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ARMAMENTO ED INVESTIMENTO


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Armamento ed investimento
Ieri
Oggi
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Sul filo del tempo

Armamento ed investimento

La decifrazione del significato del presente periodo storico affatica vanamente la testa di molti, che si credono veterani o volontari del movimento rivoluzionario, e che più o meno involutamente mostrano di pensare questo: le cose vanno in modo inatteso, e non si lasciano porre nelle linee della grande visione marxista, del suo metodo, e delle sue previsioni.

Di qui (più che qualche serio tentativo di demolizione del marxismo in tutta la sua impostazione scientifica, che da nessuna parte si vede tentato, poiché non sono serie offensive le ripetizioni di fedi e sistemi tradizionali, quali erano già in piedi alla nascita del socialismo moderno) tutta una serie di tentativi di completamento, di raddrizzamento, di puntellatura e di incerottatura del marxismo stesso. È una guerra fredda, schifosa assai più di ogni battaglia dichiarata. In questo non vi è un fatto intellettuale o di cultura ma un dato storico; nemici ed amici sono determinati a sentire che, qualunque sia la vicenda contingente, la causa storica della rivoluzione non è perduta.

Di qui una ricerca, vuota in sostanza di dati economici sociali non iscritti nell’analisi marxista classica e nella sua ininterrotta linea dorsale, la enunciazione di una serie di spiegazioni che nulla spiegano, non solo, ma nulla recano di nuovo alla effettiva ricerca e lettura degli eventi. Di qui l’abuso e il cattivo uso di termini come monopolismo, imperialismo, economia diretta, capitalismo di stato, termini che nel sistema marxista stanno al loro posto ma che, come cerotti, non servono a coprire pretesi sbrendoli nel corpus formidabile della nostra secolare dottrina. Di qui la caccia alla terza classe oltre borghesia e proletariato che Marx avrebbe visto soli duellare, al terzo incomodo, alle cerchie burocratiche viste come una novità (!) della storia delle lotte di classe, alle diffamatissime «cricche», «cliques», o «gangs» che la polemica politica crea appena stormisce vento in senso contrario: cosicché, per gli stessissimi apparati di propaganda, ad una certa data passano da esponenti e capi di una magnifica lotta popolare di libertà a volgarissimi e criminali capi di cricche, vuoi i Truman, gli Stalin, vuoi i Ciang Kai-scek, vuoi i Tito, e chi più ne ha più ne metta.

Un nome, un capo, una limitata banda, tutto spiegano: dottrina rispettabile, ma solo dal momento che chi la manipola abbia il fegato di alzarsi a dire: finalmente si è capito che determinismo di interessi economici, lotta di classe e avvicendarsi di classi al potere non contano niente; Marx e chi ci crede non sono che dei fessi.

Perché la scusa che tutto andrebbe bene se quei figuri coi pochi loro giannizzeri non si fossero permessi di agire «da criminali» e di violare le buone regole del gioco politico, è una scusa che non scusa nulla, a meno che, per una seconda volta, non si abbia lo stomaco di passare in giudicato la sentenza: il marxismo era un cumulo di fesserie.

Al posto di tutti questi conati cerotteschi l’esame marxistico di quanto oggi accade sostituisce un accertamento ben semplice: nulla di quello che è dato constatare contraddice la nostra visione della storia, tutto concorre a stabilire un risultato assai chiaro: siamo in un periodo di controrivoluzione. Ora, cadrebbe il marxismo se questo fosse il primo episodio storico di tal natura, se il marxismo non ne avesse conosciuti né studiati e spiegati. Loin de là! La nostra scuola non solo ha conosciuti e trattati a fondo i periodi controrivoluzionari, non solo ha stabilito ad ogni passo che nessuna classe storica è venuta innanzi senza subire controrivoluzioni prima della sua vittoria generale, ma ha detto di più: le controrivoluzioni sono la conferma teorica, la scuola pratica, la garanzia storica della Rivoluzione.

Può pretendere di capire il futuro chi non ha capito ed assimilato il passato? E può mai in nessun momento della lotta mettersi da banda l’esame continuo degli eventi passati come cibo quotidiano per la nostra azione? L’esperienza mostra che più che mai urge ripiegarsi e filotempare. Da allora il socialismo è passato dalla utopia alla scienza. Ora, Radek pensò che, nel 1919, fosse passato dalla scienza alla azione; ma la controrivoluzione non aveva ancora chiuso i suoi corsi scolastici, come a lui e noi pareva. E come deve sempre parere nel periodo rivoluzionario ai buoni rivoluzionari: se è vero in linea di vero marxismo che dall’azione nasce la posizione politica, e dalla posizione politica la nozione teoretica, di cui si avrà un complesso definitivo solo a cose fatte, essendo arrivati a tal risultato dopo una serie di maree storiche che involgono tutto: azione, organizzazione, teoria. Nel periodo controrivoluzionario, come appare evidente, è l’attivismo che per forza di cose decade; è il problema «che fare?» che non dilegua, ma muta di senso; ed è proprio la disperazione rivoluzionaria che, conducendo ad un attivismo surrogato e malato, produce la sostituzione della buona dottrina e del buon metodo con quelli corrotti, e le apologie tante volte sentite di fini ed ideali nemici, al posto dei nostri.

È Trotzky, che partendo da una lettera di Lassalle a Marx, scrive nel 1905:
«Sembrerà forse un paradosso dire che la caratteristica psicologica dell’opportunismo è la sua incapacità di aspettare. Eppure è cosÏ. Nei periodi in cui le forze sociali alleate ed avversarie, col loro antagonismo e le loro mutue reazioni, portano nella politica una piatta calma… l’opportunismo, divorato dalla impazienza, cerca attorno a sé nuove vie, nuovi mezzi… esso si getta avidamente sul letamaio del liberalismo, lo scongiura, lo chiama… esso vuole il successo immediato!».
Per quelli che scemamente leggono un testo secondo la firma, chiederemo se l’autore di queste righe può, compulsato il curriculum vitae, scriversi tra quelli che abbiano «troppo aspettato».

Il colpo d’occhio sulle controrivoluzioni del passato è interessante se prendiamo a soggetto il proletariato. Ma è ancora più interessante se, andando ancora a ritroso, prendiamo a nostro soggetto la stessa borghesia. Poiché il proletariato non ha ancora vinto, ed un contraddittore decente, se vi fosse, potrebbe dirci che non vincerà più, e la storia avanti lettera della sua rivoluzione è stata scritta in falso. Ma è la borghesia che ha vinto dunque; e ha inchiodato nei fatti le promesse della sua ideologia, per incompleta che la nostra critica le mostri alla luce dell’inesorabile ulteriore salto avanti. Ed è indiscutibile il risultato del calcolo sull’importanza enorme dell’apporto che le dettero le tempeste controrivoluzionarie che nei secoli passarono sopra di lei. E nello stesso tempo riandando quelle prime sue imprese, verrà evidente quanto poco di nuovo vi sia in certi aspetti del sistema capitalistico, che oggi molti inquieti ed impazienti pretendono non sufficientemente pesati e noti nella scienza rivoluzionaria proletaria.

Ieri

Perché volle Federico Engels scrivere la «Guerra dei contadini»? Egli lo racconta nella prefazione del 1874, scritta in un periodo di «ripresa», che è di enorme importanza e ci è qui altra volta servita.
«Questo lavoro fu scritto a Londra nel 1850, sotto l’immediata impressione della controrivoluzione». Quella del 1848–49 fu una controrivoluzione a doppio effetto: per la borghesia e per il proletariato. Nel 1850 si sarebbe potuta scrivere dal vincitore la tesi che oggi non si scrive più: il sistema del capitalismo industriale non guadagnerà tutto il mondo, socialmente e politicamente. Naturalmente una tale tesi preoccupava Marx ed Engels perché conteneva implicita l’altra: nemmeno il proletariato vincerà più.

Mentre anche in Inghilterra e in Francia vi erano state restaurazioni e controrivoluzioni, tuttavia la storia rivoluzionaria era ricca e potente di prove contro l’argomentare feudalistico e reazionario. In Germania la rivoluzione borghese si era pietosamente inginocchiata: la borghesia moderna era divenuta vile senza avere passata una fase eroica. Chiaro che un tale aspetto era contro la nostra veduta classista della storia, esso confluiva alla tracotanza e alla fiducia nel loro potere dei Bismarck.

Engels vuole dimostrare che «anche il popolo tedesco ha la sua tradizione rivoluzionaria» e porre in evidenza che le vittorie di Cromwell e di Robespierre sono pareggiate dalla gloriosa disfatta di Tommaso Münzer [Thomas Münzer], capo dei contadini insorti nel 1525 e alleati già allora dei borghesi delle città, che tuttavia anche allora primi rincularono e tradirono, lasciando che le milizie dei signori feudali massacrassero i ribelli. Non si tratta, come sembrò a qualche vuoto polemista, di orgoglio nazionale, ma appunto di riprova di una tesi di valore rivoluzionario internazionale. Il parallelo tra le due rivoluzioni antifeudali del 1525 e del 1848 è di una portata suggestiva. Come gli enciclopedisti precedono la Bastiglia e la Convenzione, cosÏ la rivolta dei contadini oppressi dai baroni ha per suo segnale l’eresia religiosa e la riforma, Hus e Lutero. La scuola marxista sa riscrivere la storia di tali conflitti come guerra tra le classi, molto più che come contrasto su questo o quel dogma, sul teismo e l’ateismo. E a queste lotte Engels collega quelle degli Albigesi in Francia, degli scismi in Boemia e Polonia, di Arnaldo da Brescia in Italia, tutti in sostanza primi conati della nascente borghesia per strappare il potere all’aristocrazia feudale sorretta dalla chiesa di Roma.

Una rivoluzione è l’assalto armato di una classe oppressa per togliere il potere alla classe dominatrice, e noi sappiamo che essa sorge dal prorompere di nuove forze di produzione contro i rapporti antichi. L’assalto talvolta è respinto, talvolta non lo è. Ma non basta alla storia di questi grandi conflitti la cronaca della vicenda militare degli scontri, che pure ne è l’elemento decisivo. L’assalto politico e militare ha vinto o non ha vinto? È una prima domanda. Le nuove forze di produzione tendenti ad un nuovo assetto lo hanno o meno realizzato? Le risposte possono essere discordi, e solo una intuizione piatta e non dialettica del marxismo fa pensare che siano sempre parallele.

Dopo tremendi massacri ed impiccagioni in massa disposte da vescovi e principi, Münzer ventottenne viene preso, torturato e decapitato. In Baviera ed Austria si lotta ancora sanguinosamente fino a che l’ultimo capo ribelle, Gaismair, fuggito a Venezia per spingere la repubblica ad una guerra contro l’Austria, veniva ivi fatto assassinare da un sicario.

Il bilancio sociale della generosa battaglia è di piena disfatta per i contadini, che ricadono senza speranza per tre secoli almeno sotto la servitù della gleba: il nuovo rapporto delle forze vede solo la parte più avanzata della nobiltà piegarsi al dominio centralista dei principi e dell’Impero, in cambio dei riconfermati privilegi feudali.

Anche dopo Robespierre e Cromwell vi furono i patiboli, e i re tornarono; o meglio gli eredi dei re decapitati. Ma nei due casi per le forme feudali di produzione la lotta era finita con la sconfitta: il sistema borghese dilagava: i landlords inglesi dovettero «possedere la terra al modo borghese» e sottoscrivere al prestito consolidato, loro Nume supremo; la Francia vide commercio, industria e banca ingigantire e dominare sotto il re Borbone legittimista e sotto l’Orleanista «re borghese». Battute le rivoluzioni politiche, aveva vinto lo stesso la rivoluzione sociale borghese. Attraverso il 1830, il 1848, il 1871, la borghesia francese prenderà direttamente tutto il potere, come lo tenne la inglese fin da Guglielmo d’Orange, che Marx chiama eroe borghese portato al potere dalla glorious revolution dopo la caduta degli Stuarts: eroe che concedeva terre dello Stato a dame che avevano reso poco puliti servizi d’amore… (1695).

Vogliamo qui tornare un poco più indietro, ai fini dello studio sulle rivoluzioni «retrocesse» dalla storia, citandone una che non sui campi di battaglia, ma dal puro gioco di fattori economici, fu seppellita, e dovette attendere la sua riscossa per secoli e secoli.

Non è un’opinione nuova che la classe borghese fosse al potere nei Comuni italiani del Medio Evo e nelle repubbliche marinare, come d’altronde in epoca successiva in molte città delle Fiandre e in quelle della Lega Anseatica. Ci limitiamo al classico passo con cui nel «Manifesto dei Comunisti» è lapidariamente percorsa la vera apologia, l’autentica epopea della feroce ed ammirata nostra nemica, la borghesia; cui le contemporanee controrivoluzioni antioperaie meritano la scrittura di una seconda apologia, con una seconda dichiarazione di guerra civile. E la dichiarazione verrà alla vigilia del nuovo 1848, in cui davvero i competitori non saranno più in tre, checché dicano i cercatori della terza classe del postcapitalismo!

«Ognuno di questi stadi nello sviluppo della borghesia fu accompagnato da un corrispondente progresso politico di questa classe. Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, associazione armata e autonoma del Comune, quirepubblica municipale indipendente, là terzo stato tributario della monarchia, poi, al tempo della manifattura, contrappeso alla nobiltà nella monarchia a poteri limitati o in quella assoluta, principale fondamento, in generale, delle grandi monarchie, col costituirsi della grande industria e del mercato mondiale, la borghesia si è impadronita finalmente della potestà politica esclusiva nel moderno Stato rappresentativo. Il potere politico dello Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese».

Ci sarebbe troppo poco in questa formula del comitato? Facile vedere che essa intesa storicamente, definisce lo Stato del capitalismo quanto il Capitalismo di stato, in sintesi perfetta.

Se nei Comuni la borghesia aveva raggiunto armamento ed autonomia, ciò vuol dire che essa aveva tutte le prerogative della classe al potere. Mercanti, maestri, artigiani, banchieri degli agglomerati urbani, erano entro dati confini del tutto emancipati da tributi al signore terriero. Ben presto anzi il confine cessò di essere la cinta fabbricata delle mura e i territori delle libere città si toccarono tra loro includendo la campagna. Le repubbliche civiche erano indipendenti nel senso appunto che non ricevevano dall’esterno, da nobili, imperatori o vescovi, alcuna loro magistratura. Benché non mancassero divari e lotte di classe tra popolo grasso e minuto, embrione del moderno proletariato (il garzone di bottega non presta opera contro il suo alimento, ma contro il suo apprendimento di mestiere, e talvolta paga per esso), regna in questa prima fase una piena democrazia, poiché come nelle città antiche (ove però era esclusa dal diritto cittadino la massa degli schiavi) il parlamento consiste nel convegno di tutta la popolazione a deliberare.

Questo primo tipo di Stato borghese ha svariatissime funzioni economiche, poiché regola strettamente tutta la disciplina dei mestieri e degli scambi. Tali forme sono di deciso capitalismo di stato: esse vanno fino ad un aperto monopolio del commercio estero da parte dell’autorità civica.

La cosa riesce espressiva fino a sfiorare tipi di economia collettiva se ci rifacciamo alle repubbliche marinare; e non tanto a quelle che furono veri e propri stati unitari con ampio territorio, come Pisa, Genova e Venezia, quanto alle più antiche a territorio limitatissimo: Salerno, Amalfi…

Questi navigatori abilissimi dell’anno mille allacciarono le relazioni commerciali mediterranee, che poi divennero imponenti grazie alle repubbliche centro settentrionali nei secoli successivi. Nelle crociate le armate occidentali, sotto le mura di Antiochia, di Laodicea, di Gerusalemme o a S. Giovanni d’Acri, malgrado i successi militari avrebbero ceduto per difetto di organizzazione e di logistica senza le flotte di Venezia e Genova che giungevano cariche non solo di armi ma di viveri, di mezzi di opera per l’artiglieria del tempo, e di provetti costruttori e artefici di macchine belliche. Le potenti repubbliche ne trassero trattati di monopolio commerciale in date zone di Oriente.

Anche all’inizio, e anche quando non prendiamo a considerare una grande flotta ma una sola nave veliera, capace tuttavia di traversare i mari aperti, noi constatiamo di trovarci in presenza di un esempio di produzione capitalistica. Se il mezzo di trasporto terrestre in senso stretto, fino alle moderne invenzioni, non è necessariamente costruito ed esercito da lavoratore parcellare, si tratti di animale sellato o di veicolo trainato da animali; la nave non di cabotaggio dal primo momento è una macchina. Lo è anche tecnicamente poiché utilizzare la forza inanimata e naturale del vento è fare uso di energie meccaniche come il calore o l’elettricità che poi saranno applicate. Socialmente le libere repubbliche non usarono, come le civiltà antiche e come la reazione feudale ulteriore, la bruta propulsione dei remi affidati a squadre di schiavi o di galeotti e prigionieri. Occorre per costruire una nave un cantiere con molti operai di varie capacità, con una piena divisione del lavoro tra carpentieri, fabbri, calafati, velai, cordai, ecc. Ed anche per condurre la nave sul mare occorre numeroso equipaggio con specialisti gabbieri, nocchieri, e cosÏ via. Una tale organizzazione non era alla portata di nessun privato: nessun borghese era tanto ricco, le leggi medievali lottavano per vietare al mercante e banchiere ogni arruolamento di operai, il signore terriero non aveva diritto sulla città marittima gelosamente indipendente né avrebbe avuta alcuna tecnica adeguata al costruire e guidare navigli.

Facile arguire che il primo armatore, il primo investitore di capitale nella navigazione fu la Città, la Repubblica: lo Stato, dunque, primo capitalista.

Quando Marx spiega che non vi poteva essere capitalismo nel mondo antico, egli ricorda che ciò non fu perché non vi fosse concentramento di massa monetaria ma perché mancavano le masse di lavoratori liberi. Gli schiavi non lo erano e i cittadini possedevano tutti qualche cosa. Marx ne induce che è falso dire (come Mommsen) che nell’antichità il capitale fosse completamente sviluppato, in quanto solo dallo scambio di salario contro la forza lavoro si formano le masse del capitale; ma non per escludere che limitatamente certi capitali potessero in date quantità trovarsi concentrati. Solo che, se li aveva tesaurizzati un privato, non poteva servirsene ad organizzare la produzione mancando i lavoratori disponibili. Quindi solo lo Stato, colla possibilità di costruzione e coscrizione di tipo militare, poteva in un ambiente o antico-schiavista, o medievale-servile, dare i primi esempi di organizzazione capitalista produttiva: e dare con ciò i primi lontani avvii alla accumulazione capitalista.

I primi ad armare navi furono i Fenici, navigatori e commercianti. Roma sulla strada della sua potenza imperiale stette per cedere quando le sue forze fondate su una produzione solo agraria si misurarono colla «capitalistica» e fenicia Cartagine, padrona dei mari. Dovette darsi alla costruzione di flotte e fu lo Stato che dette al console Duilio i mezzi per organizzare, gli arsenali: uomini, materiali, sussistenze. L’arsenale è il primo tipo di industria, e dunque la prima industria fu statale. Lo Stato armatore corre due millenni avanti lo Stato investitore, che avrebbero scoperto gli economisti della ultimissima edizione del capitalismo.

Tuttavia Duilio aveva schiavi, e li usò per le triremi rostrate. Precursore dei moderni e scettici tecnici, al momento di partire gli dissero che i sacri polli non avevano voluto mangiare: ebbene bevano, disse lanciandoli in mare, e fece salpare le ancore. Nelle navi del lago di Nemi, benché di diporto e non di commercio, si sono trovate ancore col ceppo mobile che gli inglesi hanno brevettate da qualche decennio. Si sono trovati cuscinetti a rulli come quelli in uso da non molto… Noi vi troviamo… il capitalismo di stato.

Torniamo alle nostre repubblichine quasi utopistiche. Indubbiamente il gettito di quel primo investimento capitalistico fu positivo, e le colte e libere cittadine si arricchirono di preziosi monumenti che ancora oggi stupiscono per la larghezza di mezzi costruttivi e decorativi, oltre che per la universalità degli stili, superante la triste austerità delle opere medievali da clero e monarchi, nel retroterra rurale.

La borghesia dunque non solo aveva nelle mani il politico potere con milizie e flotte proprie, ma alle ricchezze di capitale commerciale e bancario privato univa quelle di una prima accumulazione di stato a fini industriali.

Perché non avemmo dunque un’Italia capitalistica, e tutta questa rete di economia e politica borghese decadde? Non in aperta battaglia, non per successo di leghe feudali, di papi o di re o di imperatori: nelle azioni militari i Comuni collegati battono l’impero nella sua fase di maggior potenza: a buon diritto la moderna borghesia italiana, venendo alla riscossa oltre sei secoli dopo, canta la «Canzone di Legnano»: a lancia e spada tuona il Parlamento, a lancia e spada, il Barbarossa, in campo! E, sceso Carlo VIII di Francia, l’inerme borghese Pier Capponi ne raccoglie la sfida e suona le campane di Firenze.

La rivoluzione borghese comunale d’Italia non ha avuto controrivoluzioni politiche e non ha visto riscosse feudali: nulla a ciò toglie che i grandi partiti marxisti italioti di oggi siano ficcati fino ai capelli nella lotta… per cacciare il feudalesimo. Al loro cospetto fu Maramaldo il più puro egli eroi.

La spiegazione si trova proprio in una «diserzione economica delle forze produttive» che portarono su un altro centro di pressione il massimo della loro virulenza. Si trova nelle grandi scoperte geografiche, che fecero passare in seconda e terza linea l’importanza del bacino mediterraneo nel commercio e nell’economia mondiale. L’autonoma armata ed indipendente borghesia dei Comuni italiani cedette senza combattere e senza subire terrore politico a imbelli e poco potenti signorie; sparÏ dalla storia di Europa dopo essere stata a cavallo tra le grandi epoche della libertà comunale, e del Rinascimento delle scienze e delle Arti, e neppure seppe passare la consegna ad una borghesia parte integrante di una gran dinastia nazionale.

Il periodo si presterebbe ad altri raffronti, colle fasi oligarchiche e di regime di polizia in Genova, in Venezia, fino al dominio dello straniero. Veramente cianciano della nostra presente fase da lavapiatti come di secondo Risorgimento italiano, ma per la vera storia fu quello dell’Ottocento già un secondo Risorgimento, una copia stinta di vere glorie antiche.

Tale valutazione è in Marx in tutte lettere. Va ripetuta la nota in chiusura del paragrafo su «L’arcano dell’accumulazione originaria»? Eccola:
«In Italia dove la produzione capitalistica si sviluppa prima che altrove, anche il dissolvimento dei rapporti di servitù della gleba ha luogo prima che altrove. Quivi il servo della gleba viene emancipato prima di essersi assicurato un diritto di usucapione sulla terra. Quindi la sua emancipazione lo trasforma subito in proletario eslege [libero da vincoli di legge], che per di più trova pronti i nuovi padroni nelle città, tramandate nella maggior parte fin dall’età romana. Quando la rivoluzione del mercato mondiale dopo la fine del secolo XV [sic!] distrusse la supremazia commerciale dell’Italia settentrionale, sorse un movimento in direzione opposta. Gli operai delle città furono spinti in massa nelle campagne e vi dettero un impulso mai veduto alla piccola coltura condotta sul tipo dell’orticoltura».

Dunque sparirono i capitalisti e con loro i salariati urbani già apparsi; la situazione sociale regredÏ ad una produzione parcellare nelle campagne e nei centri, lo stesso capitale finanziario emigrò (vedi passo sul prestito di Venezia decadente all’Olanda: vere operazioni di stato di esportazione di capitale). Una controrivoluzione sociale senza controrivoluzione politica.

Oggi

Il suggestivo tema vorrebbe ora la trattazione delle controrivoluzioni fatte dalla borghesia contro il proletariato.

Esse non solo non sono una tappa ignota dello sviluppo del socialismo dall’utero capitalista: sono una serie di tappe tanto prevedute, quanto necessarie, ed istruttive al massimo.

I periodi di controrivoluzione traversati dal proletariato moderno nella sua vita storica di classe sono già stati molti. Solo dopo il riscontro del loro studio da parte delle precedenti generazioni di marxisti, si può parlare del giudizio sul periodo controrivoluzionario attuale; anzi, solo in forza di quei risultati si può prima di tutto affermare e provare che questo periodo, col vanto della Russia rossa, dei massimi partitoni operai filorussi, e di tanta falsa retorica demagogica, è veramente squisito periodo controrivoluzionario.

Se vogliamo, fin dal 1796, con la esecuzione di Babeuf dopo il processo agli Eguali si ha una prima fase di controrivoluzione borghese.

Altro indubbiamente se ne ha dopo i moti economici e politici del 1830.

La ripresa è segnata dal formarsi della Lega dei Comunisti: Engels indica le date 1836–1852.

Viene poi il periodo successivo alle rivoluzioni del 1848–49 e alle lotte in cui il proletariato tenta di superare la borghesia, e da questa viene spietatamente massacrato, fino a che non sorgono le forme bonapartiste deteriori tanto accuratamente studiate da Marx (Francia) ed Engels (Prussia), in cui tuttavia l’avanzata delle forze produttive borghesi continua travolgente.

Nel 1864 colla Prima Internazionale, la classe operaia mondiale si ripone in cammino, fino alla lotta suprema del 1871 e alla sconfitta in guerra civile dei Comunardi.

Segue un periodo ulteriore di controrivoluzione, di leggi eccezionali in Germania, ove sotto regime di polizia l’industrialismo dilaga. Possiamo dire dal 1871 al 1889.

Dal 1889 al 1914; Seconda Internazionale. Intanto viene sulla scena in primo piano la lotta rivoluzionaria in Russia, e perciò Lenin pone la data 1905 come apertura del periodo di lotte.

1914. Crollo nel nazionalismo di quasi tutto il movimento operaio. Nuovo periodo nero e controrivoluzionario.

1919. Terza Internazionale, poggiata sulla Rivoluzione russa del 1917: Nei paesi vinti nella guerra imperiale la rivoluzione ha dilagato. Ma cade in Germania 1919 e in altri paesi di Europa. La vera Terza Internazionale si liquida con il 1928.

Guerra del 1939–1945. Nuovo periodo nero in cui il proletariato è aggiogato al carro imperialista. I paesi vincitori tengono occupato con una impalcatura di ferro ogni territorio conquistato. Ecco il nuovo elemento storico, che impedisce che la guerra sia seguita da un periodo attivo. In Giappone americani, in Germania americani e russi, in Italia da allora potere americano, contro il quale ora inveiscono quelli stessi che, mandatari russi, gli hanno dato le consegne, musica in testa. Immobilizzazione controrivoluzionaria politica, militare e di polizia, dai due lati delle cortine.

Nel quadro di queste vicende di forza, va esaminato lo svolgersi delle forze produttive e della loro organizzazione. Non occorre per spiegarlo immaginare un terzo tipo di «rapporti di produzione» tra quello borghese e quello socialista. Ovunque le forze produttive del capitalismo sono ingrandite, e ovunque forme capitaliste hanno continuato ad imprigionarle, dominando i conflitti. Dove il potere proletario per breve tempo resistette, in Russia, mentre leforme borghesi hanno preso il definitivo slancio contro quelle feudali, e in correlazione hanno in gran parte dell’Asia affermata la loro vittoria sociale, le poche forme proletarie sono decadute e scomparse.

Complessa e difficile che sia questa controrivoluzione del Novecento, non abbisogna di altra risposta che quella del mezzo Ottocento: colle parole di Marx nelle «Lotte di classe in Francia»:
«Chi soccombette in queste disfatte non fu la Rivoluzione. Furono i fronzoli tradizionali prerivoluzionari, risultato di rapporti sociali che non si erano ancora acuiti sino a diventare violenti contrasti di classe, persone, illusioni, idee, progetti, di cui il partito rivoluzionario non si era liberato prima della rivoluzione di febbraio e da cui poteva liberarlo non la vittoria di febbraio ma solamente una serie di sconfitte.
In una parola: il progresso rivoluzionario non si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate, ma, al contrario, facendo sorgere un avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell’insurrezione raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario«
.

E due volte Trotzky in due successivi periodi storici dovette scrivere: la rivoluzione è morta: viva la Rivoluzione!


Source: «Battaglia comunista», n. 17 del 1951.

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