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LA NATURA DEL CAPITALE ALLA BASE DELLE CRISI E DELLE GUERRE IMPERIALISTE


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La natura del capitale alla base delle crisi e delle guerre imperialiste
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La natura del capitale alla base delle crisi e delle guerre imperialiste

Ci siamo già occupati, nel numero di fine novembre di questo giornale, delle basi teoriche dell’incapacità borghese nell’analizzare e spiegare le crisi economiche che periodicamente attanagliano l’intera società capitalistica e che ne decretano il fallimento storico come modo di produzione che si pretenderebbe eterno.[1]

La vittoria teorica del marxismo, lo ribadiamo a dispetto e scorno di quanti si ostinano a pubblicare voluminosi pamphlet di «requiem» per Carlo Marx, è scritta nei fatti che quotidianamente la realtà fornisce. Sono questi fatti che si incaricano di smentire – con il carico di costi sociali enormi, primo fra tutti la crescente miseria in cui versa gran parte dell’umanità – tutte le favolette che il servidorame al soldo della borghesia, giornalisti e preti, accademici ed «esperti» di ogni genere, sforna ad uso e consumo delle classi dominate (inganno a fini di controllo sociale e della perpetuazione del dominio di classe, le uniche merci che la borghesia è disposta a produrre e pagare a prezzi altissimi). Per il proletariato in particolare, ma anche per il «popolo» in generale tali «verità» devono sembrare tanto reali da essere fatte proprie e a loro volta meccanicamente trasmesse. Gioco che riesce al massimo grado quando la cornice di contorno in cui tutto ciò avviene è «democratica». L’orgia di democrazia, infatti, ha sempre rappresentato l’involucro migliore per lo sviluppo del sistema di dominio totalitario della borghesia.

Fra le fiabe ricorrenti che la classe dominante fa circolare e sostiene come idee dominanti, espressione del suo dominio di classe, due sono state particolarmente ricorrenti e oggi di attualità: la prima mira a propagandare l’idea del capitalismo come «il migliore dei mondi possibile», con una tendenza diffusa verso il benessere generalizzato, e individua nella libera concorrenza una sorta di forma assoluta e astorica della libera individualità, attraverso la quale soltanto verrebbe conseguito l’interesse generale della collettività; la seconda, strettamente connessa alla precedente, che vede nel commercio e in una presunta pacifica competizione commerciale la base dello sviluppo armonico e democratico fra Stati.

A proposito della prima asserzione, di recente si poteva leggere su una pubblicazione periodica dell’autorevole «Il Sole – 24 Ore» che
«le ragioni che stanno dietro le crisi finanziarie sono troppo radicate in alcuni tratti fondamentali dell’agire umano per sperare di cancellarle dalla storia dell’economia… È come per le malattie. Ci saranno sempre, ma se ne può ridurre la frequenza e la pericolosità »[2].
La diffusione ditali imbecillità ha una sola ragione di fondo: continuare a sostenere l’idea che il capitalismo si può solo riformare (ovviamente, a dosi omeopatiche); oltre non ci può essere altro dato: quello che c’è stato prima non era che un oggi con dei limiti che sono stati finalmente aboliti. La specie umana si identifica col famoso «homo oeconomicus» e la mano invisibile di Adamo Smith fa il resto, conciliando le esigenze del capitale e del lavoro salariato.

A corollario di questo assunto i sempre solerti «esperti» (con il codazzo dell’opportunismo piccolo-borghese travestito da 'comunismo») hanno avuto bisogno di ben poco, qualche giornata borsistica in rialzo, per potersi mettere a strillare che il peggio della crisi era passato e che aveva trionfato la capacità di autoregolazione del sistema capitalistico. Peccato che qualche giorno dopo sono arrivate nuove gelate, dal Brasile (di cui parliamo diffusamente a parte) e dalla Cina, dove la già pesante crisi degli istituti finanziari (Itic) viene amplificata dalla caduta dei vertiginosi tassi di crescita che l’espansione creditizia aveva favorito, provocando fallimenti a catena e allertando l’esercito «popolare» di fronte ai milioni di nuovi disoccupati e sottoccupati che si vanno ad aggiungere all’esercito dei senza lavoro già esistente e numeroso. In questo contesto una svalutazione dello yuan significherebbe una rottura totale di ogni argine al ritorno della crisi in Occidente e negli Usa in particolare, dove la crescita è trainata dai consumi di lusso e si basa esclusivamente sulle aspettative di crescita dei titoli azionari.

Il sistema borghese non può assolutamente considerarsi fuori dalle tempeste che lo stanno minando, né esiste una capacità di compensazione stabile da parte del capitale. Il marxismo ha dimostrato innanzitutto che le crisi capitalistiche hanno una specificità storica determinata, rispetto a quelle delle epoche precapitalistiche, essendo la loro essenza in ultima analisi fondata sull’esistenza di scambi di merci contro denaro per poter mediare il soddisfacimento di un qualunque bisogno d’uso. Il «credit crunch» di cui oggi tutti temono gli effetti non è altro che la necessità irrinunciabile di denaro come mezzo di pagamento di tutte le transazioni commerciali (soprattutto fra capitalisti) che il credito aveva consentito e incentivato in una fase di precedente boom. I mezzi di cui la borghesia dispone per superare le crisi finiscono per risolversi nella «preparazione di crisi più generali e più violente e nella diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse»[3].

Quanto alle virtù taumaturgiche della libera concorrenza, ecco cosa scrive Marx nei «Grundrisse»:
«La libera concorrenza è la relazione del capitale con se stesso in quanto altro capitale, ossia il reale comportamento del capitale in quanto capitale. Le leggi interne del capitale… giungono a porsi come leggi; la produzione fondata sul capitale si pone nelle sue forme adeguate soltanto in quanto e nella misura in cui si sviluppa la libera concorrenza, giacché questa è il libero sviluppo delle sue condizioni e di esso in quanto processo che riproduce costantemente queste condizioni. Nella libera concorrenza non sono gli individui, ma è il capitale che è posto in condizioni di libertà».
E ancora:
«La libera concorrenza è lo sviluppo reale del capitale. Grazie a essa ciò che corrisponde alla natura del capitale, al modo di produzione fondato sul capitale, al concetto di capitale è posto come necessità esterna per il singolo capitale… Ma la libera concorrenza è la forma adeguata del processo produttivo del capitale. Quanto più essa è sviluppata, tanto più pure sono le forme del movimento del capitale. Ciò che con questo Ricardo, ad esempio, ha ammesso suo malgrado, è la natura storica del capitale e il carattere limitato della libera concorrenza, la quale è appunto semplicemente il libero movimento dei capitali, ossia il loro movimento nell’ambito di condizioni che non appartengono a precedenti livelli dissolti, ma sono piuttosto condizioni proprie del capitale. Il dominio del capitale è il presupposto della libera concorrenza»[4].
Più oltre, nello stesso testo, Marx fa altre due osservazioni molto rilevanti. Prima sottolinea che il capitale appena comincia a fare i conti con i suoi limiti genera la tendenza al monopolio, ossia
«cerca rifugio in forme che, mentre sembrano perfezionare il dominio del capitale imbrigliando la libera concorrenza, annunciano al tempo stesso la dissoluzione sua e del modo di produzione su esso fondato».
Di seguito fustiga
«l’insulsaggine di considerare la libera concorrenza come l’ultimo sviluppo della libertà umana; e la negazione della libera concorrenza = negazione della libertà individuale e della produzione sociale fondata sulla libertà individuale. Si tratta appunto soltanto del libero sviluppo su una base limitata, sulla base del dominio del capitale. Questo genere di libertà individuale è perciò al tempo stesso la più completa soppressione di ogni libertà individuale e il più completo soggiogamento dell’individualità a condizioni sociali che assumono la forma di potenze oggettive, anzi di oggetti strapotenti, la forma di cose indipendenti dagli stessi individui che ad esse si riferiscono».
Queste lunghe citazioni, impossibili da digerire solamente per i cultori dell’attualità e dell’idiozia in pillole da supermercato, ci consentono di introdurre la seconda parte del nostro discorso e di tirare alcune conclusioni.

Gli effetti della crisi sono innanzitutto l’aumento della centralizzazione del capitale e delle tensioni commerciali su scala internazionale, in tendenza l’acutizzazione delle tensioni politiche, diplomatiche e militari. Primo effetto: la svalorizzazione indotta dalla crisi favorisce le acquisizioni di imprese, mutando la ripartizione dei capitali già esistenti e funzionanti; sempre meno imprese ma più gigantesche occupano la scena nei cosiddetti settori-chiave, da quello bancario all’automobilistico all’aeronautico, dove si sta svolgendo una vera e propria guerra sul piano finanziario fra il capitale tedesco che cerca di guadagnare posizioni e il capitale americano che cerca di difendere quelle acquisite o le alleanze internazionali che possano consentire quella difesa (come nel caso dell’attivo intervento yankee nel promuovere la fusione tutta inglese fra Bae e Gec nel settore aerospaziale in funzione di contenimento delle pretese della tedesca Dasa). Secondo effetto: proprio in questi giorni è in corso una feroce offensiva americana, appoggiata dalla Wto, nei confronti dell’Europa (che importerebbe poche banane e carne agli ormoni made in Usa; sì, avete capito bene, alla faccia della strombazzata «sovranità del consumatore» dei manuali universitari) e del Giappone (acciaio), mirante ad ottenere maggiori accessi per le proprie esportazioni in una fase in cui il deficit commerciale americano ha toccato i 230 mld di dollari e il suo debito estero viaggia su cifre iperboliche e insostenibili senza un intervento diretto della forza statale, protezionismo commerciale incluso[5]. Scoperta «improvvisa» di oggi? Niente affatto. Marx-Engels, «Ideologia tedesca» 1845/46:
«Con la manifattura le varie nazioni entrano in rapporto di concorrenza, nella lotta commerciale combattuta con guerre, dazi protettivi e proibizioni […] Da questo momento in poi il commercio ha importanza politica […] La colonizzazione dei Paesi di recente scoperta detta alla lotta commerciale tra le nazioni nuovo alimento e, di conseguenza, una maggiore estensione e una maggiore asprezza».

Proprio le leggi interne del modo di produzione capitalistico e proprio quella concorrenza che sancisce l’operato di tali leggi, comportano a lungo andare un inasprimento delle rivalità e degli antagonismi fra Stati che difendono i propri interessi nazionali su una scala planetaria. Tutti i maggiori imperialismi sono coinvolti in questo risiko generale, dipendendo sempre di più dal mercato mondiale per gli approvvigionamenti di materie prime e per le fonti di energia e modificandosi continuamente la forza relativa degli stessi sul mercato mondiale delle merci e dei capitali per effetto della dinamica di sviluppo ineguale del capitalismo mondiale. La concorrenza fra capitali sempre più giganteschi è, per questa via, destinata a trasformarsi in concorrenza e contrasto interimperialistico, essendo lo Stato il garante della moneta nazionale e del capitale nazionale in generale.

Esempi di tutto ciò sono le guerre per l’acqua in Medio Oriente (fra Turchia e Siria, fra Egitto e Sudan rispetto ad Etiopia e Uganda, sostenuti dagli Usa), le guerre per il controllo delle riserve petrolifere in Medio Oriente, in Asia Centrale e in Africa[6], quelle per il controllo delle fonti di materie prime strategiche minerarie in Africa Centrale dove l’avanzata Usa ha dovuto frenare di fronte ad un ritorno europeo (Francia, e dietro di essa la Germania) cui non sembrano estranei gli attentati antiamericani in Kenia e Zambia[7]. In questa accentuata conflittualità proprio la concorrenza dà origine alle alleanze interimperialistiche, che si basano e selezionano riguardo alla necessità di difendere gli interessi nazionali sulla base dei rapporti di forza (tanto economico-finanziari quanto politico-militari) vigenti. Resta poco da dire sulla famosa «molla» dell’interesse generale e sulla pacifica via commerciale alla cooperazione mondiale!

Crisi e guerra imperialistica dunque sono nella natura intrinseca del capitalismo, discendono dalle sue leggi oggettive di funzionamento, come dalla necessità della borghesia mondiale di conservare il proprio dominio di classe in un’epoca in cui ormai i rapporti sociali frenano, anziché consentirne lo sviluppo, le forze produttive e significano distruzione e miseria per i più a vantaggio del mantenimento della ricchezza e del potere (politico ma soprattutto di comando sul lavoro vivo altrui) di pochi.

Scrivono sempre Marx-Engels nell’«Ideologia tedesca»:
«E, infine, mentre la borghesia di ciascuna nazione conserva ancora interessi nazionali particolari, la grande industria creò una classe che ha il medesimo interesse in tutte le nazioni e per la quale la nazionalità è già annullata, una classe che è realmente liberata da tutto il vecchio mondo e in pari tempo si oppone ad esso».
Le diverse borghesie possono al massimo confederarsi nella difesa contro il proletariato e la guerra imperialista rappresenta il massimo momento di solidarietà internazionale delle borghesie nazionali, quando la distruzione massificata di capitale e forze produttive in generale si impone sopra di esse quale necessità per la conservazione borghese. Il proletariato, al contrario, è da subito senza patria. Se in determinati periodi e in diverse aree storiche ha combattuto a fianco della borghesia per «la propria nazione è avvenuto quando il capitalismo doveva consolidarsi come modo di produzione, per sgomberare il campo dai nemici dei nemici e potersi impegnare pienamente nella lotta antiborghese. Oggi, in piena crisi capitalistica, il proletariato deve rispondere con la proprie parole d’ordine: guerra di classe e disfattismo rivoluzionario, a cominciare dalla lotta contro la propria borghesia.

Le basi economiche del comunismo sono dialetticamente contenute in mezzo a questi terribili miasmi del capitalismo putrescente, ma soltanto la rivoluzione proletaria potrà liberarne le potenzialità, sotto la dittatura politica del proletariato diretto dal suo Partito di classe. Lavorare a questo scopo, dimostrarne la necessità storica e leggerla nei fatti dell’economia politica, rappresentando nell’oggi il futuro del movimento proletario, questi sono i compiti attuali del Partito di classe, premesse indispensabili delle sue possibilità di azione di domani.

Notes:
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  1. «Crisi economica e scienza marxista», in «Il Programma Comunista», n.9–10, 1998 [⤒]

  2. «Le crisi finanziarie fanno parte del sistema», pag.3. Articulo uscito nel primo fascicolo del «Corso di Economia» a dispense edito da «Il Sole – 24 Ore». [⤒]

  3. Marx-Engels, «Manifesto del Partito Comunista», ed. Einaudi, pag. 107/108 [⤒]

  4. Marx, «Grundrisse», tomo 1, ed. Einaudi, pag. 657/658 [⤒]

  5. Cfr. L’articolo sul Brasile su questo stesso numero, per quanto riguarda un approfondimento della questione. («La crisi morda il Brasile», in «Il Programma Comunista», n.2, 1999). [⤒]

  6. Nei prossimi 25 anni, secondo la rivista «Environmental Science and Technology», in 48 Stati le risorse idriche scarseggeranno, mentre già oggi in una trentina di paesi oltro un miliardo di persone non hanno accesso ad acqua pulita, mentre ogni ora si stima che muoiano 600 persone per la penuria idrica o a causa di acque contaminate o inadequate; per quanto riguarda il petrolio, la recente edizione annuale del «World Energy Outlook» pubblicato dall’Agenzia Internazionale dell’Energia sottolinea con malcelata preoccupazione la necessità di radoppiare la produzione petrolifera mondiale per poter coprire la domanda mondiale entro il 2010. Anche in questo caso gli Usa si sono mossi a scopo preventivo sui concorrenti più diretti. [⤒]

  7. Ci occuperemo in un prossimo articolo dell’evoluzione della situazione in Africa Centrale e rinviamo a quanto già scritto in proposito nel n.6–7/1997 di questo giornale («Il Programma Comunista»). [⤒]


Source: «Il Programma Comunista», n.2, 22.febbraio 1999.

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