LISC - Libreria Internazionale della Sinistra Comunista
[home] [content] [end] [search] [print]


IL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO OPERAIO E LA QUESTIONE AGRARIA


Content:

Il movimento rivoluzionario operaio e la questione agraria
Source


Il movimento rivoluzionario operaio e la questione agraria

Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo nel campo della produzione dei manufatti sorge nella società moderna col capitalismo, quando è realizzata la condizione tecnica del lavoro associato. Il lavoratore viene espropriato del prodotto del suo lavoro, ed una parte della sua forza di lavoro gli viene sottratta per andare a costituire il profitto del padrone. Questo schema così semplice non basta a rappresentare il rapporto tra lavoratore e padrone nel campo dell’agricoltura, dove la rivoluzione finora svoltasi non ha sostanzialmente modificato la tecnica produttiva, ma quasi soltanto i rapporti giuridici tra le persone sociali. Alla base dell’economia agraria sta l’occupazione della terra, attuata all’origine grazie alla forza militare di gruppi e tribù forti o di capi guerrieri, che invadevano territori di altri popoli o si fissavano su zone libere. In verità, anche per la disposizione padronale della forza di lavoro umana si parte dalla occupazione ottenuta con la forza bruta, quando si istituisce l’economia schiavistica con l’assoggettamento dei popoli vinti. Ma nella società moderna, a cui ci siamo riferiti, anche prima del prevalere dell’economia capitalistica, l’occupazione violenta della persona umana era stata soppressa. La società feudale non ammetteva più la schiavitù.

Invece, l’occupazione della terra, conservata nel sistema feudale, di cui è anzi la base, è perfettamente ammessa e sanzionata giuridicamente in pieno regime capitalistico. Ciò significa praticamente che il proprietario di una vasta estensione di terreni agrari, pur restando inoperoso, ne trae la rendita fondiaria, senza essere stato perciò costretto ad introdurre nella tecnica produttiva la risorsa di una forma associativa dell’opera dei lavoratori che sfrutta.

Abbiamo cioè la grande proprietà ed il grande possesso, senza che necessariamente essi costituiscano una grande azienda unitaria, ossia un organismo in cui ciascun lavoratore ha mansioni specializzate. La grande azienda agraria esiste, ed ha il carattere di un’intrapresa capitalistica applicata all’agricoltura, con largo apporto di capitali industriali sulla terra, come macchine, bestiame, impianti diversi, ecc., ed impiega operai salariati (braccianti agricoli), che sono purissimi proletari. Il titolare di questa grande intrapresa può coincidere col proprietario immobiliare della terra, e può essere un grande affittuario rurale; in teoria potremmo anche avere la grande azienda industriale agraria sovrapposta al piccolo possesso, se il capitalista avesse trovato conveniente prendere in fitto un gran numero di piccole proprietà private contigue.

Tornando al grande possesso, esso può invece vivere, e vive fino ad oggi, anche in grandi paesi capitalistici, sovrapposto alla piccola azienda, quando il grande proprietario (latifondista) tiene il suo possesso diviso in piccoli lotti, su ciascuno dei quali vive e lavora con tecnica primitiva una famiglia contadina. Il lavoratore allora non è espropriato totalmente del suo prodotto come il salariato, ma ne rilascia una grossa quota allo sfruttamento padronale o in natura (colonia parziaria, mezzadria) o in denaro (affitto). Il colono, il mezzadro o affittuario può perciò essere considerato un semi-proletario. Vi è poi, sempre in regime prettamente borghese moderno, la piccola proprietà aderente alla piccola azienda.

Il contadino piccolo proprietario è un lavoratore manuale, ed osserva in generale un basso regime di vita; ma non è un proletario, perché resta padrone di tutto il prodotto del suo lavoro; non è neanche semi-proletario, appunto perché non cede nessuna quota; però, nel giuoco delle forze economiche, sente il peso del dominio delle classi privilegiate attraverso gli alti oneri fiscali, l’indebitamento verso il capitale finanziario, e così via. La sua figura sociale ha il parallelo in quella dell’artigiano, sebbene la sua figura giuridica sia diversa, e lo accomuni teoricamente al grande proprietario. Infatti, il capitalismo, per liberarsi dalle pastoie medievali, non ha avuto la necessità di infrangere gli istituti giuridici che regolano la proprietà immobiliare, ed ha anzi pressoché testualmente adoperato l’impalcatura del diritto romano, per cui in teoria lo stesso articolo del codice disciplina il rapporto di proprietà su pochi metri quadrati e su immensi possessi.

Ciò che il capitalismo ebbe invece bisogno di infrangere fu il sistema giuridico feudale di origine soprattutto germanica, che faceva del piccolo contadino, sfruttato sul grande fondo, una figura intermedia tra lo schiavo ed il libero lavoratore.

Il «servo della gleba», oltre a subire vere estorsioni nel rilascio delle quote al proprietario fondiario ed alle sedi ecclesiastiche, era vincolato al suo luogo di lavoro. Il capitalismo doveva liberarlo da questo suo servaggio, come doveva liberare gli immiseriti artigiani dai vincoli delle mille leggi e regolamenti sulle corporazioni di mestieri, perché l’uno e l’altro divenuti uomini liberi di vendere ovunque la propria forza di lavoro costituissero le armate di riserva della produzione salariata.

La rottura di questi vincoli giuridici costituì la rivoluzione borghese ed è dunque chiaro che essa, come d’altra parte non abolì in teoria nemmeno l’artigiano, lasciò piena cittadinanza al principio della produzione agraria basata sull’occupazione della terra, e non consistette, dal punto di vista della legislazione, in una diversa ripartizione della proprietà privata del terreno.

• • •

Indubbiamente, tra le varie forme accennate di aziende agrarie la più simile all’industria capitalistica è la grande azienda unitaria, la più lontana è la piccola azienda, divisa giuridicamente nei due tipi della proprietà minuta e del latifondo.

Non è esatto dire il latifondo una sopravvivenza del regime feudale, poiché esso esiste anche dopo l’abolizione radicale e violenta di tutti i vincoli feudalistici. Può tendere o meno a spezzettarsi, come la proprietà spezzettata può tendere o meno ad essere riassorbita in grandi tenimenti o in aziende unitarie moderne; ma tali fenomeni si svolgono nel quadro del moderno regime borghese per effetto di ragioni tecniche e di congiunture economiche.

Nella chiara condanna del capitalismo industriale nello schema storico comunista, per cui lo sfruttamento della forza lavoro verrà soppresso con la conquista della direzione della società da parte dei lavoratori, quale posto prende il ciclo di trasformazione della produzione rurale?

Per quanto riguarda la grande azienda moderna, essa è pronta a subire la sorte dell’industria per il fatto stesso di essere basata sulla tecnica del lavoro associativo.

I salariati agricoli di essa, pur avendo lo svantaggio sociale e politico di non essere riuniti nei grandi agglomerati urbani moderni, procedono di pari passo al proletariato industriale nel formarsi del potenziale di classe rivoluzionario.

I semi-proletari, ossia i coloni e i mezzadri, mentre non possono avere una parallela coscienza di classe, possono attendersi dalla rivoluzione proletaria industriale il grande vantaggio sociale, poiché questa, pur favorendo in ogni fase il prevalere delle forme associate di lavoro e la concentrazione delle piccole aziende in aziende più vaste, sarà la sola che potrà, contemporaneamente alla abolizione dello sfruttamento padronale, abolire radicalmente e per la prima volta nella storia il sistema dell’occupazione privata della terra.

Ciò vuol dire che il piccolo affittuario o mezzadro sarà non reso padrone della terra che coltiva, ma liberato dall’onere di pagare il tributo della sua forza di lavoro costituito dal canone in denaro o in natura, che prima percepiva il proprietario fondiario. In altri termini, la rivoluzione proletaria industriale potrà immediatamente sopprimere il principio della rendita fondiaria; anzi, per uno dei tanti rapporti dialettici nel giuoco delle forme sociali e storiche, potrà sopprimere molto più rapidamente e generalmente il principio della rendita fondiaria che quello del profitto del capitale industriale.

Venendo al piccolo proprietario, teoricamente la questione è diversissima in quanto la rendita fondiaria del suo campo va già oggi a suo beneficio e non si distingue amministrativamente dal frutto della sua forza di lavoro. Indubbiamente non avverrà in questo campo una rivoluzione se non in uno stadio ulteriore, in quanto tutte le piccole aziende o prima gestite da affittuari o coloni parziari ovvero da piccoli possessori, passeranno più rapidamente che non potessero farlo dell’ambiente dell’economia borghese, a raggrupparsi in grandi intraprese agricole unitarie socializzate.

In nessun caso, quindi, si può presentare il riflesso agrario della rivoluzione proletaria come un episodio di ripartizione o di nuova occupazione della terra, e come la conquista di terra da parte dei contadini. La parola «piccola proprietà al posto della grande proprietà» non ha alcun senso, la parola «piccola azienda agraria al posto di grande azienda agraria» è prettamente reazionaria. Su questo punto va chiarito quali svolgimenti del ciclo possano avere realizzazione prima della caduta del potere borghese. È un errore classico dell’opportunismo il presentare come possibile alle masse rurali l’abolizione della rendita fondiaria da parte di un regime industriale capitalistico, sia pure il più avanzato. Rendita terriera e profitto industriale non sono propri di due diverse e contrastanti epoche storiche. Essi hanno una perfetta simbiosi non solo nella classica impalcatura giuridica borghese, ma nei processi economici dell’accumulazione del capitale finanziario. Nonostante le sostanziali differenze fin qui dimostrate nei due campi della produzione, essi hanno un ceppo comune nel principio della sottrazione al lavoratore di una parte della sua forza lavoro, e nel carattere mercantile della distribuzione dei prodotti, comune a quelli dell’industria e a quelli dell’agricoltura. Quindi la parola della socializzazione della rendita fondiaria senza una rivoluzione delle classi operaie è un’idiozia, che può degnamente appaiarsi a quella della socializzazione del capitale monopolistico nell’ambiente dell’economia dell’intrapresa privata.

Un’altra delle posizioni dell’opportunismo è poi quella che si debba attendere la concentrazione in grandi aziende dell’economia agraria prima di parlare di una rivoluzione socializzatrice sia dell’industria che dell’agricoltura. Tale concetto è disfattistico, in quanto la stessa natura mercantilistica dell’economia borghese ed il suo evolversi verso forme sempre più speculative ed affaristiche lasciano prevedere che il capitale privato non si trasporterà con vasto respiro nelle intraprese di miglioramento fondiario che offrono pochi profitti a troppo lunghe attese alla remunerazione in confronto ai colossali affari industriali e bancari.

Ora la sostituzione della grande azienda alla piccola azienda, sia essa libera che stretta nei latifondi, non può avvenire senza radicali trasformazioni della tecnica, e ritarda dove queste, per ragioni naturali, sono troppo costose (altimetria irregolare, malsania idraulica, poca feracità dei terreni, ecc.) e solo un’economia a carattere altamente sociale potrà dislocare le enormi masse dì forze produttive necessarie alla trasformazione.

Infine, la parola della distribuzione dei latifondi ai contadini in regime borghese è anche priva di senso, in quanto voglia promettere una espropriazione senza indennità contraria agli istituti dello Stato borghese, ed è puramente demagogica in periodi nei quali né lo Stato, né la classe capitalistica possono disporre di capitali mobili e della mobilitazione di risorse produttive necessarie ad eliminare alcuni caratteri tecnici delle peggiori forme di latifondo, come la mancanza di case, di vie, di canalizzazioni, di acqua potabile, l’imperversare della malaria, ecc.

Indubbiamente, farà parte del programma agrario della rivoluzione operaia, insieme alla soppressione di ogni rendita fondiaria, una transitoria ridistribuzione in gestione delle terre agrarie, nel senso di dare possibilità di uniforme applicazione alla forza lavorativa della classe contadina per quella parte che non potrà essere messa sul piano sociale dei lavoratori di aziende collettive.

Comunque, questa diversa ripartizione non della proprietà, ma della consegna in gestione della superficie terriera, non potrà avere nei paesi capitalistici moderni la portata sociale e storica che ebbe nella Russia del 1917, nella quale la conquista del potere da parte del proletariato industriale compì non solo la prima soppressione del principio del padronato fondiario, ma anche quella del regime terriero feudale, rimasto praticamente in vigore nell’impero zarista anche dopo l’abolizione giuridica della servitù della gleba, promulgata nel 1801.

• • •

Nei paesi prettamente capitalistici, la classe operaia industriale rivoluzionaria comprende senz'altro il bracciantato agrario delle grandi aziende, e cerca di evitare il ricadere del bracciante nella figura del piccolo contadino; può considerare come alleati i semi-proletari del piccolo affitto e della colonia parziaria, tollerando che questi aspirino alla disposizione libera della loro terra, che solo la rivoluzione può attuare; solo con grandi riserve e transitoriamente potrà attendersi un appoggio positivo da parte dei contadini piccoli proprietari non ancora rovinati e proletarizzati dal capitalismo ed anzi, in periodi di crisi delle impalcature industriali dovute alla guerra ed alla sconfitta, dovrà attendersi che, nella loro maggioranza, i piccoli proprietari rurali, sfruttando per l’alto prezzo dei prodotti agricoli la crisi economica e vedendo divenire meno instabile la loro posizione sociale, data anche la loro incapacità come classe ad intravedere cicli storici di lungo respiro, alimentino la politica dei partiti conservatori.


Source: «Prometeo» № 8 Novembre 1947

[top] [home] [mail] [search]