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CRONOLOGIA SCHEMATICA DELLA EPOPEA NAZIONALE CINESE


Content:

Cronologia schematica della epopea nazionale cinese
Gestazione e travaglio rivoluzionario
Rivoluzione antiimperialista, controrivoluzione anticomunista
1949: Nasce la Repubblica Popolare
Il gigantesca problema agrario
Lotte interne nel Partito-Stato
La Cina entra nello scacchiere imperialista
Notes
Source


Cronologia schematica della epopea nazionale cinese

La morte dell’ultimo dei «grande timonieri» dell’epopea nazionale cinese, di per sé insignificante, ci dà l’occasione, prima di spingere la nostra vista innanzi, di qui riassumere il tormentato ciclo storico che ha attraversato la Cina, abbagliato dal nome di quei grandi timonieri del Partito Comunista Cinese, processo che è stato analizzato minuziosamente negli studi e nelle pubblicazioni del nostro partito, nel corso di quegli eventi, fedeli al postulato marxista che individua il vero motore della storia nelle necessità economiche e materiali delle classi all’interno di un dato modo di produzione e nella loro lotta sociale. Sono le circostanze che determinano l’apparizione e il successo di determinati individui sulla scena storica, e non il contrario. Fin dal 1949, da quando risale la continuità del partito al potere, le oleografie mistiche dei capi dello Stato cinese, seguite poi dalle loro ingloriose sconfessioni e condanne, sono la prova che è la storia che gioca con gli individui e non sono essi che la determinano.

Gestazione e travaglio rivoluzionario

La Cina, che oggi si profila come potenza capitalistica mondiale, presto capace di competere con le vecchie potenze arrivate ad esserlo secoli prima, all’inizio di questo secolo si presentava in condizioni miserevoli a causa delle costrizioni che le erano state imposte fin dalla Guerra dell’Oppio dagli Stati imperialisti; la bancarotta e il crescente sfruttamento del contadiname sembravano incurabili. Si deve ricordare che già prima del Rinascimento europeo e prima che il modo di produzione capitalista arrivasse a dominare in occidente la Cina era la civiltà più progredita del pianeta.

L’immensa maggioranza della popolazione era composta di contadini, dei quali la metà non avevano terra in proprietà e dovevano pagare, oltre alle imposte, una percentuale del raccolto al proprietario come canone di affitto del campicello. Il primo episodio della rivoluzione borghese risale al 1911 con la proclamazione della Repubblica di Cina da parte di Sun Wen [Sun Yat-sen], successivamente fondatore del Guomindang o partito nazionalista. Dietro a Sun stava la spinta della grande borghesia cinese, però estremamente debole. Questa borghesia, del resto non poco collaborazionista con gli stranieri, che si era arricchita al tempo dell’Impero nelle zone aperte al contatto e al commercio con gli occidentali dove si trovava una produzione capitalista e un moderno proletariato, fu però capace di imprimere un carattere unitario nazionale necessario per seppellire l’Impero, anche grazie alla estrema debolezza del corrotto e decrepito suo apparato, esso sì, e ben da tempo, senza alcun appoggio popolare. Se i rivoluzionari Tai Ping e il movimento dei Boxer del secolo XIX ebbero appoggio popolare ma mancò loro una struttura organizzata, alla repubblica di Sun, che metteva fine al millenario impero, mancò la mobilitazione delle masse.

I tre principi che Sun propugnava: nazionalismo, democrazia e pane al popolo, erano quelli di qualunque rivoluzione borghese in un paese lacerato dall’imperialismo e arretratissimo in quanto alle forme di produzione rispetto al capitalismo occidentale. Però il padre della patria cinese peccò di ingenuità sperando di poter contare sull’appoggio delle nazioni più avanzate per fare della Cina una nazione moderna.

Nella Cina di allora, gravida della rivoluzione borghese, incombevano due compiti imprescindibili: 1) assicurarsi l’indipendenza nazionale, 2) attuare la riforma agraria, premessa per lo sviluppo industriale. Restava in sospeso se a far questo sarebbe stata la borghesia o il proletariato. L’estrema debolezza della classe borghese, come in Russia, la rendeva impotente a mobilitare la immensa massa dei contadini per espropriare la terra ai fondiari e ripartirla, mettendo cosi fine all’indicibile oppressione del contadino. Era questo un compito troppo grande per essa, nata in condizioni storiche e internazionali del tutto diverse da quelle della borghesia francese della Grande Rivoluzione del secolo XVIII, tanto che, nonostante governasse e fosse instaurata la repubblica, la situazione in Cina rispetto alle relazioni con le potenze coloniale le sue relazioni sociali interne non cambiarono.

Appena dopo un anno Sun si vide obbligato a rinunciare alla presidenza della repubblica a favore del grande capo militare del vecchio regime Yuan Shikai, il quale col controllo degli eserciti disponeva del potere reale. Alla morte di questo, nel 1916, i vari capi militari si ripartirono la Cina in sfere di influenza, ciascuna controllata da un diverso paese straniero tramite accordi di appoggio al capo militare. Si apriva cosi il periodo dei Signori della Guerra, che finirà con l’arrivo al potere del Guomindang e di Jiang Jieshi [Chiang Kai-shek] alla metà degli anni ’20. Questi dette una certa omogeneità e stabilità alla Cina, alla quale erano interessate le potenze straniere per continuare a razziare il paese. Infatti la grande borghesia cinese, alla quale appartengono le famose quattro famiglie Song, Kong, Chen e Jiang, non era disposta ad impedire lo sfruttamento del paese perché per imporlo avrebbe dovuto ricorrere alla mobilitazione armata dei contadini.

I comunisti di tutto il mondo speravano invece che la classe operaia, soprattutto dopo la Prima Guerra Mondiale, organizzata in partito autonomo, si mettesse alla testa di una rivoluzione democratica per poi trasformarla nella sua dittatura, come aveva fatto in Russia, nella quale una classe minoritaria come il proletariato aveva potuto impossessarsi del controllo del paese prendendo il potere nelle principali città. Si pensava la stessa cosa possibile per le importanti città costiere cinesi dell’Est e del Sud del paese. Sicuramente si deve alla controrivoluzione staliniana la liquidazione di questa prospettiva.

Si sarebbe trattato di una rivoluzione doppia, con l’obiettivo di saltare la tappa del potere borghese. In Russia il partito di Lenin lo ottenne non lasciando che si consolidasse e sciogliendo l’Assemblea Costituente, che altrimenti avrebbe essa disciolto i Soviet. Proprio come in Russia la debolezza della borghesia si manifestava nel fatto che i suoi partiti, socialrivoluzionari e menscevichi in Russia come il Guomindang di Sun in Cina, rivendicavano un vago socialismo e civettavano con esso.

Nel 1923 Sun postulò l’amicizia con l’URSS e l’alleanza con i comunisti, che si realizzò dopo la sua morte, nel 1925, nel primo governo nazionale con rappresentanza del Guomindang e del PCC. Nel periodo 1924–1927 il stalinismo, che si ergeva a forza dominante nel partito al potere in Russia e nella Internazionale, impone che il partito del proletariato in Cina si alleasse alla borghesia, al Guomindang, perdendo cosi l’indipendenza necessaria per la vittoria della rivoluzione doppia. Poi lo indusse a trasformarsi in un partito contadino con a capo Mao Zedong [Mao Tse-tung].

Rivoluzione antiimperialista, controrivoluzione anticomunista

Con l’appoggio dell’Internazionale l’organizzazione interna e militare del Guomindang acquistò solidità: partendo da Canton, dove il Guomindang si era irrobustito quando era ancora in vita Sun, Jiang Jieshi nel 1926, alla testa di una coalizione eterogenea, intraprese la spedizione verso nord, e nel l927, dopo aver schiacciato la Comune di Shanghai, il Generalissimo instaurò la sua dittatura.

A seguito del sanguinoso soffocamento della Comune di Shanghai da parte del Guomindang e per la stretta collaborazione di Stalin con esso, alleanza che Stalin non poté far altro che rompere dopo i fatti del l927, il partito comunista si trovò disperso e ferito a morte e il proletariato del tutto privo del suo autonomo partito. È da allora che si consuma, e per sempre, il divorzio fra PCC e la classe operaia. A partire da questo momento Mao riprende i principi di Sun, convertendosi nel vero partito nazionalista, nel «vero Guomindang», però con il seguito e l’appoggio del contadiname e senza dipendere da quello della pavida borghesia, incamminandosi alla sua meta unica e finale, la rivoluzione democratico-nazionale borghese. Lo stalinismo impedì cosi in Cina quella doppia rivoluzione che si era avuta in Russia. Mao quella politica farà sua, seguendo fedelmente il testamento di Sun Wen. Fu Stalin il padre di Mao. Occorreva che il proletariato fosse schiacciato non solo con la repressione ma con il tradimento e che il partito inquadrasse solidamente i contadini poveri perché la rivoluzione non uscisse dalla via democratica.

Il proletariato cinese, come quello russo, separato dal suo unico alleato, il proletariato dei paesi avanzati, la cui lotta vittoriosa era l’unica che avrebbe potuto salvare la rivoluzione cinese e quella russa, è stato costretto a venire a patti con la borghesia, il che ha compromesso per molto tempo la sua possibilità di vittoria rivoluzionaria. Negli anni ’20 non si trattava di unire due popoli, il cinese e il russo contro la pressione occidentale, politica questa poi auspicata in tutto il mondo dallo stalinismo, al contrario l’azione da seguire dal proletariato di entrambi i paesi avrebbe dovuto essere la lotta a morte per la rivoluzione in occidente: o questo o la sconfitta dei proletari sia russi sia cinesi. Un unico destino accomunava Cina e Russia: o trionfava la rivoluzione o il cammino che le attendeva era il lungo e doloroso sviluppo dell’economia nazionale delle rispettive borghesie.

Poco dopo il consolidarsi di Jiang Jieshi al potere, che darà inizio ad un decennio di relativa stabilizzazione finanziaria, il Giappone invase la Manciuria, fatto che il governo cinese dichiarò ineluttabile in una zona già penetrata dai capitali giapponesi, per concentrarsi nella repressione delle unioni contadine organizzate del PCC che, nonostante la sua decapitazione nel l927, continuava a chiamarsi cosi. L’esecuzione di Li Dazhao [Li Ta-chao] a Pechino nel 1927, zona controllata ancora dai Signori della Guerra e l’espulsione dal partito di Chen Duxiu [Chen Tu-Hsiu] due anni dopo, sul quale avevano scaricato la responsabilità dei disastrosi risultati della politica di collaborazione impostagli, suo malgrado, da Mosca, è il capitolo finale sui fondatori del Partito Comunista Cinese, che passava le consegne ai rivoluzionari contadini Zhu De [Chu Teh], Mao Zedong , Zhou Enlai [Chou En-Lai], ecc., che conserveranno la fraseologia tipica dello stalinismo relativa al comunismo, al marxismo, alla classe operaia e alla lotta contro lo sfruttamento, però non per questo cesseranno di essere i costruttori della grande patria capitalista.

Ciononostante Mosca ignorò il movimento del PCC nelle campagne fino a che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli eserciti contadini non si imposero su quelli del Guomindang.

Dopo le campagne degli eserciti nazionalisti contro i «banditi comunisti» nella prima metà degli anni ’30, le potenze interessate a fermare il Giappone, fra le quali la Russia, vanno a favorire l’unione del Guomindang e del PCC contro il nemico invasore, tanto che fra il 1937 e il 1939 dalla Russia arrivano al governo cinese 250 milioni di dollari, benché non fosse il paese che dette il massimo apporto alla lotta contro i giapponesi. Come conseguenza dell’avanzare dell’invasione giapponese, che si estese alle regioni del litorale cinese, il Governo non trovò miglior rimedio che rifugiarsi al l’interno del paese.

La Russia di Stalin, «benefattrice» dei popoli poveri come quello cinese, oppressi dall’imperialismo, quando seppe che i giapponesi stavano preparando la ritirata dalla Manciuria, con il pretesto di «cacciarli» vi inviò sue truppe che l’occuparono, approfittandone per smontare pezzo per pezzo le moderne fabbriche e ferrovie che i giapponesi vi avevano impiantato e se le portarono in Russia.

1949: Nasce la reppublica popolare

Alla fine della Seconda Guerra e con la sconfitta giapponese la posizione del Guomindang sembrava rafforzata, ma cosi non era. I problemi della Cina continuavano ad essere gli stessi che al principio del secolo. Si calcola per il 1939 che il 55 % della popolazione delle campagne fosse costituita da una massa di contadini senza terra, li seguivano in importanza numerica i contadini proprietari di un lotto di terra appena sufficiente per la sopravvivenza, dopo venivano i contadini medi e ricchi, che però avevano da sopportare le requisizioni del l’esercito. Per altro, le potenze vincitrici della Guerra si accingevano a riaffondare i denti nella Cina. Per garantirsi questo, datto per certa e imminente la guerra civile fra le sempre più numerose e disciplinate milizie contadine del PCC e gli eserciti del Guomindang, gli accordi di Yalta prevedevano per la Cina un governo di coalizione che l’avrebbe resa incapace di adottare riforme energiche e centralizzatrici che tendessero alla sua emancipazione dall’imperialismo straniero.

Per questo il trionfo finale del PCC e l’instaurazione della Repubblica Popolare di Cina, benché ci teniamo a definire come reazionario quel partito per aver abbandonato la tattica della rivoluzione doppia e la linea maestra che avrebbe portato a un trionfo del proletariato, costituisce un passo da gigante dal punto di vista della instaurazione del moderno capitalismo, che permetterà, non senza un lungo e difficile processo, l’apparizione del moderno proletariato, suo futuro affossatore, stavolta non come classe minoritaria e debole, ma come la più numerosa del mondo. Devesi riconoscere questo merito al partito della rivoluzione borghese in Cina, visto che è praticamente l ’unico dei paesi arretrati che è riuscito a levarsi vittorioso contro l’occidente, a scuotersi il giogo dell’imperialismo e respingere le condizioni di rapina che le vecchie potenze impongono agli altri paesi.

Con le forze del Guomindang fuggite a Taiwan e l’instaurazione ù primo ottobre 1949 della Repubblica Popolare Cinese si dà il via all’accumulazione autonoma del capitale in Cina, con la conseguente autarchia economica, compito non da poco nell’epoca nella quale l’imperialismo domina il mondo. Zhou Enlai dichiarerà negli anni ’50 che l’aumento dei dazi doganali favoriva la creazione della grande industria in Cina, gli stranieri non potendola invadere con le loro merci a prezzi bassissimi, e questo perché le chiavi del mercato cinese le tenevano essi e non gli stranieri. Alle potenze imperialiste era più gradito il regime collaborazionista e corrotto del Guomindang piuttosto che quello del PCC, ma non perché questo fosse «comunista», come potevano far credere gli Usa, ma perché, sollevando in armi i contadini, aveva creato il mercato nazionale, espulso le compagnie straniere e proclamato altri provvedimenti rivoluzionari tipici della nascita di una nazione indipendente borghese in un paese con rapporti di produzione precapitalistica in decomposizione.

Per noi comunisti la democrazia «non può esistere», nel senso che l’esistenza dello Stato indica la presenza nella società di diverse classi con interessi antagonistici irreconciliabili. Storicamente la borghesia ha preteso che essa fosse possibile al fine di ingannare le classi oppresse, la sollevazione delle quali era necessaria per la sua ascesa al potere. Tuttavia affermiamo che l’instaurazione della Rpc fu il trionfo della democrazia nazionale borghese. Il filisteo intellettuale piccolo borghese di occidente obietta solo che non vi sono in Cina elezioni…. Non considera quel capolavoro di equilibrio fra le classi, contadini poveri, medi e ricchi, borghesia nazionale e proletariato compreso, tutte allineate dal PCC per lo scopo nazionale, di fare della Cina una nazione capitalisticamente moderna. Si può dire quindi che la Rpc al suo instaurarsi era assai più democratica delle cosiddette democrazie occidentali, che, nonostante tutte le loro pagliacciate elettorali, stanno agli ordini di un pugno di banchieri che tutto dominano. Per contro niente ha avuto mai la Cina ne di socialismo, né di dittatura del proletariato, né di proletariato e contadini: il proletariato cinese, vinto, è stato solo sacrificato al raggiungimento degli obiettivi economici della nazione e dell’impresa, anche quando questa fosse del capitale privato.

Già prima della presa del potere il PCC aveva cambiato direttiva dalla «Repubblica degli Operai e dei Contadini» alla«Repubblica Popolare». Gli eserciti contadini del PCC si senti vano come un pesce fuor d’acqua nelle città. Quando entravano vincitori e annunciavano i provvedimenti da prendere, imponevano agli operatori il rispetto della proprietà privata e proibendo ogni eccesso. Negli scritti e nei discorsi del PCC si riconosceva sempre il condominio delle quattro classi: operai, contadini, piccola borghesia e borghesia nazionale. Mentre Si proclamava che il capitalismo non era da distruggere, che poteva essere benefico e utile solo che gli si imponessero dei limiti. È per questo che quando si proclamò la repubblica popolare non si procede ad espropriazioni indiscriminate, ma si nazionalizzarono solo le grandi banche e le imprese del «capitale burocratico», benché questo fosse stato già nazionalizzato dal Guomindang e alla cui direzione stavano le «quattro famiglie». Anche qui lo scandalo non sta nell’essere arrivati ad un patto e compromesso con la borghesia, che deteneva i mezzi tecnici e amministrativi per dirigere le imprese, ma nel presentare ciò come la «costruzione del socialismo».

Ciò che più temeva Mao era l’insurrezione operaia, in realtà l’unica che poteva impedire il suo trionfo. Sicuramente, abbandonata alla sua sorte dal 1927, la classe operaia nelle città accolse assai con indifferenza e diffidenza l’arrivo delle milizie del PCC.

Nonostante i proclami contro gli eccessi, dal 1947 al 1952 si visse un periodo di terrore per i fondiari e i contadini ricchi, come reazione al terribile regime di sfruttamento sofferto dai poveri, che ora si trovavano armati e mobilitati. Il PCC più che proclamare la lotta di classe tentava con tutti i mezzi di evitarla.

Il gigantesco problema agrario

All’inizio degli anni ’50 il paese intero dipendeva dalla produzione agricola. Era urgente portare la stabilità sociale nelle campagne. Della ripartizione della terra godettero i contadini ricchi e poveri a spese della terra dei fondiari, dei templi buddisti e taoisti, della chiesa cristiana e delle altre collettività. Furono assegnati 2 o 3 mu a persona maggiore di 16 anni (1 mu = 1/15 di ettaro). La terra dei contadini medi e ricchi restò indenne cosi come le eccedenze dei loro raccolti, tradendo le promesse fatte ai contadini poveri nel 1947 quando si chiedeva la loro mobilitazione. La ripartizione fu comunque un compito colossale: quasi la metà della terra coltivata (47 milioni di ettari) fu ripartita fra 300 milioni di contadini, ripartizione che interessò anche oltre a tre milioni di animali da tiro.

Nonostante la prospettiva del PCC di fare della Cina una nazione modernamente industrializzata, questa non cessava d’essere un paese piccolo borghese di contadini e non le restava altro rimedio che passare per questa tappa. Tuttavia si iniziò immediatamente ad accumulare capitale per investire e sviluppare l’industria. È qui la Cina venne a scontrarsi con quei problemi che porteranno il PCC a dividersi intorno ai diversi percorsi di soluzione: come e quando superare l’estrema parcellizzazione delle aziende familiari delle campagne che, essendo appena sufficienti al sostentamento della famiglia contadina, impedivano il fluire del capitale fra città e campagna ed all’interno delle campagne.

Nel 1952 si raggiunsero i livelli di produzione anteriori alla guerra e la fase della ricostruzione si dette per raggiunta, nel senso che si raggiungeva l’autosufficienza alimentare e non si moriva più di fame. Per concentrare il capitale industriale il Partito-Stato ebbe meno problemi che per concentrare il capitale agrario, poiché il PCC dipendeva totalmente da quell’appoggio contadino che l’aveva portato al potere. Inoltre, con il monopolio della distribuzione della materie prime in mano allo Stato, la borghesia non trovò modo di opporsi alla statizzazione, anche perché i proprietari borghesi, formalmente divenuti dipendenti, conservarono la direzione delle loro imprese, oltre a mantenerne un pacchetto azionario (la restante parte era dello Stato) i dividendi del quale riscuotevano ogni anno. Alla fine del 1952 lo Stato controllava, essendone unico azionista o proprietario o per disporre di parte delle azioni, del 76 % della produzione industriale e il capitalismo nazionale privato era caduto in tre anni dal 56 al 17 %. Gran parte dei buoni del tesoro erano fatti propri da industriali e commercianti.

Fu politica statale la creazione di un’industria pesante, come in Russia, che assicurerà un forte accrescimento industriale e garantirà la sicurezza nazionale. Ma lo sviluppo dell’insieme dell’economia non poteva tenere lo stesso passo. L’agricoltura avrebbe dovuto produrre un eccedente che permettesse sia di rifornire di sufficienti materie prime l’industria e viveri le città, sia investire nella meccanizzazione dell’agricoltura, gli strumenti tecnici della quale erano arretratissimi; però, a sua volta, un’industria capace di fornire macchinari non poteva svilupparsi mentre l’economia nazionale non avesse prodotto quell’eccedente necessario: questo il circolo vizioso nel quale la Cina era condannata. Ricorrere all’aiuto esterno significava compromettere l’indipendenza nazionale poiché nessun fra i paesi che potevano procurare tali mezzi era disposto ad aiutare per niente. Nel 1949 la presenza del capitale straniero nei diversi settori economici era già praticamente nulla. La borghesia al seguito del Guomindang era fuggita a Taiwan portandosi con sé tutti i capitali che poteva, cosi come la maggior parte della flotta mercantile.

L’unico paese con il quale si ebbe un interscambio di strumenti tecnici contro prodotti agricoli fu la Russia, che evidentemente nemmeno regalava nulla. Alla Russia conveniva che la Cina dipendesse da lei, fra l’altro per tenerla dalla sua parte nella guerra fredda. Però la determinazione dei dirigenti di Pechino di difendere il ruolo di nazione indipendente fece si che la Russia ritirasse tutti i suoi tecnici alla fine degli anni ’50, con il che la Cina si trovò completamente isolata nel mondo da vanti al suo arduo compito di sviluppare i propri mezzi di produzione, al quale si accinse facendo uso del solo capitale di cui disponeva, il capitale-uomo.

Con il conseguimento nel 1957 degli obiettivi del piano quinquennale iniziato nel 1952 tanto nell’industria come nell’agricoltura, l’accrescimento raggiunse la massima velocità: la produzione industriale crebbe del 141 %, il che, rapportato all’accrescimento dell’agricoltura del 25 %, denunciava la Cina paese reo di capitalismo, che offre più ferro che pane al genere umano.

Il PCC era cosciente che a seguito della riforma agraria si erano formati tanti piccoli contadini proprietari che appena superavano l’autosufficienza e impedivano lo sviluppo e l’accumulazione capitalista tanto nelle città quanto nelle campagne. Subito emersero due tendenze all’interno del PCC, che in realtà solo divergevano nella velocità con la quale si intendeva aiutare lo sviluppo del capitale agrario, che utilizzasse salariati e macchinario. Non è vero che, come si fece credere a barbuti e ai imberbi d’occidente, una tendenza, quella di Liu Shaoqi [Liu Chao-ki], fosse pro-capitalista, e l’altra, quella di Mao, pro-socialista. Entrambe erano per sviluppare capitale agrario, però lo sconfinato contadiname cinese obbligò primo a concedere la ripartizione della terra e poi ad intraprendere le riforme per l’accumulazione e la concentrazione a grande scala. È per questo che trionfò la tendenza di Mao sopra a quella di Liu e di Deng Xiaoping [Teng Hsiao-ping], non senza momenti di scontro, fino alla seconda metà degli anni ’70. Mao era cosciente che il suo partito si appoggiava totalmente sul contadiname, e il libero sviluppo della seconda fase della rivoluzione borghese di espropriazione e concentrazione avrebbe dato luogo a lotte di classe sociali fra lo stesso contadiname.

Il provvedimento più progressivo che avrebbe dovuto prendere una rivoluzione comunista con il proletariato alla testa, una volta che avesse preso il potere in un paese arretrato come la Cina, cioè per ottenere nel modo più rapido l’accumulazione capitalista, non era la ripartizione della terra ma la sua nazionalizzazione; questa avrebbe permesso al governo un potere di decisione e controllo nelle campagne che altrimenti non avrebbe avuto. Questo è ciò che fece all’inizio la rivoluzione russa che fu una rivoluzione diretta dal proletariato comunista delle città, mentre quella cinese fu del contadiname e si combatté nelle campagne.

Così la Cina nei primi anni ’50 si trovò nella necessità imperiosa di aumentare la produzione agricola, però senza lasciare libero lo sviluppo delle forze del mercato e della concorrenza, che avrebbero provocato una rapida espropriazione e proletarizzazione dei contadini poveri col conseguente rischio di trovarsi milioni e milioni di diseredati vaganti per il paese che l’incipiente industria non avrebbe potuto accogliere, con la conseguente minaccia per la stabilità del giovane Stato e del suo partito. Di fronte a questa alternativa i dirigenti cinesi optarono per la «collettivizzazione», con la speranza di aumentare la produzione agricola e con questo strappare il contadino dal suo fazzoletto di terra in modo meno traumatico e più graduale. La collettivizzazione consistette nel favorire la creazione di Squadre e Cooperative dal 1953 al 1957 e delle Comuni Popolari nel 1958–59.

Nelle Squadre 4 o 5 famiglie si univano per prestarsi mutuamente gli scarsi strumenti e gli animali da tiro, oltre al loro lavoro, nell’intento di alleviare la cronica mancanza di mezzi tecnici.

Le Cooperative elementari, chiamate semi-socialiste, erano di 20–30 famiglie, conservavano una parte minima della terra per uso individuale, il resto lo affittavano alla Cooperativa con gli animali e gli strumenti, per cui all’interno della Cooperativa si manteneva la proprietà. Ai membri si distribuiva in proporzione del lavoro prestato. La Cooperativa lavorava secondo un unico piano.

Le Cooperative avanzate o «socialiste» non ammettevano la proprietà privata della terra e dei principali strumenti di produzione, che erano da esse acquistati; coprivano l’estensione dei villaggi e le componevano da 100 a 300 famiglie.

A partire dal 1957 il sistema Cooperativo si mostrò insufficiente per aumentare la produttività agricola: ogniqualvolta si aveva un minimo eccedente da commercializzare, le famiglie contadine lo utilizzavano per i loro orti e per i loro animali da cortile a detrimento della Cooperativa. A questo era da aggiungere l’impotenza dello Stato sia a controllare la produzione sia a imporre quali specie seminare. Lo Stato poteva manovrare solo la leva delle imposte e dei prezzi.

È a causa di questa perdita di slancio del sistema Cooperativo e per la rottura con la Russia, col conseguente isolamento totale della Cina, che viene avanzata la campagna del Grande Salto in Avanti, auspicato da Mao, e la creazione delle Comuni Popolari. Questo non era altro che il tentativo volontaristica di incrementare la produzione appellandosi alla mobilitazione e al sacrificio delle masse, cercando di sostituire con abbondanza di ideologia alla mancanza di tecnica.

Dato che vi era già molta predisposizione da parte dei contadini, lo Stato non trovò difficile all’inizio formare le Comuni. Questa era un raggruppamento autarchico di Cooperative, che a loro volta si dividevano in Squadre e Brigate, le quali coincidevano con le Cooperative del primo e del secondo tipo rispettivamente. Le Comuni raggruppavano qualcosa di più di 4000 famiglie e in generale si fecero coincidere con i limiti geografici della Xiang. Le Cooperative dovevano cedere la totalità degli sorse del suolo e delle acque erano della Comune. Strumenti privati potevano utilizzarsi solo saltuariamente e si infrangevano i limiti familiari. All’inizio nella stampa apparivano esempi di contadini che, nell’entusiasmo, donavano per l’uso della Comune anche i minimi beni d’uso personale, come il vasellame, e perfino smontavano le case per costruire col materiale di risulta mense collettive, uffici, asili, ecc., funzioni che la Comune potenziava. Anche era obiettivo della Comune la formazione di una industria ad essa interna. Si calcolò che la raccolta poteva effettuarsi con i due terzi della manodopera disponibile nei campi, quindi la Comune inquadrò e utilizzò l’eccedente di manodopera per la costruzione di gigantesche infrastrutture, canali e strade, con il più elementare attrezzamento e senza alcun macchinario, in un affannarsi simile a quello delle formiche.

La creazione delle Comuni Popolari con la loro autonomia non deve essere interpretato come l’Apoteosi dello Stato popolare: le autorità massime nella Comune erano i quadri del Partito-Stato che fungevano di cinghia di trasmissione con le alte sfere. Essi dirigevano la vita della Comune e determinavano i piani di produzione, salaria distribuire ai membri della Comune ecc. La lettura marxista è questa: lo mobilitazione sociale del Gran Salto in Avanti si appoggiava sulla solida base dei fedeli quadri esecutori e capaci di inquadrare il resto della popolazione, lo Stato pretendeva quindi reintrodurre e mantenere in tempo di pace i sistemi organizzativi ferrei di un esercito in guerra. Se c’era apologia era dello Stato dittatoriale, non popolare. Ne conseguiva che il contadino perdeva tutta la sua libertà come tale (tempo, lavoro, metodi, scelta della coltura) l’individuo cessava di appartenere al clan o alla famiglia, per entrare al servizio dello Stato, nella misura in cui si potenziava il far vita nelle mense collettive ed altri iniziative di questo tipo . Cioè lo Stato necessitava di fare la pianificazione nell’agricoltura nella stessa maniera che lo faceva nell’industria.

Il nostro partito non si lasciò abbagliare dal mito della collettivizzazione come forma postcapitalista: mai aveva descritto quello del capitale come un modo di produzione privato, che invece può prescindere del tutto dai signori capitalisti. La via al socialismo si caratterizza fondamentalmente nello sviluppo di date forze produttive e nella rivoluzione internazionale. Nessuna delle due cose si dava in Cina.

Le Comuni come furono concepite nel loro stato originario fallirono. La ragione di fondo è che era un tentativo idealista di modificare le forze produttive con la leva della volontà. Appena conclusa la formazione delle Comuni cominciarono a sorgere i problemi. Da parte di Pechino al principio si lasciò un poco mano libera e le direttive non riguardavano né l’organizzazione della Comune ne la requisizione della proprietà privata contadina. I contadini non accolsero con favore l’eliminazione dei campielli privati. Le Comuni correvano il rischio di non poter pagare i salari. In agosto 1959 già si cercarono delle prime correzioni ma i problemi non accennavano a risolversi. La testarda resistenza proprietaria contadina e le sopraggiunte difficoltà produttive fecero sì che le Comuni nel loro stato originario andassero sfaldandosi. Finalmente si giunse ad ammettere che l’unità fondamentale della Comune era la Cooperativa, base sulla quale si dovevano calcolare benefici e perdite, e che doveva decidere su come ripartire i prodotti, tutto questo a beneficio delle particelle private di terra, che alla fine del 1959 venivano a costituire il l 5–20 % dell’economia di una borgata. Per di più negli anni 1960 e 1961 si ebbero eventi climatici straordinariamente devastanti sui raccolti, milioni di persone morirono di fame nella peggiore carestia nella storia della Rpc.

Nel 1962 le riforme avevano svuotato di contenuto le Comuni, che rimanevano solo come strumento di controllo e coordinamento, proprietarie unicamente delle imprese che interessavano l’intera loro giurisdizione e l’industria statale, la cui penetrazione nelle regioni dell’interno si stava potenziando negli anni ’50, per rimediare parzialmente alla scarsezza di vie di comunicazione con le zone costiere. In agricoltura continuavano ad essere le Cooperative a dirigere e decidere.

Lotte interne nel Partito-Stato

La corrente di Liu Shaoqi e di Deng Xiaoping cominciava ad emergere nella politica dallo Stato, con l’introduzione del sanziyibao, «tre libertà ed un contratto».[1] Le tre libertà erano la restaurazione dei campicelli privati e la possibilità di estenderli dissodando terre incolte, la possibilità di vendere nei mercati rurali i prodotti che non finivano in mano allo Stato, e la libertà di costituire piccole imprese familiari che assumessero interamente la responsabilità dei loro benefici o perdite. Il contratto si riferiva a porre quote di produzione sulla base familiare più che di Squadra. Risale a questo periodo, negli anni ’60, la famose frase di Deng: il gatto, bianco o nero che sia, importante è che prenda i topi.

Avendo quei provvedimenti dato dei risultati la politica di Mao cominciò ad avere degli oppositori nelle alte sfere del partito. L’aumento degli indici della produzione faceva si che la popolazione accogliesse meglio le riforme che lo stachanovismo maoista. Anche l’industria segnò un recupero dopo la crisi agricola degli anni ’60 e 61 che si trasmetteva anche all’industria per la mancanza di materie prime e sussistenze.

Negli anni 1966 e 1967 la tendenza maoista, in un disperato tentativo di sopravvivere all’interno del Partito-Stato, lancia la parola d’ordine della lotta contro il revisionismo traditore. Mao trova appoggio solo nel mondo studentesco e fra gli insegnanti, ma non è certo possibile spiegare le vicende della Rivoluzione Culturale solo per l’appoggio prestato dall’ambiente studentesco: le purghe attuate dal maoismo nel seno del partito erano di tale estensione che solo le poté guadagnandosi l’appoggio dell’esercito, nel quale Mao era tuttora considerato il capo.

La Rivoluzione Culturale, che era cominciata e non pretendeva esser altra cosa che una disputa tra frazioni all’interno dell’apparato del partito, benché aspra e cruenta, non interessò la vita produttiva del paese fino a quando non entrarono in scena gli operai e i contadini. Gli operai non sentivano come loro nessuno degli inviti spartani delle Guardie Rosse studentesche, che al contrario nulla dicevano contro le condizioni di sfruttamento nelle fabbriche. Le Guardie Rosse furono inviate nelle provincie per depurare il membri borghesi e controrivoluzionari dei comitati locali del partito, che con l’appoggio di Pechino e dell’esercito di sentivano onnipotenti. Si ebbero suicidi e assassini dei quadri da epurare.

Di fronte a questa situazione i comitati locali delle provincie non trovarono miglior rimedio che organizzare le masse operaie contro le Guardie Rosse, momento nel quale si ruppe la disciplina sociale e del quale gli operai approfittarono per rivendicare istintivamente i loro propri interessi, aumento dei salari e miglioramento delle condizioni di vita, poiché non si identificavano in nessuna delle due bande in lotta nello Stato. Gli scioperi si propagarono interessando la produzione del paese. Con la forza e la disciplina dell’apparato del Partito-Stato diminuite i contadini decisero di appropriarsi di tutto il raccolto lasciando vuoti i granai di Stato. Il disordine e l’anarchia regnanti indussero l’esercito a prendere nelle sue mani il potere e tutta la vita civile: solo con la repressione a ferro e fuoco è si riuscì a restaurare l’ordine. Apparentamento uscì vincitore il faccione maoista, però sono i militari ad occupare gran parte delle massime cariche dello Stato.

Deng Xiaoping, che durante la Rivoluzione Culturale dovette mettersi in ombra, nel 1972 fu riabilitato insieme, a poco a poco, agli altri membri della linea «aperturista». È il momento in cui si stabiliscono relazioni diplomatiche con gli Usa e l’importanza della Cina nel contesto internazionale inizia a consolidarsi. Alla morte di Mao nel 1976, debilitato anche fisicamente da alcuni anni, la Banda dei Quattro cercò di riappropriarsi del potere in un ultimo tentativo antiaperturista, ma è sconfitta e la conferma di Deng Xiaoping al vertice dello Stato indica l’inizio di una fase di riforme economiche e di apertura all’estero che dura fino ai nostri giorni, un lavorio lungo e complesso che fa onore alla proverbiale pazienza cinese, via obbligata per lo sviluppo di cotanto massa umana ed estensione del territorio.

Le riforme nell’agricoltura che si introdussero con Deng, liberalizzando i prezzi, facendola finita con il sistema delle Comuni e potenziando le imprese familiari, ha elevato considerevolmente la produttività agricola in Cina. Le cifre restano molto lontane da quelle dei paesi occidentali nei quali la forza lavoro impegnata nell’agricoltura è minima, raro che superi il 10 % , mentre per la Cina si stima ancora al 58 % del totale.

La cina entra nello scacchiere imperialista

I timori del maoismo che l’apertura avrebbe consegnato il paese allo straniero nemmeno oggi si può dire con certezza se e quanto fossero fondati. Attualmente è in atto un gigantesco scontro fra la Cina da un lato, che lotta per le sue aspirazioni di grande potenza mondiale, e i vecchi e già consolidati imperialismi, con gli Usa alla testa. La Cina abbisogna di entrare in contatto con il capitale e la tecnica occidentale compromettendo il meno possibile la sua autonomia, mentre il vecchio imperialismo, con le sue istituzioni internazionali e il suo ordine economico planetario, pretendono che la Cina occupi il posto che le è stato assegnato senza debordarne. Le tensioni generate da questo scontro si manifestano di volta in volta nelle crisi commerciali fra Cina e Usa, nelle dimostrazioni di forza da entrambi i lati approfittando della questione Taiwan o nelle denunce occidentali della violazione dei «diritti umani», come se queste fossero monopolio del governo cinese e gli Stati occidentali avessero le mani pulite.

La carta principale che la Cina può giocare in questo scontro, che per il momento non oltrepassa l’economico-diplomatico-politico, è la potenzialità del suo mercato interno di più di 1200 milioni di persone, che brilla nelle pupille dei capitalisti di tutti i paesi e li fa sbavare. Questo permette alla Cina di porre condizioni agli investimenti stranieri, che le imprese investitrici altrimenti non accetterebbero. Spesso le multinazionali che investono in Cina lamentano ostacoli burocratici, parzialità del sistema giudiziario, promesse non mantenute, ecc., ma non poche hanno aperto una sede in Cina per costituirsi una base sperando di entrare un giorno in piena libertà. Statisticamente 3/5 degli investimenti diretti esteri in Cina dal 1979 al 1995 provengono da Hong Kong, Macao e Taiwan, il che fa pensare che per muoversi nel mondo degli affari in Cina sia necessario conoscere la lingua, mantenere contatti e disporre di adeguata entratura per non essere esclusi. I cinesi, che hanno sofferto la superiorità tecnica dell’occidente, hanno saputo sviluppare da molto tempo l’arte dell’inganno, benché, al dunque, siano stati i cannoni ad imporsi.

Per analizzare l’evoluzione di questo scontro fra il capitale internazionale che intende contenere la Cina, e questa che vuol farsi spazio die grande potenza, vanno seguiti i dati economici dell’indebitamento, degli investimenti, la bilancia commerciale, ecc., ma anche la politica militare che tanto inquieta i borghesi d’occidente.

Il proletariato cinese invece deve inquietarsi per la ineluttabile dinamica del modo di produzione capitalista, sia esso cinese, americano, europeo o giapponese, che tende a ridurre all’estremo la condizione di vita operaia. Senza un’alternativa classista, almeno a livello sindacale, sarà impossibile frenare l’appetito insaziabile di sangue e sudore proletario del capitale: col suffragio universale o senza le necessità del capitale sono le stesse. L’emancipazione dei proletari passa per la distruzione del capitalismo, per l’indipendenza del suo regime politico che ha quel fine; per la necessaria direzione del Partito comunista nella Rivoluzione proletaria.

Notes:
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  1. Il testo originale parlava qui erroneamente di «trenta libertà», ma erano solo tre. 三自一包, San zi yi bao, può essere tradotto letteralmente come «tre in un unico pacchetto» e significava «l'espansione della terra per uso privato e del libero mercato, l'aumento delle piccole imprese con la sola responsabilità dei propri profitti o perdite, e l'istituzione di quote di produzione per le singole famiglie, essendo ognuno responsabile per se stesso». (citato da «Peking Review», № 11 del 14. 3. 1975, traduzione propria dall'inglese) – sinistra.net[⤒]


Source: «IL PARTITO COMUNISTA», Settembre 1997, Anno XXIV-N.252.

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