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PRODUZIONE, PREZZI E SALARI NEL DOPOGUERRA SOVIETICO


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Produzione, prezzi e salari nel dopoguerra sovietico
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Produzione, prezzi e salari nel dopoguerra sovietico

Il dopoguerra sovietico é stato caratterizzato, per quanto riguarda la produzione, dagli stessi fenomeni che si riscontrano nei paesi belligeranti, fatta naturalmente eccezione per gli Stati Uniti, dove la guerra non solo non ha provocato distruzioni di beni capitali ma ha permesso un gigantesco sviluppo e della capacità produttiva e della produzione corrente.

La guerra aveva inciso a tal punto sul meccanismo della produzione russa, che nel 1945 questa raggiungeva appena il 58 % del livello toccato nell’ultimo anno prima del conflitto, cioè nel 1940; e nell’anno successivo saliva appena al 70 %. Oltre alle distruzioni, che avevano interessato soprattutto le antiche zone di produzione occupate nel corso del conflitto dai tedeschi, e in genere al logorio di tutta l’attrezzatura industriale, cui erano da aggiungersi gli inconvenienti connessi al rapidissimo spostamento di impianti industriali nelle regioni orientali, contribuivano a questo ristagno dell’attività produttiva le difficoltà dell’approvvigionamento alimentare della popolazione attiva e la fuga di parte di questa dalle industrie verso le campagne e le attività commerciali «libere».

Questo spiega anche perché nello stesso 1946, anno di partenza del nuovo piano quinquennale – ufficialmente iniziato il 15 marzo – l’aumento della produzione fosse relativamente modesto e la crisi di sviluppo della ripresa economica consigliasse alla fine dell’anno successivo la riforma monetaria, il cui intento era, da una parte, di arginare il processo inflazionistico che rendeva labili gli elementi di calcolo sui quali si fondava il piano, e, dall’altra, di provocare una drastica riduzione dei consumi e riattirare nel processo produttivo la mano d’opera di cui questo aveva bisogno per completare il suo ciclo normale. È perciò solo nel 1948 che la produzione industriale supera il livello anteguerra, cosa che del resto si é verificata in quasi tutti i paesi europei. L’indice della produzione, calcolato sulla base 1940 100, segue, secondo l’«Economist», la curva di cui sotto[1]:

1945 58
1946 70
1947 92
1948 114

È interessante notare come questo sviluppo sia stato realizzato prevalentemente in zone estranee a quelle di tradizionale localizzazione dell’industria, cioè fuori delle zone occupate dai tedeschi: in queste ultime, infatti, l’indice della produzione rimane, nel 1948, ancora al 78 % dell’anteguerra. Queste percentuali di aumento corrispondono quasi esattamente a quelle ufficialmente denunciate: infatti, secondo dichiarazioni del governo sovietico (riportate nel «Monde» del 22 genn. di quest’anno), nel 1948 la produzione industriale risultava aumentata del 27 % sul 1947 e del 18 % sul 1940. Giova però ricordare che l’indagine economica è, in materia, estremamente complessa, sia per la mancanza di sicuri elementi di calcolo, sia per l’eterogeneità delle cifre assolute, calcolate ora ai prezzi correnti, ora sulla base dei prezzi 1926–27, per cui non sorprende che in altre fonti gli indici della produzione appaiano sensibilmente diversi da quelli, estremamente guardinghi, dell’«Economist» e, ancor più, da quelli denunciati con scarso «scrupolo scientifico» dal governo russo[2].

Comunque, nel 1948 si può ritenere che, rispetto al 1945, l’indice generale sia salito al 200 %, che cioè la produzione sia raddoppiata, superando anche il livello prebellico. Ma l’aumento non é stato uniforme: mentre infatti l’industria manifatturiera si riprendeva rapidamente, soprattutto nei settori di produzione che riguardano gli strumenti agricoli (trattori, attrezzi, fertilizzanti) e in genere nel campo dei beni di produzione dove l’indice 1948 oscillava fra il 200 e il 600 % rispetto al 1945, nelle industrie siderurgiche e metallurgiche e nel settore dei combustibili la ripresa era sensibilmente più modesta, e nelle industrie produttrici di beni di consumo la media non raggiungeva il livello generale oscillando fra 150 e 200. In altre parole, i due punti deboli dell’economia sovietica continuavano ad essere, da una parte, la produzione delle materie prime e, dall’altra, la produzione dei beni di consumo (particolarmente grave è il ristagno dell’industria edilizia: appena un quarto delle costruzioni era stato portato a termine rispetto ai preventivi del piano), e tutta l’impostazione della politica economica restava fondata sul criterio della ripresa dell’attrezzatura produttiva, non del soddisfacimento del consumo.

Il fenomeno é, si badi bene, comune a tutte le economie nazionali di questo dopoguerra: se l’indice 1938 è stato quasi ovunque superato (fa sempre eccezione, come di… dovere, l’Italia), lo si deve esclusivamente alle industrie produttrici di beni capitali, non certo a quelle produttrici di beni di consumo, e non si vede davvero che diritto abbiano i paesi di «vecchia democrazia» di far tanto strepito sullo scarto perdurante in Russia fra l’uno e l’altro ramo della produzione quando lo stesso fenomeno si verifica in Inghilterra o in Francia, o di vantare la superiorità del regime di produzione capitalista vecchio stile rispetto a quello che il capitalismo occidentale chiama, conformemente del resto alla formula dei dirigenti sovietici, «regime di produzione socialista». Questa linea di sviluppo è, d’altra parte, coerente all’impostazione generale del nuovo piano quinquennale 1946-'50 il quale contempla[3] un aumento della produzione, rispetto al 1945, del 61 % e rispetto al 1940, del 48 % (da 138,5 miliardi di rubli del potere d’acquisto 1926-'27 a 205 miliardi), ma l’aumento è inferiore a tale media nell’industria dell’acciaio, di poco superiore per l’estrazione del carbone e la produzione dell’energia elettrica, di appena il 14 % (sul 1940) per il petrolio, ed è di appena un terzo superiore al 1940 per i beni di consumo, mentre è altissimo nel settore dell’industria meccanica in genere. L’economia sovietica rimane orientata, nonostante tutti gli sbandieramenti propagandistici, verso l’obiettivo dell’attrezzatura e riattrezzatura industriale ed agricola a scapito del consumo. Ciò non soltanto è vero, ma l’esecuzione del piano tende (come vedremo nella seconda parte di questa nota) a ridurre ulteriormente il margine di reddito nazionale destinato ai consumi e a convogliarne la massima quota possibile verso gli investimenti. Infatti, nel 1948 l’aumento della produzione era sopportato da un reddito nazionale rimasto, rispetto al 1940, inalterato e pari a circa il 30 % del reddito nazionale americano. I calcoli in materia sono ancora più difficili che nel settore delle statistiche di produzione, alcune voci essendo stimate in prezzi correnti (i salari, le spese governative, alcuni investimenti), altre in prezzi 1926–27; né entreremo nel ginepraio di queste valutazioni. Pare comunque attendibile la stima dell’«Economist» (art. cit.) che così presenta la destinazione percentuale del reddito nazionale: consumi civili, 59 %; formazione netta di capitali, 21 %; difesa, 14 %; costituzione scorte, 6 %, dove appare chiaro come, rispetto alla media degli altri paesi industriali, la parte destinata al consumo sia sensibilmente più bassa (inferiore del 9–10 % a quella britannica), la percentuale del reddito destinato ad investimenti sensibilmente più alta (il 9 % più che in Inghilterra) ed ancora più alta quella destinata alla difesa e alla costituzione di scorte.

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In un precedente articolo pubblicato nel n. 2 di «Prometeo» abbiamo chiarito i riflessi che sulla politica salariale russa ha l’impostazione data al sindacato come organo fondamentale dell’incremento della produttività del lavoro. È questo un punto che va costantemente tenuto presente quando si esamina la evoluzione sia dei prezzi che dei salari in Russia negli ultimi anni, e al quale perciò rimandiamo il lettore per un inquadramento generale del problema, limitandoci qui a rifare la storia della dinamica dei prezzi e dei salari nel dopoguerra sovietico.

Il periodo bellico aveva visto, fin dal 1941, l’introduzione di un sistema di prezzi multipli, corrispondenti a tre tipi di rifornimento dei beni di consumo: 1) prezzi di razionamento, rimasti stabili intorno a un livello fissato fin dall’inizio della guerra, e unicamente differenziati per categorie salariali; 2) prezzi di mercato libero per articoli offerti dai contadini o, in speciali negozi, da cittadini disposti a rivendere le eccedenze di prodotti a loro disposizione in base al tesseramento; 3) prezzi «commerciali» per beni di consumo venduti in appositi spacci di Stato (questi ultimi istituiti nell’aprile del 1944). Secondo l’«Economist» del 26 dic. 1947, nel 1944 i prezzi sul mercato libero e negli spacci commerciali superavano di 40–50 volte quelli dei generi razionati, le merci corrispondenti restando accessibili soltanto alle categorie sociali a reddito superiore: tecnici, professionisti, direttori di azienda, intellettuali, ufficiali, ecc.

Il sistema rimase in vita nel primo anno di pace, ma già nel 1946 erano presi provvedimenti per avviare gradualmente il ritorno a prezzi unici e perciò anche ad un tipo uniforme di approvvigionamento. Il 16 settembre 1946, un decreto stabiliva, da una parte, l’aumento dei prezzi dei generi razionati, e la diminuzione dei prezzi di mercato libero dall’altra: in complesso i prezzi dei generi razionati aumentavano del 166 %, mentre negli spacci commerciali si verificava una riduzione del 71 %. È vero che il decreto contemplava un aumento dei salari al disotto dei mille rubli mensili (100 rubli di aumento per i salari fino a 500 mensili, 90 per quelli fra 500 e 700 rubli; 80 per quelli fra 700 e 900; 60 per i pensionati e veterani); ma l’aumento medio dei salari corrispondeva appena al 25 % raggiungendo il 50 % solo per le categorie infime, e non bastava perciò a coprire l’effettivo aumento dei prezzi di razionamento, gli unici accessibili alla enorme maggioranza dei lavoratori il cui salario medio non superava i 500 rubli mensili. D’altro canto, dato tale livello medio dei salari, era pure evidente che la riduzione intervenuta nei prezzi «commerciali» non avvantaggiava l’operaio medio ma le categorie sociali superiori: non il primo, perché alla sua borsa gli articoli degli spacci commerciali di Stato restavano, pur con la riduzione verificatasi, inaccessibili (si prenda un esempio: 3 kg, di burro ai prezzi commerciali avrebbero richiesto per l’acquisto un mese di salario medio operaio). I prezzi commerciali rimanevano sensibilmente superiori a quelli di razionamento: lo scarto era per il burro di 8,6 volte (prima del decreto, 14.8), per il pane bianco di 7,5 volte: una camicia da uomo costava al mercato libera 5050 rubli, a prezzo di calmiere 1000; un paio di scarpe rispettivamente 1700 e 270 rubli, e così via.

La prima riforma si traduceva dunque in una riduzione del potere di acquisto del salario medio, e aveva intenti deflazionistici: il suo obiettivo era di ridurre i consumi più generali. D’altro lato, la riduzione di alcune razioni e l’abbassamento di altre secondo criteri differenziali tendevano a richiamare verso l’industria e le città una mano d’opera che, durante la guerra, aveva preferito vivere in campagna e dedicarsi al commercio libero. In nuce, erano insomma già delineati i criteri che dovevano presiedere alla nuova disciplina dei prezzi e dei salari connessa alla riforma monetaria del dicembre 1947[4].

Quest’ultima, che, riducendo il valore del vecchio rublo nella misura di 10:1 e per tassi differenziati il valore dei depositi bancari, tendeva a falcidiare i mezzi monetari esuberanti in rapporto alla massa di beni effettivamente disponibili, o, in altri termini, a bloccare il processo inflazionistico derivante dall’accumulo di medio circolante nelle mani soprattutto dei contadini, richiamando nel processo produttivo una mano d’opera allontanatasi da essa e necessaria per la realizzazione del piano quinquennale 1946–50 (si tratta di circa due milioni e mezzo di persone, che infatti risultano ora riaffluite dal commercio libero all’industria e dalla campagna alla città), aveva il suo riflesso anche sui prezzi e sui salari.

Parallelamente al cambio della moneta veniva infatti soppresso il razionamento e, aboliti tanto i prezzi del calmiere quanto quelli commerciali, venivano introdotti prezzi standard (più alti nelle campagne che nelle città, a rincarar la dose delle finalità anti-contadine della riforma monetaria): tali prezzi si mantenevano sul livello raggiunto in seguito alla riforma del 1946 salvo che per il pane e i cereali e derivati in genere, che furono ridotti del 10 %, e per alcune derrate alimentari, come il latte, le uova, il tè e la frutta, che subirono un lieve aumento: quanto ai manufatti delle industrie di consumo (vestiario, calzature ecc.) essi segnarono un nuovo aumento, mantenendosi però inferiori di tre volte ai prezzi degli aboliti spacci commerciali. Pur tenuto cento del ribasso dei generi di più largo consumo alimentare e del blocco dei salari e stipendi (che non furono toccati dalla riforma monetaria e successivamente aumentati di una modesta aliquota), la riforma comportava un ulteriore ribasso del tenor di vita della classe operaia (oltre che della classe contadina, che qui non ci interessa direttamente), mentre favoriva, ancor più della riforma del 1946, le stratificazioni sociali superiori, messe in condizione di acquistare a prezzi standard gli articoli che fin allora conseguivano sul mercato libero o negli spacci commerciali a prezzi assai superiori.

Ma la situazione si presenta ancor più grave, agli effetti del potere reale di acquisto dei salari operai, ove si considerino ì diversi provvedimenti presi nel periodo successivo, e che sì sono tradotti in una ulteriore riduzione del livello delle mercedi. In primo luogo, ricordiamo che, mantenuto per le categorie inferiori e medie di salariati il criterio del salario-base, vige in Russia un complicato sistema di retribuzione a premio basato sulla fissazione di una «norma di produzione» da stabilirsi anno per anno, e sull’istituzione di premi in proporzione al rendimento ottenuto al disopra della norma[5]: orbene, lo standard o norma di produzione é stato via via aumentato riducendo corrispondentemente le possibilità di conseguire sostanziali aumenti della mercede oraria. I premi in danaro ai «decorati» sono stati aboliti con decreto 1° genn. 1948; gli assegni alle madri con più figli sono stati ridotti; infine, prescindendo dal taglio operato sui depositi in banca in dipendenza del cambio della moneta (taglio che non poteva colpire la grande maggioranza dei lavoratori), si é avuta l’unificazione dei buoni fruttiferi e la loro sostituzione con nuovi buoni al cambio di tre rubli vecchi contro un rublo nuovo, cioè la svalutazione dei titoli di debito pubblico che tutti gli operai erano stati obbligati a sottoscrivere e che rappresentavano, coi loro interessi, un cespite supplementare. Si può dunque concludere che la riforma del dicembre 1947, pur con le successive misure di arrotondamento dei salari che possono aver portato la media di questi ultimi ad una massimo di 600 rubli mensili, ha, nella migliore delle ipotesi, mantenuto la mercede operaia al livello già svalutata della riforma 1946 e, nell’ipotesi più verosimile, l’ha abbassata.

Il dopoguerra sovietico ha dunque visto un processo di graduale aumento dei prezzi dei generi consumati dalla maggioranza della popolazione produttiva, e una riduzione di quelli pagati dalle categorie sociali superiori, le quali, fra l’altro, godono di vantaggi supplementari e di provvidenze assai superiori a quelle che i diversi enti statali e di fabbrica assicurano all’operaio comune. Il salario medio non ha seguito, pur attraverso i successivi aumenti, questo processo di lievitazione dei prezzi: gli è rimasto anzi sensibilmente indietro. Se nell’anteguerra e nei primi anni di guerra, era già difficile per l’operaio comune, con un salario medio oscillante fra i 400 e i 500 rubli, acquistare i beni di consumo necessari per un tenore di vita anche solo modesto, ciò é diventato ancor più difficile nel dopoguerra. Basterebbe a dimostrarlo la gravissima ammissione ufficiale secondo cui nel periodo del razionamento il consumo reale é risultato inferiore a quello consentito dal razionamento medesimo: in altre parole, il salario medio non bastava ad acquistare mensilmente neppure i generi a cui la razione dava diritto non perché la razione fosse abbondante ma perché il danaro a disposizione dell’operaio era insufficiente[6].

La classe operaia russa continua insomma a vivere in un regime di «austerità» che non solo non tende a ridursi con lo svilupparsi dei diversi piani quinquennali, ma si fa di volta in volta più severo. E il forcaiolo capitalismo americano, che ha fondato la sua «prosperità» sul dominio incontrastato del mondo, può vantarsi (si veda l’«U.S. News and World Report» del 25 giugno 1948) di mettere il suo operaio in condizione di comprare con 9 ore di lavoro quello stesso paio di scarpe per acquistare il quale l’operaio sovietico deve lavorare 108 ore, e far passare questo diverso rapporto come una prova della superiorità del regime capitalista su quello «socialista», o della democrazia sul «totalitarismo». Per parte nostra, abbiamo già dimostrato nell’articolo surriferito e nell’analisi generale del sistema economico sovietico (vedasi «Prometeo» n. 1) come la retribuzione del lavoro si modelli in Russia su criteri mercantili come in qualunque regime capitalista, e quella diversità spieghiamo non col riferimento a pretese antitesi sociali fra economia americana ed economia russa, ma con obiettive diversità nei rapporti di forza fra due economie entrambe antisocialiste.

Notes:
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  1. Russia’s Economic Revival, in «The Economist» dell’11 dicembre 1948 e segg. [⤒]

  2. Per citare un esempio, lo Schwarz, in uno studio pubblicato sul «Journal of Political Economy» dell’ottobre 1948 (Soviet Postwar Industrial Production), calcola che nel 1947 la produzione industriale avesse raggiunto appena il 77 per cento del 1940 per un valore di 104,8 miliardi di rubli a prezzi 1926–27, contro i 138,5 del 1940 e i 205 preventivati dal piano per il 1950. [⤒]

  3. Per una rassegna generale dei preventivi del piano, si veda l’appendice a «A Survey of Economic Situation, and Prospects of Europe», pubblicazione dell’U.N.O. Ginevra 1948. [⤒]

  4. Per un’analisi dettagliata di questa fase della dinamica prezzi-salari, cfr. Kravis e Mintzes: «Soviet Union Trends in Prices, Rations and Wages», in «Monthly Labor Review», luglio 1947. [⤒]

  5. Il rapporto della delegazione operaia norvegese in Russia documenta come la stessa retribuzione a cottimo presenti tuttora notevoli differenziazioni per categoria: nell’industria metallurgica esistono 8 categorie di cottimisti con salario orario a premio oscillante da 1,50 come minimo, a 4,50 rubli come massimo. Era ovvio che il nuovo piano quinquennale, esigendo una tensione massima di tutti i fattori produttivi, consolidasse e aggravasse il regime delle forti differenziazioni salariali tipico della economia sovietica: il rapporto citato conferma che tale regime permane in atto con le sue gravissime sperequazioni; in una azienda in cui il salario medio mensile raggiunge gli 800 rubli, si hanno scarti salariali che lo portano, per le categorie privilegiate, ad un minimo di 2–3 mila rubli e ad un massimo di 10–14 mila. Per un consuntivo del rapporto della delegazione operaia norvegese, vedi «Neue Zürcher Zeitung» 9. 1. 1949. [⤒]

  6. Per il periodo successivo all’abolizione del razionamento, basti ricordare, per farsi un’idea del potere reale di acquisto del salario, che un kg. di pane costa oggi da 6,20 a 7,80 rubli, e un kg. di burro da 62 a 66 rubli. [⤒]


Source: «Prometeo» № 12 gennaio-marzo 1949

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