LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
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SULLA CRISI PROLUNGATA DELLA CLASSE PROLETARIA E SULLE SUE POSSIBILITÀ DI RIPRESA


Content:

Sulla crisi prolungata della classe proletaria e sulle sue possibilità di ripresa
La controrivoluzione borghese non si è fermata alla distruzione della prima dittatura proletaria in Russia; doveva trasformare i proletari in schiavi contenti della propria schiavitù
La democrazia è il miglior ambiente per la lotta della classe borghese contro la classe proletaria
La lotta fra le classi non muore mai
Uscire dal baratro
Sono le contraddizioni profonde del capitalismo a spingere i proletari alla lotta di classe
Notes
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Sulla crisi prolungata della classe proletaria e sulle sue possibilità di ripresa

Da molti anni, trattando della necessità di una forte e duratura ripresa della lotta di classe, dobbiamo forzatamente registrare uno spaventoso indietreggiamento del proletariato sullo stesso terreno della più elementare difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro.

Nella Riunione Generale del dicembre 1992, trattando di questo argomento e dei compiti dei comunisti, affermavamo:
«In tutto questo periodo (dalla sconfitta negli anni Venti della rivoluzione comunista in Russia e nel mondo) il proletariato ha dovuto affrontare senza partito marxista e senza organizzazioni immediate classiste la seconda guerra mondiale, ha dovuto farla, uscirne, ricostruire i paesi distrutti, soprattutto in Europa, passare attraverso il ciclo delle rivoluzioni anticoloniali borghesi fino al 1975, e giungere alla prima vera crisi simultanea di tutti i paesi capitalistici avanzati; tutto questo periodo ha pesato sul proletariato di tutto il mondo, e in particolare sul proletariato dei paesi avanzati, come un enorme macigno, e ha rappresentato un gigantesco ripiegamento della classe proletaria internazionale dalle posizioni di classe anche le più elementari. Di più, non si tratta solo di un macigno che bisogna spostare per riprendere il cammino; in realtà è qualche cosa che fa parte del suo organismo, è una poderosa intossicazione trasmessa di generazione in generazione nel corpo stesso del proletariato: un’intossicazione di democratismo, di collaborazionismo, di partecipazionismo, di interclassismo mescolata al continuo massacro nelle fabbriche, nelle miniere e nelle mille guerre che hanno continuato a scoppiare negli anni di un secondo dopoguerra mondiale propagandato da tutti i governi borghesi come gli anni della pace, del progresso, del benessere!»[1].

Dunque la crisi del proletariato che ancor oggi registriamo ha radici lontane, e purtroppo molto profonde. Il proletariato è stato privato dalla controrivoluzione borghese dei suoi organismi di lotta immediata e del suo partito di classe; la lotta fra le classi, portata ali'apice della tensione e dello scontro di tutte le forze sociali, non ammette pause, non ammette equilibri permanenti, non ammette assenza di potere o lunghi periodi di «doppio potere» (potere proletario in una parte del mondo e potere borghese nella restante parte del mondo). Perciò, la vittoria della rivoluzione comunista nei paesi in cui il proletariato conquista il potere comporta la privazione totale del potere politico della borghesia, la distruzione delle sue organizzazioni politiche ed economiche, l’esercizio dittatoriale da parte della classe proletaria sulle classi borghesi e piccoloborghesi con lo scopo di impedirne la riorganizzazione e la possibilità di muovere alla restaurazione del potere borghese. E questo con la prospettiva di estendere a livello mondiale la vittoria rivoluzionaria proletaria; dunque, facendo leva sul potere proletario e comunista già conquistato in uno o in alcuni paesi per rafforzare e stimolare la lotta rivoluzionaria del proletariato in tutti gli altri paesi ancora sotto il giogo del potere borghese.

Perché mai la classe borghese, a potere politico riconquistato dopo il periodo vittorioso della rivoluzione bolscevica, avrebbe dovuto comportarsi in modo diverso? La controrivoluzione borghese – come ricordava Marx dopo le insurrezioni proletarie del 1848 a Parigi, a Vienna, a Milano – esprime una mastodontica sete di vendetta e di rivincita che fu chiamata cannibalismo controrivoluzionario attraverso il quale la classe borghese tenta di far scomparire dalle menti e dal cuore delle generazioni proletarie future anche solo l’idea di ribellarsi al suo dittatoriale potere politico ed economico.

La sconfitta del movimento rivoluzionario del proletariato internazionale negli anni Venti del secolo XX, ha avuto una caratteristica che nelle sconfitte precedenti – nell’appena ricordato 1848, e nella Comune di Parigi del 1871 – non aveva. La caratteristica è questa: il proletariato è stato battuto non solo dalle forze apertamente e dichiaratamente borghesi e anticomuniste (le borghesie dominanti dei grandi paesi europei e dell’America in primo luogo), ma dalla contemporanea azione delle forze opportuniste cresciute e sviluppatesi all’interno stesso delle file proletarie e del potere proletario in Russia. Senza questa micidiale combinazione il proletariato russo, europeo e internazionale non sarebbe stato sconfitto facilmente.

Lo stalinismo, cioè la concretizzazione della controrivoluzione borghese sotto le false vesti del socialismo in un solo paese, è stato l’asso nella manica della borghesia internazionale. Attraverso la politica e l’azione dello stalinismo, la borghesia non solo e non tanto «russa», ma internazionale, si è presa una formidabile rivincita nei confronti del proletariato che l’aveva sconfitta non soltanto a Mosca e a Pietroburgo gettando nella pattumiera della storia Zar e Kerenski insieme, ma soprattutto nei tre lunghissimi anni di guerra civile nei quali le armate bianche sostenute dai più potenti paesi capitalisti del mondo furono completamente sbaragliate.

Attraverso lo stalinismo, e successivamente attraverso le molteplici sue varianti, la borghesia internazionale ebbe ragione del suo nemico storico, il proletariato. Vinto in Germania, in Polonia, in Ungheria, in Francia, in Romania, in Italia, in Inghilterra, in Cina, il proletariato doveva essere vinto nel principale bastione antiborghesie e anticapitalistico eretto dalla rivoluzione comunista: in Russia. Ed è nei confronti del proletariato russo, in particolare, che il cannibalismo controrivoluzionario borghese si è sfogato con particolare ferocia. Centinaia di migliaia di proletari bolscevichi che rappresentavano la vecchia guardia rivoluzionaria subirono una sistematica decimazione. Tolte di mezzo, insieme con molti capi bolscevichi nelle famose purghe staliniane, le migliori forze proletarie che la rivoluzione bolscevica aveva espresso; sfigurato e stravolto completamente quel partito bolscevico che era stato in grado di dirigere la rivoluzione vittoriosa e la prima vera e dichiarata dittatura proletaria al mondo, e che era stato in grado di rappresentare attraverso l’Internazionale Comunista una sicura guida del proletariato internazionale; deviati e snaturati i partiti comunisti che più saldamente avevano assimilato gli insegnamenti della rivoluzione bolscevica e del movimento comunista internazionale come ad esempio il Partito comunista d’Italia; stritolati nella morsa delle forze borghesi reazionarie come i proletari di Canton e Shangai ai quali per sovrappiù è stato cancellato il proprio partito comunista fondendolo forzatamente nel borghesissimo Kuomintang; ai proletari di tutto il mondo non restò che subire la più disastrosa delle sconfitte.

La luce rappresentata dalla Russia bolscevica, dall’Internazionale Comunista, dalla lotta rivoluzionaria in tutto il mondo, fu completamente oscurata dalla controrivoluzione staliniana. Da una sconfitta di queste dimensioni il proletariato non poteva riprendersi facilmente. La classe borghese dominante ha ottenuto un grosso risultato storico: respinto nel baratro della schiavitù salariale e sociale, privato di ogni organizzazione classista, massacrato sistematicamente nelle lotte sociali e nelle guerre borghesi, il proletariato non avrebbe avuto per diverse generazioni la possibilità di riorganizzarsi e riprendere il cammino della sua lotta rivoluzionaria.

Questa sconfitta storica è la causa principale dell’indietreggiamento del proletariato anche sul terreno della elementare difesa delle condizioni di vita e di lavoro.

La controrivoluzione borghese non si è fermata alla distruzione della prima dittatura proletaria in Russia; doveva trasformare i proletari in schiavi contenti della propria schiavitù

Ma alla classe borghese non basta sconfiggere il proletariato in campo economico, e non basta sconfiggerlo sul terreno dei rapporti di forza sociali. I capitalisti hanno bisogno della forza lavoro proletaria, perché solo dal suo sfruttamento essi ricavano il plusvalore, ossia i loro profitti; ed hanno tratto una lezione dalla storia del loro dominio sociale: i proletari possono essere sfruttati molto più intensamente, e con meno costi sociali, se vengono coinvolti a forme di partecipazione democratica nella «gestione» del lavoro, nella «gestione» della cosa pubblica. Nella misura in cui la ricchezza accumulata dallo sfruttamento del lavoro salariato permette alla borghesia di destinare al proletariato, o a suoi strati, alcune «garanzie» sociali e dei miglioramenti economici, ecco che si costituiscono quelle basi materiali necessarie a sostenere una politica riformista nei confronti del proletariato; dunque, una politica che tende a far vivere al proletariato un sentimento di «appartenenza» ad un meccanismo sociale del quale non sono soltanto i capitalisti a beneficiare ma anche i proletari.

È il fascismo che «insegna» ai capitalisti e alla democrazia – una volta schiacciato ogni tentativo rivoluzionario del proletariato – ad utilizzare sistematicamente e a livello statale tutta una serie di «garanzie» sociali e di miglioramenti economici attraverso i quali attrarre nel proprio campo borghese, a difesa degli interessi borghesi, le forze del proletariato. Gli ammortizzatori sociali – indennità di vario genere, cassa mallatìa, assegni familiari, pensioni, ecc. – sono stati introdotti dal fascismo, allo scopo di disporre delle forze del proletariato, in pace come in guerra, a seconda delle esigenze del capitalismo nazionale.

Da qui nasce un’esperienza: la borghesia democratica erediterà ben volentieri dal fascismo questa politica riformista, e la amplierà notevolmente – anche sulla pressione delle masse proletarie che, rendendosi conto del fatto che la classe dominante è in qualche misura disponibile a concedere qualcosa, lottano per ottenere ulteriori miglioramenti – dato che con la guerra e nel dopoguerra lo sforzo da richiedere al proletariato è stato enorme. Ma, caduto il fascismo, col quale metodo di governo era la stessa classe borghese ad amministrare direttamente i rapporti con il proletariato, sebbene attraverso il sindacato fascista – peraltro unico ed obbligatorio – la borghesia democratica doveva utilizzare il metodo riformista con forme di intermediazione che assomigliassero il più possibile alla suddivisione dei compiti e alle differenze di interessi. Eliminato il partito borghese unico, ed eliminato il sindacato unico e obbligatorio, la democrazia post-fascista permetteva di rinnovare la vecchia illusione, quella secondo cui ogni strato sociale, e ogni classe sociale, crede di poter avere a disposizione egualitari strumenti di difesa dei propri interessi in un contesto sociale in cui lo Stato viene fatto passare come un ente al di sopra delle classi, come un arbitro neutrale al quale si richiede che derima tutte le possibili controversie e tutti i possibili conflitti sociali. La democrazia, se ieri rappresentava il miglior terreno di coltura dell’opportunismo classico di bernsteiniana e turatiana memoria, dal secondo dopoguerra in poi rappresenta il miglior terreno di coltura del collaborazionismo sindacale e politico. Molti partiti, diversi sindacati, legalmente riconosciuti; libertà di associazione, di riunione, di manifestazione delle proprie idee e dei propri interessi: ecco la democrazia, ecco il terreno sul quale cresce in abbondanza la mistificazione dell’eguaglianza nei diritti, della libertà personale, delle stesse possibilità economiche e culturali per tutti. Ecco il terreno che facilita la cattura ideologica e pratica del proletariato sul fronte della conciliazione fra le classi.

La differenza fra l’opportunismo di ieri e il collaborazionismo di oggi?

L’opportunismo di ieri – dei vertici sindacali della CGL e del Partito socialista italiano, per fare un esempio – era una politica che intaccava le organizzazioni proletarie dall’esterno, da parte della borghesia. Il collaborazionismo di oggi – non solo dei vertici, ma degli interi apparati dei sindacati e dei partiti che si professano «operai» – è la politica riformista borghese vestita da politica riformista operaia. È per questo che i sindacati del secondo dopoguerra li abbiamo chiamati da subito tricolore (mentre i sindacati del primo dopoguerra erano ancora sindacati di classe, solo con vertici corrotti e opportunisti), ed è per questo che i partiti comunisti stalinisti li abbiamo chiamati partiti nazionalcomunisti, mentre i partiti socialisti del primo dopoguerra dai quali per scissione nacquero i partiti comunisti rivoluzionari erano dei partiti operai borghesi, dei partiti opportunisti, secondo la definizione che ne diede Lenin.

Il collaborazionismo nasce direttamente dalla democrazia borghese dell’epoca dell’imperialismo, ad opera delle forze della democrazia borghese, con l’intento di organizzare le masse proletarie allo scopo di impedire loro di dotarsi di organizzazioni classiste, indipendenti dal padronato, dallo Stato borghese, dalle diverse forze della conservazione borghese.

Il proletariato, dopo la sua sconfitta rivoluzionaria, cade inevitabilmente nelle maglie dell’opportunismo – che dalla teoria staliniana del socialismo in un solo paese, sarà conosciuto come stalinismo – e questo ha il compito non solo di piegarlo alle esigenze di ogni capitalismo nazionale (in Russia alle esigenze dello sviluppo capitalistico di un grande paese arretrato, nei paesi europei e in America alle esigenze di ogni singolo paese capitalista e imperialista nella lotta di concorrenza sul mercato internazionale), e di prepararlo alla successiva guerra mondiale. Il proletariato di ogni paese, infatti, intossicato dalla propaganda nazionalista che ogni borghesia diffonderà con argomenti anche molto differenti (il fascismo e il nazismo contro le «plutocrazie democratiche» che vogliono soffocare le loro velleità imperiali, lo stalinismo contro il fascismo e il nazismo considerati a torto come un «passo indietro» nella storia, le democrazie occidentali contro il fascismo e il nazismo considerati «malvagi in quanto dittature»), verrà portato alla partecipazione alla seconda guerra mondiale senza che avesse la minima possibilità di opporsi in modo organizzato. E in particolare la resistenza partigiana, la resistenza antifascista delle forze democratiche, riuscirà in Italia, in Francia, in Grecia, in Jugoslavia, a deviare completamente il proletariato sul fronte della difesa attiva degli interessi delle frazioni borghesi che si predisponevano a prendere il posto alle leve di governo delle frazioni borghesi ormai compromesse con il fascismo e il nazismo.

L’opportunismo staliniano, quindi, prepara il proletariato a farsi macellare nella guerra imperialista con il solo scopo di far vincere un’alleanza fra borghesie contro un’altra alleanza fra borghesie avversarie sul campo del dominio imperialistico del mondo. Nessun interesse proletario può essere scovato nella guerra imperialista; nessun interesse proletario può essere scovato nella difesa dei regimi democratici contro i regimi apertamente dittatoriali come quelli fascisti, e viceversa. In ballo c’erano solo interessi borghesi che ricercavano una soluzione dei loro contrasti interimperialistici in una nuova spartizione del mondo. I proletari di tutti i paesi, per l’ennesima volta, dove vano far la parte della carne da cannone, degli utili guardiani del nuovo ordine democratico e imperialistico che dalla guerra sarebbe nato; pronti, oltretutto, a farsi sfruttare bestialmente nel periodo di ricostruzione postbellica sotto quei regimi democratici che avevano contribuito a far vincere!

Con la fine della guerra imperialistica, l’opportunismo staliniano lascia il campo al collaborazionismo democratico e interclassista, non solo a livello sindacale ma anche a livello politico. La democrazia post-fascista, che dal fascismo in realtà eredita un riformismo borghese praticato ed efficace e la politica dell’intervento statale nell’economia, terrà a battesimo le nuove organizzazioni sindacali e i nuovi partiti «comunisti» che non si vergogneranno di amministrare gli interessi nazionali, per conto delle frazioni borghesi vittoriose, anche dalle poltrone governative. I partiti e i sindacati tricolore, mistificando parole, tesi, atteggiamenti, sembianze, proletarie e comuniste, iniziano così la loro lunga (e preziosissima per il capitale) opera di intossicazione democratica e collaborazionista del proletariato.

La democrazia è il miglior ambiente per la lotta della classe borghese contro la classe proletaria

È esattamente questa lunghissima e profonda intossicazione di collaborazionismo, di interclassismo che ha impedito sempre più al proletariato, soprattutto dei paesi avanzati, di reagire con metodi e mezzi classisti in difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro e alla sistematica gragnuola di misure antioperaie che, in particolare dalla crisi generale del capitalismo mondiale del 1975 in poi, hanno caratterizzato la politica di ogni governo borghese, in ogni paese.

In che cosa consiste il collaborazionismo, l’interclassismo?

Questa è una politica che la classe borghese dominante adotta nei confronti del proletariato allo scopo di far passare l’idea che il proletariato ha tutta la convenienza nel difendere interessi «comuni» fra capitalisti e operai, come ad esempio: difendendo la competitività delle merci prodotte nelle diverse aziende i proletari difendono contemporaneamente il proprio posto di lavoro; difendendo il proprio posto di lavoro nelle diverse aziende i proletari difendono contemporaneamente, anche se con potere d’acquisto inferiore, il proprio salario; difendendo l’economia nazionale e in particolare il suo buon andamento rispetto alla concorrenza internazionale, i proletari difendono il proprio tenore di vita, le proprie conquiste sociali, i vantaggi acquisiti in termini di pensioni, sanità, servizi sociali, ecc.

La borghesia parte dal concetto secondo il quale è il capitale che crea il lavoro, che perciò permette a milioni di proletari di vivere grazie al fatto di essere impiegati nelle aziende dei capitalisti. E accompagna questo concetto all’altro, secondo il quale il mercato – cioè l’incontro fra capitali concorrenti – è il fattore decisivo in ogni questione, economica, sociale, politica, militare, culturale o ambientale che sia. Perciò le esigenze del capitale, le esigenze del mercato devono primeggiare su ogni altra esigenza.

È del tutto ovvio che la borghesia ragioni secondo questi criteri. Essa rappresenta esattamente gli interessi della classe sociale che possiede i capitali, li amministra, li investe, li scambia, li spreca, li distrugge, li riaccumula. La società eretta sul modo di produzione capitalistico – e il marxismo lo ha chiamato così non in onore alla classe borghese che nella prima metà dell’Ottocento era ancora per buona parte rivoluzionaria, ma perché, trattandosi del modo di produzione sociale che sostituì, distruggendoli, i modi di produzione feudale, asiatico, ad economia naturale che ancora governavano l’economia della stragrande parte del mondo, si impose nel mondo attraverso quella straordinaria forza economica e sociale che è appunto il capitale – è in realtà una società ancora divisa in classi sociali antagoniste create proprio dal modo di produzione capitalistico secondo il quale l’umanità è suddivisa tra coloro che possiedono capitale e quindi possono impiegare forza lavoro salariata dalla quale estorcere il plusvalore, e coloro che possiedono esclusivamente la forza lavoro che il capitale impiega nelle aziende contro un salario che corrisponde non al totale valore delle merci prodotte e della forza impiegata per produrle, ma solo alla riproduzione della forza lavoro impiegata per produrle, un valore quindi inferiore a quello corrispondente al tempo di lavoro utilizzato effettivamente.

La borghesia, che come classe a se stante non avrebbe mai avuto la possibilità di vincere in modo definitivo le classi aristocratiche che dalla loro avevano le immense masse di contadini, doveva catturare alla propria causa le altre classi subalterne, in particolare i contadini e i proletari. La concezione democratica di libertà, di eguaglianza, di fratellanza servì a catturare ideologicamente le masse contadine e proletarie alla causa della rivoluzione borghese che, d’altra parte, toglieva di mezzo tutto il peso dei privilegi della monarchia, delle classi aristocratiche e del clero, che pesavano enormemente sulle spalle del popolo non solo in termini di tasse ma anche in termini di obblighi e di vincoli personali particolarmente insopportabili. Dunque, sulla base di un progresso economico già avviato attraverso le botteghe e le manifatture nelle quali e'era bisogno di impiegare manodopera sempre più numerosa, la borghesia per suo interesse di classe ben preciso alzava la bandiera della libertà e dell’eguaglianza. In realtà: libertà di commercio, libertà di sfruttare senza limiti, di giorno e di notte, masse sempre più numerose di contadini proletarizzati; libertà di comprare e vendere la terra (altro mezzo di produzione di grandissima importanza); eguale possibilità per ogni borghese di sviluppare la propria attività; eguale possibilità per ogni proletario di frasi sfruttare in questa o quella azienda borghese; eguale possibilità per ogni contadino di portare al mercato i prodotti delle sue coltivazioni. Libertà di sviluppare la scienza e la tecnica strappandone il monopolio al clero; libertà di accumulare e di prestare denaro; libertà di accumulare ricchezze, di produrre e di vendere qualsiasi mercé; libertà di impiegare nei propri opifici e nei propri stabilimenti persone provenienti da qualsiasi angolo del paese, o da altri paesi. Il capitalismo si apriva in questo modo ogni possibile via per svilupparsi a livello planetario.

Così, il progresso economico, il progresso tecnico e scientifico, il progresso culturale, la libertà di circolazione delle merci e delle persone, si identificarono con la borghesia, con la classe che possedeva i capitali necessari per sviluppare l’economia e, quindi, la società verso traguardi mai nemmeno immaginati nella società precedente. La democrazia, in cui si condensa in generale il concetto borghese di libertà, di eguaglianza e di fratellanza, risponde in modo formidabile alla funzione di collegamento fra i possessori di capitale e i possessori di forza lavoro, cioè fra capitalisti e proletari. Attraverso la democrazia, ossia attraverso la mistificazione della «libertà», dell’"eguaglianza» e della «fratellanza», la classe borghese ha trasferito nelle classi subalterne, i contadini e i proletari, l’idea che fosse il mercato – cioè il luogo dove tutti potenzialmente possono scambiare qualsiasi cosa, a seconda delle proprie possibilità, delle proprie esigenze o dei propri interessi – a poter realizzare in pratica la libertà, l’eguaglianza, la fratellanza di ognuno verso gli altri. È a questa concezione di fondo che si rifanno necessariamente tutti coloro che mettono in primo piano le esigenze «comuni» fra capitalisti e proletari, tra sfruttatori e sfruttati, tutti coloro che sostengono la priorità della conciliazione fra le classi sociali, della collaborazione fra le diverse «parti» sociali, insomma quello che noi chiamiamo interclassismo.

La borghesia, dopo essere giunta ad ammettere che nella sua società vi erano ancora classi contrapposte, in lotta fra di loro per interessi contrapposti, non aveva alcuna possibilità di tirare tutte le conseguenze delle contraddizioni fondamentali del modo di produzione capitalistico su cui si erge il suo dominio sociale. Queste conseguenze le tirò Marx, che non si limitò mai a «descrivere» il capitalismo e il suo modo di produzione, ma lo analizzò sempre in funzione del suo necessario e inevitabile superamento storico.

La borghesia ha scoperto e ne ha trovate le conferme, nel corso di più di due secoli del suo dominio di classe, che la democrazia – cioè la mistificazione dell’eguaglianza sociale e della libertà individuale – è stato ed è in generale il metodo di governo più efficace, oltre ad essere il miglior veicolo di intossicazione collaborazionista mai trovato. Con ciò non affermiamo che la borghesia aborrisce i metodi della aperta e dichiarata violenza, del terrorismo di Stato, dei metodi di dichiarata dittatura di classe. Tutt’altro. Affermiamo che l’uso della mistificazione della democrazia consente alla borghesia dominante di ottenere per lunghissimi periodi di tempo il consenso delle masse proletarie e contadine, in una lotta che la oppone sì alla classe proletaria in particolare, ma che la classe operaia percepisce in modo meno netto, meno chiaro, meno evidente.

L’imposizione attraverso il pugno di ferro, con metodi dittatoriali che non lasciano spazio al «confronto», alla «libera circolazione delle idee», alla «libera scelta» sul mercato delle vaste offerte di merci di ogni tipo, contrasta con tutto rimpianto ideologico e propagandistico borghese, utilizzato fin dalla sua discesa sul proscenio della storia nella rivoluzione antifeudale. Questi sono fantasmi di cui la borghesia non riuscirà mai a disfarsi completamente. Ma se dovesse far un semplice conteggio da ragioniere fra «entrate» ed «uscite», la borghesia non può che scrivere nella colonna del metodo democratico un punteggio molto più alto che nell’altra colonna del metodo dittatoriale aperto, o fascista; il proletariato, infatti, è stato sfruttato molto più intensamente e con meno problemi di ordine sociale nei periodi di democrazia che non nei periodi di fascismo o di dittatura militare.

Metodo democratico o metodo dittatoriale aperto, è la risposta che la borghesia da, a seconda delle situazioni e dei rapporti di forza fra proletari e borghesi, agli antagonismi sociali esistenti e al livello delle loro tensioni. E non è mai esistita democrazia nella quale la borghesia dominante non esercitasse in modo molto efficace la coercizione e la repressione. Democrazia infatti non significa assenza di violenza statale nei confronti del proletariato; è una violenza spesso molto più minacciata che attuata, ma di grande efficacia egualmente.

Il limite che la borghesia dominante accetta più volentieri nella tensione sociale che la lotta fra le classi produce, è il limite entro il quale essa riesce a controllare sufficientemente la classe proletaria in modo da poter estorcere dal suo lavoro salariato maggiori quote di plusvalore possibile. È soprattutto di fronte a serie minacce sociali da parte del proletariato organizzato e in lotta sul terreno della lotta di classe e rivoluzionaria, che la borghesia predispone il passaggio dal metodo democratico al metodo apertamente dittatoriale. Ma, per quanto le è possibile, la borghesia cercherà sempre di utilizzare al meglio tutte le armi che la democrazia le consente di usare, dall’elezionismo al collaborazionismo politico e sindacale da parte di quei partiti e quei sindacati che possono convogliare l’influenza che hanno sul proletariato verso la difesa degli interessi borghesi, in tempo di pace come in tempo di guerra.

Perché, per la borghesia, resta sempre aperto il problema del controllo del proletariato.

La storia della lotta fra le classi, la storia delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, ha insegnato anche alla borghesia qualche cosa. Ad esempio ha insegnato che non può permettersi il lusso di credere di aver vinto sul proletariato e sulla sua potenziale rinascita rivoluzionaria solo per averlo schiacciato nella controrivoluzione vittoriosa. Per questo, utilizzando l’esperienza internazionale, ogni borghesia nazionale tende ad attrezzarsi nel modo più efficace contro ogni possibile risollevamento del proletariato come forza a se stante. E tende soprattutto ad affinare tutti i possibili metodi e mezzi che la democrazia le mette a disposizione per portare il proletariato dalla sua, o perlomeno, per neutralizzarne gli strati più combattivi. Sono le armi della corruzione economica, sociale e morale quelle preferite.

Il perché?

Più di settant’anni di interclassismo, di opportunismo, di collaborazionismo dagli anni Venti ad oggi stanno a dimostrare che la corruzione democratica è particolarmente efficace. Dalla vittoria controrivoluzionaria sull’Ottobre bolscevico e sui tentativi rivoluzionari in Germania, in Polonia, in Ungheria, ad oggi, il proletariato internazionalmente non è più riuscito a riconquistare il terreno della lotta rivoluzionaria allo stesso livello. Di fatto, decennio dopo decennio il proletariato ha perso sempre più terreno, e nella misura in cui si faceva influenzare dal l’opportunismo stalinista, e poi maoista, e poi guevarista e poi sempre più dal puro collaborazionismo, il proletariato si faceva spingere sempre più nell’arretratezza politica e sociale fino a diventare una grande e indifferenziata massa di manovra: sempre più carne da cannone, sempre più forza lavoro schiavizzata nelle fabbriche-galere, sempre meno capace di resistere alle pressioni continue dei capitalisti, sempre meno capace di reagire ai persistenti peggioramenti delle condizioni di vita e di lavoro.

È una legge: più il proletariato si sottomette alle esigenze dei capitalisti, più viene da questi ultimi schiacciato; più i proletari si ripiegano nella propria individualità, più i padroni hanno le mani libere ed accrescono la propria arroganza disponendo della loro vita come vogliono.

La lotta fra le classi non muore mai

Si dirà: ma il proletariato, dal 1945 in poi, non ha smesso di battersi per migliorare le sue condizioni di vita e di lavoro! Dunque non si è sottomesso del tutto!

È vero, in modo più o meno vasto, più o meno episodico, il proletariato è sceso in sciopero, si è battuto contro i padroni, contro la polizia e l’esercito, ha manifestato, protestato, ha esercitato pressioni anche molto forti sul padronato e sui governi perché le sue condizioni di vita e di lavoro migliorassero. Ma da quali organizzazioni sindacali e politiche è stato diretto in queste lotte?

Il collaborazionismo sindacale e politico, per esercitare la sua più forte influenza sul proletariato, e quindi per poter svolgere la sua funzione di controllo sociale e di baluardo contro le spinte sovversive che dalla lotta operaia spesso nascono, doveva agire come se rappresentasse effettivamente gli interessi dei proletari. Perciò, nei diversi periodi economici e sociali, dal dopoguerra ad oggi, il collaborazionismo ha utilizzato diverse tattiche.

Fatto salvo che l’obiettivo principale del collaborazionismo è stato ed è sempre quello di far prendere in carico al proletariato la difesa degli interessi economici e sociali della borghesia – obiettivo che era stato già raggiunto durante la guerra imperialista con la partecipazione del proletariato su ognuno dei due fronti borghesi –, il bonzume sindacale e la nomenklatura politica dei partiti nazionalcomunisti, a seconda delle fasi dei diversi cicli capitalistici, devono di volta in volta modificare i loro atteggiamenti, le loro parole d’ordine, i loro obiettivi, i loro metodi. Nella misura in cui la classe dominante, borghese è disponibile a fare delle concessioni al proletariato – in funzione di un maggiore consenso sociale, di una maggiore partecipazione alla difesa della democrazia e dell’ordine costituito, di una, maggiore flessibilità sul lavoro – ed ha quindi a disposizione una quota dei propri profitti da giocare sul tavolo delle trattative, il collaborazionismo ha più possibilità di farsi recepire dal proletariato come suo rappresentante ed ha quindi più possibilità di far passare nelle file proletarie la serie ritenuta di volta in volta necessaria di sacrifici. Do ut des, diamo ai capitalisti qualcosa che loro pretendono da noi in cambio di qualche vantaggio, economico, normativo, sociale. Come dire: i soldi ci sono, anche i lavoratori ne vogliono una parte, ma dobbiamo compensare questa richiesta con delle «concessioni» ai capitalisti.

Di questa impostazione i proletari conosceranno tutte le implicazioni nella fase in cui il capitalismo entra in crisi: di soldi non ce ne sono, non possiamo pretenderne una parte; dobbiamo fare ulteriori sacrifici oggi perché i capitalisti accumulino quantità di profitti sufficienti perché almeno in piccola parte, domani, sia possibile ripartirla sul proletariato.

Tutto si fa dipendere dalla disponibilità o meno che i capitalisti hanno nel concedere al proletariato dei miglioramenti economici. La stessa cosa avviene a livello statale, nel campo delle «garanzie sociali», scala mobile in testa; ma, a seguire, i vari automatismi in busta paga, le varie indennità, la sanità, la nocività, la sicurezza sul lavoro, il posto di lavoro, la pensione, la liquidazione (l’attualissimo trattamento di fine rapporto, Tfr). Piano piano, ma inesorabilmente, la classe dei capitalisti – spinta dalla concorrenza che si fa sempre più acuta ed agguerrita in ogni angolo del pianeta – intende riprendersi tutte le concessioni che nei decenni scorsi sono state elargite alla classe proletaria. Più si acutizza la concorrenza, più si saturano i mercati, più il tasso medio di profitto capitalistico si abbatte, e il capitale nella sua corsa iperfolle di riproduzione e valorizzazione entra in crisi.

Per combattere questa caduta del tasso medio di profitto, e per difendere più efficacemente sul mercato le proprie quote di capitale, ogni capitalista è spinto ad agire sui due fronti principali: sul fronte della produttività, grazie ali'aumento della quale è possibile andare sul mercato con prezzi concorrenziali senza intaccare il margine di profitto, e sul fronte del costo del lavoro -ossia del capitale variabile, del capitale-salari – grazie al cui abbattimento il capitalista tende ad assicurarsi in partenza un certo margine di profitto aldilà di come potrà realizzarlo con la vendita di tutte o di parte delle proprie merci sul mercato.

Come il collaborazionismo interpreta questa esigenza della borghesia?

La interpreta con la politica dei sacrifici che i proletari devono fare, pena la perdita del posto di lavoro (e quindi del salario) a causa delle ristrutturazioni aziendali o dei fallimenti. La interpreta con la politica di una sempre maggiore flessibilità della mano d’opera, pena l’emarginazione dal mondo del lavoro e la disperazione della disoccupazione.

In periodo di crisi economica, non solo i sacrifici, perii collaborazionismo, sono «inevitabili», ma diventano la priorità assoluta. Il proletario, da «prestatore d’opera», da «venditore di forza lavoro» stabile, diventa un fornitore di sacrifici, un fornitore di lavoro gratuito, un precario nullatenente in cerca di padrone. Le lotte operaie guidate dalle forze del collaborazionismo sindacale prendono una piega diversa: da lotte che per obiettivi avevano aumenti di salario e diminuzione dell’orario di lavoro, pur sempre imbrigliate nel contesto della partecipazione dei sindacati alle decisioni aziendali in termini di investimenti, innovazioni tecnologiche ecc., si passa a lotte che per obiettivi hanno la difesa della competitività delle aziende, l’aumento della produttività, il legame sempre più stretto fra salario e mallatìa, presenza in fabbrica, produttività. Sul piano politico più generale, il collaborazionismo abbraccia sempre più dichiaratamente la causa del buon andamento dell’economia nazionale, della competitività del capitalismo nazionale, degli interessi dell’imperialismo di casa nel mondo. I partiti nazionalcomunisti diventano sempre più partiti di governo, anche se sono collocati nell’opposizione parlamentare. Nello stesso tempo, con l’aumento della concorrenza fra borghesi sul mercato nazionale e internazionale, aumentano gli interventi padronali e statali per alimentare ed ampliare sempre più la concorrenza fra proletari.

La fase cambia. La borghesia, subita la più vasta crisi capitalistica dal dopoguerra – siamo nel 1975 – corre ai ripari. Innestata una serie interminabile di misure antiproletarie del tutto inattese dai proletari (d’altra parte il collaborazionismo non aveva certo il compito di preparare i proletari alla lotta, più dura nella misura in cui l’attacco della borghesia era più duro), e passa al collaborazionismo politico e sindacale il compito di farle digerire in tempi non troppo lunghi al proletariato. Ed è esattamente quel che il collaborazionismo farà. Il proletariato, da parte sua, persa la tradizione della lotta classista e condotto dalle forze dell’opportunismo prima, e del collaborazionismo poi, ad abbracciare la causa borghese sia sul terreno politico che sul terreno economico e sindacale, non riesce ad offrire agli attacchi della borghesia una resistenza degna di questo nome. Le sue lotte, le sue manifestazioni di strada, i suoi picchetti di sciopero, il suo sforzo di reazione non sfociano nella ripresa della lotta classista, e i suoi tentativi di organizzazione classista al di mori degli apparati sindacali tricolore vengono sistematicamente deviati e sconvolti dalle forze del nuovo opportunismo di sinistra, figlio dei movimenti del Sessantotto, si trattasse di gruppi come Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Servire il Popolo, di Potere operaio o delle Brigate Rosse. I gruppi proletari più combattivi, nel tentativo di svincolarsi dalla tenaglia del collaborazionismo dei partiti nazionalcomunisti e dei sindacati tricolore, finirono prima o poi nelle reti degli extraparlamentari di sinistra che svolsero obiettivamente la funzione di distruggerne la combattività classista per ricondurli sul terreno della democrazia e del parlamentarismo. E quando, dalle stesse lotte operaie e dalla sistematica loro repressione alla quale partecipavano indirettamente i sindacati tricolore e i partiti ex stalinisti, gruppi proletari acquisivano la coscienza che la lotta di classe non può non prevedere anche l’uso della violenza nella necessità di difendere gli organismi classisti e i loro militanti, si misero di traverso le Brigate Rosse e gruppi lottarmatisti similari che svolsero la funzione di deviare la tensione classista, che stava emergendo, nel vicolo cieco del terrorismo individualista. Dall’autunno caldo del 1969, allo sciopero ad oltranza dei 35 giorni alla Fiat del 1980, i proletari hanno tentato di riguadagnare il terreno della lotta di classe, ma alla fine hanno subito un’ulteriore sconfitta.

Da allora, la borghesia accelerò e intensificò i suoi attacchi. E si aperse più facilmente la strada a rimettere in discussione tutte, una dopo l’altra, le concessioni precedentemente date. E così, dopo la scala mobile, è il posto di lavoro a subire la più vasta erosione. Ma per ottenere il risultato più efficace su questo piano, la borghesia doveva rendere più acuta possibile la concorrenza fra proletari. Lo strumento economico era facile da usare: la borghesia la ha sempre usato. Lo strumento sociale era un po’ più complicato. Ed è qui che emerge in tutta evidenza il connubio fra Stato e collaborazionismo. Lo Stato, in qualità di Comitato di difesa degli interessi borghesi, doveva provvedere a legiferare in questa direzione (riforma sanitaria, riforma delle pensioni, messa in soffitta dello Statuto dei lavoratori, difesa dei padroni che licenziano, ecc.). Le forze del collaborazionismo dovevano provvedere a diffondere fra i proletari la più acuta concorrenza come se fosse una necessità temporanea, uno dei sacrifici da fare per potersi assicurare comunque un salario anche se miserevole.

E infatti, un’altra priorità nella funzione sociale del collaborazionismo riguarda proprio questo punto, la concorrenza fra proletari.

Non solo mille qualifiche diverse, decine e decine di voci salariali incomprensibili, mille anfratti attraverso i quali i proletari non capiscono quanto salario viene loro sottratto e per quale motivo; non solo differenze sostanziali fra categoria e categoria, non solo gabbie salariali fra nord e sud, non solo differenze sostanziali fra lavoratori indigeni e lavoratori immigrati: la concorrenza fra proletari tocca sempre più l’intera classe, a livello di età, di sesso, di resistenza ai ritmi di lavoro, di capacità di adattamento ai continui cambiamenti, di disponibilità alla mobilità e alla flessibilità. L’obiettivo dei capitalisti è quello di avere sempre più mano libera sulla forza lavoro, impiegandone quantità superiori quando le occasioni di mercato lo richiedono, e quantità inferiori quando il mercato si chiude (come l’avanzare del lavoro interinale dimostra). E il tema che si presenta con sempre maggiore forza è quello della precarietà. Nella caduta delle diverse «garanzie» su cui i proletari potevano contare ancora 20–25 anni fa, anche il posto di lavoro «fisso» doveva subire la stessa sorte. Dopo i colpi portati al salario e all’orario di lavoro (il bluff delle 35 ore è ormai evidente a qualsiasi proletario), doveva sparire per la grande maggioranza dei proletari la «garanzia» del posto di lavoro. Ed è sparita.

Certo, questo non significa che tutti i proletari, dal primo ali'ultimo, non possono più contare su alcuna «garanzia», su alcun ammortizzatore sociale. Ad esempio, tra coloro che possono ancora contare su un certo numero di «garanzie» ci sono le fascie di operai anziani, vicini all’età della pensione, per i quali la borghesia adotta il metodo di farli defluire dalle fabbriche e dalle aziende senza troppi strappi: e questo perché essi se ne vadano senza innestare scioperi e lotte nelle quali coinvolgere i più giovani che di fatto non hanno alcuna memoria di lotte, di come comportarsi nella lotta e di che cosa aspettarsi dalla lotta. Gli operai più anziani hanno il ricordo delle lotte del decennio che va dal 1969 al 1980, e potrebbero essere spinti a trasmetterne l’esperienza, per quanto monca dal punto di vista classista, ai più giovani compagni di lavoro. Una volta cacciati dalle fabbriche gli anziani, restano solo i giovani, più inesperti e in ogni caso già assunti a condizioni peggiori. Per il collaborazionismo questo è un vantaggio perché si tratta di una classe operaia molto più malleabile.

Ed anche questo fa parte del peggioramento generalizzato delle condizioni non solo di vita ed economiche, ma anche di lotta del proletariato.

Ma la crisi capitalistica, che in periodo imperialista è sempre crisi di sovraproduzione – cioè i mercati si saturano a causa dell’enorme quantità di merci che vi viene immessa – per quanto acuta possa essere, non cancella un altro fenomeno che caratterizza i rapporti di forza fra borghesia e proletariato: il fenomeno dell’aristocrazia operaia. Fenomeno già conosciuto ai tempi di Marx ed Engels, l’aristocrazia operaia è costituita da quegli strati di operai che vengono appositamente privilegiati dalla borghesia rispetto a tutti gli altri strati proletari: e questi privilegi costituiscono la base materiale dell’opportunismo e del collaborazionismo. È uno dei modi di realizzare la concorrenza fra proletari e la divisione della classe operaia in generale.

Con lo sviluppo del capitalismo e delle risorse a sua disposizione, questi strati di aristocrazia operaia tendono ad allargarsi anche perché, sempre più spesso, vi finiscono gli strati di piccola borghesia che la concorrenza di mercato mette in crisi, proletarizzandola. L’aristocrazia operaia è quella parte di proletariato che più è sensibile al richiamo dell’interclassismo, che condivide quel senso di «appartenenza» alla società borghese dalla quale riceve i suoi privilegi, che è disposta a difendere la democrazia, l’economia capitalistica, la competitività delle aziende in cui lavora, la patria che le assicura più che ad altri la difesa dei suoi privilegi. Essa è la parte normalmente più istruita della classe operaia, ma non per questo la parte più avanzata, tutt’altro. Essa rappresenta la parte più retriva e reazionaria dellaclasse operaia, la parte che viene rappresentata effettivamente dal sindacalismo tricolore e che assume il compito sociale di influenzare direttamente gli altri strati proletari in senso collaborazionista. Se una delle funzioni assunte dal collaborazionismo è quella di fare i poliziotti «operai», vestiti da operai e che vivono e lavorano tra gli operai, questa funzione è svolta proprio dagli strati di aristocrazia operaia che si prendono in carico la difesa dell’ordine costituito, della gerarchia aziendale e, ovviamente, sindacale, della legalità e della pace sociale. L’aristocrazia operaia, proprio per la sua posizione sociale e per la dipendenza daiprivilegi che riceve dalla società borghese, assorbe con grande facilità e velocità tutti i pregiudizi caratteristici della piccola borghesia, pregiudizi che sfociano nel razzismo, nella superstizione, nell’oppressione femminile, nella violenza da strada e da stadio e, naturalmente, tutti i pregiudizi legati al democratismo, al legalitarismo, al patriottismo, al nazionalismo.

La borghesia, per quanto possa cadere in crisi economica, avrà sempre le risorse per foraggiare questi strati di aristocrazia operaia che le sono così preziosi per il controllo del proletariato dall’interno stesso della classe proletaria.

Uscire dal baratro

Nel resoconto della riunione di partito che ricordavamo all’inizio[2], scrivevamo:
«Il proletariato doveva, e deve tuttora, ancora imparare, reimparare a lottare per i propri interessi immediati perché ha perso l’esperienza viva, la capacità, la memoria di come si lotta contro il padrone e il suo Stato, ed ha perso la memoria soprattutto del fatto cheogni lotta finisce ma l’organizzazione della lotta deve rimanere in piedi. La consegna da parte proletaria delle proprie sorti ad organizzazioni cosiddette operaie come sono i sindacati tricolore ufficiali, e la delega a partiti cosiddetti operai, ma in realtà ultraborghesi, come sono i partiti opportunisti sedicenti socialisti e comunisti, della visione politica e dellosforzo politico per ottenere risultati utili alla propria lotta e alla propria causa all’interno di questa società, hanno significato per il proletariato dei paesi industrializzati, e a maggior ragione per quello dei paesi arretrati, una rinuncia di fatto, una rinuncia profonda della lotta di classe in favore della collaborazione interclassista».

È da questo livello di profonda rinuncia della lotta di classe che il proletariato deve ripartire. Non stiamo dicendo rinuncia della lotta in genere, ma della lotta di classe. Sono cose ben diverse. Per anni i proletari hanno lottato, hanno continuato a lottare, resistendo nel modo in cui riuscivano alla pressione e all’oppressione del capitalismo. Ma per anni i proletari hanno lottato sotto la direzione del collaborazionismo, che li ha condotti a lottare con mezzi e metodi della lotta democratica, legalitaria, pacifista, che per principio non metteva mai in discussione gli interessi dei capitalisti e della classe borghese nel suo insieme, che per principio non metteva mai in primo ed esclusivo luogo gli interessi dei proletari. Gli obiettivi immediati, spesso legati al rinnovo deicontratti sindacali, nazionali o aziendali, erano sempre immersi nel brodo della conciliazione fra le classi, della «comunanza» di interessi fra proletari e capitalisti. Sempre più gli interessi immediati del proletariato venivano fatti passare in secondo, terzo, quarto, ultimo piano, e sempre più gli interessi aziendali – quindi gli interessi del padronato – venivano fatti passare in primissimo piano.

Le lotte operaie, proprio perché condotte sul binario dell’interclassismo, della conciliazione fra le classi, assumevano di fatto una valenza antiproletaria; ciò non toglie che attraverso di esse i proletari riuscissero ad ottenere qualche risultato immediato: ma il dispendio di energie e di sacrifici prodotti per quei magri risultati era generalmente elevatissimo, tanto da instillare nei proletari l’idea che a lottare si perdeva troppo rispetto a quel che si poteva guadagnare.

Non solo, dunque, gli obiettivi delle lotte proposti dai sindacati tricolore, o dai partiti nazionalcomunisti, eranofondamentalmente devianti dagli interessi specifici del proletariato, ma gli stessi mezzi e metodi utilizzati per raggiungere quegli obiettivi erano in realtà squalificanti della lotta stessa. E anche nei casi in cui i sindacati tricolore venivano tirati per i capelli a indire scioperi e lotte sulla spinta decisa di gruppi proletari, quelle lotte non avevano alcuna possibilità di trascrescere in lotte di classe. Invece che rafforzare il fronte proletario, quelle lotte lo indebolivano sempre più. Il proletariato veniva così abituato a non lottare, a delegare l’organizzazione, la conduzione e come terminare la lotta ai professionisti del sindacato tricolore, cioè a coloro che avevano la funzione di far fallire la lotta operaia sia sugli obiettivi che si poneva sia in quanto mezzo di pressione per ottenere soddisfazione alle proprie richieste.

Il collaborazionismo stava ottenendo il suo risultato principale: allontanare il proletariato dall’uso cosciente e intelligente dell’arma dello sciopero, far nascere nei proletari il disgusto per le manifestazioni e i cortei, diffondere nel proletariato l’idea che la difesa dei propri interessi non solo doveva essere interpretata come difesa individuale, ma che doveva essere interamente delegata alle organizzazioni sindacali tricolore, uniche d’altronde riconosciute e accettate dal padronato e dallo Stato come controparti.

In questo modo, i proletari sono stati respinti sempre più in fondo al baratro dell’individualismo, della solitudine e della debolezza nei confronti del padrone e dello Stato. Se un tempo i proletari avevano fiducia gli uni negli altri e scendevano insieme in piazza a lottare, ora fra di loro si è diffusa la sfiducia e sono spinti sempre più a disinteressarsi di quel che accade anche al proprio vicino compagno di lavoro. Muore un operaio dalle esalazioni respirate in una cisterna, o triturato da uno dei tanti ingranaggi, o cade da un’impalcatura? Si continua a lavorare, al massimo si farà un minuto di sciopero… A tanto il collaborazionismo ha ridotto il sentimento di solidarietà che sempre ha distinto la classe operaia!

Sul terreno politico, il collaborazionismo ha svolto una funzione parallela a quella del collaborazionismo sindacale. Esso ha continuato a sviluppare l’illusione nel sistema democratico e parlamentare, contando sul fatto che il proletariato – sempre meno classe per sè e sempre più classe per il capitale – facesse affidamento sullo Stato e sulle sue istituzioni (prefettura e magistratura) come garante dei diritti dei lavoratori, quanto lo era dei diritti degli imprenditori, e delegasse agli amministratori comunali, provinciali, regionali o governativi la soluzione dei problemi derivanti dai contrasti fra lavoratori e imprenditori. Ciò che non veniva risolto a livello aziendale avrebbe così potuto trovare una sede «neutra» – quella appunto dell’amministrazione pubblica, o della prefettura – nella quale gli interessi «comuni» fra imprenditori e lavoratori avrebbero ritrovato la loro migliore definizione e soluzione.

Questo evidente inganno, perché lo Stato e le sue istituzioni non sono mai organismi neutri al di sopra delle classi, ma sono espressione precisa degli interessi della classe dominante, perdura e attecchisce ancor oggi, nonostante migliaia di proletari anche per esperienza diretta hanno verificato che non è altro che un inganno. Ma, in assenza di una qualsiasi forma organizzata di difesa proletaria e classista, e nel perdurare da decenni della pratica collaborazionista, è quasi «naturale» che ogni individuo-proletario, solo contro il mondo, cerchi un aiuto o una protezione da chi glielo offre, aldilà della contropartita, sia esso il vecchio arnese del collaborazionismo, sia il prete, l’imprenditore stesso, l’usuraio o il mafioso.

La rinuncia alla lotta di classe è provocata da una profonda rassegnazione di fronte al dominio incontrastato dei padroni, di fronte all’enorme peso che la burocrazia ha vieppiù assunto, di fronte alle continue delusioni che lotte impotenti non potevano non produrre, di fronte ad una serie interminabile di piccole e di grandi sconfitte su tutti i terreni: su quello politico e rivoluzionario, su quello economico e di resistenza alla pressione capitalistica, su quello della organizzazione di difesa e dellasolidarietà operaia, su quello della più elementare difesa delle condizioni di vita e di lavoro.

Il movimento proletario, a livello internazionale, è arretrato di molto rispetto alle vette raggiunte negli anni della rivoluzione bolscevica e dell’Internazionale Comunista di Lenin. Ha perso sostanzialmente la capacità di reagire efficacemente alle batoste del capitale anche solo sul terreno della pura difesa della vita. Inebetito dalla iperfollia produttiva del capitale e dalla tossicità della democrazia, dunque completamente disorientato, si è dato senza combattere in mano ai suoi carnefici, nelle fabbriche, nella vita quotidiana, nei campi di guerra. Potrà mai risollevarsi da questa situazione?

Il futuro della classe proletaria è nelle mani della classe proletaria stessa.

Nessun’altra classe potrà mai facilitarle il compito di emanciparsi dal giogo del lavoro salariato. Dal plusvalore, e dunque dallo sfruttamento del lavoro salariato, tutte le classi possidenti esistenti nella società borghese traggono i loro privilegi e il motivo fondamentale per difendere con ogni mezzo la conservazione di questa società. Con la caduta del potere borghese a causa della vittoria rivoluzionaria del proletariato, ognuna di queste classi precipiterebbe nelle condizioni di senza riserve poiché verrebbe loro tolta presto o tardi qualsiasi proprietà sui mezzi di produzione e sulla produzione stessa e qualsiasi possibilità di accumulare denaro o prodotti. La storia della lotta fra le classi, e l’esempio della vittoriosa rivoluzione proletaria in Russia lo ha dimostrato, ha fatto ben vedere che le cose andrebbero in questo modo. Perciò, queste classi sono storicamente e necessariamente antiproletarie. Lo sono in modo evidente e armato nel periodo rivoluzionario o sotto la dittatura aperta e dichiarata della borghesia come nel fascismo; lo sono in modo meno evidente e più insidioso nel periodo dell’espansione economica e della democrazia. Più è diffusa la democrazia e più le classi possidenti hanno la possibilità di mistificare i loro reali interessi e i loro reali obiettivi, inducendo il proletariato a non riconoscere gli antagonismi di classe che sorgono invece dalla realtà stessa del modo di produzione capitalistico.

Data la situazione di fortissima arretratezza in cui è precipitato il proletariato, occidentale in particolare, e la sua sudditanza dalla sorte che laconcorrenza del mercato gli riserva, è difficile immaginare come questo stesso proletariato potrà riprendere in mano il proprio futuro quando non riesce a controllare nemmeno il suo stesso presente. Ma la storia delle classi è fatta di storia delle generazioni; la storia del proletariato è fatta dalle generazioni di proletari che ripercorrono il lungo e arduo cammino della lotta di classe spesso ripartendo dal punto più basso in cui le hanno cacciate lesconfitte. Il baratro in cui è precipitato il proletariato dopo la sconfitta dell’assalto rivoluzionario degli anni 1917–1927 è direttamente proporzionale al pericolo di morte che la classe borghese internazionale, in quanto classe dominante su tutto il pianeta, ha passato in quel decennio. È certo che il proletariato uscirà dal baratro in cui è finito, come è certo che la classe borghese e la sua società capitalistica non dureranno per l’eternità.

Sono le contraddizioni profonde del capitalismo a spingere i proletari alla lotta di classe

Ci sono state e ci sono scuole di pensiero che si pretendono di sinistra, che hanno dato ormai per spacciata definitivamente la classe operaia; c’è chi è arrivato a sostenere che la classe operaia ormai non esiste più. Esisterebbero soltanto «lavoratori», dall’imprenditore più gonfio di miliardi al proletario dal lavoro più precario; esisterebbero soltanto «occupati» e «non occupati», «ricchi» e «poveri», «fortunati» e «sfortunati», «vivi» e «morti». L’ideologia borghese ha tutto l’interesse a cancellare le differenze di classe, a negare la lotta fra le classi, a negare gli antagonismi di classe; essa fa dipendere tutto dalla volontà delle persone («volere è potere»…), dalla coscienza che ognuno sviluppa («la presa di coscienza» è la base della civiltà) e, naturalmente, dalla… fortuna. Il sogno americano: partire dal niente e raggiungere le massime vette della ricchezza, ecco il leit motiv della vita in questa società!

Ma la realtà profonda della società capitalistica è ben altra. Se ci si limita alla superficie, se ci si limita a vedere ciò che la propaganda borghese ci vuol far vedere, se si prendono per buoni i pregiudizi che vestono le idee che la società borghese si fa su se stessa, allora non ci sono dubbi: la potenza tecnica ed economica della presente società capitalistica è tale che può far da base a qualsiasi tipo di miglioramento, della vita dell’uomo come dell’ambiente in cui viviamo, basta averne coscienza e volerlo! Ogni bruttura, ogni «esagerazione», ogni superamento della «convivenza civile», ogni ingordigia di denaro e di ricchezza, ogni fenomeno di degenerazione dunque può essere risolto: basta averne coscienza e volerlo!

Che il ricco sia meno ricco e che dia qualcosa della sua ricchezza al povero, e che il povero sia meno disperato e violentoe che chieda civilmente, democraticamente, al ricco di poter essere meno povero. Che le guerre finiscano, che si risolva la tragedia dei miliardi di uomini costretti nella miseria e nella fame, che lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo sia meno bestiale, che i criminali si ravvedano così come i capitalisti. L’ideologia borghese della libertà, dell’uguaglianza, della fraternità, cara ai borghesi rivoluzionari ha lasciato il posto all’ideologia della bontà, della coscienza civile, dello sviluppo sostenibile, della carità. Più la società capitalistica si sviluppa in termini tecnologici e di capacità produttiva, e più l’iperfollia produttiva riempie i mercati di prodotti di ogni genere (sempre più spesso inutili e dannosi allavita), più la società borghese «progredisce» e più la sua ideologia diventa conservatrice e reazionaria. Quindi tende necessariamente ad appiattire ogni contrasto, ogni conflitto, ogni urto sociale sul piano del mercato, di quel mercato da cui dipende interamente la sua vita. E allora, tutto deve ruotare intorno alle esigenze del mercato, tutte le risorse disponibili, materiali e umane, devono essere utilizzate in funzione del mercato; tutto, non importa se «legale» o «illegale», se «onesto» o «disonesto», deve riferirsi al Dio Mercato. Di fronte al Dio Mercato siamo tutti uguali! Non ci sono borghesi o proletari, ci sono solo venditori e compratori: tutti «lavorano» per vendere, tutti «lavorano» per comprare. La vita e la morte dipende dal mercato, tutto qui! Chi ce la fa, vive, chi non ce la fa, muore!

Ma la realtà del modo di produzione capitalistico e della società borghese eretta su di esso è molto più complessa di quanto non voglia far vedere la borghesia.

Le contraddizioni fondamentali del capitalismo non potranno essere risolte dal capitalismo stesso per la semplice ragione che è il suo modo di produzione che le genera e rigenera continuamente. Più il capitalismo si sviluppa, più si sviluppano e si acutizzano queste contraddizioni; che sono di ordine economico, sociale, politico.

L’anarchia del mercato non potrà mai essere risolta dalla pianificazione produttiva di ciascuna azienda, o dall’insieme delle aziende perché ciò che governa lo sviluppo del capitalismo, e quindi del mercato stesso, è la concorrenza che ogni azienda fa alle altre aziende. I contrasti interstatali e interimperialistici non potranno mai essere risolti dai governi borghesi perchè ogni governo difende gli interessi specifici del capitalismo e dell’imperialismo «nazionale», e tali interessi si scontrano sul mercato con una concorrenza che si fa sempre più acuta e spietata nella misura in cui i capitalismi più forti si scontrano con altri capitalismi più forti per accaparrarsi quote di mercato più consistenti.

Gli antagonismi sociali fra borghesia e proletariato non potranno mai essere risolti nella società borghese per la semplice ragione che è proprio sull’antagonismo che oppone la borghesia al proletariato – cioè i possessori dei mezzi di produzione e dei prodotti opposti ai produttori – che si regge il dominio sociale della borghesia, razie al quale dominio essa può continuare ad estorcere quantità incommensurabili di pluslavoro dalla forza lavoro salariata.

Le guerre commerciali, le guerre guerreggiate, le crisi cicliche, i perenni contrasti che oppongono frazioni borghesi contro frazioni borghesi per il controllo delle risorse materiali e finanziarie di ogni singolo paese, sono la dimostrazione continua dell’impossibilità da parte borghese di risolvere i problemi che la stessa società borghese produce. Lo sviluppo «sostenibile» del capitalismo è al più un’utopia, come lo è la scomparsa della guerra e il superamento delle differenze sociali nella società borghese.

Ciò non toglie che la borghesia appaia come una forza «invincibile» e che la sua società appaia come l’unica società «possibile». Ma è la stessa borghesia, con la sua politica antiproletaria che rivela non solo l’esistenza degli antagonismi di classe nella sua società, ma la necessità della lotta fra le classi. Essa, sulla scorta dell’esperienza di dominio sociale pluricentenario, ha tirato una lezione storica: è suo preciso interesse agire nei confronti del proletariato in modo preventivo, prima dunque che il proletariato esprima quella forza di classe che gli consentirebbe di lottare contro la borghesia sullo stesso terreno dello scontro di classe sul quale la borghesia stabilmente agisce, ma mistificandolo agli occhi dei proletari.

Ecco che la politica collaborazionista, molto adatta al controllo sociale nella situazione in cui il proletariato è stato già piegato alle esigenze del capitalismo, deve comunque essere praticata da operai se si vuole che abbia la sua migliore efficacia. E qui l’aristocrazia operaia trova il suo ruolo.

Ma per quanto la borghesia faccia e manovri per imbrigliare le masse proletarie, e per rincretinirle con l’efficacissima droga della democrazia, non riesce mai a dominare in assoluto tutta la massa proletaria, in ogni posto e in qualsiasi momento. E non ci riesce perché non riesce a dominare e controllare tutte le contraddizioni economiche e sociali che dalla sua società si sprigionano continuamente. È infatti a causa di queste contraddizioni che in determinati posti, in certi momenti, in particolari situazioni, gruppi proletari rompono la cortina di ferro che il collaborazionismo ha costruito per tenerli sottomessi alle esigenze del capitale, per agire tendenzialmente sul terreno di classe, ossia sul terreno della difesa intransigente, e violenta, dei propri interessi immediati. E qui trovano il loro ruolo le forze dell’opportunismo, quelle forze che nei diversi periodi si presentano ai proletari più combattivi come l’alternativa organizzata al collaborazionismo e alla pressione padronale, ma che in realtà non uscendo dal quadro della società capitalistica e delle sue leggi economiche ripiombano i proletari che li seguono nelle mani del collaborazionismo. Come è successo già nel decennio 1970–1980.

Il proletariato, data la serie tremenda di sconfitte da cui deve uscire, non avrà il cammino facile. La ripresa della lotta di classe, e quindi la ricomparsa del proletariato sul proscenio come protagonista del suo futuro e della storia, non avverrà in seguito ad un lento e graduale movimento di lotte e di scioperi, e tantomeno avverrà per una lenta e graduale «presa di coscienza» dei suoi interessi immediati e storici. Dato il grande controllo sociale che la borghesia esercita attraverso molte forze a sua disposizione: Stato, scuola, polizia, esercito, partiti, sindacati, chiesa, associazioni di categoria, culturali, del volontariato e sportive, istituzioni sociali laiche e religiose, e quant’altro, i gruppi proletari più combattivi sono inevitabilmente più esposti ad essere deviati, strumentalizzati, snaturati da una o più forze della conservazione sociale, tanto più se vestono i panni del ribellismo e del rivoluzionarismo da strada. Perciò è molto improbabile che questi gruppi proletari abbiano la possibilità di maturare la loro esperienza classista lontano dalle ingerenze del collaborazionismo tricolore e dell’opportunismo di ogni tipo.

La ripresa della lotta di classe avverrà attraverso esplosioni sociali, scoppi improvvisi di rabbia proletaria, episodi di lotta «sindacale» trasformatisi in scontri di piazza. L’andamento non sarà graduale e progressivo, ma sarà a sbalzi, ad avanzate coraggiose e a riflussi nel grigiore quotidiano, ad impennate negli scontri con le forze della conservazione e a ritorni di calma sociale. In questi episodi, in queste esplosioni sociali, i proletari dovranno «recuperare» decenni di inattività classista, dovranno imparare ad organizzarsi e a difendersi senza delegare nessuno, dovranno saper riconoscere gli alleati dai nemici, dovranno saper sfuggire alle trappole dei mille nemici che la società borghese lancerà loro contro, dovranno reimparare a lottare per se stessi, per la propria classe e per i propri interessi. E dovranno accettare il fatto che altri proletari, più arretrati o semplicemente al soldo del padronato, si rivolgeranno contro di loro e dovranno perciò essere combattuti con altrettanta determinazione.

I proletari sono e saranno sempre più spinti, ad un certo punto, a reagire violentemente ai soprusi dei padroni, della burocrazia e della polizia, perché la loro vita quotidiana sarà diventata insopportabile e non ci sarà altro mezzo che unirsi e lottare contro quei soprusi, contro la pressione della burocrazia e contro la repressone della polizia: unirsi e organizzarsi per difendersi e per difendere la vita delle proprie famiglie, dei propri figli. La lotta di classe che il proletariato farà è la lotta operaia che riconosce l’antagonismo profondo che divide i proletari dalle altre classi sociali, e che accetta il terreno dello scontro aperto e dichiarato sul quale gli interessi dei proletari non sono più conciliabili con quelli borghesi o piccoloborghesi. La lotta di classe che il proletariato farà è la lotta che dovrà necessariamente fare per non soccombere completamente nella miseria, nella fame, nella disperazione della guerra: sarà la lotta per la vita che i moderni schiavi salariati saranno costretti a fare da soli, contando solo sulle proprie forze, contro tutti gli altri strati sociali che per mantenere i loro privilegi avranno affondato sempre più profondamente i loro artigli nelle carni del proletariato oltrepassando ogni limite sopportabile.

Non è detto che la ripresa della lotta di classe, quindi il periodo storico in cui il proletariato internazionale si rimetterà in moto sul suo terreno con obiettivi, mezzi e metodi di classe, inizi necessariamente grazie al proletariato europeo. Il proletariato europeo ha scritto la storia del movimento operaio moderno, ha scritto pagine gloriose di lotta rivoluzionaria, consegnando al proletariato internazionale la teoria rivoluzionaria per eccellenza, il marxismo. Ma non ci si può nascondere che 80 anni di controrivoluzione e di intossicazione nazionalista e democratica abbiano ridotto oggi questo proletariato ad un’ombra sbiadita di quel che era. Lo sforzo che il proletariato europeo dovrà fare per riconquistare il terreno della lotta di classe dovrà essere notevole; ma in ogni caso dovrà farlo, pena la riduzione in una schiavitù ancor più bestiale di quella in cui si trovava il proletariato inglese ai primi dell’Ottocento di cui ci parla Engels nel suo famoso studio.

La «globalizzazione», come i gazzettieri amano chiamare oggi il mercato mondiale di marxiana memoria, produce peraltro un effetto benefico per il proletariato europeo: gli riduce i benefici di cui godeva attraverso i superprofitti della propria borghesia imperialista e quindi lo rende un po’ meno sicuro, un po’ meno garantito rispetto ai periodi precedenti; e gli mette a fianco milioni di proletari di giovane generazione provenienti dalle ex-colonie, dai territori d’oltre mare, dal cosiddetto Sud del mondo. I proletari del Sud del mondo, hanno subito la catastrofe della pressione imperialista sui loro paesi – la distruzione della loro economia precapitalista e contemporaneamente la miseria e la fame crescenti per mancanza di sviluppo capitalistico – e perciò sono attirati dalle metropoli opulente del capitalismo internazionale dove cercano un lavoro e la sopravvivenza. Ma nello stesso tempo non hanno subito le stesse massicce dosi di democrazia che hanno subito invece i proletari europei; e questo li mette nelle condizioni obiettive di avere meno pregiudizi legalitari e pacifisti, meno freni di fronte alla lotta anche molto dura. I proletari europei che hanno insegnato al mondo che cos’è il comunismo e la necessità della rivoluzione proletaria, hanno oggi qualcosa da imparare dai loro fratelli di classe del Sud del mondo, come ieri dai loro fratelli di classe russi: imparare a lottare contro nemici apparentemente invincibili.

Ma questo «passaggio del testimone» al proletariato dei paesi del Sud del mondo non mette al sicuro nessun proletario del vecchio continente. Qui, nel vecchio continente, nell’Europa che ha dato i natali del modo di produzione capitalistico e la vittoria rivoluzionaria della borghesia, che ha visto nascere il proletariato moderno, i suoi primi tentativi rivoluzionari e di dittatura proletaria, la teoria rivoluzionaria del comunismo, qui in Europa si decideranno le sorti della vittoria rivoluzionaria nel mondo.

L’assalto rivoluzionario in seguito alla prima guerra imperialista fu portato e vittoriosamente concluso nel gran serbatoio della controrivoluzione reazionaria e zarista che era la Russia; ma non si estese nel cuore del capitalismo mondiale, nell’Europa occidentale, e quindi non ebbe la possibilità di agguantare alla gola la vera forza della controrivoluzione borghese che erano i grandi paesi capitalisti europei dell’epoca, l’Inghilterra, la Francia, la Germania. E da questi il proletariato rivoluzionario fu alla fine battuto, sconfitto, rigettato nell’abisso dell’oppressione salariale. Le «due metà spaiate» del socialismo, come affermava Lenin – ossia la dittatura proletaria vittoriosa ma nell’arretrata Russia e l’economia capitalistica avanzata della Germania – non si unirono; il proletariato tedesco e il proletariato russo non riuscirono allora ad unire la loro grande forza di classe in un’unico grande bastione rivoluzionario, ponendo in questo modo le basi concrete della vittoria rivoluzionaria in tutto il mondo.

L’assalto rivoluzionario di domani, in condizioni simili di movimento proletario internazionale in ascesa, proletariato di quel dato paese in forte crescita dal punto di vista dell’esperienza nella lotta di classe e dei tentativi rivoluzionari, presenza e influenza di un forte partito comunista rivoluzionario, potrebbe nuovamente essere portato e vittoriosamente concluso in un altro serbatoio periferico della controrivoluzione borghese, come in Cina, in Turchia o in Brasile. Ma se non si estenderà nel cuore del capitalismo mondiale, nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti d’America, la possibilità di tenuta di quel proletariato andato vittoriosamente al potere sarà davvero molto difficile.

Immaginare la rivoluzione proletaria in contemporanea nei paesi capitalistici più avanzati è un’utopia. Anche il moto di ripresa della lotta di classe, e tanto più lo sviluppo del movimento proletario rivoluzionario, segue un andamento materialisticamente determinato. Lo sviluppo ineguale del capitalismo nel mondo, che con l’andare avanti nel tempo acuisce le distanze e le differenze fra i pochi paesi capitalistici avanzati – e padroni del mondo – e i molti paesi capitalisticamente arretrati e deboli, determina inevitabilmente un andamento egualmente ineguale dello sviluppo del movimento proletario. Non necessariamente simmetrico – come dimostrò il proletariato parigino della Comune 1871, molto più avanzato politicamente del proletariato inglese, cioè del paese capitalistico più avanzato in assoluto all’epoca; e come dimostrò ancor meglio il proletariato russo dell’Ottobre 1917, molto più avanzato politicamente del proletariato dei paesi europei o americano, cioè dei paesi capitalistici più avanzati in assoluto all’epoca.

Perciò non possiamo escludere che la ripresa del movimento di classe e rivoluzionario del proletariato internazionale possa essere avviata in un paese della periferia del capitalismo imperialista. Ma ciò non esclude, tutt’altro, che le sorti del movimento di classe e rivoluzionario del proletariato internazionale si decidano nei gangli vitali del capitalismo, nelle metropoli imperialiste; perciò il proletariato europeo, il proletariato americano e lo stesso proletariato giapponese, proprio perché fanno parte dei paesi che dominano l’economia mondiale, dunque il mondo, hanno sulle spalle la responsabilità storica della vittoria finale della rivoluzione comunista. In particolare il proletariato europeo, tedesco, francese, italiano, russo, per l’apporto di lotta e storico dato alla rivoluzione comunista, hanno obiettivamente un compito di maggiore responsabilità perché possono ricollegarsi storicamente a tradizioni rivoluzionarie più profonde e quindi più fertili per il movimento rivoluzionario futuro.

La ripresa della lotta di classe, dunque, non potrà non passare attraverso il proletariato europeo. E per ripresa della lotta di classe intendiamo un movimento di classe, un movimento fatto di organizzazioni proletarie di classe indipendenti dal collaborazionismo tricolore, dalla sua politica e dai suoi apparati; un movimento in grado di influenzare in modo determinante le masse proletarie e di agire nella prospettiva di difendere intransigentemente ed esclusivamente gli interessi immediati e generali del proletariato; un movimento che a sua volta possa contare sulla presenza e sull’azione di un forte e compatto partito comunista rivoluzionario grazie al quale le prospettive proletarie possono assumere il livello di prospettive storiche, quindi non solo antiborghesi e anticapitalistiche, ma rivoluzionarie nel senso più profondo e autoritario del termine.

I comunisti, coloro che non si limitano a dichiararsi d’accordo con le tesi marxiste ma che lavorano secondo i dettami del marxismo e secondo i bilanci storici e politici delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, hanno compiti fondamentali da svolgere anche in un periodo di così acuta assenza di lotte classiste da parte del proletariato. Lungi dal diventare indifferenti alla vita proletaria e ai problemi della difesa immediata delle condizioni di vita e di lavoro proletarie, i comunisti rivoluzionari dedicano il massimo delle loro energie alla ricostituzione delpartito di classe, del futuro partito comunista mondiale. Sappiamo, infatti, che non vi potrà essere una effettiva ripresa della lotta di classe, e tantomeno una effettiva ripresa della lotta rivoluzionaria da parte del proletariato, senza l’apporto del partito di classe.

Questo partito condensa nello stesso tempo le esperienze storiche dei movimenti proletari di classe e i bilanci storici e politici delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni; questo partito esprime il grado più alto di coscienza di classe del proletariato internazionale, e lo esprime attraverso il possesso della teoria marxista, dei principi e del programma del comunismo, delle linee politiche, tattiche e organizzative fondamentali, grazie al cui possesso questo partito rappresenta nell’oggi il futuro del movimento proletario di classe, fino alla rivoluzione, alla conquista del potere, all’abbattimento del potere borghese all’instaurazione della dittatura proletaria, all’esercizio della dittatura proletaria e alla guida della guerra rivoluzionaria internazionale per la vittoria della rivoluzione in tutto il mondo, fino alla trasformazione economica della società attuale in socialismo e, quindi, in comunismo, nella società in cui saranno scomparse completamente le classi, nella società di specie.

Questo partito, per agire, non attende che il proletariato faccia tutto il suo corso di sviluppo fino alla maturazione rivoluzionaria; non si dedica alla semplice predicazione del comunismo alle coscienze, una per una, nell’illusione di poter raggiungere la maturazione rivoluzionaria del proletariato attraverso il convincimento cultutrale; non utilizza espedienti di tipo tattico e organizzativo nell’illusione di «accelerare» il corso della ripresa della lotta di classe o, peggio, della rivoluzione, nè tantomeno per attirare nelle proprie file un numero maggiore di proseliti; non si fa dettare dalle situazioni la linea politica da seguire e la tattica da applicare, e non si fa dettare dalle diverse realtà nazionali programmi politici diversi da quello che lo definisce fin dalla sua formazione. Questo partito, pur dovendo dedicare la maggior parte delle sue energie alla conferma teorica del marxismo, alla valutazione politica degli avvenimenti che riguardano il corso del capitalismo e dei contrasti interimperialistici e il rapporto di forze fra borghesia e proletariato nei diversi periodi storici e paesi, alla propaganda del comunismo e della sua linea politica, al proselitismo, si predispone ad approfittare di ogni spiraglio che le contraddizioni economiche e sociali del capitalismo aprono per intervenire e portare le sue parole, le sue azioni, le sue indicazioni al proletariato e a tutti quegli elementi che le stesse contraddizioni materiali spingono a rompere con il collaborazionismo interclassista e con l’opportunismo per abbracciare la causa del comunismo.

Nella chiara previsione che non vi potrà essere vera ed estesa ripresa della lotta di classe se non in presenza di nuove associazioni operaie di difesa immediata – organismi di lotta proletari indipendenti dal collaborazionismo tricolore, dallo Stato e da tutte le istituzioni della conservazione sociale – il partito di classe, pur ridotto come oggi ad uno sparuto gruppetto di militanti, riconosce (e nelle misure delle sue forze agisce praticamente) che è doveroso il suo apporto non solo politico ma anche pratico affinché i tentativi di organizzazione classista anche se minimi abbiano la possibilità di produrre esperienze concrete nei proletari che vi partecipano; queste esperienze costituiscono e costituiranno sempre più la base della fiducia proletaria nelle proprie forze. Il partito di classe non potrà, infatti, ottenere la fiducia delle masse un domani se non avrà praticato in modo continuo e coerente un’attività a stretto contatto con la classe operaia e con i problemi della sua lotta di difesa immediata.

Notes:
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  1. «La questione della ripresa della lotta di classe del proletariato e i compiti dei comunisti», Riunione Generale di partito, San Donà, dicembre 1992, in «il comunista» nn. 38, 39 e 40–41. Questa citazione è tratta dal nr. 38, primo §. [⤒]

  2. «La questione della ripresa della lotta di classe del proletariato e i compiti dei comunisti», Riunione Generale di partito, San Donà, dicembre 1992, in «il comunista» n. 38, secondo §. [⤒]


Source: «Il Comunista», № 75, Aprile 2001.

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