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LA CONTRORIVOLUZIONE MAESTRA


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La controrivoluzione maestra
Ieri
Oggi
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Sul filo del tempo

La controrivoluzione maestra

Che la vittoria materiale della rivoluzione proletaria in Russia nell’ottobre 1917 abbia comportato la vittoria critica definitiva del comunismo marxista è verità acquisita.

Che la vittoria, non armata ma sociale, della controrivoluzione in Russia abbia rappresentato una sconfitta anche parziale per il sistema critico marxista, e quindi la situazione storica di oggi, e il parallelo inginocchiarsi del movimento rivoluzionario proletario mondiale comporti una modifica o ricostruzione del marxismo teorico, è un falso assoluto.

Come è una dottrina della rivoluzione così dalla sua prima scrittura il marxismo è una teoria delle controrivoluzioni; come è una previsione della rivoluzione socialista unitaria e mondiale, così è dal primo momento una sicura e non pavida attesa di controrivoluzioni in serie, ripetute, diffuse, incrociate nello spazio e nel tempo.

Abbiamo a disposizione una critica avanti lettera e un controllo storico della rivoluzione e controrivoluzione tedesca del 1848–49; ed abbiamo a disposizione, nel meraviglioso lavoro dei bolscevichi russi, che più che mai presentò la corretta saldatura fra teoria e combattimento, una critica preventiva, soprattutto dal 1905 al 1917, ed un controllo storico delle stesse vicende in Russia. Nulla meglio di questo parallelo serve a mostrare che il metodo di indagine esce identico ed intatto dalle due formidabili prove.

Ieri

Ai propagandisti della rivoluzione socialista alle prime armi, specie nel tempo «statico» che precedeva la guerra del 1914, dava alquanto da pensare il passo del paragrafo finale, tattico, del «Manifesto dei Comunisti» sulla Germania; ciò in quanto i callidi socialisti di destra del tempo, rinunciatari alla prospettiva della rivoluzione violenta e maniaci del bloccardismo con i «partiti di opposizione» non a fini di barricata ma a fini di commedia parlamentare, insinuavano equivoci paralleli tra il tempo (1847) di incompiuta rivoluzione borghese europea, e il tempo di pieno capitalismo in economia e politica ormai totale in Francia, Germania, Italia e via.
«In Germania il partito comunista lotta insieme colla borghesia ogni qualvolta questa prende una posizione rivoluzionaria contro la monarchia assoluta, contro la proprietà fondiaria feudale e contro la piccola borghesia reazionaria».
«Esso però non cessa nemmeno un istante di sviluppare fra gli operai una coscienza quanto più è possibile chiara dell’antagonismo e dell’inimicizia esistenti fra borghesia e proletariato, affinché gli operai tedeschi siano in grado di servirsi subito delle condizioni sociali e politiche che la borghesia deve introdurre insieme col suo dominio, come di altrettante armi contro la borghesia, e affinché dopo la caduta delle classi reazionarie in Germania subito inizi la lotta contro la borghesia stessa».
«Sulla Germania i comunisti rivolgono specialmente la loro attenzione, perché essa compie tale rivoluzione in condizioni di civiltà generale europea più progredite e con un proletariato molto più sviluppato che non avessero l’Inghilterra nel secolo XVII e la Francia nel XVIII; per cui la rivoluzione borghese tedesca non può essere che l’immediato preludio di una rivoluzione proletaria».

È chiaro che da questi periodi risulta una precisa prospettiva: primo: che entro breve tempo sarebbe scoppiata in Germania una lotta della borghesia contro le classi feudali. Si verificò. Secondo: che in questa lotta gli operai avrebbero combattuto con la prima contro le seconde. Anche questo avvenne, nel 1848–49. Terzo: che le classi feudali sarebbero state rovesciate. Non si verificò. Quarto: che il proletariato avrebbe subito rotta l’alleanza e dichiarato guerra alla vincente borghesia. Ovviamente non avvenne nemmeno questo.

Mentre si scriveva il «Manifesto», per l’Inghilterra e l’America non si poteva parlare di insurrezioni antifeudali: in Inghilterra era fatto compiuto dal 1682; in America non vi era mai stato feudalesimo. Il paragrafo tattico rinvia alla seconda parte del «Manifesto», dove è detto che in tali condizioni i comunisti non si distinguono dai partiti operai in generale, in quanto si presumeva allora che ogni partito operaio avesse questi scopi: organizzazione del proletariato in partito di classe, distruzione del dominio borghese, conquista della forza politica da parte del proletariato. Si è potuto dai revisionasti sostenere a lungo che per Inghilterra ed America la rivoluzione socialista si sarebbe risparmiata insurrezione e dittatura, vincendo con mezzi pacifici: altra volta mostrammo che Lenin distrugge tale valutazione col fatto constatato che anche in quei paesi sorge burocrazia di stato ed esercito permanente: vedremo subito che questo è uno dei corsi di insegnamento che la politica antirivoluzionaria del capitale ci impartisce; e al «fascismo» nei paesi detti ci saremo presto (e per grazia di Dio).

Il «Manifesto» e gli altri scritti marxisti, se già parlano di rivoluzione mondiale, mostrano a quel tempo di spezzare il problema della avanzante rivoluzione in questi tre blocchi: Inghilterra ed America Europa continentale – Russia ed Oriente.

Nel 1848 la rivoluzione fu vinta, ma fu europea. Se nel 1793–1815 la capitalista Inghilterra aveva alimentata l’antirivoluzione, nel 1848–49 la feudale Russia fece prestiti decisivi alle monarchie reazionarie del centro-Europa, e spinse truppe in Ungheria.

Nella Francia, seguendo l’ordine sopra detto per la Germania, e sulla scorta dello scritto di Marx sulle «Lotte di classe» (gennaio-marzo 1850; allora, nota Engels, egli e Marx credevano ad un ritorno immediato del moto rivoluzionario europeo, dall’autunno 1850 riconoscono che vi è tempo da attendere, «poiché una nuova rivoluzione non è possibile che in seguito ad una nuova crisi; ma questa è altrettanto certa come quella») – nella Francia, diciamo, la prospettiva si tradusse in modo diverso. Primo: scoppiò la lotta della borghesia contro gli ultimi avanzi reazionari e la monarchia. Secondo: il proletariato lottò a fianco dei borghesi nel febbraio 1848. Terzo: la borghesia con l’aiuto proletario vinse pienamente. Quarto: il proletariato tentò di buttare giù subito la borghesia vincitrice;
«al posto delle sue rivendicazioni, esagerate nella forma, nel contenuto meschine e persino ancora borghesi, e che esso voleva strappare come concessioni alla repubblica di febbraio, subentrò l’ardita parola di lotta rivoluzionaria: Abbattimento della borghesia. Dittatura della classe operaia
Dunque uno stadio più avanti rispetto alla prospettiva tedesca. Ma l’insurrezione operaia è stritolata. Il sangue scorre sul pavé tante volte glorioso delle vie di Parigi. La vincitrice democratica repubblica massacra tremila prigionieri inermi. Marx trae le lezioni di questa tremenda vittoria della controrivoluzione.
«Mentre il proletariato faceva della sua bara la culla della repubblica borghese, costringeva questa a presentarsi nella sua forma genuina, come lo Stato in cui scopo riconosciuto è di perpetrare il dominio del capitale, la schiavitù del lavoro».

Marx è lieto che la repubblica quarantottesca si stringa in lega alle monarchie della Santa Alleanza.
«L’Europa ha preso un aspetto tale che ogni nuovo sollevamento proletario in Francia dovrà coincidere in modo diretto con una guerra mondiale. La nuova rivoluzione francese sarà costretta ad abbandonare immediatamente il terreno nazionale e a conquistare il terreno europeo, nel quale soltanto la rivoluzione sociale del secolo XIX può attuarsi».

Ecco la possente lezione che il rivoluzionario Carlo Marx prende dalla controrivoluzione del giugno '48, e che, alla grande scala storica, è una profezia autentica, ribadita dalle Comuni 1871 e 1917; anche se seguite, la prima, da una gloriosa disfatta armi alla mano, la seconda da un ripiegamento vergognoso nella consegna nazionale; fuori dal terreno europeo, peggio, fuori dal terreno mondiale, sul quale unicamente potrà svolgersi la rivoluzione sociale del secolo ventesimo.

Perché qui è che Marx conclude.
«Solo con la disfatta di giugno dunque sono state create le condizioni, entro le quali la Francia può prendere l’iniziativa della rivoluzione europea. Solo immergendosi nel sangue degli insorti di giugno il tricolore è diventato la bandiera della rivoluzione europea – la bandiera rossa».
«E il nostro grido è: la rivoluzione è morta! Viva la rivoluzione!».

Quanto alla Germania il bilancio di due anni di lotte è fatto da Marx e da Engels in collaborazione in una serie di articoli per la «New York Tribune» scritti da Londra, e da cui attingiamo spesso passi di rilievo, nel 1851 e 1852.

Il titolo è «Rivoluzione e controrivoluzione in Germania», ma si tratta sempre dell’Europa. I marxisti non hanno affari nazionali. Leggiamo la prima battuta:
«Il primo atto del dramma rivoluzionario sul continente europeo è finito. Le potenze di ieri, di prima dell’uragano del 1848, sono di nuovo le potenze di oggi…».

Dunque controrivoluzione trionfante.
«È difficile immaginarsi una disfatta più decisiva di quella subita su tutti i punti del fronte dal partito rivoluzionario – o meglio dai partiti rivoluzionari – sul continente. Ma che cosa significa questo? La lotta della borghesia britannica per la sua supremazia sociale e politica non ha forse abbracciato quarantotto anni, quella della borghesia francese quarant’anni di lotte senza esempio? […]
Se dunque siamo stati battuti non ci resta altro da fare che ricominciare da capo (il pronome noi, tanto più che è morto Voronoff, alla scala dei secoli non è evidentemente usato in senso personale). E fortunatamente (caramba! fortunatamente; e come, in politica la sola fortuna non è il successo e il potere?) l’intervallo di calma, probabilmente molto breve, che ci è concesso tra la fine del primo e l’inizio del secondo atto del movimento, ci lascia il tempo di fare un lavoro assolutamente necessario: lo studio delle cause che resero inevitabili tanto il recente scoppio che la sua sconfitta…«.
In ogni epoca si è circondati di impazienti, e di seni pieni di Achilli, per cui la storia non ammette «entractes», e il lavoro di partito è un’altra cosa, piena di «giallo» e di attivismo inesausto…

Lo studio segue, nell’operetta di cui si tratta, dopo un avvertimento sulla necessità di indagare le cause generali e non la solita storiella
«che è stato il cittadino tale o tal altro che ha tradito il popolo».

Gli autori aggiungono:
«come sono misere le prospettive di un partito politico il cui bagaglio si riduce alla conoscenza del solo fatto che il capo tale o tal altro non è degno di fiducia!»

Un simile avvenimento deve valere per la controrivoluzione russa contemporanea. Leone Trotzky, di cui citeremo contributi al problema storico veramente grandi, cadde troppo nell’errore di dare tutta la colpa al cittadino Stalin.
«Nessun uomo sensato crederà che undici uomini abbiano rovinato in tre mesi trentasei milioni di abitanti».
Era il governo provvisorio francese: mettete i numeri al loro posto, e si tratterà della famigerata «clique staliniana».

Nessun uomo, che non sia fesso al grado del Maggiore Attlee, dirà che un farabutto (Hitler) ha provocata la Seconda Guerra Mondiale.

Non siamo in pena né per la Gran Bretagna di oggi, né per il mondo del 1939, ma per quel povero battaglione…

L’analisi dei due maestri del comunismo segue diritta, in forma pacata, anche se in certa terminologia risente del giornale e del pubblico non rivoluzionario cui gli scritti sono destinati. Valutate tutte le forze sociali in gioco e tutte le vicende delle lotte in Berlino, in Vienna, negli Stati minori, è veramente importante il processo fatto alla bassa politica dei borghesi e democratici tedeschi, alla loro cecità e viltà.

Ma a noi interessa la spiegazione della strategia del proletariato. Non solo essa collima colle tesi da noi sostenute, ma arriva ad una formulazione che per la sua tremenda dialettica sorprenderà molti.
«Gli operai parteciparono a questa insurrezione come avrebbero partecipato a ogni altra insurrezione che promettesse loro di rimuovere alcuni degli ostacoli alla loro marcia verso il dominio politico e la rivoluzione sociale, o almeno di costringere le classi più influenti, ma meno coraggiose, della società, a seguire una condotta più decisa e rivoluzionaria… In ogni caso la classe operaia si sforzava di portare le cose a una crisi nella quale, o la nazione fosse lanciata in modo aperto e irresistibile sulla via della rivoluzione, oppure fosse restaurata per quanto possibile la situazione di prima della rivoluzione, in modo che una nuova rivoluzione diventasse inevitabile».

Dunque le prospettive che abbiamo precedentemente indicate sulla scorta del passo del «Manifesto» (pure essendo chiaro che sono le nostre spiegazioni che devono adattarsi alla storia, e non la storia che deve adattarsi ai nostri desiderii) nella autorevolissima espressione marx-engelsiana, vanno così graduate, in un paese in cui la classe feudale sia ancora al potere.

Primo: che lo scoppio della rivoluzione borghese dia immediato adito, colla sua vittoria, ad una rivoluzione del proletariato contro la borghesia, teoria svolta anche dalla circolare della Lega dei Comunisti del marzo 1850, colle parole: il grido di battaglia dei lavoratori sarà: la Rivoluzione in permanenza! – e che Trotzky svolse per la Russia come teoria della rivoluzione permanente.

Secondo: che in caso di disfatta rivoluzionaria anche la borghesia sia sconfitta con gli operai, e resti al potere la reazione feudale.

Terzo (ipotesi peggiore di tutte): che la vittoria della borghesia sulla reazione sia seguita non dalla rivoluzione proletaria ma dal consolidamento stabile del potere borghese, come in Francia nel giugno dopo la repressione dell’insurrezione operaia.

Il motivo che fa preferire la seconda alla terza soluzione, non è solo quello che non può augurarsi lo stritolamento capitalista degli insorti lavoratori, come a Parigi nel '48 e '71, e nemmeno l’adattamento imbelle dei proletari alla vittoria borghese: ma anche che, permanendo un doppio contrasto di forze produttive contro l’impalcatura giuridica e politica, sarà più prossimo lo scoppio di un nuovo movimento, col ciclo completo di rivoluzione permanente, e con il diffondersi delle ripercussioni internazionali.

Ed infatti, essendosi oramai nella più parte delle nazioni consolidate le forme del potere della borghesia, mentre le barricate parigine avevano fatto levare nel 1848 quelle di Berlino, Vienna, Milano, Budapest, Varsavia e così via, non fu altrettanto per quelle del 1871, e nemmeno lo fu per quelle di Pietrogrado 1917.

Dato quindi il bilancio controrivoluzionario, ciò che maggiormente preoccupa Marx ed Engels è il formarsi di una situazione «democratica» e «pacifista» che non avvii il proletariato alla lotta di classe, e il timore che, come dice la circolare della Lega,
«gli operai non si facciano infinocchiare dalle ipocrite frasi democratiche, perché rinunzino alla organizzazione indipendente del partito proletario».

Nessuno stupore dunque che per la vinta borghesia tedesca vi sia rampogna, ma non rimpianto, e nessuno che, quando le forme «liberali» cedono alla «dittatura» bonapartista, Marx se ne rallegri. È Trotzky, ancora, che citerà il classico passo della «talpa».

Da tutto ciò sorge quanto fu insensato, e come doveva chiaramente condurre allo sfacelo rivoluzionario, l’atteggiamento tattico della Internazionale di Mosca nella fase delle dittature di Mussolini e di Hitler: ostruire le gallerie che la vecchia talpa rivoluzionaria aveva scavate, e dare la stupida consegna: «blocco per la libertà».

Vogliamo ancora fare una citazione, per mostrare come anche prima in Marx ed Engels (che nel 1844 in collaborazione scrivono la tipica polemica contro Bruno Bauer, con riserva «dei loro posteriori personali scritti positivi») era chiara quella valutazione dell’utile concentrarsi delle forze e dei poteri palesemente armati nello Stato, come dello svergognarsi della truccatura di rossetto liberale sulle labbra sporche di sangue della classe borghese. Tra il brillio di sarcasmi e di giochi di parole che travolgono il disgraziato Bauer, degno precursore di tutti i successivi interpreti individualisti, libertaristi o… esistenzialisti del socialismo, si vede già chiara la costruzione della dottrina. Bauer esalta Robespierre e vede in Napoleone il tiranno che uccise la libertà. Marx ed Engels, anticipando le future demolizioni delle sciocchezze sul cesarismo nella società moderna (di cui si sono poi consumate vere orgie per Guglielmo, per Benito, per Adolfo… e per Peppino) preferiscono a Robespierre, Napoleone.
«Ciò che, il 18 brumaio, è diventato la preda di Napoleone non è stato, come crede la critica […] il movimento rivoluzionario in generale, è stata la borghesia liberale […]. Napoleone è stato l’ultima lotta del terrorismo rivoluzionario contro la società civile, proclamata anche questa dalla rivoluzione, e contro la sua politica. Napoleone possedeva già indubbiamente la conoscenza dell’essenza dello Stato moderno; sapeva che questo Stato poggia, come sul suo fondamento, sullo sviluppo non ostacolato della società civile, sul movimento libero degli interessi privati [e quindi non sulla eguaglianza di tutti i cittadini] […]. Egli ha perfezionato il terrorismo mettendo al posto della rivoluzione permanente la guerra permanente».

Un commento di questo passo sarebbe assai istruttivo, mostrando come tutto il ciclo (terrore, commedia liberale, superstatalismo) si ripete più volte nel corso borghese: nella Francia, da Marx tanto studiata, tre o quattro volte finora… Vi si nota che Napoleone tentò di assoggettare gli interessi privati alla forza di Stato, di monopolizzare il commercio interno…
«Commercianti francesi hanno preparato l’avvenimento che per primo ha scosso la potenza di Napoleone. Speculatori parigini lo hanno costretto, mediante una carestia creata artificialmente, a differire di circa due mesi l’apertura della campagna di Russia e quindi a rimandarla a una stagione troppo avanzata».

La forza del metodo sta nell’avere fermamente antivedute le tappe. La borghesia francese ebbe di fronte ancora una volta, colla restaurazione dei Borboni, la controrivoluzione. Realizzò nel '30 i suoi desideri dell’89… La storia della rivoluzione francese data dal 1789, ma non è neppure compiuta col 1830… E tutto questo è scritto nel 1844!

Oggi

Anche della Russia il «Manifesto» non parlava nel 1848. Nel 1882 Engels scrive nella prefazione alla versione russa: se la rivoluzione russa darà il segnale ad una rivoluzione dei lavoratori in occidente… La Germania è ormai divenuto uno Stato capitalistico in virtù dello sviluppo industriale, per quanto politicamente la borghesia vi sia debole, ma potente il movimento operaio… Resta sempre la visione di uno slancio da prendere da una rivoluzione antifeudale: in Europa solo quella russa restava da compiere.

Il capitalismo come sistema produttivo era apparso anche in Russia, e con esso il moderno proletariato. Ma l’assolutismo era in piena forza. Vale la pena di chiedere alla bellissima sintesi storica di Trotzky la conferma che il capitalismo vi nasce come economia di stato.
«Facendosi strumento storico del processo di capitalizzazione dei rapporti economici della Russia, lo zarismo innanzi tutto rafforzò se stesso. […] L’autocrazia, con l’aiuto della tecnica e del capitale europeo, si trasformava in un grandissimo imprenditore capitalista, in un banchiere e nel proprietario monopolistico delle ferrovie e delle rivendite di vino».

Non furono, come in Europa, né l’artigiano del villaggio e neppure il grosso commerciante a sentire la necessità di creare una forte e vasta industria, fu lo Stato. Da notare che lo scritto è del 1908. L’autore mostra come gli svedesi obbligarono Pietro il grande a costruire una flotta, e poi a riorganizzare l’esercito su basi nuove. Ma per ovviare alla dipendenza delle forniture da inglesi, olandesi, anseatici, lo Zar fondò manifatture nazionali. Solo dopo sorgono le imprese private; a cui il personale è addotto in uno stato di semiservitù. Rimedio:
«tariffe proibitive e politica di sovvenzioni finanziarie ai possidenti!».

Nel 1861 la esigenza di manodopera obbliga il governo a promulgare la parziale emancipazione dei servi terrieri…

Nasce il proletariato, e già prima dei moti del 1905 si pone la questione della sua strategia di classe in Russia. Non mancano i marxisti ammaestrati che propongono di saltar via ogni programma politico e fare solo dell’economismo proletario. Ma la necessità di rovesciare il potere degli Zar è chiarissima sebbene in Russia manchi un vero movimento di liberali borghesi, perché una classe audace, decisa e rivoluzionaria di intraprenditori capitalisti non vi si è mai, in pratica, cristallizzata. Si pone il classico problema dell’alleanza insurrezionale, visto dal marxismo per la Germania: alleanza, ma con chi? Il problema genera un immenso lavoro dei socialisti russi.

Di utilità immensa a questa preparazione – e non lo hanno dimostrato dei libri ben scritti ma la vittoria gigantesca del 1917 – fu il rovescio del 1905, in cui la forza dell’autocrazia, del suo esercito e dei suoi poliziotti strozzò nelle grandi città il sollevamento della massa lavoratrice, mentre la democrazia borghese compariva solo nelle vuote polemiche dei socialisti menscevichi e di destra.

Guardando di scorcio la polemica Trotzky-Lenin tra le due rivoluzioni, va rilevato che entrambi prevedevano con sicurezza il ritorno della rivoluzione, ed entrambi erano sicuri che la borghesia capitalista e la democrazia borghese non ne sarebbero minimamente state protagoniste. Era dunque sicuro che in questa rivoluzione il proletariato non si doveva solo alleare, ma sostituire alla borghesia. Ma allora con quale programma politico e sociale? E con quali altri alleati? La formula di Lenin era
«dittatura democratica del proletariato e dei contadini».
Ciò vuol dire che la classe operaia industriale avrebbe trovato un potente alleato nei contadini della campagna e con essi avrebbe lottato per prendere il potere. Per consegnarlo alla borghesia capitalista? Mai. Per gestirlo a fini di trasformazione capitalistica dell’economia arretrata? Sì, in gran parte, Lenin aveva il coraggio di rispondere. Fin dall’aprile 1917 Lenin, sulla linea della grande battaglia contro i socialtraditori e la guerra imperialista mondiale, sviluppa la sua linea nella formula precisa: dittatura del proletariato; tutto il potere ai Soviet. Alleanza sì coi contadini, ma liquidazione di tutti i partiti «affini» compreso ad un dato momento quello contadino: il socialrivoluzionario.

È anche noto come Trotzky, con un certo grado di ragione, abbia rivendicato di avere dodici anni prima anticipata la formula della dittatura socialista e della rivoluzione internazionale. Comunque su questo punto i bolscevichi convengono, sotto la spinta formidabile di Lenin; il proletariato ed il partito russo assumeranno intera la dittatura, e getteranno tutte le forze sulla bilancia della rivoluzione europea.

Se alla rivoluzione di Ottobre e di Lenin è succeduta una controrivoluzione apparentemente incruenta – non vi sono state invasioni restauratrici dal di fuori, né cambiamenti formali al potere e al governo, ma d’altra parte è storia che una serie di purghe tremende hanno debellato masse di militanti operai e di partito, della corrente radicale – è poco dire che, Lenin malato e impotente dal 1922, e morto poi nel 1924, Stalin ha sfigurata e tradita la rivoluzione.

Lenin, morto prima di essere battuto sui campi della guerra civile, o a sua volta trascinato in una fatale «involuzione», ha vinto teoricamente. Quello che lui volle impedire, ma che aveva preveduto, è avvenuto. Nemmeno la mano di Lenin ferma la storia; forse la sua mente poté un giorno contenerla. E non fu meno giusto che egli gridasse di andare più avanti, come nel 1848 e nel 1871 fu giusto gridare.

Si è verificata la peggiore delle tre eventualità. Non la rivoluzione permanente che voleva la Lega nel 1850, e il generoso Trotzky dal 1903, che arrivasse alla dittatura europea del proletariato: solo risultato che le avrebbe dato il diritto di fermarsi. Non la controrivoluzione armata che schiacciasse insieme borghesi democratici e operai socialisti, rimettendo le cose al punto di prima, al punto del 1905, quando fu chiaro che, parafrasando,
«ogni rivoluzione proletaria russa avrebbe accompagnata una guerra mondiale».
Si è verificato il peggio. I vincoli feudali sono stati spezzati, ma al loro posto è ingigantita la virulenza del capitalismo.

Il proletariato russo ha fatta la rivoluzione, ha tentato con Lenin di farla, per sé, ma alla fine dei conti l’ha fatta per il capitalismo.

Il capitalismo in Russia non ha avuto né fasi eroiche né ebbrezze ideologiche e filosofiche, se non nei circoli di pochi smarriti intellettuali. Come ha accettato di essere tenuto a balia dall’autocrazia, così vive oggi, elefantiaco, e cresce ancora, nella serra di un bonapartismo statolatra e totalitario irto di sbirri e di divisioni.

Solo che mentre il bonapartismo del grande Napoleone era sulla più alta cresta di un’ondata rivoluzionaria, ed era allora la più ardente punta della storia europea, questo russo di oggi è la retroguardia di un esercito non vinto, ma che marcia tuttavia con le spalle rivolte al fronte.

Dalla rivoluzione permanente esso non vuole andare alla guerra permanente! Se forse le ombre di Robespierre e Danton aleggiarono sui campi di Austerlitz; non erano più quelle di Lenin e di Trotzky sulle ridotte di Stalingrado.

Tanto è vero che si leva oggi la consegna capitolarda al proletariato mondiale: pace permanente!

Ma se le controrivoluzioni del secolo scorso insegnarono quanto è consegnato nella storia della Comune, e della rivoluzione soviettista, questa controrivoluzione di oggi non potrà nemmeno essa passare invano; e se avrà portato il capitalismo verso gli Urali e verso i mari del Levante, anche questo segnerà la strada per la rivoluzione proletaria, che batterà dall’Atlantico al Pacifico le forze mostruose del Capitale; sola prospettiva storica che esso debba finalmente, e dopo tanti bestiali ritorni, piegare la testa.


Source: «Battaglia comunista», n. 18 del 1951.

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