo borghese un simile studio condurrebbe non ad una ricerca positiva ma a due «politiche», di destra e di sinistra, rispetto al Po, con relativo conflitto di gruppi di speculazione.

Oggi

Si discute se la presente catastrofe, in cui alcuni già vedono il formarsi naturale di una grande palude stabile, e lo spostarsi del letto del Po con totale smembramento dell’argine nord, sia derivata da eccezionale addensarsi di precipitazione piovosa e altro concorso di naturali cause, o da imperizia e colpa di uomini e reggitori. È indiscutibile che il succedersi di guerre e crisi ha determinato per decenni la trascuranza dei servizi difficili di vigilanza tecnica e di manutenzione degli argini, di dragaggio ove occorre degli alvei, ed anche di sistemazione dei bacini montani alti il cui disboscarsi provoca maggiori e più rapide raccolte di acque pluviali nelle piene e maggiori afflussi di materiali in sospensione ai corsi di pianura.

Con l’andazzo che oggi prevale nella scienza e nella organizzazione tecnica ufficiale, è anche difficile raccogliere e confrontare a quelli del passato i dati udometrici (quantità di pioggia caduta nei vari giorni nel bacino che alimenta il fiume) e idrometrici (altezze di acqua agli idrometri, portata massima del corso d’acqua). Uffici e scienziati che si rispettano danno oggi responsi secondo le esigenze politiche e la ragione di Stato, ossia secondo l’effetto che faranno, e le cifre subiscono ammaestramenti di ogni genere. Si può d’altra parte ben credere a quello che dice la corrente di critica, che non si sono nemmeno rifatte le stazioni di osservazione distrutte dalla guerra; ed è anche da credere che l’attuale nostra burocrazia tecnica lavora su vecchie carte che si passa di copia in copia; e si trascinano per i tavoli di personale tecnico dipendente e svogliato; e non aggiorna i rilevamenti e le difficili livellazioni ed operazioni geodetiche di precisione che permettono di collegare i vari dati del fenomeno: essa vive in tutti i campi di carte che rispondono ai crismi delle circolari nel formato e nei colori, ma se ne fregano della fisica realtà. Le cifre date qua e là alla stampa di grande informazione non possono seguirsi: facile dare la colpa ai giornalisti che sanno di tutto e di nulla.

Resta quindi a vedere – e ben lo potrebbero tentare i movimenti che hanno grandi mezzi e grandi basi – se davvero l’intensità delle piogge è stata maggiore di quella di un secolo di osservazioni: è lecito dubitarne. Altrettanto per le letture agli idrometri del massimo livello toccato dalle acque e per i massimi di portata: facile dire che la massima storicamente nota a Pontelagoscuro di 11 mila metri cubi per secondo è salita a 13 mila in questi giorni. Nel 1917 e nel 1926 vi furono, con conseguenze incomparabilmente minori, fortissime piene, sempre in primavera, e a Piacenza passarono fino a 13 800 metri al secondo.

Diamo senza dilungarci per assodato che le precipitazioni non sono state di intensità mai vista e che soprattutto ha determinato il disastro il lungo difetto dei necessari servizi e la omissione di opere di manutenzione e di miglioramento, in rapporto alle minori somme che l’amministrazione pubblica ha destinato a tali scopi ed al modo con cui sono state impiegate, rispetto al passato.

Si tratta di dare a tali fatti una causa, che deve essere ed è sociale e storica, e che è puerile far risalire a «false manovre» di quelli che stavano o stanno oggi alle leve della macchina statale italiana. E inoltre non è questo solo fenomeno italiano, ma di tutti i paesi: disordine amministrativo, ruberie, imperversare dell’affarismo nelle decisioni della macchina pubblica, sono ormai denunziate dagli stessi conservatori, e in America sono state messe in relazione anche ai pubblici disastri: anche lì città modernissime del Kansas e del Missouri sono state maltrattate incredibilmente dai fiumi mal regolati[2]. Due idee sbagliate stanno alla base di una critica come quella cui abbiamo accennato: una è che la lotta per ritornare dalla dittatura fascista in seno alla borghesia (la dittatura della borghesia vi è sempre stata da quando essa ha conquistato la libertà) alla esteriore democrazia pluripartitica, avesse per obiettivo la migliore amministrazione; laddove era chiaro che doveva condurre ed ha condotto ad una amministrazione peggiore. E questa è colpa comune a tutte le sfumature del grande blocco dei Comitati di liberazione nazionale.

L’altra idea errata è quella di credere che la forma totalitaria di regime capitalistico (di cui il fascismo italiano fu il primo grande saggio) abbia per contenuto uno strapotere della burocrazia statale contro le iniziative autonome di intrapresa e speculazione privata. Quella forma è invece ad un certo stadio una condizione per il sopravvivere del capitalismo e del potere della classe borghese, che nella macchina di Stato concentra forze anti-rivoluzionarie, ma rende la macchina amministrativa più debole e manipolabile dagli interessi speculativi.

Qui occorre uno scorcio della storia della macchina di amministrazione italiana, dal tempo della raggiunta unità nazionale. Essa all’inizio funzionava bene ed aveva forti poteri. Concorrevano tutte le circostanze favorevoli. La giovane borghesia per arrivare al potere e affermare i suoi interessi aveva dovuto passare per una fase eroica ed affrontare sacrifici, sicché gli elementi individuali erano ancora pronti a prodigarsi e meno attratti da immediato lucro non ostensibile alla luce del sole. Le occorreva ulteriore compatto entusiasmo per liquidare le resistenze dei vecchi poteri e delle macchine statali arrugginite delle varie parti in cui il paese era prima politicamente suddiviso.

Non vi era divisione sensibile in partiti, governando il partito unico della rivoluzione liberale (vergine alla data 1860, zoccola a quella 1943), con acquiescenza palese degli stessi pochi repubblicani, e non essendo ancora sorto movimento operaio. Gli imbrogli dovevano cominciare col trasformismo bipartitico del 1876. L’ossatura della burocrazia venuta dal Piemonte, in sostanza al seguito di forze di occupazione militare, godeva di una vera dittatura sugli elementi locali, e gli oppositori autocratici o clericali erano in pratica sotto il peso di leggi eccezionali… in quanto colpevoli di anti-liberalismo. In tali condizioni fu costruita una macchina amministrativa giovane, cosciente ed onesta.

Mano mano che il sistema capitalista si sviluppa in profondità ed estensione, la burocrazia subisce un doppio assalto alla sua incorrotta egemonia. Nel campo economico i grandi imprenditori di opere pubbliche e di settori di produzione assistiti dallo Stato levano la testa. Parallelamente, nel campo politico il diffondersi della corruttela nel costume parlamentare fa sì che ogni giorno i «rappresentanti del popolo» intervengano a premere sulle decisioni dell’ingranaggio esecutivo e di amministrazione generale, che prima funzionava con rigida impersonalità e imparzialità.

Le opere pubbliche che prima erano studiate dai migliori competenti, ingenuamente felici di avere un pane sicuro come funzionari del governo, e del tutto indipendenti nei loro giudizi e pareri, cominciano ad essere imposte dagli esecutori: si tratta dei classici «carrozzoni» che cominciano a circolare. La macchina delle scese statali diventa tanto meno utile alla collettività quanto più onerosa.

Questo processo grandeggia nel tempo giolittiano, e tuttavia la situazione di migliorante prosperità economica fa sì che i danni ne siano meno palesi. Questo sistema, ed è in ciò il capolavoro politico, piano piano invischia il nascente partito dei lavoratori. Appunto in quanto in Italia abbondano le braccia e scarseggia il capitale, si invoca da ogni lato lo Stato datore di lavoro, e il deputato che vuole i voti del collegio industriale od agrario sale le scale dei ministeri alla caccia della panacea: lavori pubblici!

Dopo la prima grande guerra, sebbene «vinta», la borghesia italiana vede troppo spostarsi tutte le rosee condizioni dei tempi eroici, e si ha il fascismo. Il concentrarsi della forza poliziesca dello Stato, insieme al concentrarsi del controllo di quasi tutti i settori dell’economia, permette al tempo stesso di evitare l’esplosione di moti radicali delle masse e di assicurare alla classe abbiente libera manovra speculatrice, a condizione che essa si dia un centro unico di classe, che ne inquadri la politica di governo. Ogni medio e piccolo datore di lavoro viene astretto alle concessioni riformiste invocate in lunga lotta dalle organizzazioni dei lavoratori, che (al solito) si distruggono rubando loro il programma; con tutto ciò, mentre viene favorita l’alta concentrazione capitalista, viene resa pacifica la situazione interna. La forma totalitaria consente al capitale di attuare l’inganno riformista dei decenni precedenti andando incontro alla collaborazione di classe prospettata dai traditori del partito rivoluzionario.

La manovra della macchina statale e la stessa pullulante legislazione speciale sono messe al servizio palese delle iniziative di affari. Da legge tecnica – per tornare verso il nostro assunto di partenza, che trattava di fiumi – che aveva avuto verso il 1865 alcuni effettivi capolavori, diventa un vero scolabrodo di scempiaggini aperto a tutte le manovre, ed il funzionario è ridotto ad una marionetta delle grandi imprese. I servizi idrologici sono proprio tra quelli che fanno a calci con l’ideale della famosa iniziativa privata, Essi esigono impianto unitario e pieno potere: avevano tradizioni rilevantissime. Lo Jacini ebbe a scrivere nel 1857: la ragione civile delle acque trovò in Giandomenico Romagnosi un immortale trattatista. Insomma l’amministrazione e la tecnica borghese avevano anche allora scopi di classe, ma erano una cosa seria: oggi sono una bagatella.

Da qui deriva l’andazzo che ha determinato il degenerare anziché il progredire del sistema delle difese idrauliche nella Valle Padana: da un processo che non riguarda un solo partito né una sola nazione, ma da vicende secolari di un regime di classe.

In parole povere, se una volta la burocrazia – indipendente se non onnipotente – studiava a tavolino i suoi progetti e poi chiamava a gara le «imprese» di pubblici appalti e le astringeva, rifiutando anche le tazze di caffè, ad una rigorosa esecuzione, e quindi in via di massima la scelta delle opere a cui dedicare gli stanziamenti era fatta secondo criteri generali; oggi il rapporto è invertito. Debole e serva, la burocrazia tecnica si fa stendere i progetti dalle imprese stesse e li passa senza quasi guardarli, e le imprese ovviamente scelgono quegli interventi che offrono profitto, e lasciano cadere le delicate opere che comportano impegno grave e spese meno ripetibili.

Non che il fatto morale sia alla base di tutto questo, e nemmeno che di regola il funzionario ceda alla corruzione di alte mance. Egli è che se un funzionario resiste, non solo il suo lavoro diviene dieci volte più pesante, ma gli interessi che egli urta mobilitano a suo danno decisive influenze di partito negli alti cerchi dei ministeri da cui dipende. Una volta progrediva il tecnico più valente, oggi quello più abile a muoversi in questa rete.

Allorché il monopartitismo fascista ha ceduto il posto ad un pluri-partitismo ignoto alla stessa Italia giolittiana, alla perfetta Inghilterra modello di costituzionalismo, e così via (in quanto mai abbiamo avuto dieci partiti dichiaratamente pronti a governare nella costituzione, ma al massimo due o tre) il male si è aggravato. Dovevano colle armate alleate rientrare gli esperti e gli onesti! Quale sciocca attesa dei tanti e tanti: il nuovo cambio della guardia ha dato la peggiore di tutte le guardie, come sugli argini padani.

È assai sintomatico per la diagnosi dell’attuale fase del regime capitalistico che un alto funzionario del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici si sia lasciato andare a dire che i servizi di guardia alle piene hanno defezionato al momento buono: il solo che costituiva lo scopo per cui li si stipendia in permanenza; questo lo stile della moderna burocrazia (per alcuni pretesa nuova classe dominante! Le classi dominanti arrivano con fauci spalancate, ma non con cuore tremante).

Non meno interessante è quanto ha scritto Alberto De Stefani col titolo: «Il governo del Po»[3]. Dopo aver fatto un po’ di storia delle provvidenze relative nel passato, egli cita il parere di scrittori di riviste tecniche:
«Non si insisterà mai abbastanza sulla necessità di reagire al sistema di concentrare l’attività degli uffici esclusivamente o quasi nella progettazione ed esecuzione di grandi opere».

Il de' Stefani non vede la portata radicale di una simile critica, egli deplora che si trascuri la conservazione e manutenzione delle opere esistenti e ci si dia a tracciare i piani di nuove; cita altri passi:
«Si spendono decine di miliardi per effetto degli allagamenti (e domani centinaia) dopo aver sistematicamente lesinati e negati i pochi fondi per le opere di manutenzione e persino per la chiusura delle rotte».

Ciò pare sia accaduto per il Reno. Un economista del calibro di de' Stefani se la cava col dire:
«Noi difettiamo tutti di spirito conservativo per abbondanza di fantasia incontrollata».

È dunque forse un fatto di psicologia nazionale? Mai più; di produzione capitalistica. Il capitale è ormai reso inadatto alla funzione sociale di trasmettere il lavoro dell’attuale generazione alle future e di utilizzare per questa il lavoro delle passate. Esso non vuole appalti di manutenzione, ma giganteschi affari di costruzione: per renderli possibili, non bastando i cataclismi della natura, il capitale crea, per ineluttabile necessità, quelli umani, e fa della ricostruzione postbellica «l’affare del secolo».

Questi concetti vanno applicati alla critica della bassa, demagogica posizione dei partiti cosiddetti operai italiani. Date alla speculazione ed alla impresa capitalistica da investire nelle opere idrauliche i capitali delle commesse per armamenti, ed essa (salvo a mettere in crisi i pseudo rossi nei centri metallurgici, se la cosa si facesse davvero) li userà nello stesso stile; imbrogliando e speculando al mille per cento, e levando il calice al venire, se non della prossima guerra, della prossima inondazione.

Anche il fiume immenso della storia umana ha le sue irresistibili e minacciose piene. Quando l’onda si eleva, essa mugge contro i due argini che la costringono: a destra quello conformista, di conservazione delle forme esistenti e tradizionali; e lungo esso salmodiano in processione preti, pattugliano sbirri e gendarmi, blaterano i maestri e i cantastorie delle menzogne ufficiali e della scolastica di classe.

L’argine di sinistra è quello riformista, e vi si assiepano i «popolari», i mestieranti dell’opportunismo, i parlamentari ed organizzatori progressivi; scambiandosi ingiurie traverso la corrente, entrambi i cortei rivendicano di avere la ricetta perché il fiume possente continui la sua via imbrigliata e forzata.

Ma ai grandi svolti la corrente rompe ogni freno, esce dal suo letto e «salta», come saltò il Po a Guastalla e al Volano, su una direttrice inattesa, travolgendo le due sordide bande nell’onda inarrestabile della rivoluzione eversiva di ogni antica forma arginale, plasmando alla società come alla terra una faccia nuova.

Notes:
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  1. Cfr. K. Marx, «Il Capitale», Einaudi, Torino, 1975, Libro I., cap. 14, p.627. Il brano che segue è a p. 627–628. [⤒]

  2. Le inondazioni avvenute nel giugnio e nel luglio 1951 nel Kansas e nel Missouri causarono decine di morti e numerosi senzatetto. [⤒]

  3. Si tratta, probabilmente, di un articolo apparso sulla stampa quotidiana, dell’economista De Stefani, ministro delle finanze nel 1922–25. [⤒]


Source: «Battaglia Comunista», n.23, 5–19 dicembre 1951

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