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PAGLIACCIATE PARLAMENTARI


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Pagliacciate parlamentari
Ieri
Oggi
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Sul filo del tempo

Pagliacciate parlamentari

Ieri

Una cosa che ha sempre allettato il grosso pubblico sono gli incidenti clamorosi nelle assemblee parlamentari. I liberali ortodossi, in base al modello inglese, vero primato mondiale di insuperata ipocrisia, prendevano molto sul serio la dignità delle camere elettive e tenevano infinitamente al decoro e al contegno nei dibattiti, alla cavalleria nell’urto tra i partiti avversari, allo stucchevole e conformista fair play britannico, antica maschera della politica borghese nutrita nella sostanza di oppressione di preda e di saccheggio.

Ma alle sedute serene e civili senza urli, interruzioni ed incidenti, il pubblico si scocciava, e i resoconti della stampa non erano letti da nessuno. Quando invece vi era odor di baruffa i biglietti di invito erano contesi, le tribune rigurgitavano, i giornali andavano a ruba da un capo all’altro del paese, strillati con varie voci dialettali entusiaste, come quella: «è mazzate da’ Cammera!…».

Alla fine del secolo il grosso degli onorevoli era ancora costituito da compassati barbassori e gli esponenti dei «partiti avanzati» apparivano come incorreggibili sbarazzini capaci di ogni monelleria. Il buon borghese tremava degli scatti dei Cavallotti, dei Pantano, dei De Felice, e se ne raccomandava a Cristo e al Questore. Eco immensa ebbe tra i sovversivi di tipo ginnasiale la gesta di Enrico Ferri, dalla cravatta a fiocco e dalla chioma leonina. Provocata dalle intemperanze del bollente deputato socialista la censura e la espulsione dalla Camera, egli ebbe un gesto storico: spezzò il vetro di un finestrino che dava nella grigia e sorda aula di Montecitorio e vi urlò dentro: «Continua la camorra parlamentare!». Allora il beato mondo si emozionava per poco: Roma non aveva, a sentire la stampa del tempo, tanto tremato per il vae victis di Brenno.

La borghesia italiana nella sua storia politica ha bruciato molte tappe, e presto si stancò di scimmiottare le parate conformiste e parruccone – in senso non figurato – dei Comuni. Punzecchiata da un sovversivismo estremista soltanto nei gesti si scosse dalle decennali paure, si liberò degli scrupoli democratici, come oggi vanno facendo le borghesie di tutti gli altri paesi, e fece essa la prova di passare dalle parole ai fatti, dalle chiacchiere vuote alle legnate.

Mentre troppi socialisti deformavano il marxismo rinnegando la funzione storica della violenza nella sporca caricatura che voleva far sorgere il socialismo da uno scontro pacifista di opinioni e di voti elettorali, i fascisti cantando «botte, botte!» e teorizzando apertamente la controviolenza borghese cominciarono dentro e fuori Montecitorio la caccia fisica ai parlamentari avversari.

Questa nuova e moderna versione del metodo politico capitalistico e della prassi antisocialista suscitò le opposizioni dei ruderi del metodo democratico. Non che questi fossero più dei fascisti teneri del socialismo e del proletariato, ma ritenevano ancora utile e conducente per un lungo periodo l’applicazione della truffa elettorale e della corbellatura delle garanzie legali. Indi i fascisti a picchiare senza riguardi anche costoro per toglierli di mezzo e assumere essi il governo ed il potere.

Il principale successo del fascismo non fu quello di esserci riuscito, conservandolo venti anni e spezzando le organizzazioni rosse che non furono in grado di raccogliere la sfida sullo stesso terreno, o meglio di tenere fede alla sfida che per tanti anni avevamo lanciata ai borghesi per la lotta nelle piazze. Questo successo, che data dall’agosto 1922 e non dall’ottobre, non ebbe per autori quei quattro fetenti in camicia nera, ma tutte le forze dello Stato tradizionale capitalistico, burocrazia magistratura polizia esercito, con la solidarietà di monarchia chiesa industria agrari affarismo e del servidorame basso e vile fornito dallo spregevole ceto medio, che per vari anni dopo girò con i nastrini della «rivoluzione» fascista come gira ora con quelli della lotta partigiana, non avendo fatto un cavolo in nessuna delle due. Il successo del fascismo fu un altro, e dura ancora nei suoi effetti controrivoluzionari a vari anni da piazzale Loreto. Esso è costituito dal rinculo storico e politico del movimento operaio su posizioni inconsistenti ed imbelli, dal patto di alleanza che nel terrore del manganello e dell’olio di ricino affasciò i capi dei partiti proletari e quelli, oramai caporali senza soldati, dei democratici e dei liberali di vari tipi, uno più scemo dell’altro.

Tutto fu messo nel calderone: comunismo socialismo anarchismo sindacalismo repubblica monarchia cristianesimo massoneria, su una comune pregiudiziale: sgombrare via il fascismo, il quale impediva che la lotta politica riprendesse le forme elettorali e costituzionali. Ciò ottenuto, si sarebbe giurato il nuovo patto legale e poi ogni partito avrebbe ripresa la propaganda per i suoi ideali nella nuova atmosfera di civile e pacifica competizione. Una prospettiva in cui ogni termine dovrebbe suscitare nei marxisti la indignazione ed il vomito, mentre quella fascista conteneva in edizione borghese la dialettica affermazione della nostra visione della storia e la realizzazione dello schieramento antagonista delle classi sociali su due fronti unitari, affermazione che si ribadisce ogni giorno, malgrado il miraggio dell’abbattimento del fascismo nella sconfitta di Roma e Berlino, in tutto lo schieramento delle forze capitalistiche mondiali mancando purtroppo, per effetto della peste frontunista, la replica dello schieramento proletario.

Oggi

Fu giurato il gran patto: li ho visti in Salerno convenuti soltanto dal mare. A buttare giù Mussolini non fu il fronte unitario, il fascio delle verghe adoperato nel primo apologo filisteo contro la lotta di classe, fascio giustamente preso a simbolo proprio da lui. Furono gli aeroplani e le flotte di oltremare, i nugoli di automezzi e di cannoni, le scatolette e le caramelle con cui ci presero per il collo per la gola e per il resto.

Tolti di mezzo i fascisti con i vari provvedimenti, dai più drastici ai più scemi, pareva sicuro che il ritorno ai mezzi civili parlamentari e pacifici non avrebbe corso altri pericoli. Promesse complimenti e sorrisi corsero tra i sei, tra i tre, tra i trentacinque partiti sorti dal ceppo comune della libertà. Loretizzando l’unico guastafeste, era sicuro per la fortuna d’Italia che non si sarebbe più parlato non solo di manganellate e di botte, ma nemmeno di ingiurie sgarberie e male parole. Il capolavoro della carta costituzionale, sacra per tutti, codificò questo idillio. Dopo l’edicola di Milano e le forche di Germania e Giappone, pareva assicurata per almeno una generazione questa prassi di riguardo tra i collegati del guazzabuglione antifascista, sulla tomba del ferocissimo drago della dittatura.

Non ci riferiamo qui alla questione di contenuto ma a quella di metodo, per seguire in via polemica tutti costoro che fecero del metodo e della prassi politica, sulla base del toccasana democratico, una pregiudiziale alle sostanziali discordanze degli interessi e delle forze.

Ci viene da ridere di gran gusto quando vediamo che il grande ipocrita obiettivo del bloccaccione antidittatoriale naufraga nel ridicolo, e nell’assemblea della redenta e risorta democrazia divampano il turpiloquio il vituperio la gazzarra il tumulto e la spassosissima cazzottata finale tra gli onorevoli.

Da tempo la nostra critica ha smascherata e disonorata la macchina parlamentare, e in bonaccia o in procella il nostro disprezzo le è stato dichiarato da dieci decenni almeno a questa parte.

Non abbiamo sentito un ette di compassione quando il duce le ha minacciato il bivacco di manipoli, sebbene ci preoccupasse gravemente il pericolo della nostalgia che la ingenua, generosa classe operaia avrebbe nutrito per la ripresa dei ludi cartacei. Siamo lieti ora che gli antifascisti ormai padroni finiscano di disonorare il parlamento e scrivano le sue pagine più vergognose tra il morboso interesse degli snob delle tribune.

Se il pubblico italiano è stato diseducato, secondo il luogo comune, da Mussolini, quelle erano rose e fiori rispetto ad oggi. In questi giorni, per un lettore che si sia sorbite le clausole del tanto discusso Patto Atlantico, mille si sono degustati con voluttà di tipo erotizzante la narrativa dei lanci di Pajetta e dei pugni di Tomba, recata nello stesso giorno dalle centinaia di quotidiani di troppo che ha la penisola.

Legalità, civiltà, libertà, gridano le due bande opposte di mantenuti dalla scheda, e passano ai cazzotti oggi, al resto domani.

Neutralità, pace, collaborazione tra capitale e socialismo, si grida da tutte e due le parti del fronte internazionale, dietro il quale entrambe le parti forgiano a più non posso armi feroci.

Noi siamo certi che si ricostruirà il partito della classe lavoratrice, che sdegnando di nascondere i propri scopi nella teoria come nell’azione provocherà all’aperta lotta le forze sinistre del capitale mondiale, dando a quei gridi menzogneri la risposta rivoluzionaria: violenza, dittatura, guerra sociale.


Source: «Battaglia Comunista», n. 12 del 1949

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