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I RAPPORTI DELLE FORZE SOCIALI E POLITICHE IN ITALIA


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I rapporti delle forze sociali e politiche in Italia
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I rapporti delle forze sociali e politiche in Italia

I

Se ci poniamo il problema: lo Stato italiano odierno è esso uno Stato tipicamente borghese, o è uno Stato arretrato rispetto al tipo degli Stati moderni capitalistici? – siamo naturalmente indotti a cercare la risposta nello studio del gioco delle forze delle classi sociali e dei partiti, in quello delle forme costituzionali dello Stato, e a seguire gli sviluppi storici di tutti questi fattori.

Prima di tentare di allineare gli elementi d’una risposta vogliamo chiarire una questione di metodo che ci pare pregiudiziale per una tale ricerca. Questo chiarimento ci è suggerito dalla evidente considerazione che, se noi cercassimo nel mondo lo Stato liberale borghese tipo, da porre come modello per il nostro studio, verremmo a constatare immediatamente che per taluno dei caratteri che ci facevano ritenere altri Stati come tipicamente moderni, questi stessi si sono evoluti in tal senso, da assumere con gli ultimi eventi storici una fisionomia superficialmente giudicabile come pre-borghese. Questo si constaterebbe se si ponesse mente soprattutto al regime della politica interna e al grado di libertà consentito alle popolazioni o a dati strati di esse, come anche al regime della politica militare e dei rapporti con l’estero e con le colonie.

La pregiudiziale che noi vogliamo porre è semplicemente questa: dobbiamo cercare per definire lo Stato borghese moderno quei caratteri che attribuisce a tale tipo storico la nostra dottrina marxista. Le due interpretazioni sono fondamentalmente inconciliabili, ed appunto una riprova della bontà del sistema critico nostro sarà la possibilità di dare una spiegazione dell’insieme dei fatti e dello sviluppo storico a cui invece è impotente la teorica ortodossa dello Stato.

Una così elementare osservazione ci conduce ad un’altra distinzione utilissima per la buona preparazione del nostro bagaglio di nozioni e di argomenti necessario alla quotidiana azione politica. Nel campo della critica teoretica, la cui applicazione costituisce un lavoro per così dire interno e direttivo del nostro movimento, una valutazione di forze avversarie e nostre e di probabilità di sviluppi della situazione, senza la quale non si potrebbero mai costruire indirizzi tattici e pratici, dobbiamo appunto attenerci ad uno studio obiettivo e scientifico dei vari fattori condotto coi criteri che ci fornisce il nostro metodo marxista.

Ma altro è costruire le verità che ci servono per la direzione della nostra rotta come partito nella storia, altro, sebbene cosa completamente collegata alla prima, è la elaborazione di quelle parole di propaganda di cui ogni partito deve servirsi per guadagnare con i suoi argomenti alla causa propria quegli elementi che stanno al di fuori di esso e che ancora non sono maturi all’impiego dei metodi critici propri del partito. Si potrebbe anzi stabilire che anche nella massa degli aderenti politici al partito, dai quali naturalmente non si pretende un esame di scienza marxista, ha gioco la seconda forma, delle parole «esterne» di propaganda, e cercare di stabilire il limite tra gli strati e gli organi interni o le occasioni in cui devono aver impiego l’uno e l’altro criterio. Ma non intendiamo aprire qui tale ulteriore digressione.

Nelle nostre «parole di propaganda» dunque, e nell’armamentario dei nostri argomenti, allestito per il proselitismo e la conquista di avversari e di indifferenti, non si applicano in modo immediato, diretto, scolastico, le tesi fornite dalla nostra critica e della esattezza delle quali siamo tuttavia convinti. Si applica invece un procedimento dialettico che deve condurre progressivamente e nel modo più utile possibile alla acquisizione da parte di più vasta massa di una precisa coscienza conforme ad un orientamento marxista, mentre già tende ad utilizzarne l’azione in un senso rivoluzionariamente utile.

Se si concepissero le necessità di questo secondo criterio in modo staccato dalle direttive fondamentali che il primo ci fornisce, o se nel corso dell’opera nostra si perdesse la linea originale, allora si verificherebbero quelle dannose conseguenze che hanno fatto degenerare in tanti casi la propaganda dei partiti proletari insieme al loro indirizzo di azione. Senza quindi mai rinunziare a stabilire chiaramente i nostri capisaldi critici, noi dobbiamo con opportuna sagacia allestire gli argomenti che fanno presa sulla massa in un primo stadio. E, appunto, a tale scopo noi ci poggiamo alcune volte, come punto di partenza polemico, non più sulla dottrina nostra, ma su quella dell’avversario, perché questo ci serve per sospingere la massa a esigere da lui la traduzione nella pratica delle sue premesse teoriche, la realizzazione dei benefizi che esso pretende sgorghino dalla applicazione delle sue proposte di organizzazione sociale e politica. È evidente che dalla contraddizione tra la sua dottrina e la sua attività pratica, tra le sue promesse e le sue realizzazioni, scaturirà la sconfitta del nostro avversario, il distacco da lui di quelli che avevano creduto alle sue dichiarazioni, e in seguito, attraverso la nostra opportuna opera, l’acquisizione di questi elementi alla nostra fede politica.

Gli esempi di questo metodo sono di ogni giorno, e purtroppo sono anche frequentissimi gli esempi della sua degenerazione. Così la campagna contro le dottrine religiose, che sarebbe assurdo fare sulla base filosofica e affrontando in pieno il fanatismo dei credenti, si poggia sulla critica anticlericale e sulla dimostrazione che i sacerdoti stessi cadono ad ogni momento in fallo con la loro fede. Nella campagna contro una guerra noi ci serviamo di argomenti atti a confutare la tesi avversaria che vi è un benefizio per la nazione, anziché stabilire subito la difficile critica del concetto di nazione dal punto di vista della antitesi degli interessi di classe. Ma in realtà, se noi dimenticassimo che nello sviluppo reale dell’ordinamento politico delle masse su cui fanno presa le nostre parole, bisogna bene arrivare a porre nella loro interezza le nostre vedute effettive, avverrebbe questo: che noi stessi rinunzieremmo ad esse e finiremmo col rinnegarle. Ed infatti il movimento socialista tradizionale per i nove decimi anziché svolgere un’azione e una propaganda marxista, e quindi tenersi contro tutte le concezioni borghesi, religiose, nazionaliste, democratiche, era giunto ad essere un cattivo curatore della bancarotta delle ideologie borghesi e un coro di piagnoni sulla contraddizione di preti governanti o demagoghi alle loro promesse, mentre proprio su tale bancarotta e contraddizione doveva costruire la propria avanzata.

Ritornando dunque alla nostra distinzione, intendiamo stabilire che per il problema che ci siamo posti e per la sua soluzione dobbiamo fare una critica dello Stato italiano che ne confronti i caratteri con quelli che la nostra dottrina attribuisce allo Stato della borghesia, e non pretendere di constatare in esso la realizzazione pratica dei postulati teorici del liberalismo ufficiale, pretesa che possiamo accampare in materia di polemica con l’avversario e per sottrarre i suoi seguaci alla sua influenza ingannevole, ma che sappiamo che deve finire in una negativa.

La constatazione a cui certamente giungeremo, che l’attitudine dello Stato italiano si trova in contraddizione con i compiti che la teorica liberale borghese assegna allo Stato, potrà inquadrarsi nell’insieme della nostra critica che appunto demolisce il metodo liberale smascherandolo come una simulazione della vera natura dello Stato borghese.

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La genesi storica dello Stato italiano ci sembra adempiere tutti i caratteri che accompagnano il sorgere del regime democratico moderno. In generale, allorquando questo sorge, segnando la vittoria della borghesia industriale e commerciale e dei ceti che si stringono attorno ad essa contro il potere delle aristocrazie feudali clericali e assolutiste, l’ambiente economico non è che embrionalmente capitalistico. Nel periodo del Risorgimento italiano nel quale dal 1821 al 1870 si comprendono i tentativi e i successi di sostituire con la guerra civile o l’espansione territoriale i vecchi regimi della penisola con lo Stato liberale unitario, noi constatiamo certo in Italia uno sviluppo dell’economia moderna, molto arretrato rispetto a quello di altri paesi; ma non dobbiamo dimenticare che siamo in ritardo nella introduzione del regime politico democratico rispetto all’Inghilterra, l’America e la Francia di un periodo tanto poco trascurabile, che in realtà la prima vera rivoluzione borghese italiana (data la limitata importanza degli eventi del 1799 importatori meccanici di repubbliche dalla vicina Francia) viene a coincidere in un secondo stadio con aspetti rivoluzionari dell’affermazione del regime borghese in gran parte d’Europa. D’altra parte se, per un insieme di ragioni che non è qui il caso di ripetere, lo sviluppo capitalistico in Italia non ha potuto seguire il ritmo accelerato che ha avuto altrove nel secolo XIX, questo non deve neppure farci dimenticare che un capitalismo commerciale era in Italia molto più antico, ed anche in una notevole misura esisteva nel periodo in questione il capitalismo manifatturiero.

Che la rivoluzione liberale in Italia sia stata sostenuta da talune famiglie aristocratiche non è affatto un carattere di eccezione rispetto alle altre rivoluzioni borghesi. E la lotta contro il feudalesimo ha avuto in essa parte essenziale, se pure a caratteri meno evidenti che altrove, dove la esistenza di uno Stato nazionale rendeva più chiari i termini di un tale problema, mentre in modo caratteristico si aveva la campagna contro i privilegi economici e fondiari del clero.

Come altrove, il nascente proletariato costituiva le masse di manovra della rivoluzione borghese, senza avere una fisionomia propria, che in altri paesi cominciava a delinearsi solo in stadi successivi della lotta per l’affermazione completa dell’assetto democratico contro tutte le resistenze dei vecchi regimi.

Il programma politico e ideologico del Risorgimento italiano combacia anche perfettamente col contenuto della rivoluzione liberale-democratica, trovando se vogliamo in Italia anche migliori tradizioni dottrinali che altrove. Ad esso corrispondono il movimento nazionale e per la indipendenza dallo straniero, la lotta, tipica, contro il clero e le dottrine religiose, quella contro i privilegi e gli atteggiamenti della nobiltà. Siamo in presenza di tutte le rivendicazioni integrali del liberalismo: costituzioni parlamentari, libertà di culto, di stampa, di associazione, e via dicendo.

Dal 1859 in poi i governi che sono alla testa dello Stato italiano, viaggiante da Torino a Firenze a Roma, sono tenuti da partiti che stanno nel campo della dottrina liberale: si formano la destra e la sinistra parlamentare, ma i problemi che le dividono sono di importanza non fondamentale, e forse la ortodossia liberale è nella destra ancora maggiore. I partiti del vecchio regime: assolutisti, temporalisti, borbonici, austriacanti, reazionari in genere rispetto alla rivoluzione borghese spariscono senza essersi riconciliati con le nuove istituzioni, e la borghesia realizza una vera e propria dittatura rivoluzionaria; il che non fa che corrispondere benissimo alla non perfetta sua differenziazione sociale, ed è anzi una necessità che da questo scaturisce.

Sarebbe assolutamente erroneo costituirsi questo schema: lo Stato unitario italiano si poggia su due forze sociali nettamente distinte anche nella politica di governo, se pure alleate: la borghesia del Nord e la classe dirigente feudale agraria del Sud. I rapporti che sono andati creandosi nell’apparato di governo in Italia tra Nord e Sud sono da giudicare meno superficialmente. Cominciamo ad osservare che molte forze della destra classica venivano dalla borghesia industriale commerciale piemontese e lombarda, e molte della sinistra dai collegi parlamentari del Sud.

In realtà nel Sud d’Italia non esisteva un grande e potente feudalesimo capace di opporre una forte resistenza alla rivoluzione borghese. La classe dirigente meridionale, in cui la proprietà media prevaleva, si conciliò facilmente con le forme del regime parlamentare democratico in cui subito inserì le forme embrionali nella sua scialba attività sociale e politica, riducentesi ai contrasti di partiti e gruppi puramente locali. Come oggi non ha una lotta aperta di classe tra borghesia e proletariato, così il Mezzogiorno non ebbe un’aperta lotta tra feudalesimo e borghesia, e dette al nuovo Stato un’eredità di coefficienti reazionari, ma una materia plastica adattissima ad essere utilizzata dall’apparato di governo parlamentare, che largamente si propizia di influenze col volgare favoritismo amministrativo.

Tra gli interessi economici del Meridione agrario e del Nord industriale esiste un’evidente antitesi in quanto riflette la politica doganale e il protezionismo. Ma questo non basta a stabilire un netto dualismo nella classe che tradizionalmente ha governato il paese, ove si tenga conto che certe misure di protezione doganale favoriscono anche i coltivatori (zuccheri, alcool), che in realtà la maggior proporzione di produzione agricola in Italia si ha nel Nord e non nel Sud, e che piuttosto per la questione del protezionismo si determina il dualismo di interessi tra la massa dei consumatori proletari e semiproletari e talune categorie di operai industriali, diversissima essendo la proporzione dei secondi sui primi nel Sud e nel Nord. E questa situazione si riflette negli atteggiamenti politici dei partiti costituzionali diversamente nelle due parti d’Italia, piuttosto a scopo di demagogia elettorale che per contrasti di interessi che esse direttamente rappresentino nel seno della classe padronale.

D’altra parte il liberalismo che è sostenuto in Italia dalla destra liberale, anche quando questa ha rappresentato e rappresenta la classe dirigente del Nord, non è certo una tesi precapitalistica, se pure corrisponde ad uno stadio di sviluppo capitalistico superato negli ultimi decenni nei paesi più progrediti, e in nessun caso può essere considerata come una prova della partecipazione di classi borghesi alla costituzione dello Stato italiano.

Ci pare di poter concludere che i rapporti di forze economiche che si verificano nel periodo della formazione dell’attuale regime statale autorizzano a definire questo come un regime compiutamente borghese, liberale, democratico.

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Quanto alla struttura costituzionale dello Stato italiano, teoricamente e giuridicamente essa corrisponde alla natura storica dello Stato liberale. Certo ne potrebbero essere fatte delle critiche se invece di guardare alla realtà dei rapporti che si verificano nell’apparato statale noi ci inducessimo all’errore di valutazione di prendere a modello gli schemi di certe dottrine di diritto costituzionale di scuole liberali che si affannano a sopravvivere alla bancarotta storica del metodo che rappresentano, o se ci fermassimo alla esteriorità di certi rapporti con altre costituzioni statali. Dal punto di vista democratico sono più audaci quelle di America, Francia, Svizzera, ad esempio, ma si potrebbe dire che lo Stato inglese merita meno di quello italiano il nome di Stato borghese moderno, solo perché la sua prammatica istituzionale è antiquata, aristocratica, addirittura medievale in certe forme?

Nella costituzione tradizionale dello Stato italiano vi è tutto quello che occorre per riconoscere un meccanismo liberale, gettandosi in pieno nel flusso della prassi parlamentare di governo nella seconda metà del secolo scorso per evolvere nei primi anni dell’attuale in un deciso senso democratico, e fare dinnanzi all’ingrandire del movimento operaio una decisa politica di sinistra, fino alla vigilia della guerra mondiale.

Vogliamo prendere ed esaminare la politica interna, o meglio di «polizia» dello Stato? Troveremo indubbiamente delle manifestazioni brutalmente reazionarie e repressive verso i moti popolari e sovversivi: ma questo non fa che corrispondere mirabilmente alla politica interna di tutti gli Stati borghesi contemporanei. Il vero errore sarebbe quello di ravvisare una politica «di destra» nel senso borghese nell’adozione di brutali misure di polizia, perché, confondendo questi due, noi ci poniamo senza avvedercene sulla piattaforma della teoria avversaria secondo la quale il regime democratico è una effettiva garanzia dei diritti dei cittadini tutti e delle loro libertà. Noi invece, dopo aver ravvisato lo Stato compiutamente democratico nelle sue forme istituzionali e nelle sue basi sociali, stabilimmo come elemento critico fondamentale che esso non è altro che un perfetto strumento di classe del padronato per la difesa con tutti i mezzi degli interessi di questo, e non ci stupiamo affatto se le sue armi sono portate contro la popolazione proletaria e semiproletaria quando dà segni di malcontento.

Ala fine del secolo scorso noi abbiamo in tutta la penisola un’ondata di moti popolari culminanti nei fatti del '98. Non è una vera azione di classe, ma una tappa notevole nel formarsi di un movimento rivoluzionario del proletariato italiano. Nell’atteggiamento da prendersi la borghesia si divide, la destra piglia il sopravvento, un governo presieduto da un generale assume poteri eccezionali e scatena una reazione poliziesca e giudiziaria feroce. Ma più che del prevalere di uno strato della classe dominante su di un altro si tratta di un conflitto di metodi, di un esperimento di sistemi di difesa del regime. Non sono gli uomini tradizionali del liberalismo classico italiano che avrebbero fatto un tale esperimento «austriaco» o «borbonico». Il governo che è responsabile cade nelle elezioni successive sotto i voti della stessa sinistra borghese, e si inizia il periodo dei governi democratici di sinistra. Del nuovo metodo un uomo è l’esponente: Giolitti. E del vecchio metodo, d’altra parte, era stato esponente un uomo della stessa parte: la sinistra, ossia Crispi. E due uomini sono rappresentanti della stessa politica estera: triplicista. Dunque non siamo di fronte ad un dualismo che prenda le basi dello Stato italiano nella piattaforma sociale su cui si formano, bensì ad una ricerca di metodi difensivi da parte della borghesia dinnanzi al sorgere del movimento proletario sindacale e socialista, che sconvolge i criteri mentali del liberalismo classico.

Stato della classe borghese, il regime italiano agisce storicamente come il difensore degli interessi borghesi. In altri paesi questi sono più precisi e potenti, ma in Italia le speciali condizioni hanno a parer nostro fornito un esperimento più completo delle funzioni di classe dello Stato della borghesia, sino agli ultimi eventi del dopoguerra che, a nostro modesto avviso, e come ora vedremo, non sono un ritorno al passato, ma un esempio in anticipo delle forme che prenderà la lotta politica nelle più inoltrate fasi della evoluzione del mondo capitalista.

Non si può neppure seriamente parlare di influenze decisive sul meccanismo dello Stato italiano di forze non democratiche, come i circoli di corte, la nobiltà, gli alti gradi dell’esercito, della magistratura, della burocrazia. In tali campi si recluteranno coefficienti poderosi per la difesa del regime borghese, è evidente, ma in modo non diverso dalla funzione storica di tutto l’apparato delle istituzioni. Nel periodo del quale uno dei sintomi del volgere al metodo democratico di sinistra era l’anticlericalismo, in tutti questi ceti acquistò decisiva influenza la massoneria.

Le stesse forze cattoliche, o rimasero al di fuori di ogni influenza sullo Stato borghese in una attitudine di irreconciliabilità che dava tinte giacobine ad ogni funzionario dello Stato, cominciando dal monarca, o in quanto rientrarono nel movimento sociale e politico, si posero più a sinistra che a destra dei partiti nazionali, checché potesse sembrarne durante i fastigi della scalmanata anticlericale.

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Abbiamo già accennato al periodo della ultrademocrazia di governo. In questo periodo la borghesia italiana si pone il problema della tattica di classe dinnanzi al divenire del movimento operaio. Lo pone in condizioni squisite, poiché se è vero che l’industrialismo non è che relativamente sviluppato, abbiamo in senso opposto un movimento importantissimo dei salariati agricoli della valle padana a tendenza socialista, ed un ceto di uomini di strati borghesi, liberi di riserve mentali tradizionaliste e pronti a porsi il problema con tutto il cinismo possibile.

Un liberalismo teorico recalcitra al riconoscimento della organizzazione sindacale, attaccato com’è al suo liberalismo in economia, nemico di ogni sorta di monopolio di forze economiche che limiti il gioco della concorrenza. Ma nella ulteriore evoluzione del capitalismo dalle prime fonti più pure, il capitale diviene esso stesso sindacale e monopolistico, e vede nel monopolio e nell’imperialismo gli sbocchi che gli permettono di rinviare una lotta di principio col movimento operaio che esso irresistibilmente suscita ampliando e concentrando le sue imprese. Ridurre i cittadini dello Stato liberale a tante unità autonome economiche si dimostra una utopia, e il potere borghese si deve adattare a riconoscere il diritto di aggregarsi agli interessi analoghi se non vuole immediatamente scatenare una battaglia rivoluzionaria. Con il riconoscimento del diritto sindacale lo stato liberale dà uno strappo nella sua dottrina, ma continua al tempo stesso la sua funzione di difesa di classe. Fenomeno storico che disturba una critica tracciata dal punto di vista della dottrina liberale pura, ma che non abbiamo che ad inserire nella serie delle nostre constatazioni sulla bancarotta delle teorie politiche borghesi. Lo Stato non basta alla difesa degli interessi dei cittadini, non è la forma sufficiente a tutto di organizzazione sociale, i cittadini si aggruppano secondo i ceti economici alla propria difesa; dunque lo Stato serve ad altro compito, che risulta evidente: quello di sostenere gli interessi della classe padronale, con la simulazione della imparzialità della legge, da un lato, con l’impiego della forza statale dall’altro a sostegno diretto degli interessi padronali.

Alla borghesia la dottrina liberale serve per uso esterno e per uso interno, nella formazione della sua tattica di governo le serve la realistica legge della forza. Se per applicare la seconda ella deve formalmente lacerare un canone che discende dalla prima, è logico che lo faccia, pur tentando con mille contorsioni di dimostrare di non aver rinnegato i suoi principii.

Ora, se noi vogliamo intendere per metodo democratico non il metodo stesso che chiamiamo liberale ed ha le sue fonti classiche nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ma una ulteriore evoluzione dei programmi di governo degli Stati moderni, possiamo identificarlo in generale con la fase più recente del capitalismo, svoltasi alla vigilia della guerra mondiale, la fase del monopolio e dell’imperialismo. Seguiremo più oltre l’innestarsi di un tal metodo con l’attuale fase di offensiva economica e politica borghese, sulla nostra linea dello studio degli avvenimenti in Italia.

Alla identificazione che abbiamo fatta potrebbero muoversi obiezioni, osservando che mentre si compie in Italia (dopo il 1900) l’esperimento di questo metodo di governo (da chiamarsi per evitare confusioni «democratico di sinistra») proprio l’Italia è il paese di cui l’evoluzione del capitalismo avviene in ritardo. Ma il ritardo dell’evoluzione capitalistica in Italia è forse più nel senso quantitativo che qualitativo, il gioco del capitale bancario nella produzione e quindi nella politica si presenta prestissimo, una ripresa economica generale si determina nel periodo che esaminiamo dopo i precedenti decenni di grave crisi, e quella poca influenza di strati agrari aristocratici e feudali clericali nel governo, su cui abbiamo insistito, permette allo Stato di seguire con docilità le esigenze del protezionismo industriale, che manovra molto bene all’ombra della demagogia e con la complicità del riformismo.

Adunque dopo il conato del '98 avviene nei primi anni del secolo la conciliazione dello Stato ufficiale con l’esistenza delle associazioni sindacali proletarie. Lo strato dei dirigenti di queste compensa la possibilità di agire legalmente e pacificamente col desistere da ogni propaganda di azione sovversiva contro le istituzioni, e si gettano le basi del compromesso collaborazionista. Il socialismo viene a destra e in compenso i governi democratici di sinistra iniziano un’opera di legislazione sociale.

II

La politica della classe dirigente italiana indicata sotto il nome di giolittismo va intesa secondo noi come il modello tipico della politica «democratica di sinistra». Lo Stato procede senza esitare a tessere il compromesso coi capi del proletariato, sapendo di disarmarli, e la monarchia si prepara alla investitura dei ministri socialisti senza nessuna seria opposizione di ceti tradizionalisti. Nello stesso tempo il governo borghese non cede di un palmo nell’allestimento e nell’impiego degli strumenti di repressione violenta, nei quali è la ragion d’essere del suo meccanismo, ed ogni forma embrionale di rivolta dei lavoratori che scappi fuori dal quadro evangelico delle «nuove vie del socialismo» tratteggiate allora dal rinnegato Bonomi, è soffocata nel sangue. Da uno di questi episodi prorompono poi i moti del giugno 1914 alla vigilia della guerra mondiale, con lo sciopero generale sboccante nella contraddizione tipica: l’imprigionamento di ogni sforzo delle masse nell’apparato dell’organizzazione socialdemocratica che chiude la via ad ogni successo rivoluzionario. Alla repressione poliziesca segue l’atto ultrareazionario delle punizioni ai ferrovieri, mentre dal banco di ministri gli uomini della democrazia avevano potuto ostentare il riconoscimento del diritto di sciopero magari nei pubblici servizi.

Il doppio gioco della politica democratica era precedentemente emerso anche da questo contrasto. Come lo stesso ministero Giolitti poteva elargire le leggi riformiste e la mitraglia dei carabinieri, così esso elaborò nel campo politico la grande riforma del suffragio; mentre scatenava la guerra di Libia, fatto di autentico imperialismo dal punto di vista della politica dello Stato italiano (se pure svolto con incomprensione sbalorditiva dallo stesso punto di vista borghese), e nel campo internazionale preludio della grande orgia di sangue dell’imperialismo, scatenatasi attraverso la caduta della Turchia nelle guerre balcaniche. Vedere in tutte queste contraddizioni una ragione per asserire che si trattava di un governo retrogrado e falsamente democratico, significa accettare l’angolo visuale avversario secondo il quale la politica democratica conduce alla pacifica convivenza delle classi e dei popoli nella pace interna e internazionale, mentre secondo la nostra linea critica il metodo democratico corrisponde ai fini del governo della classe capitalistica, che concilia i mezzi della violenza, a cui l’apparato statale si tiene sempre più pronto, con una tattica atta a stornare i nembi della tempesta proletaria, e con un’abile politica di apparenti concessioni, che mentre valgono a sviare il movimento operaio, non costringono la classe dominante ad alcun sacrificio effettivo. E del resto non vi è qui una caratteristica della sola politica borghese italiana, ma di tutta la politica mondiale dell’anteguerra: la preparazione delle forze imperialiste si fece in una atmosfera di democrazia politica avanzata e di riformismo sociale entrambi goffamente mascherati come autentico pacifismo. Un esempio è dato dalla campagna della borghesia francese per l’anticlericalismo combista e al tempo stesso per la ferma di tre anni: come in Inghilterra dovevano i liberali introdurre la coscrizione militare.

Durante la guerra la tesi fondamentale sostenuta dai socialisti italiani della sinistra fu di negare quella antitesi tra democrazia e militarismo in nome della quale agiva la truffa colossale dell’interventismo, recando come argomenti a questa tesi le ragioni di debolezza che fecero crollare prima militarmente gli Stati non democratici.

Un ingrediente indispensabile della politica democratica dell’anteguerra immediato in Italia fu l’anticlericalismo più spinto, terreno della collaborazione politica tra la pretesa borghesia avanzata e il proletariato. Mentre i governi erano apertamente sul terreno della politica massonica, ciò non impediva che operassero di intesa con le forze cattoliche della borghesia, nelle elezioni, nel parlamento, nella stessa impresa di Tripoli caldeggiata dagli ambienti bancari clericali. Ancora, adunque, politica per uso esterno, che non intaccava ma integrava la funzione specifica dello Stato: la repressione di ogni attacco rivoluzionario.

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L’atteggiamento dei partiti italiani all’inizio della guerra sempre più collima colla tesi nostra. Il partito giolittiano si trovò sullo stesso terreno cogli elementi clericali e nazionalisti, diretti esponenti del sorgente industrialismo siderurgico (ed anche questi non riconoscibili come un tentativo di organizzazione degli strati di destra borghesi), ossia sul terreno della solidarietà con gli imperi centrali contro i paesi «democratici». Una solidarietà sembrò stabilirsi tra le forze politiche proletarie e quelle della democrazia borghese di estrema sinistra, tradizionalmente antiaustriaca. Ma la possibilità della guerra al fianco dell’Intesa spostò in modo suggestivo un tale schieramento, e mentre giolittiani e cattolici restavano avversi alla guerra, pur fondendosi con la unanimità del patriottismo borghese quando questa scoppiò, i nazionalisti e in genere gli esponenti dell’industrialismo, divenendo focosi partigiani della guerra contro l’Austria, si trovarono al fianco della democrazia estrema, di repubblicani, di spuri esponenti del proletariato come i riformisti e qualche anarcoide, tra cui lo stesso Mussolini capo della frazione intransigente dei socialisti.

In un momento così caratteristico come riconoscere una divisione tra destra e sinistra borghese? Evidentemente questa non esisteva seriamente, se nello stesso campo si poterono trovare Salandra e Bissolati, l’uno venendo dalla estrema destra parlamentare, l’altro dalla estrema sinistra, l’uno dagli agrari meridionali, l’altro dalle organizzazioni socialdemocratiche del Nord, e contro essi, insieme, i clericali più neri e taluni massoni radicali. Il reazionario Salandra, nel lanciare il grido di guerra, tenne a porre sé stesso, come «modesto borghese» in antitesi al «conte» Betmann-Hollweg, cancelliere del Kaiser.

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Finita la guerra, il metodo giolittiano continua a dettare la politica dello Stato italiano. Giolitti padrone di condurre la guerra a fianco della Germania avrebbe fatto senza esitare mitragliare le dimostrazioni antibelliche delle masse. Lo stesso Giolitti nel porre la sua candidatura al ritorno al governo, nel 1919, profittando largamente del suo neutralismo per rendersi accetto alle masse, tratteggia un programma di riformismo ancora più audace e ripete i motivi dell’invito al socialismo a collaborare.

Attraverso tali propositi, realizzati d’altronde largamente dal governo Nitti appena finita la guerra, si delinea una esatta visione della situazione. La guerra lascia la borghesia in condizioni preoccupanti: crisi economica e ritorno nel paese delle masse smobilitate, che hanno appreso il maneggio delle armi e il disprezzo della morte, costituiscono un pericolo evidente. In ogni caso il governo borghese lotterà contro di esso se prenderà forme decise, ma spostare il suo apparato armato dal fronte di guerra al fronte interno e di polizia è un difficile problema tecnico. La manovra deve essere coperta con opportuni diversivi politici.

Quando i fautori della controffensiva borghese di oggi criticano il preteso disfattismo della autorità del governo da parte di Nitti e di Giolitti sanno di dire cosa non vera. Allora per l’apparato statale era per lo meno rischiosa la tattica della lotta frontale. Bisognava dare sfogo alle esuberanze popolari mentre si lavorava a preparare il consolidamento dell’apparato statale. Quindi nel dopoguerra la borghesia italiana non ha fatto una conversione dal metodo politico dell’ultraliberalismo a quello odierno della reazione, ma ha governato il suo apparato statale secondo le esigenze «tecniche» della sua funzione. Nitti e Giolitti hanno enormemente rafforzato i corpi di polizia, il primo creando le guardie regie, il secondo moltiplicando il numero dei carabinieri, essi hanno effettivamente gettato le basi del fascismo.

Pretendere nel dopoguerra immediato di contenere la pressione delle masse che era necessario svincolare dall’inquadramento militare insostenibile anche economicamente, pretendere di impedire ancora gli scioperi, di mantenere la censura, di continuare a governare senza il parlamento, di pagarsi il lusso di una permanente celebrazione tricolore della pretesa vittoria, avrebbe voluto dire per la borghesia obbligare subito il proletariato a porsi tutti i problemi della nuova vita collettiva economica e politica come problemi rivoluzionari, spingendolo a darsi una organizzazione di assalto rivoluzionario forse prima che lo Stato rassodasse la propria, controrivoluzionaria.

Fu necessario dare la stura alle lotte sindacali smobilitando l’industria, sopprimere la censura, amnistiare i disertori, mettere in sordina la suonata patriottica dinnanzi al delirio di gioia delle popolazioni al dissiparsi dell’incubo di una guerra impopolare, e di cui si mostravano all’evidenza i frutti amarissimi dallo stesso punto di vista degli interessi nazionali e dei rapporti con gli alleati. Nitti fece tutto questo, e nell’ottobre del 1919 senza preoccuparsi della certa elezione di una falange di socialisti, spalancò lo sfogatoio elettorale certo dell’effetto che le tradizioni di struttura legalitaria del socialismo italiano, non superate dalla sua opposizione alla guerra, avrebbero avuto, nel sostituirsi alla formazione di una dura esperienza rivoluzionaria, i facili successi di una demagogia che costruiva con cecità spaventevole sul vuoto. Si ebbe la dimostrazione antimonarchica in Parlamento, fatto sensazionale, ma intanto si incoraggiava il partito socialista a trascurare ogni preparazione rivoluzionaria: il miraggio parlamentare al Congresso di Bologna impedì la evoluzione del partito socialista nel senso della esperienza rivoluzionaria del dopoguerra dimostrata dalla Rivoluzione russa, e la selezione delle sue file, presupposto della adozione di un nuovo metodo di azione politica, e rese sterile il mutamento formale di programma in quel congresso acclamato.

Il balzo in alto della media dei salari, dovuto al livello inferiore a quello di altri paesi che si aveva in Italia prima della guerra, e all’improvviso allentarsi della bardatura di guerra, creava un’intensità di movimento di masse, che era il terreno naturale della organizzazione rivoluzionaria. Se questo concorso di lavoratori, irresistibile perché mosso da fatti economici ineluttabili, fosse avvenuto in un ambiente di aperta reazione di forze borghesi, si sarebbero sommate le condizioni necessarie a formare un esercito rivoluzionario. Il rigurgitare dei sindacati nel 1919 e 1920 non poteva essere soppresso da nessuna violenza, che l’ avrebbe solo forzato a trasformarsi in una lotta generale, che rappresentava per la borghesia almeno un rischio gravissimo di essere sconfitta. Bisognò lasciar passare l’ondata. Una interpretazione superficiale dice che questo avvenne per la debolezza del governo borghese, ma la verità è che si trattò di una tattica: temporeggiare, approfittandone per rafforzare l’apparato statale e attendere il gioco delle forze economiche successivo al primo periodo di floridezza apparente del dopoguerra. Considerare Nitti e Giolitti come disfattisti, per amor di democrazia, della causa borghese, sarebbe per lo meno somma ingenuità.

Il secondo spinse nel campo sociale e sindacale la sua politica audace. Egli seppe sorpassare il momento acuto. Il partito proletario non aveva formato neppur l’embrione di un esercito rosso, e le organizzazioni economiche avevano fino allora vinto con metodi pacifici. Ma col delinearsi della crisi industriale e del rifiuto del padronato ad ulteriori concessioni, il problema della gestione proletaria delle aziende si pone in modo locale ed empirico. Avviene l’occupazione delle fabbriche. Essa non è inquadrata in modo unitario, ma è armata, e coincide con l’occupazione delle terre da parte dei contadini. L’attacco frontale non è consigliabile per lo Stato, ma la manovra riformista vale ancora una volta, si può ancora simulare una concessione: e col progetto di legge sul controllo operaio Giolitti ottiene dai capi del proletariato l’abbandono delle officine.

A noi pare che si tratti di una partita giocata dalla borghesia in modo classico. Essa si sviluppa ulteriormente in una linea logica. Non siano dei metafisici, ma dei dialettici: nel fascismo e nella generale controffensiva borghese odierna non vediamo un mutamento di rotta della politica dello Stato italiano, ma la continuazione naturale del metodo applicato prima e dopo la guerra dalla «democrazia». Non crederemo alla antitesi tra democrazia e fascismo più di quello che abbiamo creduto alla antitesi tra democrazia e militarismo. Non faremo miglior credito, in questa seconda situazione, al naturale manutengolo della democrazia: il riformismo socialdemocratico.


Source: «Rassegna Comunista» del 30 sett. e 31 ott. 1922

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