Anche in Corea con la "concertazione" i lavoratori super-sfruttati e alla fame
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ANCHE IN COREA CON LA «CONCERTAZIONE» I LAVORATORI SUPER-FRUTTATI E ALLA FAME
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Anche in Corea con la «concertazione» i lavoratori super-sfruttati e alla fame
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Anche in Corea con la «concertazione» i lavoratori super-sfruttati e alla fame
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La crisi finanziaria che ha colpito molti paesi del sud-est asiatico si è abbattuta con particolare gravità sulla Corea del Sud probabilmente proprio per il grado di sviluppo industriale raggiunto dalla sua economia, l'undicesima alla scala mondiale. Le conseguenze sono state durissime soprattutto per la classe operaia: si calcola che nel 1998 ben due milioni di lavoratori siano stati licenziati. In questa tragica condizione il giovane sindacato KCTU si è trovato di fronte a scelte cruciali. Non ha certo aiutato i suoi dirigenti a mantenersi sul fronte dell'intransigente difesa degli interessi di classe l'esempio delle politiche sindacali dell'Occidente, tutte subordinate alla logica della difesa dell'economia nazionale.

Le elezioni politiche del dicembre 1997, svolte, possiamo dire, sotto l'egida del Fondo Monetario Internazionale, che proprio in quel periodo stava dettando le sue condizioni a Seul per concedere gli indispensabili aiuti economici, avevano portato a capo dell'esecutivo un oppositore alla linea politica dei precedenti governi, un 'liberale illuminato', Kim Dae jung, in rottura con le precedenti amministrazioni.

Imprigionato a più riprese sia dal governo militare sia da quello civile, condannato a morte e poi graziato, rapito da sicari, accusato addirittura di simpatie comuniste', presidente del National Congress for New Politics, Kim DJ ha mostrato il suo eclettismo politico durante la campagna elettorale quando non ha mancato di sfruttare demagogicamente il suo passato di oppositore e di perseguitato dal regime. Per conquistare i voti dei lavoratori ha dichiarato più volte che in caso di vittoria avrebbe istituito un blocco dei licenziamenti per sei mesi e ha persino osato proclamare di voler rimettere in discussione gli accordi raggiunti col Fondo Monetario Internazionale, attirando sudi sé una dura reprimenda da parte degli Stati Uniti e poi anche da parte del Fondo, che ha preteso da tutti i candidati alla presidenza la firma di un atto di adesione agli accordi già sottoscritti col governo uscente. Per non perdere, infine, i voti dell'elettorato più conservatore si è alleato con un partito dell'estrema destra, il cui presidente è stato a capo dei servizi segreti coreani e primo ministro negli anni della dittatura del generale Park Chun-hee!

L'elezione di questo polimorfo personaggio era comunque prevedibile dopo che la vecchia classe politica, coinvolta negli scandali seguiti alle rivelazioni sui legami che la univano ai più grandi gruppi industriali del Paese, i chaebol, era stata indicata all'opinione pubblica come la responsabile del tracollo economico del Paese, che a dicembre dello scorso anno era indebitato con l'estero per circa 200 miliardi di dollari, di cui 51 sotto forma di prestiti a breve termine. Non poteva certo essere demandato a quel personale politico il compito di chiedere alla classe operaia coreana e alla piccola e media borghesia, uscite solo da pochi anni dall'emergenza della 'ricostruzione postbellica', di accollarsi i nuovi sacrifici, imposti adesso dalla recessione; era necessario trovare uomini nuovi che godessero della fiducia dell'opinione pubblica, anche se le linee generali della condotta economica del governo erano già state dettate dal'FMI.

A questo proposito è illuminante un commento tratto da 'La repubblica' del 19 dicembre '97: «Kim DJ dovrà con vincere, legittimato da una lunghissima opposizione e dalla prigionia politica, che i sacrifici da fare valgono la pena. La stampa dice che Giappone e Stati Uniti vogliono comprare a poche lire pezzi della Corea in ginocchio. La Corea è un paese che importa quasi tutte le materie prime che servono alla sua industria e la svalutazione del won è dunque tanto più grave. Se al posto di DJ le elezioni le avesse vinte Lee il carnet delle cose da fare non cambierebbe. E tutto già scritto nei dettagli; messo nero su bianco dagli uomini di Michel Camdessus, segretario generale del FMI».

Kim naturalmente sapeva che una volta eletto non avrebbe potuto mantenere le sue promesse e mentre il Parlamento votava una nuova legge per agevolare ulteriormente i licenziamenti di massa, da vecchia volpe della politica ha cercato di tenere in mano la situazione sociale puntando su due punti: a) una agguerrita campagna nazionalista tesa a presentare la Corea come vittima delle maggiori potenze imperialiste, USA e Giappone, e del Fondo Monetario Internazionale; b) il coinvolgimento dei sindacati, anche di quelli ancora ufficialmente fuori legge, in una Commissione tripartita (composta da Governo, Confindustria e Sindacati appunto) incaricata di proporre al Parlamento le misure da prendere sulla spinosa questione delle ristrutturazioni aziendali, o, per meglio dire, dei licenziamenti di massa.

Mentre le madri donavano le fedi d'oro alla Patria e la piccola e media borghesia, terrorizzata dalla crisi, offriva al governo le proprie riserve in valuta pregiata, la stampa tuonava «La Corea è stata spogliata della sovranità nazionale, la patria è sotto amministrazione straniera», attaccando «le grandi potenze che hanno manovrato il FMI, spingendolo a programmare la colonizzazione economica della Corea». Il 'Korea Times' scriveva:

«Washington e Tokio vogliono evirarci. Le richieste presentate dal FMI in cambio di aiuti sono feroci e si ha l'impressione che i negoziatori abbiano agito non come inviati di un organismo sovranazionale, ma come intermediari di alcuni paesi, primi a trarre profitto dalle nostre disgrazie. Con strutture economiche oggi così deboli non siamo in grado di competere: l'apertura del mercato interno e del sistema finanziario ci porranno sotto il dominio delle grandi imprese e banche straniere».

Il nuovo Governo, che non aveva trattato direttamente col FMI, soffiava così sul fuoco del nazionalismo per spegnere sul nascere ogni focolaio di lotta di classe, in un paese dove il sentimento antiimperialista è molto forte, anche tra gli operai, a causa degli ancora vicini lunghi anni di occupazione diretta da parte del Giappone, della persistente e forte presenza statunitense (35.000 soldati mantenuti a spese dell'erario coreano), della imposta divisione della nazione in due Stati. Naturalmente questa propaganda è solo fumo per annebbiare la vista ai lavoratori perché il grande capitale coreano sa bene che la sua salvezza sta proprio nei legami che lo uniscono al capitale internazionale.

E che il nuovo governo coreano sia il servo fedele del grande capitale lo dimostra il fatto che, nonostante uno dei punti fondamentali del suo programma fosse la lotta ai chaebol, ai grandi gruppi industriali che con i loro innaturali legami con lo Stato avrebbero falsato le naturali leggi dello sviluppo economico, ha poi continuato la stessa politica di appoggio diretto a questi grandi gruppi monopolistici che, proprio per superare la crisi, tendono anzi a diventare ancora più grandi, anche se tagliando i settori meno remunerativi e gettando sul lastrico centinaia di migliaia di lavoratori.

Scrive 'il Manifesto' del 4 settembre:
«Sotto la spinta del Fondo Monetario Internazionale i maggiori chaebol del paese, a partire da Hyundai, da Daewoo, da LO, cominciano una stagione di fusioni, di 'centralizzazioni' del capitale, in modo che gli impianti più moderni e competitivi finiscono per coprire tutta la produzione nazionale, mentre quelli marginali vengono chiusi»; e continua: «Impianti più efficienti alla presenza di sovracapacità produttiva, di una vera e propria crisi di sovrapproduzione, significa quello che tutti sanno: licenziamenti».

Nonostante Kim si fosse più volte impegnato ad attuare, una volta eletto, il blocco dei licenziamenti, dopo la sua elezione i licenziamenti, già in atto (tra ottobre e novembre 1997 circa 120.000 persone avevano perso il lavoro) sono progrediti a decine di migliaia ogni mese; il tasso di disoccupazione che era del 5,9% a febbraio è salito in aprile al 6,7, in giugno al 7, in luglio al 7,6 e si prevede che arrivi al 10% della popolazione attiva entro la fine dell'anno, cioè a circa 2 milioni di disoccupati. Ma i sindacati contestano questi dati e calcolano che la disoccupazione reale sia pressoché doppia rispetto a quella dichiarata dal governo.

E il sindacato KCTU, che nel gennaio del 1997 aveva saputo condurre un'efficace lotta contro l'approvazione di una legge che apriva la strada ai licenziamenti di massa, che fine ha fatto?

Il nuovo governo ha lavorato sin dal primo giorno (per questo è stato riesumato l'eroe Kim) a ricucire lo strappo tra il regime ed il sindacato libero, chiamando subito i suoi dirigenti al capezzale dell'economia nazionale assieme, come abbiamo detto, ai membri della associazione padronale e a quelli del Governo. La richiesta di un 'tavolo permanente' di discussione col Governo era stata avanzata più volte dal KCTU che vi vedeva, erroneamente secondo noi comunisti, un riconoscimento della forza del sindacato e della sua possibilità di pesare sulle decisioni governative. L'assenso a soddisfare questo desiderio da parte del nuovo presidente è parso ad alcuni il segno dell'inizio di una nuova èra nelle relazioni sindacali.

L'illusione è durata poco: «Le decisioni che sono scaturite dal consiglio tripartito sono state rispettate solo dai sindacati, che di conseguenza hanno organizzato una serie di scioperi per ricordare al padronato gli impegni presi», scrive 'Le Monde Diplomatique' del luglio scorso.

Il 6 febbraio, tre settimane prima del suo insediamento, in cambio di vaghe promesse di introduzione di blandi ammortizzatori sociali e soprattutto di una politica di indipendenza dai grandi chaebol, la commissione paritetica aveva già ottenuto dal sindacato KCTU una generica accettazione della nuova legge sui licenziamenti collettivi; unica limitazione la clausola: 'quando ce ne sia un urgente bisogno'. Con colpevole ingenuità confessa il segretario internazionale del KCTU «Noi avevamo riconosciuto l'ineluttabilità dei licenziamenti e i padroni avevano accettato di dare sessanta giorni di preavviso o di salario agli operai che licenziavano, oltre che di studiare la possibilità di ridurre le ore di lavoro prima di risolversi a licenziare. Ma si sono sbarazzati di molti dipendenti senza rispettare i patti. Il governo da parte sua non ha mostrato la volontà di perseguire i responsabili di licenziamenti illegali». Secondo rilevazioni del sindacato, solo in aprile un milione di coreani ha perso il posto di lavoro.

Questa capitolazione sindacale però è stata successivamente contestata fortemente dal direttivo del KCTU che a larghissima maggioranza ha respinto l'accordo e costretto alle dimissioni i dirigenti che l'avevano sottoscritto. I nuovi dirigenti hanno subito indetto uno sciopero generale per il 13 febbraio scorso, suscitando una dura reazione del governo che ha risposto minacciando di usare il pugno di ferro.

Ma qualche giorno dopo lo sciopero è stato ritirato, come ha dichiarato il segretario generale del KCTU, Kim Tae Yon, per «timori per le conseguenze negative che lo sciopero potrebbe avere in Corea e all'estero nell'attuale situazione economica». La motivazione, di grande rilevanza politica, mostra che la direzione del KCTU non è riuscita a porsi sulla strada della difesa intransigente dei soli interessi dei lavoratori facendo sua l'unica richiesta che, in tempo di crisi, può effettivamente difendere le condizioni di vita del proletariato: salario integrale ai disoccupati. Che sia il padronato, con i profitti accumulati in decenni di supersfruttamento, a pagare di che vivere agli operai costretti oggi in sovrannumero dalle contraddizioni dell'economia capitalistica!

Di fronte agli imperativi dell'economia globale, il sindacato, privo di una sicura guida politica classista, che potrebbe essere assicurata solo da una preponderante influenza comunista al suo interno, non ha tenuto la linea di classe. Ha puntato ad ottenere degli 'ammortizzatori sociali' per diluire gli effetti della crisi; una richiesta seria come quella della riduzione dell'orario di lavoro, che in Corea è ancora in media di circa 48 ore settimanali (2.500 ore annue) e che permetterebbe, se si scendesse alla media europea, di creare 2 milioni di posti di lavoro, è rimasta lettera morta dinanzi all'intransigenza padronale.

Ma il KCTU ha diverse anime: al suo interno c'è chi, in una visione partitica e parlamentare dello scontro sociale, vuole limitare le lotte per non alienarsi la famigerata 'opinione pubblica' che invece si vuole blandire per ottenerne i voti a favore di quel 'partito laburista' da essi vagheggiato; sono gli stessi che hanno anche il timore di essere scavalcati da una base che si mostra sempre più inquieta di fronte ai peggioramenti quotidiani. Ci sono però anche delle minoranze più decise e combattive che non si sono fatte raggirare dalla bassa propaganda sulla patria in pericolo nè dalla pretesa democraticità del nuovo governo e cercano con l'azione diretta e con gli strumenti classici della lotta di classe di respingere l'attacco del padronato e dello Stato.

Il primo maggio decine di migliaia di lavoratori occupati e disoccupati, sono scesi in piazza nelle principali città corea-ne per protestare contro i licenziamenti, nonostante i divieti. A Seul si sono verificati duri scontri con la polizia.

Spinto probabilmente proprio da questi avvenimenti, il sindacato ha deciso di proclamare due giorni di sciopero generale per il 27 e il 28 maggio e un altro per il 10 giugno; si è chiesto al governo di rivedere la legge che consente alle imprese di licenziare in piena libertà e un aumento del fondo di assistenza ai disoccupati, ma, allo stesso tempo il sindacato ha dichiarato di essere pronto a riprendere il dialogo con il governo in qualunque momento. Il governo da parte sua ha risposto che «non ha intenzione di usare la violenza contro gli scioperanti; si tratta di comprendere e di capire le richieste avanzate dai lavoratori per poi scegliere misure adeguate».

Dietro il latte e miele delle dichiarazioni ufficiali si cela la terribile violenza delle centinaia di migliaia di lavoratori gettati sul lastrico e ridotti alla fame, mentre la mancanza di una generale strategia porta allo sfrangiarsi della lotta in episodi isolati, eroici ma destinati spesso alla sconfitta. Alla Hyundai il sindacato pare sia riuscito a respingere una parte dei licenziamenti tra i lavoratori alla produzione accettando però il licenziamento di 277 addetti alla ristorazione. Invece gli operai del gruppo Mando, un gruppo di componentistica per auto, 4.500, dipendenti il 17 agosto hanno occupato gli stabilimenti per impedire il licenziamento di 1.090 di loro. La polizia è intervenuta in forze: ben 8.000 agenti, con l'appoggio dimezzi corazzati e di un elicottero, hanno preso d'assalto la fabbrica; gli operai hanno risposto difendendosi con tubi di ferro e bombe molotov, mentre centinaia di donne e bambini assistevano terrorizzati. Dopo una giornata di scontri durissimi la fabbrica è stata 'liberata'.

Secondo il giornalista del 'Manifesto' si tratta di una tipica vicenda coreana «di quelle che in Europa appaiono preistoriche o suscitano curiosità e imbarazzo»; simili sinistri melliflui personaggi hanno la memoria corta: quando il proletariato ha posto con forza le sue rivendicazioni di classe ha sempre trovato sulla sua strada il poliziotto, strumento dello Stato borghese, sia nei regimi apertamente fascisti sia in quelli democratici, Italietta compresa.

Source: «il partito comunista», Anno XXV, N.262, Novembre 1998

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