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QUESTA FRIABILE PENISOLA SI DISINTEGRERÀ SOTTO L’ALLUVIONE DELLE «LEGGI SPECIALI» VANE, EQUIVOCHE E STERILI


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Questa friabile penisola si disintegrerà sotto l’alluvione delle «leggi speciali» vane, equivoche e sterili (se non salta prima la macchina rugginosa dello stato capitalista ed elettorale)
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Questa friabile penisola si disintegrerà sotto l’alluvione delle «leggi speciali» vane, equivoche e sterili (se non salta prima la macchina rugginosa dello stato capitalista ed elettorale)

Il 4 novembre 1966 Firenze fu sommersa dalle acque dell’Arno in piena, per la prima volta nella sua storia. Vi furono 27 morti e gravissimi danni al patrimonio storico e artistico. Negli stessi giorni vi furono inondazioni in tutta l’Italia settentrionale.

L’«Unità» nel numero del 19 novembre ultimo pubblica, mettendola in grande evidenza, una notizia il cui contenuto è veramente interessante, se pure non ne abbiamo trovato traccia in altri giornali, e sebbene si tratti, se la notizia è fedele, di un pubblico documento di natura ufficiale, dovuto al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, organo tecnico consultivo dello Stato, i cui pareri devono essere tenuti presenti nelle decisioni del governo in materia di opere pubbliche.

Troviamo giusto utilizzare la notizia pur non volendo certo apparire tanto ingenui da prendere per buoni materiali che si rinvengono nelle colonne dell’«Unità». Il giornale, dall’altra parte, non tenta neanche di trattare una soluzione comunista o teoricamente marxista del rapporto tra le calamità naturali e l’azione politica od amministrativa degli Stati politici moderni. Non ci attenderemo mai di trovare nulla di degno nell’organo di un partito che nulla ha più di comune con le impostazioni comuniste e marxiste; sia ben chiaro!

Riferiamo la notizia con gli estremi che si trovano stampati nel detto giornale, così come se il testo fosse proprio quello di una deliberazione del consesso di cui si tratta, certamente qualificato a trattare l’argomento, a parte ogni intrigo politico sempre possibile in tutti i meandri dello stato borghese attuale. Dopo il disastro delle inondazioni nel Polesine dell’anno 1951, il governo del tempo, secondo la fonte di cui ci serviamo, preparò un «Piano orientativo dei fiumi», e lo fece adottare con una legge dello Stato del 19 marzo 1952. Non volle evidentemente usare la solita espressione di Piano Regolatore, in quanto è chiaro che non si tratta di opere manufatte dall’uomo, ma di fatti esistenti in natura e la cui dinamica le collettività umane devono tentare di conoscere e di indirizzare, per evitare sfavorevoli effetti; quindi è accettabile la dizione di Piano orientativo anche per chi alle prime notizie diffuse nella mattinata del 4 novembre capì che il punto cruciale non era la preziosa Firenze insidiata dall’Arno (fiume che nella storia non ha crimini fin dai tempi di Dante fanciullo, quando Giotto dipingeva l’incontro con Beatrice mollemente appoggiata alle spallette del Lungarno, che dopo ben sei secoli di corretta funzione di contenimento del modesto fiume dovevano essere travolte sotto i nostri occhi di uomini che scioccamente si credono civili, progrediti, ed usciti da molte generazioni dotate di scienza e di tecnica; anche se il semplice ricordo di tal Leonardo da Vinci potrebbe dare alla povera Italietta un simile diritto) ma era invece il classico delta del re dei fiumi, il Po, dove questo confonde le sue foci con quelle dell’Adige e di altri fiumi delle Venezie.

Valgono dunque come se fossero vere le cifre che troviamo stampate su quelle così poco rispettabili colonne.

Con la legge ed il Piano del 1952 fu preveduta una spesa in 30 anni di 1454 miliardi di lire italiane, e quindi di 38,5 miliardi per anno. Da allora sono passati 14 anni, e quindi se i progetti tecnici e i calcoli economici del Piano erano esatti, si sarebbero già dovuti spendere 539 miliardi e la catastrofe attuale non sarebbe dovuta avvenire. Gli estensori del Piano Orientativo del 1952 avevano però fatto di più, cioè avevano selezionate ed elencate alcune opere assolutamente prioritarie che si dovevano effettuare in 10 anni, ed erano relative specialmente ai corsi e ai bacini dei fiumi Adige, Garda, Mincio, Tanaro, Po di levante, Tevere, ecc., ecc. Tale gruppo di opere di primo stralcio impegnava, dei previsti 1454 miliardi trentennali, ben 849 miliardi così ripartiti: 371 per opere idrauliche, ossia lungo gli alvei principali, 385 per opere idraulico-forestali, 93 per opere idrauliche agrarie.

Qui sta la gravità di quanto dichiara il Consiglio Superiore, gravità che è tale anche per noi, oltre ad essere ravvisata da quelli dell’«Unità», intenti solo alla volgarissima competizione elettorale e parlamentare con le cricche politiche che in questo periodo hanno tenuto il governo, e per buttare giù le quali è opportuno non spingere l’analisi marxista oltre la frase famosa di cui si pasce l’ignobile democrazia borghese già da lunga tradizione: «Piove, governo ladro!».

Nel 1965 il sullodato Piano Orientativo subì un aggiornamento, e i calcoli vennero rifatti tenendo conto dei pochi lavori che si erano realizzati nei 13 anni. La conclusione di tale ricerca fu che il nuovo piano anche trentennale e che quindi avrebbe dovuto terminare nel 1995 e non come il primo nel 1982, avrebbe dovuto raggiungere il volume totale di ben 2200 miliardi al posto degli iniziali 1454. Infatti i costi delle opere ad oggi sono molto aumentati rispetto a quelli del 1952, su cui si basò il primo calcolo. Si tratta di un aumento del 32 % che si può passare come ammissibile. In proporzione il gruppo di opere di urgenza vitale si può ritenere a sua volta salito, e precisamente da 849 a circa 1130 miliardi.

La questione più grave è che il potere esecutivo, pur potendo spendere 38,5 miliardi all’anno e pur potendo varare altre leggi integrative di quella del 1952, pensò di fare drastiche economie. Alla data del 1965 restavano disponibili ancora 38,5 miliardi per i 14 anni, come detto, e quindi circa 539 miliardi; ed anzi il Piano 1952 aveva già potenzialmente autorizzato come spese prioritarie la rilevante somma testé calcolata di 1130 miliardi. Ebbene, che cosa hanno fatto invece al governo, nel periodo di ben 14 anni? Secondo l’«Unità», e, salvo il vero, secondo il testo del Consiglio Superiore come da essa riportato, i governi hanno usato solo 289 miliardi di cui 251 disposti con successive leggi di finanziamento, e 38 inseriti in normali stanziamenti di bilancio. Quindi è giusto dire che si è speso meno di 1/3 di quanto si sapeva necessario e per 2/3 si son fatte «quelle economie che hanno indotto il Consiglio Superiore ad usare i termini di colpevole leggerezza e di miopia politica ed economica».

Di qui secondo l’«Unità» la colpa criminale di non aver voluto spendere denari del tutto disponibili in cassa provocando la catastrofe del novembre 1966, e facendo lo Stato la falsa economia di 1130 meno 289 eguale 841 miliardi, sulla pelle dei cittadini. Ed ora, conclude l’«Unità», giornale delle opposizioni di sua maestà, il più gran parte di quelli di allora non si sono voluti governo di oggi vuole farsi assolvere compiendo lo sforzo di stanziare solo 454 miliardi contro i 2200 miliardi che furono tecnicamente trovati necessari, e dopo che la spendere. Chi saranno quei fessi che voteranno per la nuova legge, sembra concludere trionfante «L’Unità»? Come potremo continuare la proficua caccia ai voti degli elettori semiannegati?

Bel colpo, per affogare anche il governo Moro di centrosinistra nelle melmose acque di una appetitosa crisi verso nuovi radiosi «mercati delle vacche» e dei «vitelli»!

I signori dell’«Unità» sono da anni da noi considerati e definiti meritevoli della feroce invettiva di cui Lenin fece oggetto il celebre rinnegato Carlo Kautsky, antico teorico del marxismo, quando lo definì marxista liberale.

Tanto la redazione dell’«Unità» quanto il Consiglio Superiore dei LL.PP. sono in buon predicato di ispirazione liberale nel considerare l’accusa che oggi si istituisce contro il governo italiano, che è quella di aver anteposto una economia di alcuni miliardi di spese statali alla esecuzione di provvedimenti destinati alla sicurezza vitale di ingenti masse di popolazione che quei governanti avrebbero dovuto proteggere. Quelli dell’«Unità» sono in predicato di liberali per avere abbandonata la via della dittatura del proletariato, così come Kautsky nei velenosi attacchi ai bolscevichi russi di Lenin. I membri del Consiglio Superiore sono ex-alti funzionari dei corpi tecnici dello Stato e, a parte il loro indiscusso valore professionale, risalgono alla tradizione del grande liberalismo italiano, invocando la quale il governo democristiano potrebbe difendersi allegando che non è colpa ma merito salvare il bilancio statale, sull’esempio di Quintino Sella, che depennò perfino la spesa di due lire per il cibo al gatto del ministero, osservando che, se era tenuto per distruggere i topi, non aveva bisogno di mangiare a carico delle pubbliche finanze.

Tutti dunque, sia pure per diverse ragioni, liberali puri, devono tenersi fedeli alla dottrina dello Stato a buon mercato, che evidentemente ha sedotto i pretesi comunisti dell’«Unità». Il padre Marx a suo tempo staffilò da pari suo questa teoria degli economisti volgari dei suoi tempi. Per tale gentaccia lo Stato democratico ha preso il posto che nelle vecchie ideologie e nella cultura medioevale teneva la provvidenza di Dio. Per essi il denaro dello Stato è cosa sacra, anche se è vero che ogni bene alle popolazioni viene elargito dalle mani dello Stato-Dio.

Per noi figli veri di Marx e di Lenin lo Stato è un arnese sporco e abbiamo in programma di relegarlo con la rivoluzione tra i ferrivecchi, come Engels dettò. Non ragioneremo quindi come ogni fedel minchione di liberale o di socialista riformista che dica:
«Lo Stato per avere danaro per tutte le esigenze è costretto a stampare moneta ed allora è tutto il popolo che soffre e soprattutto le classi più povere di esso per il rincaro generale della vita: ogni altro mezzo è lodevole. Viva dunque le due lire salvate dal taccagno Sella e gli 841 miliardi risparmiati lasciando allagare il Polesine e i tesori della Nazionale di Firenze».

Il richiamo del Consiglio Superiore dei LL. PP. su cui si appoggia l’«Unità» contiene un altro concetto importante. Quando si distribuiscono questi ingenti stanziamenti statali sotto l’abusata forma di risarcimento in moneta della perdita di valore subita dai privati possessori, non tutta la somma viene spesa per autentiche finalità di pubblico interesse e sicurezza generale, ossia per una migliore attrezzatura tutelatrice del territorio minacciato da sinistri, ma una parte va a sanare le ferite dei patrimoni privati. Osserva il testo del Consiglio Superiore che parti degli argini e delle golene sono di proprietà privata e tali restano dopo la esecuzione della imponente opera pubblica. Infatti tecnicamente per impedire il debordare dei grandi fiumi non si eseguono gli argini a contatto del lembo o della sponda del corso d’acqua, ma a distanza molto maggiore, perfino di chilometri. La terra pianeggiante che rimane tra le acque del fiume e il nuovo argine si chiama golena, e pure essendo destinata ad essere invasa dalle acque per prima, è suscettibile di valore agrario, ed è in generale molto fertile, come avviene per le risaie del Polesine, che poi restano sterili per anni, a causa dell’invasione salmastra dell’acqua marina.

Il testo fa un notevole confronto tra gli interessi delle aziende private e dell’azienda statale in materia idraulica, e dice che non è diverso il contrasto che si verifica nelle città ogni qualvolta si formano i piani regolatori che impongono vincoli severi alla iniziativa dei privati. È puro liberalismo quello di considerare l’azienda pubblica non come una espressione della società umana uscita dalle tenebre dei regimi a proprietà privata, ma come una grande azienda in modo che l’optimum sarebbe affidarla non a politici ma ad accorti operatori economici. I socialisti e anche i comunisti mostrano di essere altrettanto liberali quando a proposito di piani e di programmazione tempestano perché sia lasciato posto al fattore dell’iniziativa privata; s’intende, al non nobile scopo di strappare voti anche alle classi medie dei piccoli possidenti e dei piccoli imprenditori. Lo spunto che offre la delibera del Consiglio Superiore potrà essere utilmente sviluppato – oh! non certamente dall’«Unità»! – a proposito del piano quinquennale per la programmazione, in cui tutta la economia nazionale la si vuole trattare con la teoria dei costi e dei ricavi, ossia come se si trattasse di una grande privata azienda. Un tale proposito dovrebbe fare inorridire ogni marxista anche all’acqua di rosa, e non adesso ne svolgeremo tutti i motivi. Né prendiamo sul serio le critiche dell’«Unità» al centrosinistra ed al piano Pieraccini, che da quella si vorrebbe del tutto rifatto, mentre invece pare che il governo voglia mantenerlo come già compilato, anche quando parla di portare al Parlamento non solo la tante volte fallita legge urbanistica, ma anche il famoso piano idrogeologico del territorio; per ora si vara solo una legge per il risarcimento dei danni a cui come sempre ha diritto solo chi ne ha ricevuti nella figura di proprietario.

Ma anche tale discutibile beneficio non va soltanto alle classi dei piccoli possessori urbani o rurali, bensì la delizia di tante piccole imprese e di abili operatori economici, o brasseurs d’affaires, che aprono, come subito dopo la guerra, la caccia al sinistrato, e tenendo sotto il braccio la benefica legge gli promettono: vi facciamo noi la pratica per incassare i saporiti soldi du’ govierno; voi, non cacciate nulla! Si capisce che in tale giro delle migliaia di miliardi di risarcimento danni, una buona parte va ai proprietari privati e un’altra notevole ai sopradescritti ruffiani. È questo il meccanismo col quale fanno oro sulle catastrofi non solo le classi dominanti, ma anche le ancora più ignobili classi medie, cuore di questa repubblica vaticanesca, e nemico di classe numero uno della emancipazione proletaria e degli interessi anche modesti ed immediati di tutti quelli che lavorano. Il contrasto tra l’interesse privato e l’interesse pubblico, anche pensato come identico all’interesse statale, può rientrare nella ideologia liberale, e quindi anche in quella della spenta «Unità», come preminenza del secondo sul primo. Per il marxista lo Stato è il comitato d’interesse della parte più alta della classe dominante, e la difesa dell’interesse pubblico si può disegnare solo come distruzione di ogni classe e di ogni tipo di Stato attraverso la dittatura della classe lavoratrice. Tra poco vedremo che «L’Unità» rincula anche rispetto ad un vigoroso liberalismo borghese. Qual meraviglia?

Un altro punto eloquente che risalta dal commovente accordo tra i saggi parrucconi dei LL. PP. e la scavezzacolla «Unità», è quello della inguaribile statolatria. In Italia per mettere a terra in una polemica il proprio avversario, argomento principe non consiste nell’impiego di dottrina o di scienza, ma nell’ultima ratio di ricorrere a qualcuna delle innumerevoli leggi scritte promulgate dallo Stato.

Nel campo della immensa classe ruffiana avviene che gli esperti e gli specialisti (peste del nostro tempo), poniamo in ingegneria, in idrogeologia, o in medicina, ovvero usciti da qualsivoglia altra facoltà delle università borghesi, cedono il primo posto agli esperti non diremmo del diritto o della scienza giuridica, ma semplicemente del diritto positivo italiano, tutta gente che usa come testo aureo del sapere la collezione della «Gazzetta Ufficiale». In materia di questa imbelle adorazione dello Stato e della legge, i comunisti e i socialisti di tutte le correnti non si regolano di un pollice al di sopra dei liberali, convinti ammiratori delle prime classiche leggi dello stato unitario nei primi anni della sua costituzione. Ma qui va detta un’altra cosa, non meno scottante; anche Benito Mussolini ed il fascismo che pure avevano conquistato lo stato e fatto strame della sua legalità costituzionale, vollero farsi buon gioco, negli anni di persecuzione spietata di ogni loro avversario, di questa maniaca statolatria o mito della legislazione, e consumarono i loro crimini abilmente affibbiando ad essi il numero d’ordine e la data dell’anno solare che caratterizzano ognuna delle infinite stupide leggi, utilizzando in questo trucco finché fu possibile la tradizione liberale dello stato storico e la funzione ridicola del re di cartapesta che apponeva le forme di firme e di suggelli ad ogni legge redatta nell’interesse della classe dominante, nella fase ventennale della sua offensiva dittatoriale e fascista.

Neghiamo quindi fieramente ai comunisti dell’«Unità» non solo il diritto di fare i liberali a spese delle immense boiate che va perpetrando la democrazia cristiana, ma anche quello di vantare se stessi come benemeriti della distruzione del fascismo, la cui abnorme prassi amministrativa aveva le stesse pecche che nel seguito hanno presentato i governi democristiani e i governi di centrosinistra, o uno in cui riuscisse a ficcarsi il partitaccio delle Botteghe Oscure, perché una è l’ispirazione retriva e reazionaria di tutti quegli strati della politica borghese italiana.

Nel 1951 come nel 1966, uguale è la nostra invettiva contro una classe dominante che piange da coccodrillo sulle sciagure nazionali e sa così bene servirsene per difendere il regime maledetto del suo profitto e del suo privilegio.


Source: «Il Programma Comunista» n. 22 del 7–21 dicembre 1966

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