In ciascun paese la polemica politica riflette e ripete, dai due lati di una barricata cartacea, i motivi emanati dai due grandi centri mondiali di influenza statale, militare, poliziesca e di propaganda. Non si tratta di due grandi centrali ideologiche, dei santuari di due grandi opposte credenze religiose della umanità di oggi, ma in buona sostanza di due potenti grancasse, che ai pennaioli dipendenti su tutti i lidi inviano temi, schemi e formule fisse.
Una delle note che questi sonatori orchestratissimi devono ogni tanto toccare è quella della rottura, della crisi, della scissione in campo nemico. Da Mosca ogni tanto sono informatissimi che qualche capitalista fregato, e politicante conformista, sta sul punto di sovvertire nel Congresso di Washington tutti i piani di Truman, e sabotare il colosso americano; da New York hanno bollettini sicuri sulle campagne dei partigiani militanti, in Russia e nei paesi satelliti. In Italia la stampa di opposizione si dà la simpamina colle indiscrezioni sulle crisi interne di tendenza e di metodo nella democrazia cristiana, mentre i ministeriali sono alla caccia di notizie ghiotte sulle rivalità e i cambi di guardia imminenti tra i Grongo e i Lieco, i Terracarri e gli Scoccimini.
Crepe e rogne ce ne sono indubbiamente nell’uno e nell’altro campo, mondiale e paesano; ma non si tratta di una reale indagine ed analisi seria sulla natura e lo sviluppo del movimento nemico, si tratta di far colpo, acquistare prestigio e destar timore, per la via più corta e spiccia; e quindi si creano e manipolano a vuoto le balle da lanciare in circolazione. Sistema ritenuto infallibile da tutti i propagandisti delle categorie in subordine, arrazzati oramai da burocrati: fare quel tanto indispensabile per la paga, non correre le alee che incombono su chi si mettesse ingenuamente a scoprire qualcosa di nuovo e di non schedato.
Una delle risorse che le istruzioni americaniste e libertiste hanno dato la consegna di sfruttare è quella del comunismo dissidente di sinistra, che in contrasto colle direttive degli Stalin e dei Togliatti si affermerebbe sulla parola di: basta con il comunismo che fa il giuoco di una potenza straniera, vogliamo un comunismo libero! Stabilita questa potente fregnaccia in termini del comunismo libero (che vale come dire comunismo borghese, socialismo capitalistico, collettivismo privato) si spiega che sarebbe un comunismo «non denegante la realtà ed i valori nazionali» o addirittura «inquadrato nella disciplina nazionale». Te ne freghi, che libertà! Meglio il confino.
Ora questi italiani – che, se per via legale o violenta gli agenti italiani di Mosca si installassero a Roma al potere, denegherebbero i valori nazionali e si squadrebbero dalla disciplina nazionale – è bene sappiano che l’indirizzo comunista di sinistra in Italia, ossia quello che il partito seguiva quando a Livorno si costituì, ha rotto con lo stalinismo proprio perché questo ha cessato in cento occasioni di «denegare» rivoluzionariamente ogni valore borghese e ogni borghese realtà, di cui la più espressiva e nemica è lo Stato nazionale, e si è con tradimento teorico e pratico «inquadrato» in fronti borghesi; sul piano mondiale e sul piano italiano. Se hanno una certa paura della tenebra, ricorrano ad altri moccoli.
Al tempo della formazione del partito comunista in Italia tra il 1919 e il 1921 le posizioni fondamentali della Terza Internazionale, che accomunavano tutta la massa del partito, erano chiare. Rottura con tutti i capi proletari traditori che nella guerra mondiale avevano affermati i valori nazionali e la difesa della patria e negati i valori classisti e l’internazionalismo proletario. Rottura con tutti i capi proletari semitraditori che, pure accettando a parole la lotta di classe, e negando a parole la collaborazione politica colla borghesia in guerra e in pace, ponevano allo sviluppo dell’azione proletaria limiti legali e democratici, ossia negavano la necessità di passare oltre per fini rivoluzionari e di classe, alla «libertà» di individui e di gruppi che alla rivoluzione traversano la strada, prima durante dopo di essa. E di farlo impiegando non solo la sommossa e la barricata, note alla romantica tradizione borghese, ma anche lo Stato, la polizia, l’esercito, mezzi pure ben noti al cinismo e alla ipocrisia borghese, ma deprecati in nome della libertà, se adoperati a fregarla.
Non solo non ha mai caratterizzata la Sinistra italiana una qualunque esitazione sull’uso di questi mezzi per tema di «eccessi», storicamente scontati come inevitabili, nel livragare la libertà di qualcuno, ma la caratterizzava la massima decisione nel «taglio» da farsi in modo spietato con i falsi socialisti dei due gruppi, nella disinfezione più eroica contro la sifilide nazionale e la sifilide liberale, fattori sterilizzanti ed abortivi del movimento e della rivoluzione proletaria.
La Sinistra italiana, divenuta poi Partito Comunista, si caratterizzava del più reciso disfattismo di guerra: non solo negato appoggio alla borghesia italiana nella sua guerra irredentista democratica e nazionale, ma politica di sabotaggio rivoluzionario della guerra e del dopoguerra, qualunque fosse il nemico schierato contro la patria, qualunque l’impegno ricostruttivo e magari riformatoristico in seno al mondo borghese; per cogliere ogni occasione utile di buttare giù il potere dello Stato e rompere la disciplina nazionale.
Per fare questo si sarebbero con entusiasmo accettati, e in parte si ebbero, dalla Internazionale Comunista, col suo centro nella cittadella rivoluzionaria russa, denaro armi ed armati. Nella dura lotta del dopoguerra fu la borghesia che guadagnò la partita nel rapporto di forze, col solo vantaggio che se ne andava felicemente a picco il luridume della menzogna su una democrazia interclassista. Era una sconfitta strategica con una vittoria «ideologica» (per noi marxisti il termine ideologico si impiega per dire «condizione di un sicuro, o molto probabile, successivo spostamento materiale di rapporti»). Lo stalinismo ha preferito barattare con una vittoria strategica la disastrosa sconfitta ideologica: in effetti ha sommato due sconfitte, già oggi in Italia, dappertutto domani; e tanto più disfattisticamente, quanto più riuscirà a fare ancora combattere proletari sotto la sua bandiera. Ma andiamo con ordine.
Sul principio della dittatura, e sul fine di annientare partiti liberali e di socialdemocrazia, si era tutti d’accordo: sorse il dissenso sulla tattica. Qui ci limitiamo all’enunciato storico dei punti di divergenza.
Prevalse nella Internazionale la tattica di proporre continue alleanze ai gruppi dirigenti di partiti proletari non comunisti. Tale tattica (bassamente degenerata da talune posizioni di Lenin che, senza perdere il nerbo rivoluzionario, risentivano della assimilazione delle esperienze della lotta russa con quelle del proletariato delle insidiose e velenosissime «democrazie» occidentali) consisteva nel ritenere che tali gruppi non avrebbero mai collaborato con noi, bensì colla borghesia; tuttavia per svuotarli del seguito che ancora avevano sulle masse andava bene il metodo del «fronte unico». La sinistra si oppose sostenendo che tale metodo indeboliva soprattutto il partito rivoluzionario e la parte più avanzata della classe operaia.
Dal «fronte unico», alleanza di partiti politici nella piazza, si passò al «governo operaio», vera e propria collaborazione nelle forme istituzionali dello Stato borghese. Da questo punto la sinistra non solo si oppose, ma sostenne che dalla divergenza sulla tattica si passava al baratto di principii, e si lavorava a demolire la preparazione e la fisionomia programmatica del partito deviando dal marxismo: lotta economica è lotta politica – lotta politica è lotta per il potere – lotta per il potere è lotta colle armi – potere rivoluzionario è governo di una sola classe e del solo partito comunista. Ciò finché in tutto il mondo moderno non saranno sparite le divisioni di classe, e con esso gli Stati ed i governi.
Sperimentalmente sosteniamo che l’esperienza ha mostrato tutte le applicazioni di fronti unici e governi operai come finite «a schifio».
Degno e previsto figlio del fronte unico proletario è il blocco democratico del governo operaio; è la collaborazione nel governo parlamentare borghese, che gli stessi socialisti Seconda Internazionale avevano condannata, e superata.
Proprio il partito italiano, dopo che i sinistri lo ebbero abbandonato alle direttive imposte dalla maggioranza di quattro combattuti congressi internazionali, fu il più clamoroso esempio di questo affondamento nelle sabbie mobili dell’opportunismo.
I comunisti ufficiali di faccia al fascismo gridarono: non si tratta di una delle forme del potere borghese, ma di una lesione di sacri principii e diritti della persona umana, e simili; quindi blocco generale di tutti i gruppi antifascisti, lega con essi, guerra partigiana antifascista e antitedesca, formazione nell’Italia, mezza o tutta, conquistata dagli eserciti capitalisti occidentali, di un governo di collaborazione coi borghesi non fascisti; impiego per questa campagna delle parole: Italia, Patria, Nazione, Popolo; inalberamento della bandiera tricolore.
Quale la posizione della Sinistra, se in quell’epoca essa avesse dominato il partito? Chiara a capire. Che il regime borghese sotto Mussolini abbia preso forme di tirannia oppressione e repressione non è motivo di scandalo perché il capitalismo è nella sua sostanza regime di oppressione e di sopraffazione, e non è motivo di blocchi ideologici o politici, né alla opposizione né al governo, né nella insurrezione né nella guerra antitedesca. Quindi rifiuto a intese nella propaganda antifascista, nella formazione di unità insurrezionali, nella costituzione di governi post-mussoliniani, nella esaltazione della pretesa guerra nazionale di «cobelligeranza» coi vincitori.
Nel quadro internazionale non meno recisa è l’antitesi dei due metodi. Inammissibile secondo la politica della Sinistra era la alleanza di guerra con americani, francesi, inglesi. Inammissibile l’impiego come parole di propaganda di guerra, non delle tesi classiste e rivoluzionarie, ma di false e traditrici rivendicazioni, come: abbattimento dei regimi non parlamentari e non democratici per sostituirli con una democrazia interclassista; libertà nazionali; regimi progressisti e riformisti della struttura capitalista; convivenza pacifica tra paesi «comunisti» e paesi a governo borghese parlamentare. Secondo un indirizzo consono a quello della Sinistra italiana la lotta proletaria disfattista della guerra era, in principio, da farsi tanto alle spalle degli eserciti fascisti quanto a quelle degli eserciti democratici; la «resistenza» di popolo doveva essere sostituita dalla azione di classe cui non ponesse remora alcuna la pressione sulla «nazione» di eserciti nemici, pronta ad ogni occasione per ledere e colpire ogni governo e partito borghese, e anche in Russia ogni ritorno borghese.
Oggi vi sono delle scuse con cui si vorrebbero sanare quelle disastrose storiche svolte, come si sanano nella morale borghese i trascorsi di gioventù, dimostrando che anziché impestare per sempre le midolla sono valsi a fare le ossa per la più possente e matura azione.
Per la sinistra queste scuse nemmeno tengono, ed essa prevede facilmente che, se i proletari le prenderanno per buone, saranno altri successi clamorosi per la conservazione capitalistica.
Al fronte unico nell’interguerra si intermezzarono anche fasi di tattica opposta, trattando i socialisti e democratici come fascisti? Scusa invalida, è appunto la labilità e volubilità della tattica che frega il movimento rivoluzionario e toglie ai militanti proletari la capacità di seguire con fermezza una linea storica decisa, consentendo ai capi venduti al nemico di giustificare le loro girate di spalle alle direttive del partito.
L’alleanza con gli occidentali fu preceduta da una intesa con Hitler per spartire la Polonia, ma soprattutto per guadagnare quasi due anni di tempo e prepararne la rovina? Tolto di mezzo lui e Mussolini, adesso, con una nuova applicazione di questa mirabolante strategia del fronte di guerra, sono i successivi alleati che saranno messi a terra? Sventuratamente vi sono alcuni lavoratori che sperano che tanto sia possibile.
Il vero bilancio di questa manovra è la sostituzione totale all’entusiasmo rivoluzionario della classe operaia russa di una volgare infatuazione nazionale e militare che non ha esitato a fare leva su residui razzisti e religiosi. È il conferimento al potenziale imperiale capitalistico di una massa di energia equivalente a quella di diciassette milioni di combattenti sacrificati, oltre l’equivalente di una massa non minore di sforzi di lavoro a fini di guerra. Il presente urto in Corea sta insegnando alla consorteria imperiale di America che la più possente attrezzatura di dollari, macchine, armi, navi, aerei, non esclude ancora la necessità di mandare nella fornace masse viventi di carne umana. L’urgenza ha fatto sì che, non avendo sottomano marocchini italiani polacchi e simili fessi, alcune migliaia di autentici boys, anziché fare gli impiegati i turisti e i dilettanti di guerra, hanno dovuto andare al fuoco. Non si mancherà di provvedere col costituire un corpo di legioni straniere: in questo mondo di affamati dal capitale non mancano i desesperados assoldabili: i reparti di questi successori degli immolati di Stalingrado (uccisi questi gratis e senza paga in dollari, per dovere di alleanza) li potrebbero bene intestare a nomi gloriosi: Franklin, Washington, Lincoln, Jefferson, Wilson, Roosevelt! Staranno nei depositi, pronti per tutte le Coree. Questo potente materiale umano nella guerra passata è stato offerto dai russi alla causa dell’Occidente, non è uno Stato rivoluzionario che ha fatto gioco sul logorio tra le potenze capitalistiche, ma è il nuovo soprastato borghese che ha potuto essere fondato, grazie all’ecatombe russo-tedesca, con una spesa in dollari relativamente bassa in corrispondenza al folle sciupio di carne e sangue umani. Tutto avvalorato con una propaganda travolgente di quattro panzane sulle libertà e le liberazioni, e sul disinteresse dell’intervento yankee, che ha per una generazione intossicato il proletariato mondiale, lo ha svuotato di ogni forza classista, gli ha tolto ogni vigore di iniziativa e ogni possibilità di combattere se non inquadrato bestialmente in una rete militaresca e conformista, dove qualcuno, incontrollato, comanda, paga e spedisce al macello.
Non è quindi una scusa ma una ammissione di aver consumato il tradimento, se oggi si riconosce che il capitalismo di America è sfruttatore aggressore oppressore conquistatore e «fascista». Lo è sempre stato, in nessuna fase della sua lotta la classe proletaria di tutti i paesi doveva dimenticarlo! Questa strategia ad eclissi, questa politica a fasi sfrontatamente rinnegantisi, non è che per gli allocchi una riedizione della storiella degli Orazi e dei Curiazi; questo preteso abilismo tattico non è che la collaborazione alla servitù e alla oppressione delle masse lavoratrici del mondo.
La posizione dei comunisti di sinistra non sarebbe mai dunque la condanna di un proposito di attacco di aggressione di sovvertimento a danno dei regimi vantati come «liberi» e democratici, di reale abbattimento degli Stati capitalistici; bensì la denunzia della impotenza, della indegnità degli stalinisti ad un simile compito, della sempre persistente possibilità per il loro ingranaggio, sotto il solito pretesto di una nuova situazione e di nuovi sviluppi, di aggiogarsi alla servitù al compromesso e al mandato dell’imperialismo oggi rivale.
Ciò che i comunisti di sinistra condannano è la mascheratura dei propositi di guerra, o almeno di ricatto, al soprastato imperialista di Occidente, sotto una propaganda di pacifismo che dovrebbe illudere gli strati semi-borghesi e piccolo-borghesi, e sottrarli (altra vana speranza!) alla suggestione del dollaro e del suo catechismo filantropico e quacquero; mentre ai pochi strati di proletari estremisti si dice, per via interna: ma lo sappiamo benissimo che la libertà, la tolleranza, il patto costituzionale, sono pure balle che mai ci legheranno le mani, lo sappiamo bene che la parola definitiva sarà data alla forza bruta e alla zuffa senza esclusione di colpi! Al momento buono vibreremo i colpi proibiti! Per il momento facciamone fessi più che possiamo.
I comunisti della sinistra non si scandalizzerebbero affatto di mezzi anche peggiori, poiché non muovono da criteri morali. Essi hanno constatato che questi metodi deprecati hanno progressivamente demolito il movimento rivoluzionario e rassodata la solidità del capitalismo.
Ma non si tratta qui di compendiare la critica dello stalinismo, inseparabile da quella della degenerata impalcatura sociale russa, destituita oramai da ogni carattere economico socialista.
Si tratta di stabilire, di fronte alle manovre e alle scempiaggini della propaganda occidentalista, che la Sinistra comunista italiana imputa alla attuale dirigenza del cosiddetto partito comunista proprio una serie di errori che impediscono oggi di portare colpi decisivi al capitalismo nazionale e internazionale, colpi che sarebbero possibili solo schierando il proletariato nostro su un piano di azione autonoma, che, negato e nelle proclamazioni e nei fatti ogni scrupolo e ogni riserva di natura nazionale, consentisse una effettiva azione di rottura dei quadri della disciplina istituzionale, di sabotaggio del potere borghese in Italia, di lotta nell’interesse della rivoluzione mondiale; che non solo passasse sopra ad ogni riguardo per interessi italiani, ma giungesse ad un massimo di efficienza (che allo stalinismo neghiamo), per buttare giù la centrale capitalista del mondo, ossia nella situazione di oggi la centrale del «mondo libero» che si indica con una sola parola: America.
La prospettiva, poi, che si formi un movimento di tutti i comunisti espulsi, titoisti e trotzkisti compresi, contro i comunisti ufficiali, non è meno balorda! Uno dei punti della Sinistra è di rifiutare le fusioni organizzative, e su questo si ruppe con Mosca nel 1922 quando impose di ripescare i «terzini» che, via, dinanzi al materiale odierno erano delle perle. Ai trotzkisti noi rimproveriamo di avere spinto agli estremi quella tattica di pretesa manovra che è stata alla base di tutto il dissolvimento. E i trotzkisti stessi sentono tutta la ripugnanza del caso per i pentiti del tipo di quei sei apostati del Dio fallito. Non conosciamo comunisti espulsi. Vi sono degli stalinisti espulsi che non sono nulla di meglio di quelli tesserati, abbiano scelto la libertà o il dollaro, due monete che presso noi non hanno corso. Noi conosciamo solo dei comunisti schifati. Schifati dei traditori.
Fa comodo alla stampa a grandissima tiratura supporre che il comunismo italiano di sinistra divenga una primeggiante forza politica, per togliere clientela a Togliatti?
La supposizione non ci monta la testa di sicuro, e non rispondiamo: rimpiangerete più tardi il re travicello, mandatovi da Giove.
Sono faccende che, per i marxisti, stanno tanto poco sulle ginocchia di Giove, quanto in tasca al nominativo A o B.
Non abbiamo una rubrica di pubblicità: nome accreditato presso le masse affittasi. Il rapporto con le masse è altro punto in cui la pensiamo a nostro modo, altro dei punti di rottura con Mosca.
Ma la linea Livorno 1921 è storicamente stabilita, attaccata ad un filo sottile quanto si voglia ma lucido e diritto.
Il comunismo della «Sinistra italiana» è dunque tanto «nazionale» quanto quello del partito ufficiale è… comunista.
Ma di essere nazionali e italiani ce ne frega poco a noi, gliene frega ancor meno ai togliattiani e a quelli dei Dollar-Times.
Per costoro ci vuole una messa a punto pratica: il comunismo nostro è più anti-americano di quello di Togliatti; lo è a prova di «nuovi corsi» e di segnali di radio Mosca, che Palmiro, un giorno o l’altro, lo potranno spognare.
Da queste parti non ci sono tirature astronomiche e tanto meno lauti trattamenti; vi è soltanto una grezza, proletaria, «galletta che non si spogna».