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DEMOCRAZIA PARLAMENTARE E DEMOCRAZIA POPOLARE


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Democrazia parlamentare e democrazia popolare
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Democrazia parlamentare e democrazia popolare

Una guerra a morte è infine dichiarata fra democrazia parlamentare e democrazia popolare: finito l’idillio dei Comitati di Liberazione, dell’esarchia, del tripartitismo, la «cortina di ferro» che separa geograficamente il blocco russo da quello anglo-sassone si prolunga nell’interno degli altri Paesi dove sembra delinearsi un’evoluzione monolitica che esclude dal timone dello Stato la collaborazione con la forza sociale che vi è stata eliminata.

Non rientra nel quadro di quest’articolo l’esame dell’intricato problema tendente a chiarire le ragioni che hanno determinato la rottura dell’idillio stabilitosi immediatamente dopo la fine della seconda guerra imperialista. Ci limiteremo a dire che queste ragioni risiedono non nella pretesa irriducibilità del contrasto fra le due forme di organizzazione della società capitalista che si esprimono attualmente nella democrazia parlamentare e nella democrazia popolare, né nella irriducibilità del contrasto di interessi che oppone russi e anglo-sassoni sul piano mondiale e all’interno di ogni paese, ma nella successione delle fasi dell’economia capitalista: quella dell’immediato dopo-guerra, in cui fu lanciata con suonatori che usavano un solo strumento la «battaglia della produzione»; quella odierna, in cui lo sdoppiamento della banda è stato reso indispensabile dalle nuove contingenze storiche. Prima si trattava di ottenere l’appoggio entusiastico dei lavoratori alla ricostruzione della economia capitalistica dopo i violenti scossoni della guerra; oggi si tratta di piegare i lavoratori alle ferree leggi che di questa ricostruzione condizionano lo sviluppo e spingere le masse a odiare non il regime che raziona il foraggio della bestia da lavoro e piange sull’insufficienza dello sviluppo dell’industria di guerra, ma nei paesi russi il nemico anglo-sassone e nei paesi anglosassoni il nemico russo.

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Scopo di quest’articolo è di fissare, in stretta coerenza con le posizioni sempre difese dalla sinistra comunista, la posizione che il proletariato è chiamato ad assumere di fronte al conflitto in pieno sviluppo.

L’intransigenza, dal punto di vista marxista, è d’ordine sostanziale e non formale. Non basta dire che, essendo la democrazia parlamentare la bandiera ideologica dell’imperialismo anglosassone e quella popolare la bandiera ideologica dell’imperialismo russo, il proletariato non ha che da prendere una posizione d’indifferenza rispetto a un conflitto in cui sono in gioco non i suoi interessi, ma quelli dei suoi dominatori. Il problema non è risolto con lo svelare ai proletari i moventi imperialisti della guerra ideologica – e, in Grecia, già militare – giacché, nel vortice degli avvenimenti attuali, non pochi proletari possono essere portati a credere che ci si possa limitare a superare un movimento inquadrato dall’una delle due forze imperialistiche, mentre la posizione marxista non può consistere che nel negarlo nelle sue stesse basi.

Il conflitto attuale si situa – sempre nel quadro dell’evoluzione della classe capitalista e del suo adattamento alle necessità della dominazione sul proletariato – sullo stesso corso che ha conosciuto il conflitto democrazia-fascismo. Rispetto a questo, è falso che la sinistra italiana abbia adottato una posizione d’indifferenza. L’Italia fu il teatro su cui si svolse il primo atto di quel conflitto, e a quell’epoca la nostra corrente deteneva la direzione del partito. La posizione centrale fu la seguente: poiché i due termini fascismo e democrazia rappresentano un’alternativa svolgentesi nell’ambito della classe capitalista (è, in parole povere, un affare interno del nemico), il proletariato non può che prendere posizione contro entrambi i contendenti, i quali non perseguono obiettivi antagonici, ma lo stesso fine: piegare il proletariato alla soluzione capitalistica del declino borghese. Nel contempo, il Partito inquadrava un’azione specifica di classe che, prendendo le mosse dalle lotte rivendicative, puntava alla distruzione dello Stato capitalista nell’aspetto democratico sotto il quale ancora si presentava.

Non è necessario insistere che tale atteggiamento partiva dalla concezione non che bastasse superare il movimento democratico ed antifascista, ma che fosse indispensabile cominciare col negarlo per tendere quindi verso la sua distruzione.

Prima di proceder oltre, crediamo utile ricordare la posizione dei nostri maestri sul problema della democrazia.

Poiché la nostra divisa è di portare la massima chiarezza sugli intricati problemi dell’oggi non esiteremo a ricordare che Marx, nel 1848, fu a Colonia contro l’organizzazione specificamente operaia di Gottschalk e Willich a favore del movimento democratico che aveva per organo la «Nuova Gazzetta Renana», e nella stessa epoca fu favorevole a una guerra contro la Russia.

Sulle tracce del corso seguito dalla rivoluzione francese nel 1792–93, e in funzione di un movimento rivoluzionario suscettibile di esprimersi in una vittoria non del proletariato, ma della borghesia, Marx impostava una tattica intesa a facilitare il trionfo della classe che la storia chiamava al timone della società e a rinviare a un secondo tempo l’affermazione dell’autonomia della classe proletaria. Quanto alla Russia, pensava che il suo ruolo corrispondesse a quello dell’Austria nei confronti della Francia rivoluzionaria.

Ne consegue forse che Marx, il fondatore della teoria della classe proletaria, fosse divenuto l’apostolo della «verità eterna» della democrazia? «Olla podrida» rispose Marx a Bakunin, quando questi presentò al Congresso della Prima Internazionale l’insieme di rivendicazioni democratiche che avrebbe dovuto servir di base alla sua azione. Non altrimenti si deve rispondere agli attuali seguaci di Marx.

Ai tempi di Marx, si trattava di un conflitto in cui si scontravano due classi antagoniche: la feudale che dominava il mondo da parecchi secoli, la borghese che non aveva ancora conquistato il potere. Oggi, il conflitto è nel seno di una stessa classe e il pensiero marxista non può porsi che il problema della lotta diretta contro tutte le espressioni sociali di questa classe, cui antagonismi interni non possono avere altro obiettivo storico che di escludere l’affermazione dell’autonomia della classe proletaria.

Marx e Lenin hanno a volte impiegato come omonimi i termini socialismo e democrazia. Questa identificazione a carattere propagandistico tendeva unicamente a dimostrare che solo il socialismo permette la realizzazione dei postulati comunemente attribuiti alla democrazia, cioè l’eliminazione di ogni oppressione. Ma Marx nei suoi scritti, e Lenin anche nell’azione, hanno preconizzato come unico mezzo per il trionfo del proletariato, non l’impiego del procedimento maggioritario e democratico, ma l’affermazione della dittatura rivoluzionaria e lo schiacciamento violento della controrivoluzione borghese.

Le due formulazioni di Marx: «la costituzione del proletariato in classe» («Manifesto») e «la liberazione dei proletari sarà opera dei proletari stessi» («Manifesto Inaugurale della Prima Internazionale») possono apparire contraddittorie a chi abbia letto Marx con gli occhi del propagandista «popolare» o «parlamentare» della borghesia democratica; ma non presentano alcuna contraddizione per il proletariato il quale, da un secolo di lotte sanguinose, ha tratto l’insegnamento che solo la minoranza ferreamente inquadrata nel partito di classe è suscettibile di trasmettere alle masse la coscienza rivoluzionaria indispensabile per risolvere nella vittoria proletaria la crisi storica inevitabilmente preparata dal processo antagonico dell’economia capitalistica. (È noto che Lenin, nel suo «Che fare?» parla – in opposizione agli antesignani degli attuali democratici, i tradunionisti inglesi – della necessità di importare il socialismo fra le masse).

Questa digressione ci è parsa utile per fissare i criteri che devono servirci di guida nell’analisi del conflitto fra democrazia popolare e democrazia parlamentare.

Fra democrazia, quale che ne sia l’attributo, e socialismo vi è non continuità ma opposizione; e affermare l’una significa escludere l’altro. Il Partito di classe si fonda non sull’utilizzazione delle possibilità che la democrazia lascerebbe sussistere ma sulla pregiudiziale che queste possibilità, quando non si incastrano nel processo di sviluppo della classe borghese nella sua epoca rivoluzionaria (ai tempi di Marx, la democrazia era indispensabile alla borghesia per abbattere la vecchia classe feudale), devono essere presentate per quello che sono storicamente divenute: delle maglie intese ad irretire fino all’ultimo cervello proletario nel quadro del dominio della classe borghese (la coscienza – ripetiamolo ancora una volta – è, come diceva Lenin, importata nel proletariato).

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Democrazia-fascismo è, come abbiamo detto, il precedente cronologico dell’alternativa democrazia parlamentare – democrazia popolare.

La prima sorge nel corso degli avvenimenti che dovevano liquidare l’alternativa delineatasi nell’Ottobre 1917 fra classe borghese e classe proletaria. La disfatta del proletariato mondiale si incrociava col nuovo obiettivo che si poneva al capitalismo: il suo adeguamento all’incessante sviluppo delle forze di produzione. Il problema è stato risolto attraverso un graduale trasferimento allo Stato di quelle che erano precedentemente le prerogative dei capitalisti privati e delle loro associazioni monopolistiche. La formula del «totalitarismo di stato» delinea assai bene il tipo di organizzazione capitalista formatosi in una situazione storica caratterizzata da questo duplice elemento: l’immaturità della classe proletaria mondiale a realizzare la vittoria rivoluzionaria, l’incessante sviluppo della tecnica di produzione. Abbiamo parlato di un duplice elemento e non di due elementi, perché si tratta di fattori strettamente connessi. Sarebbe però erroneo dedurne che essi rimangano vitali in ogni fase dell’evoluzione storica e che; senza un sovvertimento sociale che distrugga le due forme in cui attualmente si estrinseca il totalitarismo di Stato (democrazia popolare e democrazia parlamentare), sia possibile il ripresentarsi della classe proletaria rivoluzionaria in funzione dell’inarrestabile sviluppo delle forze di produzione.

Abbiamo già detto che il carattere essenziale del fascismo non consiste nel suo aspetto di violenza, di «polizia». Questo è esatto alla condizione che si identifichino le due nozioni di fascismo e di totalitarismo statale, e sembra confermato dal fatto che i due termini impiegati attualmente per caratterizzare le due forme di governo borghese non sono più democrazia e fascismo, ma democrazia parlamentare e democrazia popolare. Di più, come vedremo in seguito, di fronte a un processo di amalgamazione che ricollega la democrazia parlamentare del 1922 a quella d’oggi, si svolge un processo che ricollega in modo diretto il fascismo alla democrazia popolare. Ma l’identificazione di fascismo e totalitarismo di Stato sarebbe erronea, se dovesse oscurare o addirittura eliminare il fondamentale fatto storico che il capitalismo ha risolto, in alcuni paesi, attraverso il fascismo, e che era costituito dalla minaccia dell’attacco rivoluzionario del proletariato.

Se si spoglia l’analisi da questo fatto fondamentale, è innegabile che tutti i paesi – della democrazia parlamentare, come della democrazia popolare conoscono oggi una fase di esacerbazione fascista, e, a parte le differenze di grado, ovunque trionfa l’interventismo statale che fu uno degli obiettivi fondamentali del fascismo e che, a sua volta, rappresenta l’unica soluzione offerta dal capitalismo allo sviluppo delle forze di produzione.

Una più corretta analisi degli avvenimenti sembra risultare dal fatto che l’eliminazione della minaccia rivoluzionaria del proletariato ha determinato un orientamento della struttura internazionale della società capitalistica per cui le due forme politiche fondamentali corrispondono alle particolarità economiche di due suoi diversi settori.

Quest'esame non può essere condotto che su scala internazionale. Era inevitabile che, una volta stroncato nel 1927 il corso della rivoluzione proletaria internazionale, la ripercussione di questa sconfitta in Russia doveva essere di determinare in quel paese l’impiego dell’elemento violenza e «polizia» che fu la caratteristica del metodo mussoliniano ed hitleriano. Fra l’ottobre 1917 e la vittoria staliniana del 1927, con relativo trionfo del principio del «socialismo in un solo paese», corre la stessa antitesi fondamentale che fra classe proletaria e classe capitalista. Dallo zarismo non si poteva passare che al totalitarismo capitalista, dopo la fulgida parentesi dello Stato di Lenin in lotta per la vittoria del proletariato internazionale.

Lo sviluppo conseguente della posizione della Sinistra italiana di fronte al dilemma fascismo-democrazia, e la sua applicazione al dilemma democrazia parlamentare-democrazia popolare, devono tenere conto del fatto che, mentre la prima si svolgeva in una situazione storica che conteneva ancora l’eventualità del riproporsi dell’attacco rivoluzionario del proletariato, la seconda si svolge in una situazione di totale vittoria della classe capitalista, nella quale i marxisti sono ridotti ad un pugno di elementi dispersi nel mondo e slegati, l’esperienza del Partito Comunista Internazionalista in Italia non rappresentando che un’eccezione nel lugubre quadro internazionale. Se perciò nel 1921–22 non riuscì difficile alla nostra corrente estrarre i fondamenti di classe dal dilemma fascismo-democrazia, oggi non può dirsi la stessa cosa. Allora bastò inquadrare un’azione che, partendo dai postulati delle rivendicazioni immediate, culminava nell’obiettivo fondamentale della distruzione dello Stato capitalista, allora ancora democratico. E la base di operazione del Partito non poteva trovarsi che nel campo delle forze sociali sui cui le forze democratiche puntavano, non al fine di controbattere il fascismo ma di facilitare la trasformazione in Stato fascista della precedente struttura democratica dello Stato.

La riapplicazione alla situazione odierna dei cardini della tattica del 1921–22 ci condurrebbe, se ci limitassimo al giudizio sulle forze indiscutibilmente imperialiste che muovono la democrazia parlamentare, a cercare di estrarre dalla configurazione sociale della democrazia popolare la base di classe del proletariato, così come, se ci attenessimo esclusivamente al giudizio sulle eventualità di azione di classe del proletariato, ci condurrebbe ad optare per la democrazia parlamentare, quella popolare interdicendo con procedimenti violenti e di polizia la pur minima attività a favore della classe proletaria.

Ma l’inesistenza di una possibilità di attacco del proletariato esclude l’applicazione alla situazione attuale – senza un indispensabile aggiustamento – della tattica seguita nel 1921–22. L’applicazione degli stessi principi può discendere solo da un’analisi che abbia chiarito i seguenti punti:
a) si tratta di classi antagoniche, o di una stessa classe che è al timone in Russia attraverso la democrazia popolare e negli Stati Uniti attraverso la democrazia parlamentare?
b) se si tratta di una stessa classe, è lecito avanzare l’ipotesi che le fasi del conflitto contengano le premesse della ricostituzione della classe proletaria?

La costituzione del Cominform nel settembre del 1947 è stata l’atto di cresima della democrazia popolare. Quali ne sono stati i temi fondamentali? Due: La rivendicazione dell’autonomia nazionale, l’affermazione della necessità impellente di purgare la vita economica dall’escrescenza dell’imperialismo capitalista.

Mussolini, nel suo discorso di Piazza San Sepolcro, non aveva detto altro, e non è affatto da stupire che il nazional-comunismo sia costretto a impiegare metodi di violenza che fanno impallidire quelli di Mussolini e di Hitler.

La democrazia parlamentare rivendica la difesa della libertà e l’impiego del metodo parlamentare e maggioritario. Ma non occorre spendere una parola per riaffermare che, in regime di oppressione di classe, la libertà è solo libertà di sfruttare la classe oppressa.

In definitiva, è indiscutibile che, se gli Stati Uniti restano nel quadro classico che ha servito di modello storico ai nostri maestri per definire la classe capitalista, la Russia non fa che riprendere e far suoi gli obiettivi anche polizieschi che già furono del fascismo. Siamo dunque in presenza di un conflitto sorto nel seno della stessa classe: la classe borghese.

In un settore vige il trust di Stato, nell’altro persiste il trust privato. Preferiamo la formula di trust di Stato a quella di capitalismo di Stato, perché la prima esprime meglio la realtà delle condizioni create al proletariato e ai paesi satelliti, dove l’obiettivo essenziale è lo sfruttamento massimo dei lavoratori in vista di un’intensissima accumulazione giustificata nel campo politico dalla necessità di armarsi e difendersi dall’attacco dell’imperialismo statunitense contro la «patria del socialismo». Lenin ha impiegato non una sola volta il termine di capitalismo di Stato per caratterizzare l’economia nella prima fase della dittatura del proletariato. Accanto alla persistenza di uno dei caratteri essenziali dell’economia capitalistica (il prodotto restando una merce), il capitalismo di Stato comportava un’adeguazione dell’estrazione del plus-valore non più in forza della legge del profitto, ma in forza del miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Nulla di simile esiste più attualmente in Russia, dove l’obiettivo perseguito è specificamente capitalista poiché si tende a comprimere sempre più il tenor di vita dei lavoratori in vista di un allestimento industriale capace di competere con quello dello Stato «nemico». Si tratta quindi di una forma più elevata della concentrazione capitalistica, del trust di Stato, e non di un’organizzazione economica diversa da quella borghese, come Lenin la concepiva quando ancora la Russia combatteva per il trionfo della rivoluzione proletaria mondiale. Bucharin nel suo libro «L’economia mondiale e l’imperialismo», particolarmente lodato da Lenin, scriveva nel 1917:
«Nella misura in cui il capitalismo di Stato conferisce un’importanza di stato alla quasi totalità delle branche di produzione, nella misura in cui queste sono messe al servizio della guerra, il codice penale si applica a tutta la vita della produzione Gli operai non sono liberi di spostarsi, non hanno né il diritto di sciopero, né il diritto di appartenere ai partiti cosiddetti ‹anticostituzionali›, né il diritto di scegliere gli stabilimenti dove desiderano lavorare, ecc. Essi sono trasformati in servi, legati non più alla gleba, ma all’officina. Diventano gli schiavi bianchi dello Stato-brigante imperialista, che assorbe nel quadro della sua organizzazione tutta la vita produttiva».

Bucharin, che fu artefice e vittima insieme dell’involuzione dello Stato sovietico, ha presentito che razza di socialismo esiste dove regna lo Stato-padrone. È evidente che il carattere essenziale della democrazia popolare, dove tutto è sacrificato all’opulenza dello Stato-padrone, deve consistere nella impossibilità di sopportare il minimo turbamento alla vita sociale e che particolarmente lo sciopero deve esservi considerato un delitto.

Il trust privato non comporta necessariamente come attributo la libertà o il diritto di sciopero. Il fatto che, a differenza del trust di Stato, dove la minoranza privilegiata è fisicamente e direttamente al potere, il trust privato trovi nello Stato non la sua riproduzione fisica e diretta, ma solo l’organo di regolamento dei suoi interessi, non determina una possibilità sociale e storica di affermazione della classe proletaria. Il trust privato conserva una certa libertà di movimento nei confronti dello Stato, il quale agisce solo «a posteriori» (in quello di Stato, esso agisce «a priori») per assicurarne l’inquadramento nel seno della classe considerata nel suo insieme. Questa situazione, particolare al trust privato, fa sì che lo stesso conflitto salariale non dipenda unicamente e direttamente dall’intervento dello Stato, e che quindi lo sciopero sia possibile. Ma questo scoppia, sebbene in misura sempre minore, non in funzione di una possibilità che la classe capitalista offra alla classe nemica il proletariato, ma in funzione delle particolarità del meccanismo che ricollega il trust privato allo Stato capitalista. Su questo piano si comprende come non di rado padroni e operai possano associarsi in movimenti di sciopero contro uno Stato laburista (Inghilterra) o a prevalenza socialista (Belgio). In una parola, lo sciopero tende a determinare la parte che «ragionevolmente» spetta ai lavoratori nel quadro della solidarietà nazionale personificata dallo Stato.

In altro articolo dovrà essere studiata l’eventualità della costituzione di un trust unico e mondiale. Non resistiamo però alla tentazione di citare un passo di Lenin, nella prefazione al libro citato di Bucharin:
«Si può, tuttavia, contestare che una nuova fase del capitalismo, dopo l’imperialismo, cioè una fase di super-imperialismo, sia, nell’astratto, ‹concepibile›? No. Si può teoricamente immaginare una fase di questo genere. Ma in pratica, se ci si attenesse a questa concezione, si sarebbe degli opportunisti che pretendono ignorare i più gravi problemi dell’attualità per sognare di problemi meno gravi, che si porrebbero nell’avvenire. In teoria questo significa che, invece di appoggiarsi sull’evoluzione tale quale si presentata attualmente, ci se ne isola deliberatamente per sognare. È fuori dubbio che l’evoluzione tende alla costituzione di un trust unico, mondiale, assorbente tutte le imprese e tutti gli Stati senza eccezione. Ma l’evoluzione si compie in tali circostanze, ad un tale ritmo, attraverso tali antagonismi, conflitti e sconvolgimenti – non solo economici, ma politici, nazionali, ecc. – che, prima di giungere alla creazione di un unico trust mondiale, prima della fusione ‹super-imperialista› universale dei capitali finanziari nazionali, l’imperialismo dovrà fatalmente crepare e il capitalismo si trasformerà nel suo contrario».

In definitiva, l’ipotesi del trust mondiale e dell’evoluzione pacifica in questa direzione discende da una valutazione «ab astracto» della legge fondamentale dell’economia capitalistica, legge che è in piena azione sia nel seno della democrazia parlamentare, che in quello della democrazia popolare. Questa legge, che è quella del profitto, si ripercuote, dal punto di vista sociale, nei particolari strati delle minoranze privilegiate che vivono del plus-valore. Lo strato privilegiato che afferra il timone dello Stato non se lo lascia strappare che con la violenza, sia che questa provenga dallo strato privilegiato regnante in un altro Paese, sia che esprima l’attacco rivoluzionario della classe oppressa. Un recente avvenimento conferma questa che è una delle tesi centrali del marxismo. In dicembre era maturata in Russia una situazione economica in cui la minoranza detentrice del trust di Stato poteva essere minacciata dall’esistenza di formidabili capitali che avrebbero potuto orientarsi verso un investimento privato del tipo in vigore nei paesi anglo-sassoni. La reazione di difesa del trust di Stato è stata radicale; tutti i capitali appartenenti ai privati sono stati quasi integralmente eliminati (quelli dei kolchoz nella proporzione di un quinto), quelli delle industrie di Stato sono stati immunizzati.

Le fasi della lotta fra trust di stato e trust privato (fondamento economico della lotta fra democrazia popolare e democrazia parlamentare) che sul piano mondiale può essere risolta solo dalla violenza della guerra, si riflette – nel quadro dei paesi satelliti dipendenti dall’uno o dall’altro mostro principale – in un analoga direttiva. Gli avvenimenti di Grecia sono la prefigurazione di quanto avverrà in Italia, Francia ecc.? La risposta a questo quesito, per quanto importante, è non soltanto d’ordine secondario, ma sfugge alle possibilità dell’analisi marxista.

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Il punto che interessa in modo fondamentale i proletari è di stabilire su quale corso questa lotta si sviluppa. Su quello che oppone classi antagoniche e che permetterebbe di riapplicare alla situazione odierna lo schema tattico seguito da Marx nel 1848? Abbiamo già spiegato che non di questo si tratta, ma di una lotta fra due tipi di organizzazione economica e politica della stessa classe capitalista, lotta la cui natura storica è rivelata dall’ineluttabilità del suo sbocco: la guerra imperialista.

Il tradimento della Seconda Internazionale si è consumato in occasione dello scoppio della prima guerra imperialista mondiale. Lenin vi oppose la parola del «disfattismo rivoluzionario», Liebknecht quella del «nemico è in casa nostra». La Sinistra Comunista è stata la sola a combattere la seconda guerra imperialista non in funzione di pregiudizi morali, ma restando saldamente sulle basi del marxismo rivoluzionario. La divisa di Lenin e Liebknecht deve restare la nostra. Ma se la sua applicazione è facile nei massimi Paesi in cui impera l’una o l’altra delle due forme della società capitalistica e queste si presentano in modo monolitico e chiaro, essa è meno agevole nei Paesi non ancora assimilati dall’una o dall’altra.

Abbiamo già detto che lo sciopero risulta unicamente dalla tecnica del rapporto fra trust privato e Stato capitalista. Benché divenuto uno strumento di determinazione a posteriori della parte dei lavoratori nella «collettività nazionale», esso esprime tuttavia un tentativo di reazione degli operai alle condizioni create loro da una ricostruzione il cui unico obiettivo è lo scatenamento di una nuova guerra imperialista. Ne deriva che i proletari rivoluzionari devono appoggiare gli scioperi e, in generale, le agitazioni che scoppiano nei diversi Paesi. Solo che, a differenza di quanto avveniva nel 1921–23 – quando lo sciopero era un’arma diretta di classe e una manifestazione anti-nazionale ed internazionalista – oggi esso è uno strumento di regolazione di vertenze salariali pregiudizialmente inquadrate nelle esigenze della prosperità nazionale, come gli stessi nazional-comunisti si compiacciono di dichiarare. Di più, la forza che automaticamente ne prende la direzione totalitaria è forza schiettamente capitalista. In effetti, se Nenni e Togliatti non sono al potere in Italia, essi sono strettamente collegati al trust di Stato che opprime e sfrutta la classe proletaria in Russia. In conseguenza della sua natura capitalista, questa forza dirigente ha – in una situazione che non conosce ancora il conflitto militare – una funzione eminentemente disfattista, come provano gli avvenimenti di Francia, Italia, Belgio. Qui, il nazional-comunismo ha egregiamente assolto al compito che gli avvenimenti gli devolvevano: quello di stabilire un dispositivo di lotta che garantisca a priori la sconfitta. In corrispondenza con la direttiva di Lenin sul disfattismo rivoluzionario, la direttiva da applicare è quella che imposta il corso politico non sulla possibilità di superare una fase qualsiasi dell’agitazione, ma sulla negazione ab imis dell’inquadramento sociale e politico nel quale il movimento si svolge.

L’impostazione deve quindi tendere alla lotta simultanea sia contro il padronato e lo Stato democratico-parlamentare, sia contro la forza sociale che controlla il movimento, e che si incastra nel processo storico che l’ha condotto al potere là dove regna la democrazia popolare. E unicamente su questa linea che si ricostruisce il partito di classe nell’attuale fase storica.

Un’impostazione simile porta direttamente a svelare l’essenza reale delle cosiddette libertà concesse al proletariato nei paesi della democrazia parlamentare. Quivi – e l’esperienza può esserne quotidianamente fatta dai proletari del nostro Partito – là democrazia parlamentare al potere incarica le forze della democrazia popolare della liquidazione violenta di ogni tentativo compiuto dai comunisti internazionalisti per affermare una posizione di classe, soprattutto quando scoppiano agitazioni sociali.

Svelare la funzione reale dei nazional-comunisti significa mettersi sulla via che Lenin seguì e rischiare di essere accusati come «disfattisti» dei movimenti operai. E pur tuttavia, è questo il comandamento dell’ora.

È esatto quanto è già stato detto, che non v’è nulla di nuovo nell’atteggiamento da tenere nei confronti della democrazia sia essa parlamentare che popolare. Ma la democrazia non è un’astrazione nelle nubi dello spirito. Essa è oggi altra cosa di quel che era un tempo: non più quella di Marx, nemmeno più quella che Lenin analizzò e che non escludeva l’apparizione classista del proletariato. Essa è oggi una nozione totalitaria, come tutto è totalitario. Essa può permettersi il lusso di cambiare soltanto attributo e lanciare le masse, anche in assenza della guerra, nella crociata in nome del «popolo» da una parte della barricata, del «parlamento» dall’altra, obiettivi entrambi ferocemente capitalistici.

Nella Prefazione al primo volume del «Capitale», Marx scriveva:
«Nella sua forma mistificata, la dialettica fu alla moda in Germania perché sembrava trasfigurare quello che esisteva. Nella sua forma razionale, essa è uno scandalo e un oggetto di orrore agli occhi dei borghesi e dei loro portaparola dottrinari, e questo per differenti ragioni: insieme all’intelligenza positiva delle cose esistenti, essa implica l’intelligenza della loro negazione, della loro distruzione necessaria; concepisce ogni forma in movimento e perciò nel suo lato caduco; non si lascia impressionare da nulla ed è, per sua essenza, critica e rivoluzionaria».
Nulla da ridire: Bernstein aveva ragione di parlare dell’elemento «perfido» della dottrina marxista. È – se fosse possibile – meritando l’accusa di perfidia al centuplo da parte di tutti i revisionisti vecchi e nuovi del marxismo, che i comunisti internazionalisti procedono alla determinazione del corso di negazione dell’attuale ordine, in cui – sotto l’etichetta popolare o parlamentare – il trust di Stato e il trust privato muovono, attraverso un totalitario controllo sulle masse, allo scatenamento di un nuovo macello mondiale. Rimettere in piedi anche una sola pattuglia di proletari, cui le circostanze permettano di spezzare il nodo gordiano stretto dagli uni e dagli altri solidalmente uniti, significa realizzare una delle condizioni per opporre al corso della guerra imperialista quello della vittoria internazionale del proletariato.


Source: «Prometeo», № 9, Aprile-Maggio 1948

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