LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
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CONTRO LA «GLOBALIZZAZIONE» O CONTRO IL CAPITALISMO?


Content:

Contro la «globalizzazione» o contro il capitalismo?
«Globalizzazione»
Problemi di linguaggio
Ambiente
Organizzazione
«Crisi della politica»
«Violenza»
Filosofia
Sessantotto
Origine
Nuovo riformismo
Rivendicazioni
Il «popolo di Seattle» verso la legittimazione
Source


Contro la «globalizzazione» o contro il capitalismo?

Manuel Castells – il sociologo che secondo «The Wall Street Journal» è «il Karl Marx del nuovo millennio» – lo ha definito «il movimento fondamentale nella nostra società». Una parte consistente della Chiesa Cattolica (e non più solo i «radical» comboniani del mitico Alex Zanotelli, ma anche i vescovi) lo appoggia e ne fa parte. Prodi ha detto che bisogna dialogarci. Berlusconi a Göteborg addirittura che «noi proponiamo le stesse cose». I DS italiani si appropriano della sua rivendicazione della «Tobin Tax» sui movimenti di capitale. Stiamo, ovviamente, parlando del «popolo (o «popoli» come molti preferiscono) di Seattle», che secondo gli scaltri analisti della rivista «Limes» è «già entrato nella storia». Del «nuovo millennio», si capisce.

Il fenomeno è dunque di rilievo, e merita di essere studiato. In attesa di poterlo fare, proponiamo in questo forzatamente sintetico e incompleto manifesto alcune note sparse sul fenomeno.

«Globalizzazione»

È innegabile che la società borghese e industriale sorta nei secc. XVIII e XIX, raggiunta nel XX la maturità, tenda sempre più a scontrarsi con i limiti storici e sociali di quegli stessi istituti che l’hanno aiutata a nascere. Che i confini degli Stati nazionali che l’hanno tenuta a battesimo divengono troppo angusti per l’impetuoso movimento del capitale. E i capitali, nella loro astrattezza, come non portano l’odore del sangue e del sudore necessari a produrre la ricchezza sociale, delle angherie e delle sopraffazioni che accompagnano il loro accumulo, delle guerre e delle distruzioni necessarie a mantenerli nelle mani dei potenti della terra, così non tollerano barriere nazionali: l’incessante metamorfosi delle divise o dei titoli in cui si rappresentano fa sì che in pochi secondi essi possano spostarsi per via telematica da un capo all’altro della terra facendo sorgere e crollare fortune e nazioni con rapidità inaudita. Di qui la nascita, in particolare nel secondo dopoguerra, di istituti come il FMI, la Banca Mondiale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), di realtà come le multinazionali, che segnano una crescente internazionalizzazione dell’economia e il tentativo di controllarne le contraddizioni a vantaggio dei capitalismi più forti. L’Unione Europea e l’Euro sono a loro volta un segno importante di questa tendenza. Dunque dietro la parola «globalizzazione» c’è un contenuto effettivo. Ma appunto, non diceva già il «vecchio» «Manifesto» del «vecchio» Marx che
«con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolita alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi all’industria il suo terreno nazionale […] All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale tra le nazioni»?
E non diceva già il «vecchio» «Imperialismo» del «vecchio» Lenin che la fase «suprema» del capitalismo è caratterizzata dal prevalere del capitale finanziario, dal monopolio delle risorse e della ricchezza, dallo sfruttamento del globo da parte di un pugno di capitalisti e di rentiers e dal dominio di un pugno di grandi potenze?

Ciò che di sostanziale c’era da dire sulle tendenze più recenti dell’economia e del potere mondiale era già stato detto, dunque, da molto tempo. Ma la parola «globalizzazione», lasciata da sola, nasconde precisamente il suo carattere fondamentale, ossia la sua dipendenza dal capitale. In una parola: la sua natura capitalista e imperialista. Che la base di questa evoluzione oppressiva e parassitaria del sistema vigente sta nella struttura stessa della produzione di merci e di capitali. Ed anche se nel fronte «anti-globalizzazione» non mancano coloro che denunciano questa sua base (ad es. «Azione globale dei popoli» o gli zapatisti) sono davvero pochi (gli anarco-sindacalisti americani IWW, e alcuni gruppi del «Black-Bloc») quelli disposti ad ammettere che la società «globalizzata» non potrebbe esistere senza l’esistenza di una classe sociale, quella proletaria, che a beneficio del capitale e delle classi ad esso legate produce più ricchezza di quanta ne consumi.

Problemi di linguaggio

Fatto è che, a sentirne i teorici, il movimento sorto nel novembre 1999 nella città americana di Seattle sarebbe soprattutto «nuovo». Non si occuperebbe più di cose stantie come classi sociali o – Dio ne scampi! – proletariato. Figurarsi poi di concetti vetusti come rivoluzione & c., roba da soffitta della storia. Già, perché qui non si parla più «attivisti», ma di hacktivists (da Hacker: pirata informatico), e come dichiara il leader «carismatico» (beato lui!) Luca Casarini, si parla il linguaggio di «Hollywood perché è vincente»; gli obiettivi di mobilitazione poi non sono più – hoibò! – «politici» bensì metaforici.

Strano però che la gran massa dei movimenti in questione parli tanto di «popolo» e di «diritti», nozioni certo onorevoli e rivoluzionarie ai loro tempi (per intendersi, quelli delle rivoluzioni borghesi americana e francese, e delle lotte di liberazione nazionale del secolo scorso), ma oggi disperatamente vecchiotte, nonostante i tentativi perenni dell’intellettualità borghese di riproporli.

Certo, nessuno nega che l’evoluzione della società basata sugli Stati nazionali e sulla parità giuridica dei «cittadini», ieri adatta alle esigenze di nascita e sviluppo del capitalismo, imponga oggi al sistema stesso di aggiornarsi, di introdurre nuove regole e nuovi «diritti» adatti all’epoca della «globalizzazione», ma di nuovo c’è solo questo, perché nemmeno il modello sociale proposto lo è. Tutt’al più «diverso», come dice lo slogan del «Genoa social forum» («Un mondo diverso è possibile»), ma senza mettere in discussione il processo di valorizzazione del capitale, o l’appropriazione privata dei mezzi di produzione, che sono la radice prima dei suoi mali.

Ambiente

Ad es. è innegabile che il tema della tutela dell’ambiente sia ormai una necessità del capitalismo stesso ai fini della sua sopravvivenza, al punto da divenire (si pensi al famoso «protocollo di Kyoto») materia di dissensi tra i diversi paesi capitalisti. I costi della distruzione dell’ambiente, da sempre pesanti per l’umanità e soprattutto per la sua componente sfruttata, che non può difendersi in alcun modo dai suoi effetti, sono ormai divenuti intollerabili per il capitale stesso, il quale tuttavia, nel correre ai ripari, non può superare le proprie leggi di funzionamento, in particolare quella del profitto, che gli permette di intervenire sui meccanismi dell’inquinamento solo nella misura in cui riesce a fare di questo intervento un settore lucroso per chi lo pratica. E infatti l’ecologia è ormai divenuta un settore rilevante della stessa produzione capitalistica, una fonte di lauti guadagni per le imprese gettatesi a tempo sull’affare dello «sviluppo compatibile».

Organizzazione

Nell’era della comunicazione l’»organizzazione politica» è sostituita dalla «rete», dai network e dalle newsgroup, le riunioni dai forum e dalle mailing list, merce futuribile tanto più fascinosa quanto più misteriosa, comprensibile a pochi e nebulosa. L’importante è che i contorni siano il meno netti possibile. Non ci si ritrova su principi o ideologie condivisi, roba «sorpassata», bensì su obiettivi comuni o presunti tali. A Seattle le organizzazioni presenti erano 1387, le più disparate: dagli IWW a «Public Citizen» (organizzazione dei consumatori americani capeggiata dall’ex candidato alla Casa Bianca Ralph Nader), dal grande sindacato collaborazionista americano AFL-CIO agli anarchici, dalle associazioni religiose e missionarie ai movimenti contadini, dagli indios ai raffinati intellettuali francesi di ATTAC («Associazione per la Tassazione delle Transazioni finanziarie e per l’Aiuto ai Cittadini», che si definisce un «movimento di educazione popolare orientato all’azione»), dalle femministe agli studenti, fino agli allevatori francesi di Bové. Un ruolo di rilievo hanno nel movimento le organizzazioni (moltissime delle quali cattoliche) per la cancellazione del debito del III mondo, le associazioni di volontariato, le Organizzazioni Non Governative (ONG), le strutture di «commercio equo e solidale», gli ambientalisti. In Italia, oltre alla rete «Lilliput», legata agli ambienti cattolici, va rilevata la partecipazione fondamentale dei «Centri sociali», dei COBAS (e sigle similari del cosiddetto «sindacalismo di base»), quella di «Rifondazione comunista» e in certe occasioni (ad es. al vertice di Nizza del dicembre 2000) perfino quella dei sindacati tradizionali.

«Crisi della politica»

È chiaro che un simile modello organizzativo, – per la sua stessa indeterminatezza e flessibilità – è in grado di esercitare sulle giovani generazioni, deluse dal «teatrino» della super-corrotta politica tradizionale, un fascino non indifferente. Il modulo del «contenitore», abbinato al concetto di «rete», oltre che essere, come affermato da molti analisti, in rapporto con le nuove tecnologie di comunicazione (prima fra tutte internet), è anche il frutto della crisi che ha investito, in particolar modo a partire dall’»89», le organizzazioni tradizionali, politiche e sindacali: le prime colpite dalla «caduta delle ideologie» e da un progressivo distacco del cittadino medio dalla politica istituzionale, le seconde dal processo di ristrutturazione dell’apparato produttivo comunemente chiamato «post-fordismo»: la nuova organizzazione del lavoro per «isole», la diminuzione degli occupati nelle grandi fabbriche, il loro calo sul totale della popolazione attiva, la flessibilità del lavoro, la nuova struttura salariale, la crescente presenza di mano d’opera immigrata, il proliferare dei contratti «atipici» (cooperative, lavoro temporaneo e interinale, ecc.) hanno indubbiamente colpito la forza delle grandi centrali sindacali che precedentemente – sia chiaro, da un punto di vista collaborazionista e non classista – elaboravano la gestione del conflitto sociale.

È altrettanto evidente tuttavia che questa suadente plasticità organizzativa non è senza rapporto con la vaghezza dei fini comuni del movimento e con la debolezza dei legami che tengono insieme le sue diverse componenti. Ad un’analisi più approfondita cioè, quella che oggi appare una forte capacità di aggregazione contiene il germe di una dissoluzione o di una divisione inevitabile. Con questo non vogliamo certo affermare che fra le «anime» del movimento ve ne siano di rivoluzionarie: la grande eterogeneità dei «popoli» che lo compongono non è in contraddizione col fatto che alcuni elementi fondamentali siano largamente condivisi. Fra essi spiccano l’interclassismo (ossia la volontà di rivolgersi ai cittadini, alle persone, all’uomo genericamente inteso), lo spontaneismo (vale a dire l’intenzione di agire «dal basso»), il democraticismo (non a caso il Forum anti-Davos tenutosi a gennaio in Brasile, a Porto Alegre, ha sottolineato l’esigenza della «democrazia partecipativa»).

Occorre aggiungere che molte ONG, associazioni di volontariato e «no-profit», di commercio equo-solidale, gli stessi centri-sociali, per non parlare dei cattolici e dei missionari, costituiscono ormai potenti reti di interessi economici che gestiscono ospedali, scuole, servizi di varia natura, cooperative, banche «etiche», riviste, libri, radio, autoproduzioni artistiche, musicali, punti vendita di prodotti biologici, «comunità» di recupero, rapporti para-istituzionali con l’assistenza sociale, il disagio, l’immigrazione, ecc.

«Violenza»

Un altro punto comune importante – malgrado l’asprezza degli scontri con le forze dell’ordine che puntualmente si ripetono ad ogni vertice – è il pacifismo. Non solo quello del settore facente capo alle associazioni religiose e al volontariato (quali «Lilliput» in Italia), ma anche delle «tute bianche». Queste ultime pretendono di aver superato il dilemma violenza-non violenza grazie alla teoria della disobbedienza civile, di ispirazione gandhiana, aggiornata con l’uso di una guerriglia urbana e di una «illegalità di massa» che si vuole però soprattutto simbolica. Useremo, dice il leader delle «tute bianche» Luca Casarini «strumenti talmente assurdi da risultare divertenti», «armi creative progettate per bucare la comunicazione». A loro volta le «tute nere», accusate tanto dalle autorità e dai corpi di polizia quanto dall’ala «pacifica» del movimento di cercare costantemente lo scontro, del tutto giustamente fanno rilevare che
«la distruzione della proprietà [delle multinazionali] senza distruggere vite umane o causare dolore, non è violenza» (N.30 di «Black Bloc Communique» by «ACME Collective»).
Che alla fine dunque, violenti non sono nemmeno loro. Niente a che vedere insomma col tipo di violenza necessaria ad una rivoluzione, come la storia (ad es. nel corso della rivoluzione francese e in quella russa) ha ampiamente dimostrato. Non a caso Marx era ai suoi tempi soprannominato «The red terror doctor».

Filosofia

Gli elementi da noi citati che – se non esauriscono la gamma delle posizioni presenti tra i «popoli» di Seattle tuttavia ne caratterizzano la grande maggioranza – dimostrano a nostro avviso che il movimento è molto meno nuovo di quanto vorrebbe sembrare. Si dichiara ad es. nell’«Appello per le prossime mobilitazioni» uscito dal Forum di Porto Alegre:
«Porto Alegre rappresenta la lotta e la speranza di un nuovo mondo possibile, in cui gli esseri umani e la natura siano al centro delle nostre preoccupazioni […] La globalizzazione neoliberista distrugge l’ambiente, la salute e le condizioni di vita dei popoli. L’aria, l’acqua, la terra e anche gli esseri umani sono trasformati in merci. La vita e la salute devono essere riconosciuti come diritti fondamentali, e le decisioni economiche devono essere subordinate a questo principio».

Siamo dunque all’interno di quella linea di pensiero che aveva fatto scrivere ad Horkheimer e Adorno, vati della «Scuola di Francoforte» e ispiratori, assieme a Marcuse, del '68:
«Gli uomini pagano l’accrescimento del loro potere con l’estraniazione da ciò su cui lo esercitano […] Ogni tentativo di spezzare la costrizione naturale spezzando la natura, cade tanto più profondamente nella coazione naturale. È questo il corso delle civiltà europea». («Dialettica dell’illuminismo»).
E Hannah Arendt:
«L’uomo del futuro […] sembra posseduto da una rivolta contro l’esistenza umana così come essa ci è stata data, […], vuole cambiarla con qualcosa che ha creato lui stesso» («The Human Condition»).

Dice Beppe Caccia, consigliere comunale dei Verdi, nel n.1 di «Posse», la rivista ispirata dal pensiero di Toni Negri e vicina a Radio Sherwood e ai Centri sociali del nord-est:
«Le giornate di Seattle segnano e segneranno irreversibilmente il panorama contemporaneo […] è il linguaggio delle nuove forme di conflitto e di liberazione, la nuova ‹lingua comune› da cercare e costruire per successive approssimazioni. […] Al centro dell’evento si collocano decine di migliaia di giovani e giovanissimi di Seattle, Vancouver, Portland, San Francisco e Los Angeles e di tutta la West Coast, donne in stragrande maggioranza, e prevalentemente ‹manipolatori di simboli›, come li definisce Robert Reich. I protagonisti della New Economy sono gli artefici della ribellione, in una delle ‹città globali› dove l’inafferrabile economia delle reti rivela invece la sua densa sostanza sociale, fatta di corpi e cervelli, socialità e relazioni: studenti e ingegneri dell’informatica e dell’industria aerospaziale, compilatori di pagine web e operatori dei nuovi media, e ancora precari dei servizi ad alta e bassa qualità, intellettualità di massa, forza lavoro immateriale, cresciuta nelle reti telematiche, nel ‹no profit› di quartiere e nelle controculture ‹grunge› e ‹hip hop› degli anni Novanta. Sono loro che hanno lavorato a costruire il tessuto connettivo della rivolta» (aprile 2000).

Difficile negare una continuità tra queste posizioni e il Marcuse di «Cultura e società»:
«Il superamento dell’alienazione non può essere cercato quindi nel lavoro, in nessun tipo di lavoro, ma, semmai, nel gioco». «Per potere nel presente tener saldo come fine ciò che ancora non è presente, occorre la fantasia […]. In forza della sua singolare capacità di 'intuire' un oggetto senza che questo sia presente, di creare qualcosa di nuovo pur sulla base del materiale dato dalla conoscenza, l’immaginazione indica un alto grado di indipendenza dal dato e di libertà in un mondo di illibertà. Trascendendo ciò che è presente, essa può anticipare il futuro».

Gli fa eco il Negri di oggi:
«noi siamo dentro al mercato mondiale, e qui cerchiamo di farci interpreti dell’immaginazione che sognò, un giorno, l’unità delle classi sfruttate nell’internazionale comunista. Perché noi vediamo, nell’evento, nascere nuove forze. Se, e come, possono le lotte essere tanto incisive e massificate da destabilizzare, o eventualmente, da destrutturare, l’organizzazione complessa dell’Impero? Questa ipotesi suscita l’ironia dei «realisti» nei confronti dell’utopia: la forza dell’Impero è così grande! Ma, per la teoria critica, una utopia ragionevole non è inconsueta. D’altra parte non c’è alternativa, perché noi siamo qui, dentro l’Impero, da questo sfruttati e comandati, e non altrove». («Le monde diplomatique», Gennaio 2001).

Sessantotto

Esiste insomma un filo rosso che collega – attraverso femminismo, «indiani metropolitani» e «creativi», il movimento del '77 – il «popolo di Seattle» ai movimenti sessantottini. Se una novità esiste essa va dunque cercata nelle origini della ribellione giovanile e studentesca di quegli anni. Mai prima di allora si era dato un movimento culturale giovanile di quella ampiezza, e la sua radice è da mettere in relazione con il maturare della società industriale e delle sue contraddizioni, con la rivoluzione dei consumi che ne è derivata, con la crisi della famiglia, con l’istruzione di massa, con la spinta a superare ciò che di vetusto era rimasto nelle struttura del capitalismo, realizzando in modo più compiuto la società dei «diritti» borghesi: non più solo diritto al voto e alla libera circolazione delle merci e delle persone, ma, come conseguenza, «diritto» allo studio, libertà sessuale, parità di diritti fra razze e sessi, ecc.

Sia per i contenuti che per i metodi tali movimenti, e quindi anche quello attuale «contro la globalizzazione», sono dunque inseriti nella tradizione democratico-borghese radicale e denunciano la loro origine dalle classi intermedie, da sempre impegnate a cercare una «terza via», una via di mezzo, «originale» tra gli interessi storici della classe proletaria, che produce la ricchezza sociale, e il suo antagonista, il capitale, che si appropria del plusvalore da essa prodotta.

Origine

Per quanto riguarda gli strati intermedi, ove essi non siano inseriti in un contesto produttivo, sostanzialmente vivono (tipico esempio gli intellettuali) grazie ad una parte del plusvalore prodotto dalla classe operaia. In ogni caso, anche quando si tratta di manager o tecnici di alto livello, pur produttivi essi possiedono privilegi che li staccano dagli altri lavoratori. L’ambiguità della posizione sociale degli strati intermedi delle società capitalisticamente avanzate segna ovviamente il destino dei loro movimenti: da un lato essi tendono a mantenere la distanza verso le classi inferiori, dunque il fondamento del sistema, dall’altro si agitano affinché quest’ultimo sia il meno brutale e oppressivo possibile. Per quanto riguarda i movimenti delle classi medie del «terzo mondo», che nel «popolo di Seattle» fanno fronte comune con quelli descritti in precedenza, essi, soprattutto i contadini, si muovono all’interno di una dicotomia insolubile: da un lato non possono tornare indietro, alle condizioni arcaiche della società che li aveva generati, dall’altro sono spazzati via dal progresso capitalistico. La loro lotta, anche eroica, è perciò imprigionata in una sostanziale difesa dello status quo. La loro è insomma, come nel caso degli zapatisti, una storia di compromessi, seguiti da radicalizzazioni, poi da cedimenti e contraddizioni.

Per combattere a fondo contro il sistema capitalista gli strati intermedi dovrebbero in sostanza lottare per abolire se stessi, e questo sarebbe in parte possibile eventualmente solo in presenza della determinante attrazione di un forte movimento sociale del lavoro salariato. Cioè dell’unica classe che ha un vero interesse alla propria estinzione: l’unica a non poter accontentarsi di una migliore ripartizione del plusvalore, l’unica storicamente indotta a lottare per eliminarne l’estorsione. In mancanza di un movimento rivoluzionario di questa classe, strati spuri e classi medie sono condannati ad essere riformisti. Non solo, ma anche eterodiretti, ossia in ultima analisi manovrati dal grande capitale e ad esso funzionali.

Nuovo riformismo

Per comprendere quale potrà essere l’eventuale traiettoria futura del «popolo di Seattle» occorre comprendere preliminarmente che il riformismo è una componente sociale fondamentale del capitalismo imperialista, del capitalismo «globale». In esso la mediazione sociale non è più assicurata, se non in forma residua, dai partiti e dal parlamento, come avveniva nell’epoca liberale del capitalismo. Ora questi organi si sono trasformati – in un processo analogo a quello delle corti aristocratiche delle monarchie assolute – in uno strumento di consenso e di corruzione su vasta scala da una parte, in un parafulmine delle tensioni sociali (senza più reale potere) dall’altra. A partire dall’epoca fascista le decisioni sono semmai frutto della «concertazione», ossia della dialettica sociale fra lobbies e gruppi di pressione: sindacati padronali, delle maestranze, gruppi di potere, monopoli, e, più recentemente, media e associazioni di «cittadini» e di «consumatori». Attraverso leve occulte o mobilitazioni di piazza, queste forze esercitano vuoi dal governo e dallo Stato vuoi da fuori lo Stato, pressioni in direzione della difesa dei propri interessi, in ultima analisi corrispondenti agli interessi delle diverse classi sociali. Il livello delle contraddizioni del capitalismo imperialista è d’altronde tale che esso necessita di integrare il riformismo per almeno due ragioni:

In primo luogo esso contribuisce ad incanalare i movimenti sociali sul binario del «dialogo», ossia entro limiti compatibili con la sopravvivenza del sistema. A questo fine la borghesia si è preoccupata sovente di creare o resuscitare ad hoc sindacati e partiti di «sinistra» laddove essi non esistevano o esistevano marginalmente. Ciò si è verificato puntualmente ad es. ad ogni cambio della guardia tra democrazia e fascismo: in Italia, Germania e Giappone dopo la II guerra mondiale, in Spagna nel «dopo-Franco», ecc. Ma è evidente che il miglior «riformismo» è quello sorto spontaneamente, dal basso, fatto di uomini nuovi, puliti, preferibilmente disinteressati e in buona fede. Non solo esso è più credibile e carismatico, ma dimostra anche una conoscenza approfondita dei soggetti sociali, dei loro bisogni, del loro linguaggio e dei loro sentimenti, coi quali per la parte più moderata si identifica.

In secondo luogo, grazie a queste sensibilità e tradizione effettive, esso è in grado di elaborare correzioni sui generis dei conflitti sociali, riforme necessarie al tessuto sociale, e di lottare per realizzarle, prima ancora che i centri del potere si rendano conto di questa necessità. In sostanza il «riformismo», nell’accezione che ne abbiamo qui data, è un’istanza che, sorgendo dalle stesse contraddizioni del sistema capitalistico maturo, rappresenta nel modo più funzionale la sua necessità fisiologica di autoregolarsi (per quanto gli è possibile). È stata in gran parte la storia del movimento socialista tra otto e novecento, quella dei movimenti del '68-'69 del secolo testé trascorso. Che possa essere quella del «popolo di Seattle» è presto per dirlo, ma è certo che la sua rivendicazione di uno «sviluppo compatibile» è intimamente coerente ai bisogni della «globalizzazione».

Rivendicazioni

Questo non significa che i problemi messi sul tappeto dal «popolo di Seattle» (o meglio dalle esplosive contraddizioni del capitalismo imperialista) siano indifferenti ai comunisti: i problemi dell’ambiente, dell’utilizzo delle nuove tecnologie a vantaggio dell’uomo e non del profitto, della distruzione di intere popolazioni e culture, l’affamamento di milioni di esseri umani, ecc., il debito dei paesi poveri sono questioni ineludibili destinate ad aggravarsi fin tanto che il sistema presente sopravvive. Il problema è che esse non possono essere risolte senza porre in primo piano la rivendicazione fondamentale: il superamento (non la riforma o la correzione) del capitale, perciò del lavoro salariato, ossia delle classi sociali. E che a questo risultato non si può giungere senza una profonda e radicale rivoluzione politica, senza porre la questione del potere.

Il «popolo di Seattle» verso la legittimazione

Come ha dichiarato, al World Social Forum di Padova del 28–30 aprile 2000, Wolfgang H. Reinicke, della Banca Mondiale, consigliere del Segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan:
«Mi fa piacere vedere giovani e bambini. Il futuro della globalizzazione appartiene alla vostra generazione. Bisogna che ci sia un accesso maggiore ai processi decisionali, oggi distaccati dalla gente. Spesso non ci si avvale delle esperienze che esistono a livello locale. Tutti dovrebbero avvantaggiarsi delle opportunità della globalizzazione e determinare le decisioni. […] i governi non possono più affrontare determinati problemi all’interno del loro territorio. È il gap operativo. E un gap di partecipazione […] Quali i problemi della globalizzazione? Problemi che non possono più essere risolti solo all’interno degli stati. Secondo, la velocità dei processi: le burocrazie statali non riescono a tenere il passo con la velocità dei cambiamenti. [necessitano] Alleanze trisettoriali: governi, gruppi di base, organizzazioni sociali, fondi, privati, e organizzazioni internazionali: possono aiutare a creare contesti per risolvere e trattare questi problemi. Ci sono vari modi per mettersi in relazione. […] queste reti possono anche definire degli standard: ci sono organizzazioni ambientali, governi ecc. che stanno definendo regole per costruire dighe dall’impatto sostenibile. Ci sono reti che diffondono la conoscenza. Alcune reti diffondono conoscenza e idee su come affrontare il problema dell’acqua. Queste reti creano anche dei mercati. […] E ancora la intercooperazione: reti tra società private e governi. I governi da soli non ce la fanno, non conoscono i problemi di base. Altro problema: queste reti riempiono il vuoto di partecipazione, permettono alle persone di partecipare e farsi sentire […] se studiate queste reti, vedete che a livello locale non c’è così grande rappresentanza, queste reti sono dominate da paesi delle élite del mondo. Abbiamo bisogno dei paesi in via di sviluppo. Serve una partecipazione dal basso, dobbiamo coinvolgerle dal basso. I problemi della sanità mondiale non possono essere risolti a Manhattan».

In queste parole naturalmente ci sono dosi massicce di «politica» e di propaganda, e anche illusioni, illusioni dei rappresentanti «illuminati» del capitale mondiale di poter risolvere le sue contraddizioni. Ma anche la lucida consapevolezza che qualcosa si può e si deve fare per tentarne un controllo. E che a questo fine il «popolo di Seattle» può tornar utile.

C’è qualcuno tra i manifestanti del Genoa Social Forum – e sappiamo che tra di essi vi sono anche giovani proletari combattivi – ad aver capito che la «normalizzazione» del movimento è già cominciata?


Source: «Partito Comunista Internazionale (Bolletino)», 36035 Marano Vic.no – SCHIO.

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