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CAPITALISMO E RIFORME


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Capitalismo e riforme
Ieri
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Sul filo del tempo

Capitalismo e riforme

Ieri

Gli stessi riferimenti di Marx nel «Capitale» alla legislazione sociale inglese e degli altri paesi non si trovano soltanto nello sviluppo storico delle fasi della produzione capitalistica, traverso la manifattura il macchinismo e la grande industria, nella sezione Quarta sulla «Produzione del plusvalore relativo», ove si tratta di seguire gli effetti di questi rivolgimenti sul grado di sfruttamento dei salariati. Essi cominciano ancora prima, non appena enunciata la teoria del plusvalore, all’inizio della sezione terza sulla «Produzione del plusvalore assoluto». Non appena imprende a spiegare la ripartizione tra il padrone e l’operaio del valore che questi aggiunge al prodotto, e la presenta in parti proporzionali del valore che questi aggiunge al prodotto stesso, Marx passa ad esporla come parti proporzionali della giornata di lavoro. Subito dopo egli espone la storia delle prime lotte operaie inglesi per la riduzione degli orari di lavoro e trae, fedele al suo metodo, elementi a conforto della sua analisi dal doppio dato storico: periodo in cui la legislazione statale al fine di favorire lo sviluppo del capitalismo nascente influisce nel senso di imporre massimi orari di lavoro (fino ad estremi di esaustione delle umane forze che schiavitù e servitù medioevale ignoravano) – periodo successivo in cui lo Stato prende a legiferare per la riduzione della giornata di lavoro nell’industria; lotte per il classico bill delle dieci ore nel 1844.

Il riferimento storico è infatti decisivo per la dimostrazione della dottrina economica marxista, contrapposta a quella borghese; anzi non si tratta solo di rovesciare i falsi teoremi economici dei difensori del capitalismo privato, ma di smantellare tutta la ideologia giuridica e filosofica che sta alla base del regime borghese e della rivoluzione democratica.

Lo scambio tra merce e merce e tra merce e moneta avviene sul mercato, anche secondo l’economia marxista, tra «equivalenti», e fin qui si potrebbe ammettere che, giuste le vedute dei liberali, degli utilitaristi, dei libero scambisti, sul mercato su fronteggiano due «liberi agenti economici» cui la società e lo Stato hanno assicurato pari diritti (da quando i ceppi medioevali furono infranti) e che lo facciano con utilità di entrambi. Liberi nel pensiero, liberi nel diritto, liberi negli affari; sono gli individui-tipo della società borghese. Ma in tutti questi scambi a pari merito, come mai si forma e si accumula in masse sempre più imponenti il capitale?

Ciò è consentito dalla «libera» vendita di una speciale merce: la forza lavoro umana. È qui che il libero contrattualismo fa cilecca. Bentham e compagnia pretendevano che il lavoratore nell’assumere spontaneamente lavoro e mercede fa un contratto come tutti gli altri, come un «libero agente». Marx chiarì che in questo speciale contratto cessa l’equivalenza dei valori permutati, e che l’uso di questa peculiare merce da parte del padrone gli consente di ricavare una differenza in più. Alla fine di questi noti capitoli, vediamo che il libero cittadino lavoratore, entrato in questo magico circuito, depone la sua fierezza di parità legale e morale con l’altro contraente e lo segue, dimesso e abbattuto, come chi «avendo portato al mercato la propria pelle, non ha altra sorte che essere conciato».

Balziamo alla fine del capitolo sulla giornata di lavoro. Esso conduce a stabilire, in primis, che il capitalismo vittorioso reclama il diritto a comprare sul mercato del lavoro un tempo senza limiti, una forza di lavoro che resti sua proprietà fino al totale esaurimento. Strano contratto tra eguali, in cui per una delle parti la misura della somministrazione è strettamente misurata nella somma di danaro che costituisce il salario mentre per l’altra parte rimane a piacere di chi a comprato.

Lo Stato rivoluzionario borghese in un primo tempo interviene per rendere possibile con la forza questa arbitrale disposizione di tempo, per abituare a questa forma di oppressione gli antichi artigiani contadini e perfino mendicanti, che avevano qualche ora di vita di cui restavano padroni. Classica è la risposta del facchino napoletano sdraiato al sole sulla banchina. Il ricco turista lo chiama; guarda quegli la pesante valigia e marxisticamente risponde, immobile: «signò, aggio magnato!». Borbonismo! Negazione di Dio? Dell’onnipotente dio danaro. Nella civile Albione di certo vige tuttora qualche legge che manderebbe quel facchino in galera…

Se in secondo tempo lo stato borghese è condotto a legiferare in senso del tutto opposti, a mostrare di cedere alle agitazioni operaie in tal senso, a mobilitare tutto un armamentario di frasi filantropiche sulla giustizia sociale la salute del popolo ed altro, tutto ciò dimostra, in sede economica, che il libero gioco delle forze e delle intese spontanee non conduce all’equilibrio ma al conflitto e alla rovina, e conferma che il rapporto tra salariato e industriale sfugge alle regole della contrattazione commerciale e dei rapporti di mercato, Eden della economia borghese.

Questo è noto, ma vi è, fin da Marx, molto di più. Vi è la smentita alle promesse della grande rivoluzione liberale, che pretendeva di aver tutto fatto e tutto realizzato per ottenere un ambiente di pari probabilità di vita per tutti i cittadini, e per instaurare un meccanismo di diritto in cui ogni componente la società può trovare tutele e difesa, nelle due condizioni classiche per l’ideologia liberale: presentarsi da solo e invocare mezzi legalitari. L’insurrezione e le sommosse collettive erano giuste e sane solo fin quando si trattò di abbattere i feudali ed assolutistici ostacoli che sbarravano la via al potere delle classi borghesi:: da quando vi sono carte costituzionali e «leggi uguali per tutti» non se ne deve più parlare. Invece gli operai, passando dalla concorrenza alla azione e organizzazione comune, scendono in piazza per rivoltarsi ai trattamenti più inumani, hanno costretto lo Stato ad intervenire di autorità nei rapporti economici e produttivi e rettificarli. Con ciò non resta solo guadagnato ad esse un poco di tempo e di respiro per prepararsi a ben maggiori compiti storici di lotta, ma viene stabilito che il «sistema» sociale e politico che la borghesia ha creato non garantisce che una parte dei componenti questa società, protegge un dominio di classe, deve storicamente come quelli che lo precedettero essere avversato assalito e rovesciato con mezzi rivoluzionari. Il bill delle dieci ore, prototipo di mille e mille misure di un secolo di «leggi speciali», è modestissima conquista, ma è il suo significato economico e storico che viene a sorreggere l’intera teoria rivoluzionaria. Marx alla fine del citato capitolo, esclama, in un passo famoso, dopo aver esposto come i lavoratori per sfuggire alla morte sociale e fisica dovettero colla pressione di classe elevare un ostacolo legale che impedisse loro di vendersi spontaneamente al capitale: «Il pomposo catalogo dei diritti inalienabili dell’Uomo viene così sostituito da una modesta ‹Magna Carta› che si limita a determinare legalmente la durata di lavoro e finalmente indica in modo chiaro quando finisce il tempo che il lavoratore vende e quando comincia il tempo che gli appartiene». Firmando il modesto bill la borghesia è stata convinta della fallacia e menzogna delle sue «carte» e di quel catalogo che continua a sbandierare ed ampliare quando le occorre sangue proletario, come quando promulga le novissime «libertà» dal timore e dal bisogno…

Questo il punto di arrivo della dimostrazione. Vano attribuire alla «oscurità» di Carlo Marx la secolare confusione fatta dai riformisti, che dove si deve leggere la dimostrazione che tutto il sistema del diritto borghese deve cadere in una battaglia rivoluzionaria, poiché le sue libertà non sono che una moderna forma di schiavitù, dimostrazione magistralmente corroborata dalla storia del bill delle dieci ore e di tutta la legislazione borghese, hanno preteso di leggere che di bill in bill, di riforma in riforma, sposando, come nella recente saragattata, «libertà politica» e «giustizia sociale», si accederà al socialismo. Inutile essere chiari con gli sciagurati che la storia lascia nelle ombre del passato: habent oculos et non vident, habent aures et non audiunt.

Oggi

Piuttosto sbigottito dai riflessi della crisi economica e della disoccupazione, dallo stato endemico, torpido e convulso insieme, delle proteste e dei disordini da parte delle classi povere, troppo fesso per essere assicurato dalla irreparabile degenerazione antirivoluzionaria degli organismi che purtroppo controllano quelle masse, il borghese italiano chiede e vuole riforme che come un velo di olio plachino il maremoto sociale.

La nostra è la più riformista delle borghesia e la nostra amministrazione statale ha tradizioni ininterrotte di dirigismo economico. Una linea coerentissima lega Cavour, Giolitti, Nitti, Mussolini, De Gasperi. Alla conferenza confederale si sono allietati che il «piano» Di Vittorio ha avuto il plauso di Orlando e di Nitti. Diavolo: sopra ad ogni altro avrebbe plaudito ad esso Mussolini. Le porcherie collaborazionista ed anticlassiste che hanno detto sguaiatamente il segretario confederale e gli economisti che ha non si sa dove affittati, erano già dette in forma migliore nel discordo di Dalmine e nella Carta del lavoro.

Strada di gran galoppo il metodo riformista ne ha fatto in Italia, in concrete attuazioni, proprio sotto il duce.

Fino al 1924 almeno, tutta l’Italia sotto Roma era in ritardo sull’ottuagenario bill delle dieci ore: pure avendo preso a Londra lezioni di liberalismo politico dal '48 in poi. Si poteva ancora vedere il contadino giornaliero presentarsi all’alba e andare via al tramonto in piena estate, contro mezzo litro, un piatto di fagioli (il pane doveva portarlo lui) e qualche lira. Seduto il padrone all’ombra, la pipa in bocca e sbracato, a qualche sosta della dura opera gli vociava: «mena lu zappone!…». Poi faceva il conto delle giornate dandosi del tu.

Passarono pochi anni e sulla («et pour cause») antifascista borghesia meridionale (i baroni centrano il solito cavolo, che dal tempo delle crociate non sono stati far menar zapponi) piovve tutta la rete allucinante delle norme sindacali: orarii, paghe orarie, assicurazioni, contributi di ogni genere, e burocrazia infinita ogni qualvolta occorrevano zapponatori. Sistema che – diciamolo in qualche cornetto acustico – non siamo qui ad apologizzare nemmeno per sogno. Il peso di tutta questa idiota macchina non cade sul capitale, può far fuori qualche piccolo e medio borghese, ma favorisce la grande accumulazione e frega la classe operaia. Dando a chichessia l’epiteto di riformista veniamo ad esprimergli il massimo dello schifo.

Lo Stato fu riformista al termine del tempo feudale, e naturalmente al fine di conservazione. Piuttosto che cader, i vecchi regimi si sforzavano con vari programmi di inquadrare le forze produttive in rivolta. Dove i grandi stati nazionale erano già costituiti, la classe capitalistica, preso il potere, costituì il nuovo Stato fermamente antiriformista; distruttore non costruttore, politico non economico, occupato a svincolare non ad incanalare forze di produzione. Le leggi speciali erano poca cosa davanti alla grande carta costituzionale, i suoi articoli battevano in breccia i ceti antichi del regime servile e corporativo. Di qui incominciò la grande evoluzione verso un tipo di stato borghese sempre più interventista nell’economia, disciplinatore della produzione e dello scambio. Questa evoluzione, notissima dalla prima costruzione marxista, è il diretto inevitabile riflesso del sorgere di una nuova lotta di classe mano mano che il prorompente capitalismo suscita le armate proletarie di lavoro e il nuovo antagonismo di interessi sociali sale in primo piano contro l’antico, e mano mano che il problema storico non è più quello di impedire alle classi feudali di tornare al potere, ma quello di impedire alla classe operaia di toglierlo alla borghesia.

Lo staterello italiano nasce borghese e senza tradizione nazionale. La sua lotta antifeudale si esaurisce nella letteratura. Nasce in ritardo e perciò più moderno: si aggiorna subito: nasce riformista. In un certo senso precorre i tempi: nasce fascista. Tutto il ridicolo e il tragico della situazione italiana è qui: dall’estrema destra alla estrema sinistra i politici di professione si credono tutti oggi ancora all’opera o per eliminare «arretratezze» e stilare «cataloghi» di garanzie costituzionali, cui non resta altra pompa che quella dei pompieri di Viggiù…

Lo stato borghese classico di ogni tipo, preriformista, ha certamente un bilancio, pone in poste, fa delle spese, ha delle gestioni economiche. Già lo stato feudale le aveva nei grandi paesi europei e ciò era stato uno dei grandi veicoli dell’accumulazione capitalistica. Il nuovo stato borghese puro si scrolla però di dosso ogni carattere di «detentore ed investitore di capitali». La legge tutta ormai assicura e garantisce che il capitale possa liberamente agire con intestazioni private. Lo Stato fiancheggia come Stato di polizia.

Dove l’amministrazione centrale è, all’inizio, in quelle funzioni che l’investimento privato deserta. Fa opere pubbliche in quanto queste sono prive di profitto e nessun privato le intraprenderebbe. Cura una serie di bisogni «sociali» come la sanità generale, la circolazione stradale, la difesa da danni e catastrofi come incendi etc. etc. Non può esistere l’industria dei pompieri di Viggiù. Non si bruciano le case per farsi pagare lo spegnimento un tanto all’ora. Il capitale fa anche questo e di peggio, ma su scala assai più grande di quella del paesello lombardo.

Nella forma successiva lo Stato comincia ad esercire, ai fini fiscali, a fini di protezione, a fini politici e politico sociale. La peste del metodo di fare lavori pubblici per evitare rivolte di disoccupati è caratteristica dello Stato italiano.

Finalmente nella forma più moderna lo Stato «investe», e questa diventa la sua funzione più insigne; perciò gonfia la sua macchina a dismisura. Investe per sostenere il capitalismo e i capitalisti, finanzia per ossigenarli, controlla le loro aziende per turare le falle dei loro bilanci.

Da questi concettini emerge, che intanto lo Stato moderno può pretendere di avere funzioni che interessano tutta la «società», in quanto si limita al modesto campo di interventi che non hanno fine di profitto. Gli investimento di denaro dello Stato di danaro che non sono direttamente un servizio al capitale sfruttatore sono gli investimenti non produttivi. Nel senso della presente economia, non produttivo è tutto ciò che non remunera la speculazione.

La grossa panzana odierna è quella di chiedere allo Stato investimenti produttivi ed è stata il centro delle cretinerie economiche lanciate tra il plauso aperto di tutta la stampa borghese, alla conferenza confederale. Essa corrisponde alla centrale tesi dell’antisocialismo: passiamo mano mano le gestioni allo Stato, e il loro reddito invece di andare ai privati andrà a vantaggio di tutti i cittadini. La affermazione in grande stile di questa economia si è avuta in Italia con Mussolini; Lo Stato si è reso azionista, banchiere, finanziatore ed investitore per il comodo della grande industria, che anche oggi delira di gioia alla prospettiva di acquistare macchinari e fare affari coi soldi di Pantalone. Hanno gli antifascisti tentato lontanamente non di sopprimere ma di alleggerire le Finsider le Finmare gli Imi e gli Iri? In che differisce tutto questo il piano confederale?

L’idolo dello Stato investitore riceve a buon diritto gli incensi della Confindustria, pure essendo in sostanza lo stesso che si adopera fra le torri del Kremlino. La consegna produttivistica è data da Mosca alle aziende sovietiche come da Di Vittorio agli industriali italiani.

Stato protettore degli investimenti privati, e Stato investitore di capitale, sono due aspetti nel tempo dello stesso nemico di classe che la rivoluzione socialista deve abbattere.

La specifica situazione italiana è proprio questa: esigenza di spese non produttive, di interessi che abbiano il carattere di vantaggio sociale e non di investimento a fini di profitto remuneratore. Sciocco gioco fingere di non essere d’accordo con l’industria pesante, e chiedere finanza per la bonifica agraria, l’edilizia, l’elettricità. Sono proprio i campi in cui non si farà nulla fino a che i moventi saranno moventi di tipo capitalistico. Le case bisogna farle per niente: sono senza tetto gli stessi che sono senza lavoro. La bonifica agraria per anni ed anni non eleva i redditi e nemmeno i prodotti, e nemmeno l’impiego di manodopera, anzi lo diminuisce. Conoscono i professori di Di Vittorio tesi tecniche come questa: l’irrigazione cresce il prodotto per ettaro ma diminuisce l’impiego di lavoro a pari prodotto? L’elettricità e gli altri trasporti e servizi pubblici costano troppo rispetto al guadagno medio, sono gestioni che devono seguitare in perdita se si vuol migliorare – perciò è utopia il tenore di vita.

Solo un’economia mondiale può dare risposte ad esigenze del genere. Quella capitalistica lo farà ove e se le serva per la dominazione del mondo in pace e in guerra. Lo Stato italiano non lo può fare, chiunque abbia il potere, manipolando risorse interne (quale più brillante tesi autarchica di quella che mettendo in giro la riserva aurea statale si attiva la produzione nazionale?! Graecia capta ferum victorem coepit! In volgare: lo spirito di Benito insuffla gli esecutori di Dongo); non lo farà nemmeno affittando il territorio e la carne della popolazione ad uno dei gruppi intraprenditori di fredde o calde guerre mondiali.

Semplice direttiva per il partito di classe dei lavoratori: appena senti parlarvi di misure progressive, costruttive, produttive, non perdete tempo a studiare economia, gettate subito il cialtrone dalla finestra.

Finestra di pianterreno. Non vanno portate le marionette all’altezza della tragedia.


Source: «Battaglia Comunista», № 5, 1950

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