Occupazione e disoccupazione
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OCCUPAZIONE E DISOCCUPAZIONE
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Occupazione e disoccupazione
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Occupazione e disoccupazione
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Il più difficile problema del regime capitalistico, nella sua fase attuale, è quello di realizzare la piena occupazione di tutte le forze atte al lavoro.

È evidente che una società che non riesce a dar lavoro a strati sempre più vasti della popolazione - strati che, trovandosi nell'impossibilità di provvedere agli elementari bisogni dell'esistenza, sono costretti a vivere di elemosine, di espedienti o di impossibili sussidi - espone tutto l'ordine costituito al pericolo di gravi perturbazioni sociali. Alle difficoltà insite nella necessità politica di tener conto di queste stratificazioni sociali, si aggiunge il problema di ottenere in un modo qualsiasi una redistribuzione dei redditi in funzione di questo stato di cose.

La situazione impone allora la creazione di attività inutili, di solito note come lavori pubblici che tendono ad assorbire la mano d'opera esuberante sul mercato, ma che, per il loro carattere e per il modo come sono condotte, non servono che ad occupare e distruggere capitali, anziché a crearne di nuovi.

Ora, la rarefazione dei capitali esistenti o periodicamente creati dall'attività produttiva è un elemento che aggrava la situazione, prolunga nel tempo le condizioni generali di incertezza, impedisce la naturale soluzione del problema consistente nello sviluppo della produzione e del consumo generale.

La situazione del lavoro viene per di più resa difficile dalla minor concorrenza reciproca sul mercato dei capitali...

Ma è proprio l'impossibilità di dilatare il consumo che frena l'aumento della produzione e con essa la capacità di riassorbire la mano d'opera resa esuberante dal progredire della tecnica, dal perfezionamento degli impianti industriali, dal processo dell'accumulazione di capitali.

La società sviluppa attività improduttive, e nella proporzione fra il lavoro applicato ad attività utili e produttive e quello dedito ad attività inutili o improduttive si assiste al continuo aumento della parte di quest'ultimo e con ciò del parassitismo generale, che grava unicamente sul primo. Così il numero di persone che deve in ultima analisi mantenere tutta l'organizzazione sociale diviene sempre più piccolo, mentre cresce il numero delle persone mantenute.

Fra i ceti che vivono alle spalle di chi è dedito ad attività realmente produttive, entrano a far parte persino stratificazioni del proletariato. Si origina allora quella situazione di corporativismo collettivo, di difesa a oltranza delle posizioni costituite, che a un certo punto si traduce in alleanze fra strati operai e strati capitalistici.

Quest'alleanza si esprime politicamente nella tesi cara agli opportunisti che occorre difendere il lavoro delle fabbriche, la piena occupazione, l'attività generale, che bisogna combattere la concorrenza, e via di seguito.

Il problema della massima occupazione operaia non viene mai praticamente risolto dal capitalismo industriale se non mediante un azione specifica che si esplica attraverso il principio che garantisce il salario solo nella misura in cui questo è uguale al prodotto marginale del lavoro. Avviene cioè che il lavoro è offerto all'operaio solo finché la sua occupazione permetta un reddito almeno uguale al suo costo.

Si dice allora che l'occupazione è assicurata fino al limite in cui l'ultimo lavoratore occupato aggiunge alla produzione una quota X, poniamo 10, pari al potere di acquisto del suo salario. Se l'aggiunta di un altro lavoratore riduce l'apporto alla produzione alla quota 9, questa aggiunta viene rifiutata dal datore di lavoro. Se però questi è in condizione di giocare attraverso il meccanismo dei prezzi fino a portare il valore reale del potere d'acquisto del salario alla quota 9, l'incremento dell'occupazione diventa possibile.

Appare allora evidente che l'industriale viene a conseguire un ulteriore utile sui lavoratori precedentemente occupati, per cui a un certo momento lo sviluppo dell'occupazione è un interesse diretto del datore di lavoro, il mezzo per aumentare i suoi profitti, tanto più che la possibilità a lui concessa di sviluppare il giuoco monetario attraverso il meccanismo dell'offerta e dei prezzi non può essere in alcun modo controbattuta dagli strumenti di lotta e di difesa in mano al proletariato e tanto meno dai sindacati opportunisti.

Il problema dell'occupazione operaia e del suo aumento è un problema d'ordine capitalistico e di immediata utilità per il datore di lavoro, finché il movimento operaio rimane ancorato alla lotta per le parvenze economiche e politiche, cioè per la difesa del salario nominale anziché reale o per la difesa del diritto al lavoro. Questo diritto il capitalista è ben disposto a vederlo riconosciuto anche in un articolo della Costituzione, in quanto in sostanza garantisce i suoi utili e i suoi profitti.

Uno dei più illustri economisti borghesi, il Keynes, scrive:
«
È quindi una fortuna (per i capitalisti: nota nostra) che i lavoratori, per quanto inconsciamente, siano per istinto economisti più razionali di quelli della scuola classica, in quanto oppongono resistenza a riduzioni di salari monetari che non sono mai o quasi mai di carattere generale, anche se l'equivalente reale di tali salari superi attualmente la disutilità marginale dell'occupazione esistente; mentre non oppongono resistenza a riduzioni dei salari reali, che siano connesse con aumenti dell'occupazione complessiva e lascino invariati i relativi salari monetari, salvo quando la riduzione sia spinta tanto innanzi da minacciare una riduzione del salario reale al di sotto della disutilità marginale del volume di occupazione esistente. Ogni associazione di lavoratori opporrà resistenza alla riduzione dei salari monetari, per quanto piccola questa sia: ma a nessuna associazione verrà in mente di mettersi in sciopero ogni qual volta si verifichi un aumento del costo della vita. Quindi esse non creano quell'ostacolo a qualsiasi aumento dell'occupazione complessiva, che è loro attribuito dalla scuola classica».

I sindacati attuali, per riconoscimento di una delle massime autorità dell'economia borghese moderna, contribuiscono dunque alla soluzione dei problemi più scottanti del momento nel campo industriale e la loro opposizione non va al d là delle apparenze, lasciando completamente libera l'esplicazione del giuoco monetario e di mercato che permette agli industriali di conseguire notevoli e innegabili vantaggi sulla necessità di realizzare la piena occupazione e un maggior sfruttamento delle masse.

Si noti che il problema dell'occupazione industriale e del profitto capitalistico non è in contraddizione con quanto abbiamo detto più sopra a proposito della tendenza moderna a sviluppare il lavoro improduttivo e a gravare sempre sul lavoro produttivo.

Per il capitalista, utile diventa sinonimo di produttivo e utili sono considerati tutti quei processi che permettono di ritrarre dal capitale impiegato il profitto medio. Lastricare dieci volte di seguito nel corso di un anno una grande arteria cittadina è un'attività utilissima per l'impresa che ha questo compito, anche se l'incarico ad essa affidato coi fondi pubblici o comunali non ha altro scopo che di comporre momentaneamente un importante problema sociale.

La diversità fra il concetto di utile e produttivo nella normale accezione capitalistica e quello che è espresso dal senso reale della parola - cioè creazione di un bene o servizio qualsiasi che corrisponda a un bisogno evidentemente sentito - impone di distinguere nettamente fra attività economica capitalistica e attività economica diretta alla soddisfazione dei bisogni.

La società capitalista non riesce a garantire l'occupazione totale in funzione del soddisfacimento dei bisogni generali, e per contro si orienta verso l'occupazione destinata a creare beni, servizi o attività, unicamente suscettibili di procurare un reddito all'industriale che se ne occupa.

Ne segue che parlare di difesa del lavoro, di lotta contro i licenziamenti, di piena occupazione operaia, mantenendo fermo il postulato della permanenza del sistema di produzione basato sul profitto, significa solidarizzare con le esigenze di questo e permettergli di procedere al consolidamento degli interessi costituiti.

La difesa del blocco dei licenziamenti può avere un senso, dal punto di vista rivoluzionario, solo nel caso di un'evidente crisi economica e industriale, in cui il capitalismo si trovi paralizzato nella sua normale attività e debba pertanto cercare di sbarazzarsi di personale inattivo.

In questo caso, può essere utile cercar di mobilitare le masse sul principio che se la società perisce, se l'ordine sociale non riesce a funzionare, se vi sono colpe da scontare, non è il proletariato ma la classe dominante che deve farne le spese.

Nessuna variazione allo stato di fatto che permetta il ritorno ad una normalità capitalista, a una situazione che veda riprendersi e ripetersi con maggior energia lo sfruttamento delle masse proletarie. Se così non si può più andare avanti, si cambi strada, non si colmino le buche e si livellino le asperità.

In questo caso, la parola d'ordine «lotta contro i licenziamenti» contribuisce ad accelerare lo sfacelo dell'ordine costituito, non già a difendere lo stato di fatto.

Può anche avvenire che il capitalismo ponga il problema dei licenziamenti in funzione di una necessità di epurazione politica, o col secondo fine di esercitare il terrore nei confronti degli elementi più audaci e temibili del proletariato; ma anche in questo caso l'opposizione non può essere disgiunta dalla lotta generale contro l'insieme del regime economico e politico; e perciò la resistenza ai licenziamenti assume una funzione di difesa proletaria, non di principio politico da postulare come elemento di un programma di partito.

La disoccupazione è il tormento perenne della società attuale, il funzionamento degli impianti e il lavoro degli operai sono la condizione diretta del conseguimento degli utili capitalistici, per cui si può esser certi che è nell'ordine di idee dello stesso capitalismo di dar lavoro a tutti, e se non vi riesce è per una incapacità specifica del sistema, non per mancanza di «buona volontà».

Un partito di classe, un partito rivoluzionario, deve saper valutare giustamente queste tendenze e quindi saper sfruttare la situazione in modo da chiarire alle masse la portata di alcune parole d'ordine che talvolta si prestano ad essere utilizzate dalle forze opportunistiche per mantenere il proprio prestigio e la propria influenza sugli operai, e al fine non di muoverli verso la soluzione dei loro definitivi e sostanziali problemi storici, che si riassumono nella necessità di una trasformazione radicale della società, ma per motivi che coincidono con le esigenze interne di questa, e più particolarmente, nel momento attuale, con le manifestazioni del contrasto fra i due massimi imperialismi mondiali.

Source: «Prometeo», n° 10, giugno-luglio 1948, pp. 460-462

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