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APPUNTI PER LE TESI SULLA QUESTIONE DI ORGANIZZAZIONE


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Appunti per le tesi sulla questione di organizzazione
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Appunti per le tesi sulla questione di organizzazione

1) La espressione di «centralismo democratico», come tipo di organizzazione per i partiti comunisti, a cui la Sinistra oppose la formula di «centralismo organico», si trova anzitutto nelle tesi presentate da Zinoviev al II Congresso sul «Compito del Partito comunista nella rivoluzione proletaria» e illustrate dal discorso dello stesso Zinoviev nella seconda seduta tenuta al Cremlino il 23/7/1920. La parte centrale delle tesi e del discorso trovano e trovarono pienissimo appoggio da parte della Sinistra comunista perché contengono una risoluta critica marxista di tutte quelle correnti che svalutano la funzione del Partito politico di classe e vogliono sostituirla con le più diverse forme (sindacati, consigli operai, comitati di fabbrica, ecc. ecc.). Tale corrente era fortemente rappresentata al secondo Congresso, specie da inglesi, americani, olandesi, ed anche da sindacalisti francesi e perfino anarchici spagnoli. La Sinistra comunista italiana tenne a differenziarsi subito da queste correnti che, oltre a non comprendere le tesi sul Partito, mal digerivano anche quelle sulla centralizzazione e sulla stretta disciplina anche vigorosamente affermata allora da Zinoviev.

Quando da questi gruppi vennero consensi alla tesi della Sinistra italiana circa il parlamentarismo, il relatore di quella pregò di non votare le sue tesi coloro che non fossero sullo stretto terreno marxista, ed ecco perché di 7 voti contro la partecipazione parlamentare solo tre furono per le tesi della Sinistra italiana (Belgio, Danimarca, Svizzera, essendo consultivo il voto italiano).

2) La formula sopra citata compare al punto 14 delle tesi Zinoviev, ed è così formulata:
«Il Partito Comunista deve essere basato su una centralizzazione democratica. La costituzione a mezzo di elezioni di Comitati secondari, la sottomissione obbligatoria di tutti i comitati al comitato che è loro superiore, e l’esistenza di un Centro munito di pieni poteri, di cui l’autorità non può, nell’intervallo fra i Congressi dei Partito, essere contestata da nessuno; tali sono principi essenziali della centralizzazione democratica».

Queste tesi non entrano in maggiori dettagli e, per quanto riguarda il concetto di subordinazione della periferia al Centro, la Sinistra non aveva motivo di non accettarle. Il dubbio sorse sulla maniera di designazione dei Comitati dalla periferia al Centro e sull’impiego del meccanismo elettorale per conta dei voti, a cui fanno evidente riferimento l’aggettivo democratico, opposto al sostantivo centralismo, oltre che il breve accenno che segue subito dopo.

3) Che il pensiero della III Internazionale al suo inizio, e dei suoi grandi teorici, non fosse di totale omaggio al meccanismo di elezione per voti, evidente imitazione del meccanismo vantato come eterno e ideale dai borghesi democratici, risulta dallo stesso testo dello Statuto della Internazionale quale fu adottato al medesimo II Congresso. Questo statuto cita anzitutto alcuni capoversi di quello della I Associazione Internazionale dei lavoratori, adottato su proposta di Marx a Londra nel 1864. è noto che questo Statuto introduce la formula di Partito politico, senza il quale il proletariato non può agire come classe, distinto da tutti gli altri partiti politici e ad essi contrapposto. (Più esattamente, tale precisa formula non si trova negli Statuti votati nel 1864 ma in quelli più dettagliati adottati nelle conferenze di Londra del settembre 1871 e dell’Aja del settembre 1872).

Lo Statuto di Mosca ricorda come la II Internazionale fondata nel 1889 a Parigi si era impegnata a continuare l’opera della prima, ma perì per avere nel 1914 tradito tale impegno. La III Internazionale dichiara di riprendere l’opera della Prima.

4) Nel nuovo Statuto è ripetuto che l’organizzazione deve essere fortemente centralizzata. Segue una formula molto migliore di quella della centralizzazione democratica:
«Il meccanismo organizzato della III Internazionale Comunista deve assicurare ai lavoratori di ogni paese la possibilità di ricevere, in ogni momento, da parte dei lavoratori organizzati di altri paesi, tutto l’aiuto possibile».

Secondo l’articolo 1, lo scopo dell’Internazionale è il rovesciamento del capitalismo e lo stabilimento della dittatura del proletariato e di una repubblica internazionale dei Soviet.

All’art. 4 l’istanza suprema dell’Internazionale è il Congresso mondiale di tutti i partiti e le organizzazioni affiliate. Per non equivocare sul doppio termine di partiti e organizzazioni è bene riportare il testo del precedente art. 3:
«Tutti i partiti e organizzazioni affiliati all’Internazionale portano il nome di Partito Comunista del tale e talaltro paese (Sez. dell’Internazionale Comunista)».

Tornando al Congresso, il numero di voti deliberativi attribuiti a ciascun partito non dipende dal numero dei suoi membri (come vorrebbe un meccanismo elettorale puro), ma «sarà fissato da una decisione speciale del Congresso». Ben vero si aggiunge che ci si sforzerà di fissare al più presto norme di rappresentanza che «si basino sul numero effettivo dei membri di ogni organizzazione», ma subito si dice:
«e tenendo conto dell’influenza reale del partito». Queste citazioni hanno lo scopo di dimostrare che mai, ai tempi classici della Internazionale di Mosca, fu assunto a mito il criterio democratico numerico o la sciocca formula della metà più uno.

All’art. 8 è detto che il Congresso fissa la sede del Comitato esecutivo (non si poteva pensare allora che a Mosca). Il partito comunista del paese prescelto ha nell’esecutivo almeno cinque rappresentanti con voto deliberativo. Oltre a questi, ciascuno dei dodici partiti più importanti ha diritto a un rappresentante con un voto. È il Congresso mondiale che fissa la lista di questi dodici partiti: gli altri possono delegare presso il Comitato Esecutivo un rappresentante con voto consultivo. Fra le altre norme, ha un certo significato quella dell’art. 13 secondo cui i differenti partiti affiliati devono comunicare tra loro tramite l’Esecutivo internazionale, e in caso di assoluta urgenza informare questo dei loro passi.

Sono adunque diversi i capisaldi di organizzazione, che si distaccano dal formale principio egualitario e numerico delle rappresentanze elettive tradizionali introdotte dalla borghesia moderna, e traggono fisionomia originale in perfetto contrasto con quelli delle «democrazie popolari» – dal principio classico delta I Internazionale e del «Manifesto dei Comunisti» del 1848, secondo cui la illusoria entità popolo viene spezzata per sempre nelle opposte classi sociali.

5) Ritornando alle tesi di Zinoviev sul compito del partito, esse contengono molti punti che in anni posteriori la Sinistra resterà sola a difendere. Uno è quello che la dittatura del partito comunista è il solo modo di essere storico della dittatura della classe proletaria. In altri punti è ripetuto che tutti gli organi di attività del partito (ad esempio il gruppo parlamentare,) devono dipendere dalla centrale del partito. è smentita alla tesi 8 la divisione filistea del movimento operaio in tre forme equipollenti (partito, sindacati, cooperative), e affermata una nuova formula in ordine d’importanza: primo il partito, secondo il soviet, terzo i sindacati. Nel seguito si dice chiaramente che anche il soviet, se non è dominato dal partito comunista, perde il carattere di forma storica della dittatura del proletariato e di forza rivoluzionaria. È deplorata una formula del partito operaio comunista tedesco (KAPD) che dichiara:
«Il partito deve anche esso adattarsi sempre più all’idea soviettista, e proletarizzarsi».

La possente tesi proposta da Zinoviev è questa:
«Noi non vediamo in questo che un’espressione insinuante dell’idea che il partito comunista si debba fondere nei Soviet e che i Soviet possano sostituirlo: idea profondamente erronea e reazionaria».

Vi è la tesi al punto 9 che il partito sarà necessario non solo prima e durante la conquista del potere, ma anche dopo di questa.

6) La questione di organizzazione fu trattata in modo espresso al III Congresso, del giugno 1921, vivo e direttamente presente Lenin. Il titolo è: «Tesi sulla struttura, i metodi e l’azione dei partiti comunisti».

Un primo paragrafo tratta le generalità e stabilisce che la questione di organizzazione non può essere regolata da un principio immutabile, ma deve adattarsi alle condizioni e agli scopi della attività del partito, durante la fase della lotta di classe rivoluzionaria e durante il periodo di transizione ulteriore verso la realizzazione del socialismo, – questo primo grado della società comunista. Le differenti condizioni da paese a paese devono essere considerate, ma entro certi limiti.
«Il limite [oggi tutti l’hanno dimenticato] dipende dalla somiglianza delle condizioni della lotta proletaria nei differenti paesi e nelle differenti fasi della rivoluzione proletaria, che costituisce, al di sopra di tutte le particolarità, un fatto di importanza essenziale per il movimento comunista. È questa somiglianza che dà la base comune dell’organizzazione dei partiti comunisti in tutti i paesi: è su questa base che bisogna sviluppare l’organizzazione dei partiti comunisti, e non tendere alla fondazione di qualche nuovo partito modello al posto di quello che già esiste, o inseguire una formula di organizzazione assolutamente corretta, e degli Statuti ideali».

Le tesi stabiliscono che il movimento rivoluzionario deve avere una direzione.
«L’organizzazione dei partiti comunisti è l’organizzazione della direzione comunista nella rivoluzione proletaria».
Viene data quest’altra definizione del compito organizzativo che s’impone a noi tutti;
«Formazione, organizzazione ed educazione di un partito comunista puro e realmente dirigente, per guidare veramente il movimento rivoluzionario proletario».

7) Il paragrafo 2 delle tesi (crediamo dovute a Lenin) è direttamente intitolato: «Il centralismo democratico». La tesi 6 così lo definisce:
«Il centralismo democratico nella organizzazione del partito comunista deve essere una vera sintesi, una fusione, della centralizzazione e della democrazia proletaria. Questa fusione non può essere ottenuta che con una attività permanente comune, con una lotta egualmente comune e permanente dello insieme del partito».

I passi seguenti mostrano già quali potrebbero essere i pericoli della falsa interpretazione delle formule centralismo democratico e democrazia proletaria. Ad esempio, la centralizzazione del partito comunista non deve essere formale né meccanica:
«deve essere una centralizzazione dell’attività comunista, cioè la formazione di una direzione potente pronta all’attacco e nello stesso tempo capace di adattamento. Una centralizzazione formale o meccanica non sarebbe che la centralizzazione del potere tra le mani di una burocrazia, col fine di dominare gli altri membri del partito o le masse del proletariato rivoluzionario esterne al partito».
La tesi smentisce la versione menzognera che i nostri avversari danno del nostro centralismo.

Successivamente si deplora come tara del vecchio movimento operaio un dualismo che ha la stessa natura di quello nell’organizzazione dello Stato borghese, il dualismo tra la «burocrazia» e il «popolo», ossia tra funzionari attivi e massa passiva; purtroppo il movimento operaio eredita in un certo senso dall’ambiente borghese queste tendenze al formalismo e al dualismo, che il partito comunista deve radicalmente superare. Il passo successivo, che mette in lista i due pericoli opposti e i due eccessi opposti: anarchismo e burocratismo, spiega in qual senso i comunisti abbiano cercato salvezza nei meccanismo democratico:
«Una democrazia puramente formale nel partito non può evitare né le tendenze burocratiche né le tendenze anarchiche, perché è precisamente sulla base di questa democrazia che l’anarchia e il burocratismo, nel movimento operaio, hanno potuto svilupparsi. Per questa ragione la centralizzazione, cioè lo sforzo per ottenere una direzione forte, non può aver successo se si tenta di ottenerla sul terreno della democrazia formale».
Tutto il seguito delle tesi, nei paragrafi che seguono il 2°, si basa sulla descrizione del lavoro comunista, della propaganda ed agitazione, e delle lotte politiche, mettendo in vista che la soluzione si trova nell’azione pratica e non nella codificazione organizzativa. È particolarmente illustrato il collegamento del lavoro legale con l’illegale.

8). Un punto molto importante è nella tesi 12, che dimostra come al tempo di Lenin non si pensava affatto alla formula della organizzazione per cellule.
«I nuclei comunisti sono gruppi per il lavoro comunista quotidiano nelle intraprese e nelle officine, nei sindacati, nelle associazioni proletarie, nelle unità militari, etc., dovunque vi siano alcuni membri o alcuni candidati del partito comunista» [i russi intendevano per candidati i compagni ammessi, per un periodo che si potrebbe dire di prova, nel partito, prima della loro accettazione definitiva come suoi componenti].

Quanto segue, con le numerosissime raccomandazioni che contiene, spiega che ogni gruppo è una lunga articolazione azionata dalla forza centrale del partito, ma non si considera il partito come un’integrale di gruppi o di nuclei. Questa questione fu la base della opposizione della Sinistra alla formula dell’organizzazione per cellule, su cui si dibatté nei Congressi posteriori e attraverso la quale si ricadde nei difetti del burocratismo della II Internazionale, deformando entrambi i lati dialettici del centralismo democratico come lo vedeva Lenin.

9) Ritornando storicamente indietro, conviene trattare un punto sul quale gli opportunisti avevano fatta una delle loro infinite deformazioni del marxismo originale: cioè che la prima Internazionale fondata da Marx fosse organizzata con l’adesione paese per paese o anche località per località di organizzazioni operaie esistenti oppure di sindacati operai in modo da ripetere internazionalmente il tipo del Labour Party inglese che era una specie di confederazione di Trade Unions a carattere economico.

È vero l’opposto e non solo fin dal 1864 ma fin dal «Manifesto» del 1848, l’organizzazione rivoluzionaria del proletariato nazionale o internazionale è un partito politico. Il «Manifesto dei Comunisti» sembra dire letteralmente che ogni partito operaio esistente è già una parte del partito proletario internazionale, ossia del Partito Comunista che lancia al mondo il suo «Manifesto». Tuttavia il senso storico rispetto al quale la dottrina è immutabile, ma l’organizzazione formale subisce una serie di evoluzioni, ci aiuta a capire che, in tempo di pieno regime borghese e di piena democrazia (allora vigente in Inghilterra e in Francia), ogni partito operaio è di per sé rivoluzionario perché, secondo la dominante ideologia e costituzione borghese, i partiti sono definiti secondo opinioni professate e confessate dal singolo che vi aderisce, e sarebbe cosa illegale e da reprimere dalla polizia un partito che dichiarasse di fondarsi sulla classe economica a cui debbono appartenere tutti i suoi aderenti. In questa fase la lotta economica e sindacale operaia è automaticamente una lotta politica, ma ciò non va inteso secondo il filisteismo democratico e parlamentare, ma secondo l’istinto padre di ogni vera nuova teoria rivoluzionaria, che spingeva i proletari armati di Lione al grido storico: «vivere lavorando, o morire combattendo». Quando per organizzarsi e per scioperare occorre la lotta a mano armata, la distinzione fra organizzazione economica e politica non preoccupa nessuno.

Quando invece ci riferiamo allo stadio che il movimento proletario traversa, poniamo, nel 1870 o nel 1964, si ha diritto, con la stessa coerenza alla teoria generale marxista invariante attraverso molto più di un secolo di condannare come antimarxiste opportuniste e controrivoluzionaria in tutte le forme organizzative che parlano di «partito operaio» «partito del lavoro» o partito che raccolga come suoi aderenti i sindacati operai o per avventura i consigli di fabbrica.

10) Riprendendo adesso lo Statuto della I Internazionale quale fu votato dopo il famoso comizio di Londra del 1864, ricordiamo anzitutto che esso fu esteso di tutto pugno, in sostituzione di un testo preparato da democratici popolaristi perfino di scuola mazziniana, da Carlo Marx che ne fa la storia nella sua lettera ad Engels del 4 novembre 1864 (il comizio alla Martin’s Hall si era svolto il 28 settembre). Marx racconta come il suo testo tanto per gli statuti della nuova Internazionale quanto per il celebre Indirizzo inaugurale di essa, fu sostituito ai progetti precedenti e accettato dal sotto-comitato delegato del comizio. La lettera dice testualmente
«sotto il pretesto che tutte era di fatto contenuto in questo Indirizzo e che non occorreva ripetere tre volte la stessa cosa, io modificai tutto il preambolo, eliminai la dichiarazione di principi e sostituii i 40 articoli con dieci soli. Nella misura in cui la politica internazionale interviene nell’Indirizzo, io parlo di stati e non di nazionalità, e denunzio la Russia e non già i piccoli stati [Questo breve passo è una sintesi colossale delle tesi nazionali dei comunisti del tempo di Lenin]. Le mie proposte furono tutte accettate dal sotto-comitato. Ma io fui obbligato ad ammettere nel Preambolo dei passaggi sul dovere, il diritto, la verità, la morale e la giustizia; essi sono però collocati in modo tale da non nuocere a tutto l’insieme».

Per quasi un secolo, commentatori coglioni si sono dati a commentare questo riconoscimento del diritto e della morale, scrivendo con Mazzini in testa buaggini varie senza capire che da gigante della dialettica Carlo Marx aveva nominato la verità soltanto col dire una grossa bugia, al fine di distruggere i nemici della rivoluzione. Se l’abilismo leninista è questo noi lo accettiamo. A proposito del Preambolo eliminato da Marx, vale la pena di citare qualche altra parola della storica lettera:
«Il maggiore Wolff aveva presentato, per essere utilizzata nella costituzione per la nuova associazione, il suo regolamento (Statuti) delle associazioni operaie italiane (che possiedono una organizzazione centrale e sono essenzialmente delle società di mutuo soccorso associate); era evidentemente una elucubrazione di Mazzini, e tu [Engels] sai dunque già con quale spirito e fraseologia è trattata la vera questione, la questione operaia, ed anche come vi si trovano introdotte le storie di nazionalità… Un vecchio owenista, Weston, aveva stabilito un programma di una estrema confusione e di una incredibile verbosità…».
Più oltre, Marx racconta che, intervenuto alla sottocommissione,
«fu realmente terrorizzato sentendo il buon Le Lubez dare lettura di un Preambolo orribilmente pompiere, mal descritto, insufficientemente digerito, in cui si vedeva dappertutto spuntare Mazzini ravvolto tra briciole estremamente vaghe di socialismo francese».
Questa è la roba che Marx riuscì a mandare all’aria sostituendovi la sua redazione, nella quale si scusa di avere dovuto introdurre parole senza senso come il dovere, il diritto, la verità ecc.

11) Ciò premesso, si può citare il testo degli «Statuti». La questione del rapporto tra economia e politica è formulata come nel «Manifesto» con stretta e rigorosa adesione alla dottrina del materialismo storico:
«la dipendenza economica dell’operaio dai possessori dei mezzi indispensabili al lavoro, cioè delle sorgenti della vita, è la causa prima di ogni schiavitù politica, morale e materiale; per conseguenza, la emancipazione economica degli operai è il grande scopo a cui ogni movimento deve essere subordinato come mezzo».
Del seguito, citiamo solo alcuni passi:
«Questa associazione internazionale, come tutte le società ed individui che vi aderiscono»,
brano a cui seguono le famose parole inutili e che basta a confermare che l’adesione non è solo di società, ma anche di individui. È poi interessante il testo dell’articolo 10:
«Quantunque unite da un legame fraterno di solidarietà e di cooperazione, le società operaie continueranno ad esistere sulle loro basi particolari».
In congressi successivi, gli Statuti fondamentali ebbero nuove formulazioni che riteniamo tutte controllate dall’intervento di Marx e degli altri membri della genuina Lega dei Comunisti, come Eccarius, Odger e altri. Le formule divengono sempre più chiare e conducono al concetto classico di partito politico rivoluzionario comunista secondo la nostra dottrina. Il nostro partito è di classe e non confessionale come i partiti della democrazia elettorale (sebbene il primo testo di Marx contenga la espressione «senza distinzione di razza, di credenze, di nazionalità», in cui evidentemente il secondo termine è superfetazione), ma al partito non si ammettono affiliazioni collettive bensì soltanto individuali, che impegnano l’adesione alla dottrina integrale del partito e escludono che si accettino antitetiche dottrine religiose, filosofiche e politiche.

Il nostro partito è di classe, perché è il solo che si collochi sulla linea storica della emancipazione rivoluzionaria del proletariato mondiale, ma per aderirvi non è necessario che il singolo compagno sia nel senso economico e sociale un proletario, potendo appartenere in teoria a qualunque classe. Al tempo della I Internazionale, i proletari esistevano già in gran numero, ma i primi comunisti di cui troviamo i nomi, come quelli citati che si firmavano: sarto, falegname ecc., erano in realtà dei piccoli artigiani e non dei proletari. L’owenista Weston, che Marx cita, era diventato addirittura un industriale. Fin da allora, era dialetticamente chiara la opposizione sociale di tutti i proletari a tutti i proprietari, anzi a tutti i non proletari; ed era chiaro che al partito che lotta per il proletariato può individualmente aderire qualunque individuo.

12) Quando la Sinistra comunista sviluppò maggiormente la sua critica alle deviazioni della III Internazionale sui problemi della tattica, fece anche una critica dei criteri di organizzazione, e il seguito dei fatti storici ha dimostrato che quelle deviazioni hanno fatalmente condotto all’abbandono di posizioni-base programmatiche e teoriche.

Questa tesi della Sinistra comunista fu ben compendiata nella richiesta che si parlasse non più di centralismo democratico, ma di centralismo organico. Chiaro sviluppo di questa tesi, fatto fin dagli anni 1922–1926, che dunque non compare soltanto oggi, è che bisogna finirla con l’impiego, resosi storicamente nel passato inevitabile nel senso meccanico, delle decisioni per votazioni elettorali e per conta degli aderenti ad una od altra opinione.

Questa critica teorica parte dall’aver considerato troppo scolorita la tesi centrale di Zinoviev:
«il partito è una frazione della classe operaia».
Questa tesi è evidentemente insoddisfacente e non sarebbe giusto pensare che lo è soltanto per esigenze di stretto dottrinarismo, e che era ammissibile nello stesso senso in cui Carlo Marx si permetteva, ghignando dentro se stesso senza farsi scoprire, di parlare di morale e di giustizia. Infatti la nostra critica fu sviluppata fin da quegli anni e non può essere giudicata come pruderie teoretica, perché disponiamo di una serie formidabile di fatti reali posteriori che hanno sciaguratamente confermato la diffidenza e il sospetto di allora.

Osservammo a Zinoviev che la sua formula (messa a base di tesi storicamente giuste e importantissime) era troppo timida e reticente perché soltanto quantitativa, laddove le tesi classiche dei «Manifesto» e della I Internazionale sono già decisamente qualitative.

Che il partito sia soltanto una frazione della classe operaia, spiega che di fatto vi siano operai dentro il partito e operai fuori del partito e che non basti essere economicamente e socialmente operai per divenire membri del partito; ma non basta affatto a condurre al risultato, che Zinoviev stesso enuncia, di distinguere le due nozioni di classe e di partito. Né si trattava solo di distinguere «con la più grande cura» (tesi 3), come Zinoviev dice; ma di arrivare alla funzione, al compito e alla dinamica storica del partito comunista in giusto rapporto con la funzione e la dinamica della classe proletaria.

Come abbiamo dimostrato, era già contenuto insostituibile della dottrina comunista, nel «Manifesto» e negli «Statuti» della I Internazionale, che, quando si introduce la forma partito, nasce una nuova presentazione della classe proletaria, in quanto allora il proletariato si presenta e agisce come classe lottante contro le altre quando riesce a costituirsi in partito politico. Fermandosi alla distinzione puramente quantitativa, quasi che il partito fosse il contenuto di un cerchio tracciato entro un più vasto campo della classe proletaria, si poteva forse evitare di choquer elementi sindacalisti che venivano verso di noi, buoni rivoluzionari sebbene ancora cattivi marxisti, ma si contribuiva poco alla chiarificazione appunto di quella dottrina rivoluzionaria a cui li volevamo condurre. La nostra formula centralismo organico voleva appunto dire che non solo il partito è un particolare organo della classe, ma per di più è solo quando esso esiste che la classe agisce come organismo storico e non solo come una sezione statistica che ogni borghese è pronto a riconoscere. Marx, nella ricostruzione storicamente fondamentale e irrevocabile di Lenin, non solo dice di non avere scoperto le classi, ma nemmeno la lotta fra le classi, e indica come connotato inconfondibile della sua originale teoria la dittatura del proletariato: questo vuole appunto dire che solo a mezzo del partito comunista il proletariato potrà pervenire alla sua dittatura. Le due nozioni, dunque, di partito e di classe non si contrappongono numericamente perché il partito è piccolo e la classe è grande, ma storicamente e organicamente; perché solo quando nel campo della classe si è formato l’organo energetico che è il partito la classe diventa tale e si avvia ad assolvere il compito che le assegna la nostra dottrina della storia.

13) La sostituzione dell’aggettivo organico a quello democratico non è motivata solo dalla maggiore esattezza di una immagine di tipo biologico rispetto alla sbiadita immagine di natura aritmetica, ma anche dalla esigenza solida e di lotta politica di liberarsi dalla nozione di democrazia, abbattendo la quale avevamo potuto con Lenin riedificare l’Internazionale rivoluzionaria. Le immortali tesi di Lenin al I Congresso sono intitolate: democrazia borghese e dittatura proletaria. Nella teoria, l’antagonismo dei due termini persiste se, invece che di democrazia borghese, parliamo della leninista democrazia in generale, in quanto Lenin è quello che ha dimostrato come ogni inchino dinanzi a questo ignobile feticcio segna una vittoria dell’opportunismo e della controrivoluzione. Tutto il testo delle tesi, che sarebbe superfluo citare, tutto il testo di «Stato e rivoluzione», conducono a questo risultato. Se è vero che alcune volte Lenin adopera i termini di democrazia proletaria, ciò è al solo scopo di dimostrare che tale astratto punto di arrivo (in sostanza irreale, perché il proletariato con le classi annienta sé stesso) coincide con il pieno sviluppo della dittatura del proletariato e della piena esigenza di una società comunista. Nello stesso spirito, il «Manifesto» a fini di travolgente vigore polemico, disse che la rivoluzione proletaria, fatta dalla immensa maggioranza nell’interesse della immensa maggioranza, è la vittoria totale della democrazia.

Nel senso teorico come il contenuto centrale del «Manifesto» è l’annientamento della menzogna democratica, inganno centrale della ideologia di classe borghese, le tesi di Lenin vanno considerate nel loro valore storico. Ci riferiamo solo alla tesi 21, che stigmatizza la bancarotta della conferenza di Berna, 1919, dei partiti socialisti: tale proclamazione denota il completo fallimento dei teorici che difendevano la democrazia senza capire il suo carattere borghese.
«Questo tentativo ridicolo [dei centristi del Partito indipendente tedesco] di combinare il sistema dei Soviet, cioè la dittatura del proletariato, con l’assemblea costituente, cioè la dittatura della borghesia, aveva fino all’ultimo, nello stesso tempo, la povertà di pensiero dei socialisti gialli e dei socialdemocratici, il loro carattere reazionario di piccoli borghesi e le loro vili concessioni davanti alla forza irresistibilmente crescente della nuova democrazia proletaria».
Tale passaggio mostra in quale senso la causa della vittoria proletaria nella guerra civile, e della dittatura del proletariato, poteva, nella polemica del 1919, essere indicata, per sgominare i traditori, associando i termini di democrazia e di proletariato secondo la linea impeccabile e rigorosa sviluppata da Lenin.

Dopo che una generale vittoria nel campo della teoria aveva fatto giustizia dei rinnegati socialdemocratici, a buon diritto la Sinistra comunista propose di abolire ogni impiego dell’aggettivo democratico sia in riferimento alla società comunista futura, che non avrà più popolo, (miscela di classi sociali diverse) e non avrà più potere o stato, sia del meccanismo interno del nostro partito, pur essendo giusto dire in linea teorica che questo partito è un’anticipazione odierna della società futura.

14) Lo sviluppo della storia della Sinistra comunista, che è compito del nostro attuale movimento, mostrò come già in fenomeni degenerativi che si potevano denunziare negli anni seguiti alla morte di Lenin si manifestarono i gravissimi pericoli che derivavano dalla troppa indulgenza nell’ammettere che il nostro meccanismo interno di organizzazione scimmiottasse quelli elettorali e parlamentari che la borghesia aveva storicamente introdotti, proclamandoli eterni.

Fu rilevato come il sistema della nostra organizzazione internazionale, culminante negli stessi congressi di Mosca, tollerasse metodi falsi nella selezione di compagni destinati ai compiti di punta. Si ricadeva in soluzioni di tipo carrieristico e di successo per individui forse brillanti, ma intriganti, che fossero riusciti a crearsi un seguito di appoggi paragonabili alle conventicole elezionistiche proprie del mondo borghese.

Al principio questi errori, se furono debolezze, non erano tradimenti. Tutti, nel nostro movimento, credevano che fossimo pervenuti ad una fase di pochi anni, nella quale la grande battaglia finale si sarebbe svolta. Occorreva stringere i tempi e tutto fu studiato al fine di accelerare la mobilitazione dell’armata proletaria mondiale. Come ci si era potuti utilmente servire di ufficiali dell’esercito zarista, così si poteva pensare di servirsi utilmente di campioni e di esperti della metodologia dei carrierismo elettorale e parlamentare, purché si facessero a costoro sagaci concessioni che non rovinassero tutto l’insieme della campagna di guerra rivoluzionaria (come Marx non aveva rovinato l’insieme dell’Indirizzo inaugurale del 1864).

D’altra parte, le critiche organizzative della Sinistra al lavoro dell’Internazionale rimasero coerenti alla richiesta che il concetto di organicità nella distribuzione delle funzioni in seno al movimento non venisse confuso con una rivendicazione di libertà di pensiero e tanto meno con un rispetto della democrazia elettiva e numerica.

Altre opposizioni, come quella trotzkista, si lasciarono sedurre, davanti agli eccessi di Stalin e dello stalinismo, ben visibili fin dagli anni 1924–26, a ricorrere all’argomento della violata democrazia interna da parte dei centri burocratizzati dei partiti e dell’Internazionale. La sinistra, a cui noi facemmo capo, pur riconoscendo che in nome della bolscevizzazione si tendeva a fossilizzare e i partiti e le masse in una incosciente obbedienza, non commise l’errore di invocare più democrazia e di vedere il rimedio in consultazioni elettorali delle basi. Storicamente la Sinistra dovette accettare di misurarsi anche in queste poco serie lotte elettorali interne, ma non cesso di considerare come il male peggiore di tutti quello di invischiarsi in una qualsiasi invocazione di rimedi che si potessero scimmiottare dal carnevale elettoralistico borghese.

Quando il centro dell’internazionale sconfessò la centrale del Partito italiano nel 1923, questa si ritirò per obbedire ai principi della disciplina e della organizzazione e cedette volentieri i poco desiderabili da un vero comunista posti di comando alle minoranze di destra e del centro. Molto tempo dopo, nel 1924, alla conferenza clandestina nelle Alpi, la centrale fece una consultazione assicurando Mosca della sua vittoria. Dei rappresentanti federali non eletti dalle basi, ma designati dalla stessa centrale, la enorme maggioranza (all’incirca 34 su 40) votò le tesi della Sinistra.

La campagna fatta a nome al tempo stesso della democrazia interna e della bolscevizzazione alla Stalin ebbe successo apparente soltanto al Congresso illegale di Lione, 1926, ma solo con la risorsa di calcolare votanti per la centrale tutti gli assenti alle consultazioni di base svolte in Italia e sotto la dittatura fascista.

Questi precedenti storici confermano che ovunque il meccanismo di contare i voti è sempre una truffa e un inganno, nella società, nella classe o nel partito; ma la migliore resistenza fu offerta dal Partito italiano proprio in quanto la sua radicata tradizione politica ripudiava ogni omaggio, anche minimo, alle gesta e ai meccanismi della democrazia storica e del metodo della conta dei voti.

15) Decorso così lungo periodo nella decomposizione totale della III Internazionale con la dolorosa dimostrazione che le deformazioni tattiche e organizzative sono sboccate nel rinnegamento dei principi programmatici e nell’infeudamento alla controrivoluzione capitalistica, lo sforzo per arrivare con un duro e lungo lavoro alla ricostruzione del partito comunista unico internazionale, mentre si basa su una ripresentazione di tutta la prospettiva storica e teorica e su un bilancio di tutte le decisioni tattiche messe alla prova dalla storia, può annunziare con tutta sicurezza in materia di struttura organizzativa interna del movimento che deve considerarsi chiuso per sempre il tempo in cui si poteva tollerare menomamente che nel campo organizzativo del partito sopravvivessero forme elettive e scelte di elementi dirigenti attraverso simili sterili contestazioni. Sistemate le grandi questioni storiche di teoria e di tattica prolungando fino ad oggi il ponte che ai tempi di Lenin fu gettato dal «Manifesto» di Marx ed Engels alla rivoluzione russa, l’opera dovrà continuare nella storia rivoluzionaria con la irrevocabile soppressione nella vita e nella dinamica del partito di ogni applicazione di meccanismi consultivi o elettivi a base di conta registrata di voti, al posto dei quali si svilupperanno le nuove forme che rispondono alla rivendicazione proclamata fin dagli anni di Mosca della centralizzazione organica per il Partito comunista, solo artefice della rivoluzione del proletariato.


Source: «Il Programma Comunista» – 30 novembre 1964 – n. 22

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