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IL PACIFISMO DI IERI SCATENA LA GUERRA DI OGGI…


Content:

Il pacifismo di ieri scatena la guerra di oggi quello di oggi appoggerà la guerra di domani
Guerra all’Europa
La preparazione ideologica
L’esperienza del movimento operaio
Lo stalinismo e la II guerra mondiale
Il pacifismo è il partito bellicista di domani
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Il pacifismo di ieri scatena la guerra di oggi quello di oggi appoggerà la guerra di domani

La guerra balcanica scatenata dal governo «democratico» americano e dai governi «di sinistra» dell’Unione europea, nonché dall’ex «comunista» Milošević, continua. Essa dimostra che il capitalismo, anche guidato dalle «sinistre», non è nella sostanza cambiato dopo la sconfitta del «nazifascismo», e che prima o poi la guerra mondiale si ripresenterà, con epicentro ancora una volta in Europa. Che le guerre asettiche, chirurgiche, indolori, «intelligenti», non esistono. Che i conflitti moderni coinvolgono tutta la società, si combattono soprattutto distruggendo l’apparato economico e minando il fronte interno del nemico, terrorizzando le popolazioni civili, deportando, spostando come armi passive e cancellando con lo sfruttamento, la fame, i lager, interi popoli (durante l’ultima guerra mondiale 9 milioni di deportati lavorarono per i tedeschi, dopo di essa 30 milioni di profughi furono costretti a spostarsi dagli stessi che oggi accusano Milošević di deportare i Kosovari). Insomma il genocidio è la normalità della guerra contemporanea, oltre ad essere il grande alibi dietro cui si nascondono i paesi imperialisti per mascherare le immense distruzioni provocate dai loro stupidissimi bombardamenti «a tappeto» (che in Serbia hanno già sostituito le «armi intelligenti»).

Guerra all’Europa

La diplomazia americana a Rambouillet ha scompaginato la paziente trama. europea di spartizione dei Balcani puntando tutto (ma al momento opportuno sarà scaricato se necessario) sull’UCK, forza di «autodeterminazione» che si finanzia con i traffici di droga e si arma con gli istruttori americani. Il vero pegno di questa guerra non è il Kossovo, e nemmeno la Serbia, bensì l’Europa!.

La NATO, bombardando gli impianti industriali della Vojvodina di proprietà di Joint ventures tedesco-serbe o serbo-italiane (ad es. la Telekom serba), lavora per il capitale americano contro quelli europei, in particolare quello tedesco (che nell’Asse Danubiano ha uno dei suoi progetti espansionistici maggiori) e italiano. La presenza americana in Macedonia e Albania contrasta infatti l’area di influenza di Roma e mira contemporaneamente a controllare il famoso «corridoio 8» che – secondo un progetto dell’ENI – dovrebbe portare il petrolio caucasico sino all’Adriatico, passando per la Macedonia ed il Kossovo. In questo modo Washington intende mettere in ginocchio le esportazioni russe di «oro nero» e tenere sotto controllo la voglia europea di emanciparsi dalle forniture – controllate da yankees e inglesi – provenienti dal Medio Oriente. Come ha scritto Stefano Cingolani sul «Corsera» del 26 aprile,
«…tanti sogni europeisti svaniscono nell’alba rossa dei Balcani«.

L’interventismo americano risponde, come scrivono i due politologi americani Heilbrunn e Lind,
«a una nuova strategia imperiale, che pone la sua frontiera proprio nell’Europa del Sud est»
e mira a porre l’ipoteca statunitense nel «ventre molle» dell’Europa. Deve esserci chiaro: l’allargamento a Polonia, Cechia e Ungheria della Nato non è rivolto solo contro la Russia.

Per questo gli Europei, italiani e tedeschi avanti a tutti, cercano disperatamente, coinvolgendo la Russia, una soluzione politica che in qualche modo imbrigli la prepotenza USA; per questo il papato, mettendo fine ad una secolare politica di scontro con la chiesa ortodossa per la penetrazione ad Est, si schiera per la fine delle ostilità. Per questo il paci-fantoccio Rugova è volato a Roma e ha proseguito per Berlino ed il Vaticano.

Insomma questa guerra, che dietro l’apparente compattezza della NATO mette a nudo come non mai le divergenze di interessi tra le potenze, è il biglietto da visita della III Guerra Mondiale, la sua prova generale.

La preparazione ideologica

Lo è anche dal punto di vista politico: nelle posizioni rispetto alla guerra attuale si possono leggere in filigrana quelle che saranno, nel futuro conflitto mondiale, le armi ideologiche delle diverse forze in campo. Per questo, il vero «target» di questa come di ogni altra guerra - la classe degli sfruttati che ne subirà le conseguenze con la fame o sotto le bombe, e che ne pagherà le spese – la perderà se non riuscirà a fare tesoro della passata esperienza del movimento operaio, se non comprenderà perché non è riuscita a impedire le due guerre mondiali precedenti, perché in esse i proletari si sono scannati in opposti fronti a favore della borghesia.

Durante la I guerra mondiale la propaganda bellicistica della borghesia inglese, francese e americana sostenne sacrosanta la guerra delle «democrazie liberali» contro il militarismo tedesco mentre questo, dal canto suo, affermò la necessità di combattere contro il feudalesimo zarista. Nel II conflitto imperialistico, mentre i nazi-fascisti si scagliarono contro le «plutocrazie» (cioè i governi del denaro), in nome del «socialismo nazionale», gli alleati si appellarono al fronte demo-socialista contro la dittatura. Oggi, mentre la borghesia americana recita la parte del gendarme mondiale contro «dittatori» quali Saddam Hussein e Milošević, quella europea affila le proprie armi ideologiche alzando la bandiera dell’europeismo.

É vitale comprendere, inoltre, che per assicurare, anche in caso di sconfitta o di pace separata, la tenuta del fronte interno, la borghesia tiene in serbo una carta politica alternativa che sappia sedurre la popolazione in situazioni di crisi, evitando che il suo dominio possa essere messo in discussione. Questa carta è sempre stata rappresentata dalle forze di opposizione non rivoluzionaria. Tra gli esempi storicamente numerosi ci limiteremo a ricordare come, durante il II conflitto mondiale, mentre nei paesi «democratici» e in Russia il fronte bellicista fu unanime, nei paesi occupati dai tedeschi gli alleati abbiano fatto ogni sforzo per favorire a proprio vantaggio il sabotaggio dello sforzo bellico. Clamoroso il caso dell’Italia, che con il «ribaltone» del’43 e grazie alla «Resistenza» riuscì a saltare in extremis sul carro dei vincitori, evitando così alla borghesia italiana le umiliazioni e le distruzioni che toccarono in sorte a tedeschi e giapponesi.

Dunque la popolazione viene trascinata alla guerra non solo e non tanto dalla propaganda ufficiale, quanto piuttosto dalle forze politiche che hanno saputo conquistarsi un’influenza sulla massa in un lungo lavoro precedente, nel corso di un processo che non è il risultato di un piano machiavellico, ma della storia.

L’esperienza del movimento operaio

Nel 1912 il Congresso di Basilea dell’Internazionale socialista, in seguito alla guerra balcanica dello stesso anno, aveva stabilito:
«se minaccia di scoppiare la guerra, la classe operaia dei paesi interessati, e i suoi rappresentanti in parlamento hanno il dovere […] di fare ogni sforzo per impedirla con tutti i mezzi che ritengono più adeguati […] Nel caso, poi, in cui, ciononostante la guerra scoppiasse, essi hanno il diritto di intervenire per porvi rapidamente fine e di sfruttare la crisi economica e politica, provocata dalla guerra per volgere l’agitazione degli strati bassi della popolazione e per accelerare la caduta del dominio capitalista».

Due anni dopo, nell’agosto 1914, la socialdemocrazia internazionale crollava ignominiosamente accodandosi ovunque alla propria borghesia e votando i crediti di guerra. Tradito dalle proprie organizzazioni, senza guida, il proletariato andò a morire o rimase a lavorare per la guerra. Come poté succedere?

Rispondere sarebbe lungo, ma una osservazione si può fare: la risoluzione di Basilea, che allora fu vista come una vittoria delle sinistre rivoluzionarie del socialismo, era il frutto di un compromesso, derivante dalla volontà di non rompere l’unità dell’Internazionale, benché al suo interno le tendenze riformiste e revisioniste, non rivoluzionarie, fossero maggioritarie. Questo mito dell’unità fu particolarmente nefasto in Germania, dove Rosa Luxemburg era convinta che solo l’iniziativa della classe operaia avrebbe potuto decretare la rinascita dell’Internazionale e la sconfitta del revisionismo.

Solo in un paese si era trovata l’energia e la chiarezza per rompere in tempo con l’opportunismo: la Russia, dove la rottura fra rivo-luzionari e opportunisti, fra bolscevichi e menscevichi, che risaliva al 1903, proprio nel 1912 divenne definitiva per iniziativa dei bolscevichi di Lenin.

La Russia era il paese più arretrato d’Europa, ma politicamente si dimostrò il più avanzato. Nel 1905, proprio in seguito alla sconfitta del suo esercito nella guerra contro il Giappone, era entrata in una fase rivoluzionaria. Dalla rivoluzione del 1905, malgrado il suo finale insuccesso, i bolscevichi uscirono con una visione più lucida dei compiti rivoluzionari. Innanzitutto essi avevano imparato a diffidare della volontà unitaria che allo scoppio della guerra paralizzerà i rivoluzionari europei. Già nel 1900 Lenin aveva scritto:
«Prima di unirci e per unirci dobbiamo anzitutto delimitarci risolutamente e con precisione» («Dichiarazione della redazione dell’Iskra», O.C. v. 4).
E si attenne sempre a questo principio. In secondo luogo, l’esperienza del 1905 aveva insegnato al bolscevichi che la sconfitta del proprio paese è utile alla causa della rivoluzione. In seguito alla disfatta russa di Port Arthur, Lenin scriveva:
«Il proletariato […] ha tratto giovamento dalla disfatta dell’autocrazia […] quanto più a lungo dura (la guerra), tanto più accresce il fermenta e l’indignazione del popolo russo, tanto più si avvicina il momento di una nuova grande guerra […] del popolo contro l’autocrazia» («La caduta di Port Arthur», O.C., v.8).

La differenza con l’impostazione della II Inter-nazionale poteva allora sembrare piccola, ma a posteriori si dimostrò sostanziale. Non si tratta tanto di impedire la guerra, quanto di approfittare, in pace e in guerra, di ogni crisi del sistema borghese per lanciare la parola d’ordine rivoluzionaria. Non è assolutamente un caso se coloro che volevano impedire la guerra la appoggiarono, e coloro che la considerarono come occasione rivolu-zionaria seppero porvi fine.

Quando, nel 1915, a Zimmerwald si riunirono i pochi socialisti rimasti fedeli al manifesto di Basilea, la maggioranza si trovò sulle posizioni democratiche espresse dal Manifesto conclusivo redatto da Trotzky:
a) pace senza vinti né vincitori, senza annessioni né indennità,
b) autodecisione per tutti i popoli,
c) ricostituzione dell’Internazionale.
Anche in quell’occasione solo .una piccolissima minoranza nella minoranza, poi detta «sinistra di Zimmerwald», capeggiata dai bolscevichi, ebbe II coraggio di prendere una posizione rivoluzionaria, come al solito considerata «estremista» e «purista»:
«La trasformazione dell’attuale guerra imperialista in guerra civile – affermavano i bolscevichi – è la sola giusta parola d’ordine proletaria […]. II pacifismo e la propaganda astratta della pace sono una delle forme di mistificazione della classe operaia. In regime capitalistico, e specialmente nella fase imperialistica, le guerre sono inevitabili. […] Oggi la propaganda della pace se non è accompagnata dall’appello all’azione rivoluzionaria delle masse, può seminare soltanto illusioni […] In particolare è un grave errore pensare alla possibilità della cosiddetta pace democratica senza una serie di rivoluzioni» («Tesi della conferenza delle sezioni estere del POSDR», 1915).
Da una parte parole di pace, dall’altra impossibilità della pace capitalistica e invito alla guerra di classe.

«Domani o dopodomani – scriveva Lenin il 14/11/1914 – la borghesia tedesca e soprattutto gli opportunisti s’impadroniranno della parola d’ordine della pace: Noi dobbiamo attenerci alla parola d’ordine del proletariato rivoluzionario […] la guerra civile. […] solo essa può determinare senza errore qual è l’orientamento fondamentale: per la causa proletaria rivoluzionaria o per la causa borghese» (O. C. v. 36).

La guerra non può essere deprecata o esaltata, deve essere storicamente e socialmente superata. Condizione di tale superamento è la scomparsa delle classi sociali, l’economia associata volta, non al profitto ma al soddisfacimento dei bisogni umani. Tale obiettivo è impossibile senza rivoluzione, guerra civile: è proprio la borghesia a dimostrarci, con l’uso costante della violenza in pace e in guerra, che non accetterà mai di perire senza impugnare le armi.

«…esiste un solo mezzo – diceva Marx nel '48 sulla «Nuova Gazzetta Renana» - per abbreviare, semplificare, concentrare, l’agonia assassina della vecchia società e le cruente doglie del parto della nuova; un solo mezzo: il terrore rivoluzionario!«.

Solo in Russia, nel corso del I conflitto mondiale, la questione della pace e della guerra fu posta rivoluzionariamente, senza moralismi e unitarismi illusori. Per questo solo in Russia il proletariato riuscì ad afferrare il potere. La III Internazionale, l’Internazionale Comunista, al suo III Congresso inequivocabilmente affermò che
«Il pacifismo umanitario anti-rivoluzionario è diventato una forza ausiliaria del militarismo».

Lo stalinismo e la II guerra mondiale

Il proletariato affrontò la II guerra interimperialistica in condizioni ancora peggiori. Mancò infatti una corrente, sia pur minoritaria, come quella che negli anni '14 – '18 aveva tenuto alta la bandiera dell’internazionalismo. La classe operaia partecipò dunque al conflitto senza opposizione. Non solo inquadrata nelle armate con la coscrizione, bensì volontariamente organizzata in bande partigiane, appoggiando una borghesia, uno schieramento imperialistico contro un altro, accettando l’alleanza con la propria borghesia in nome della crociata «antifascista», come se l’imperialismo anglo-americano, o quello russo, fossero più accettabili.

Per capire come ciò fu possibile bisogna chiarire che, a partire dal 1927, in URSS e in tutti i partiti comunisti, il bolscevismo era stato sconfitto dallo stalinismo, il quale, di li al '36 deportò, imprigionò, processò per tradimento ed eliminò la vecchia guardia rivoluzionaria. Ben prima dello scoppio della guerra dunque l’IC non era più un organismo rivoluzionario, ma la longa manus dell’imperialistica politica estera sovietica.

Non è un caso perciò che, a partire dal 1933, Stalin imponesse all’Internazionale, ancora una volta, la linea «pacifista». Dirà Togliatti al VII Congresso dell’IC:
«…di fronte al pericolo imminente dello scoppio di una guerra controrivoluzionaria contro l’Unione Sovietica, la parola d’ordine centrale dei partiti comunisti deve essere: lotta per la pace. […] La lotta per la pace apre davanti ai partiti comunisti la possibilità di costituire il più vasto fronte unico. Nelle file di questo fronte unico devono essere attratti tutti coloro che sono interessati al mantenimento della pace […]».

Riapparsa la parola d’ordine della pace, non poteva non riapparire anche quella del Fronte Unico, del pateracchio. Togliatti aggiungeva, nella stessa occasione, capovolgendo Marx e Lenin:
«Il VII Congresso mondiale dell’IC respinge con la massima energia l’affermazione calunniosa che i comunisti desidererebbero la guerra con la speranza che essa porti alla rivoluzione»

Come sempre la parola d’ordine della pace doveva serviva a coprire, in realtà, la preparazione della guerra. Nei paesi alleati della Russia i proletari avrebbero infatti dovuto soprassedere dalla lotta di classe per non inficiare lo sforzo bellico. È il periodo dei «fronti popolari» e della guerra in Spagna, dove gli stalinisti faranno le prove generali dell’alleanza con le potenze «democratiche» assumendosi il lavoro sporco di far sparire i rivoluzionari. L’esempio della guerra civile spagnola è fondamentale per la comprensione dei meccanismi attraverso cui il proletariato fu trascinato alla II guerra mondiale. Qui per la prima volta esso lottò per la «democrazia» assieme agli stati capitalistici «democratici», illudendosi che la sconfitta del «fascismo» potesse essere una tappa fondamentale verso la sua emancipazione.

Nel 1939 la sorpresa: dopo l’invasione tedesca della Polonia Mosca e Berlino firmarono il patto Hitler-Stalin, ufficialmente di «non aggressione», ufficiosamente di spartizione dell’Europa orientale e settentrionale (all’Urss dovevano toccare parte della Polonia, Estonia Lettonia, Lituania e Finlandia, subito attaccata). La lotta di classe in Germania verrà per l’occasione messa in sordina. Solo nel '41 (non prima!), dopo l’attacco tedesco all’URSS, nascerà la «Resistenza», mito bastardo di asservimento del proletariato occidentale al carro degli «alleati», mito che con la sua retorica partigiana e nazionalistica costituisce ancora oggi una tragica remora allo schieramento autenticamente classista della classe operaia in pace e in guerra.

Il pacifismo è il partito bellicista di domani

«Missione umanitaria» per la NATO, «difesa della patria aggredita» per la Serbia, «autodeterminazione» del Kossovo per l’UCK, queste sono le armi ideologiche che i governi attuali hanno messo in atto per cementare il proprio fonte interno. Naturalmente sono parole d’ordine false: sappiamo che la NATO ha precisi motivi per «difendere» i kossovari e non i curdi o i palestinesi; che Belgrado nasconde con i suoi morti civili sotto i bombardamenti la propria politica di oppressione nazionale verso albanesi, montenegrini, bosniaci, ungheresi della Vojvodina; che l’alfiere dell’«indipendenza» kossovara, l’UCK, è un insieme eterogeneo di gang clanici in lotta per il controllo di traffici illeciti che non vogliono dividere né con i serbi né con gli albanesi.

Dire questo è indispensabile ma non basta. Occorre andare oltre e smascherare i pericoli che si nascondono dietro l’illusione di creare un fronte antibellicista su posizioni generiche, su frasi reboanti, su slogan «popolari» e «accessibili», su accordi fasulli che sono deterministicamente destinati a saltare al primo mutamento di situazione.

Occorre infatti saper vedere e smascherare sin d’ora quella falsa opposizione alla guerra che nel conflitto limitato di oggi si prepara a svendere il sangue del proletariato nella guerra generale di domani. Bisogna fin d’ora denunciare, all’interno dell’«opposizione» alla guerra, quella corrente che, mascherandosi dietro vecchie formule cosiddette «antimperialiste» quali il no alla NATO e all’arroganza yankee, dietro iniziative di solidarietà rivolte al «popoli» vittime della guerra, ammettendo nelle manifestazioni i ritratti di Milošević e i simboli cetnici, si candida a rappresentare gli interessi di quella consistente frazione della borghesia nazionale ed europea che dalla guerra attuale e dalla concorrenza americana vede minacciati i propri interessi vitali ad Est. Quella stessa frazione borghese che, a partire dai leghisti fino al polacco Papa Woityla, se oggi si limita a celare i suoi artigli dietro le profferte di pace della Russia, la foglia di fico dell’ONU e le promesse di ricostruzione dopo il conflitto, domani, in occasione di un eventuale scontro imperialistico con gli interessi americani non esiterà a lanciare parole d’ordine «antimperialiste» e «anti-americane», in nome di un «nuovo ordine mondiale» e così via. Anzi, le farà lanciare da quelle tendenze politiche che già in occasione della I guerra mondiale, passando per i «fronti popolari», la Guerra di Spagna e la «Resistenza», hanno fornito il veleno ideologico che ha intossicato milioni di proletari e da quegli utili idioti che cadranno nel tranello.

Centinaia di organizzazioni si dicono oggi contro la guerra «della NATO», decine si definiscono comuniste, molte delle quali rivoluzionarie, internazionaliste e classiste. Ma questo non sposta il problema.

Si può essere internazionalisti e comunisti accettando alle proprie manifestazioni i nazionalisti serbi con le loro bandiere? Sostenendo l’integrità delle federazione yugoslava e perciò de facto avallando la politica di «union sacrée» di Milošević e l’oppressione del Kossovo? Propugnando un Fronte Unico con le forze più disparate sulla base di posizioni molto più generiche di quelle del Manifesto di Basilea del 1912? Accettando un Fronte Unico con forze storicamente guerrafondaie come lo stalinismo? Si può essere internazionalisti e contro la guerra imperialistica lasciandosi sedurre da slogan antiamericani, al fondo filoeuropeisti?

L’esperienza ha già risposto di no, dimostrando che solo l’intransigenza rivoluzionaria che fu di Lenin, anche se certo oggi non può consentire di mobilitare le masse, permetterà domani, ove un movimento reale dovesse svilupparsi, di catalizzarne le spinte. La politica volgare è quella che crede che la volontà e l’attivismo spostino i rapporti di forza, e deve ricorrere per mobilitare «numeri» a compromessi destinati a produrre situazioni analoghe a quello dell’agosto 1914.

La priorità alla pace, a fermare le armi porta direttamente a condividere oggi il terreno con forze che domani, quando ad essere attaccata sarà poniamo direttamente l’Italia, con varie scuse e giustifi-cazioni saranno per la guerra, e ci racconteranno magari che occorre difendere le fabbriche per salvaguardare i posto di lavoro degli operai.

L’unica via è chiarire che solo l’abbattimento violento del capitalismo può farla finita con le guerre, che il solo antidoto alla guerra imperialistica è la guerra di classe.

L’attuale guerra balcanica non è che l’episodio iniziale di un nuovo ciclo in cui le varie forze borghesi, più rapidamente che nel passato, evolveranno verso il loro destino storico. Chi avrebbe creduto fino a pochi mesi fa che i governi di «sinistra» si sarebbero gettati in una guerra come la presente?

Allo stesso modo, ben presto, evolveranno quelle forze che oggi salvano la faccia nascondendo le proprie opzioni filo-serbe, filo-europee, anti-americane.

Saranno queste forze, domani, i nuovi D’Alema che ordineranno alle armi di sgranare il loro rosario.

Ogni confusione attuale con queste forze sarà di ostacolo, in futuro, allorquando la classe – che giudica non le parole ma i fatti – cercherà faticosamente di aprirsi un varco nel marasma politico esistente. Ogni credito dato oggi a queste forze significa assumersi sin d’ora la responsabilità storica del loro immancabile tradimento.

Nelle manifestazioni di oggi contro la guerra si prepara il futuro partito bellicista.

Il primo dovere dei rivoluzionari è – a tutti i costi – distinguersene.


Source: «Partito Comunista Internazionale», 36035 Marano Vic. (VI)

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