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L’ORA DEI «COLORATI»


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L’ora dei «colorati»
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L’ora dei «colorati»

I giornali della sinistra democratica si sono affrettati a presentare lo sciopero degli operai negri nel Sud Africa come uno «sciopero antifascista»: bisognava tacere che il problema della «linea di colore» ha radici sociali, e che il suo esplodere in giganteschi episodi di astensione dal lavoro non in singole località, ma nell’insieme di un Paese immenso, è solo un aspetto della lotta di classe: non del conflitto fra due ideologie o fra due sistemi di governo, ma fra capitale e lavoro. E tuttavia la realtà è proprio questa; ed è la ragione per cui i proletari di pelle bianca o di qualunque altra tinta devono esultarne, e trarne ispirazione ed impulso.

Il fatto spaventa i borghesi e i loro tirapiedi opportunisti, e non a torto. Su 9,3 abitanti africani del Sud Africa (stima 1956 dell’ONU), lo Hailey calcola che i salariati siano 1,2 milioni, una percentuale enorme, che si aggrava se si tien conto che l’immensa maggioranza vive concentrata in pochi grandi nuclei cittadini e, ai margini di essi, in spaventose bidonville, pigiata in baracche e sgabuzzini, sottoposta a feroci norme di ordine pubblico, perlopiù soli maschi, mal nutriti, peggio pagati (si calcola che nella Rhodesia del Nord, e certo la situazione non è migliore nell’Unione Sud-Africana, il reddito medio del negro rappresenti il 4,63 % di quello del bianco), costretti ogni giorno a coprire chilometri e chilometri per raggiungere la galera dell’azienda, della fabbrica, della casa padronale, della fattoria, separati per lunghi mesi dal nucleo familiare e da una tribù non matrigna, preda delle peggiori malattie e dell’arbitrio di qualunque poliziotto o, che è lo stesso, di qualunque padrone. E sono soltanto i salariati industriali, addetti alle miniere, alle manifatture e all’edilizia; ma salariati vi sono pure nel commercio, nei trasporti e nei servizi domestici od altri, e tutti hanno pelle nera. Costoro si muovono, scioperano, affrontano la polizia e ci lasciano la pelle; e combatterebbero non contro il capitalismo ma contro il mostro fascista (ammesso che questo possa separarsi dal mostro capitalista) e per la democrazia? Raccontatelo ad altri. Il rapporto tra oppressione razziale ed imperialismo capitalista è fin troppo chiaro; e ce lo dicono proprio gli inglesi. Essi furono i primi a introdurre il grande capitale nell’Africa del Centro-Sud: occorrevano forze-lavoro «libere», e le si procurò rapinando la terra che un tempo nutriva tutti, rendendola oggetto di scambio laddove prima era di tutti e di nessuno, sgretolando l’economia familiare e tribale, imponendo pesanti testatici e tasse sulle capanne perché i disgraziati fossero invogliati, per pagarle, ad affluire nei grandi centri industriali e a vendersi come braccia contro salario, gonfiando gli aggregati urbani e presentandoli come l’Eden dei piaceri e delle delizie terrene; ma per sventare i pericoli insiti in queste paurose concentrazioni cittadine di proletari puri – nudi di ogni riserva, sfruttati dal padrone lì e dal fisco nei luoghi di origine, molto spesso migranti a piedi da uno Stato all’altro, mai fissi e quindi privi di ogni diritto all’assistenza – e nella brusca alterazione dell’equilibrio sociale tradizionale, si crearono attorno alle nuove grandi città le corone di spine delle Riserve. La manodopera indigena fu così «liberata» solo per essere sottoposta ad uno sfruttamento senza limiti e confini; la «linea di colore», invenzione tipica dell’imperialismo britannico, era una necessità di difesa preventiva per il capitale, e fu spietatamente applicata. Occorreva «liberare» il lavoro, ma incatenare i lavoratori di colpo improvvisati tali. Il razzismo – in Africa è chiaro più che in qualunque altra terra del buon Dio – è un’arma del capitale nei Paesi d’improvvisa industrializzazione: guai se fosse rotta! Perciò ogni lotta di classe dei proletari sudafricani è, inevitabilmente, lotta di razza; ma lo è perché la barriera che le sta davanti è stata costruita ed è difesa con le unghie dalla classe capitalistica bianca.

Potremo fra non molto documentare gli sviluppi del proletariato indigeno in Africa. Intanto, giova insistere sull’enorme peso che rivestono le oscure lotte dei proletari sudafricani, al vertice estremo di quella grande fascia industrializzata che corre dalla provincia del Capo, attraverso le due Rhodesie, fino al Katanga. È lì l’epicentro di un terremoto che potrà domani assumere dimensioni e produrre effetti giganteschi nello stesso continente nero e in tutti gli altri. Quali ripercussioni avrà l’entrata in scena (non di oggi, beninteso; l’ultimo quinquennio è stato costellato, nell’Africa del Sud, di scioperi imponenti) della classe operaia indigena sudafricana, su questa grande fascia proletaria e sulle regioni vicine? Si è parlato in questi giorni della spaventosa repressione in corso nell’Angola (le valutazioni inglesi oscillano fra i 20 e 35 mila negri uccisi!), il paese in cui, come abbiamo documentato altra volta e come scrive Marvin Harris, «tutti i maschi africani sono ritenuti per legge ‹oziosi› a meno che non possano provare il contrario: quelli che sono in grado di fornire una prova del loro impiego sono soggetti a coscrizione per sei mesi in lavori pubblici, salvo che si offrano come operai volontari a imprenditori privati»; la terra in cui, avendo Davidson chiesto che cosa sarebbe avvenuto dei lavoratori-forzati che si rifiutassero di lavorare, gli fu risposto: «Oh, ma lavoreranno!». «E se non lavorassero?».

«Be', li mandiamo al commissariato di polizia, e giù frustate».

E che cosa non si potrebbe dire delle due Rhodesie, felicemente soggette alla common law britannica e alle sue garanzie costituzionali? Che cosa del Kenya o del Bechuanaland?

L’Africa gronda sangue nero; ma fate che corra appena una goccia di sangue bianco, e sentirete che strilli!

È l’ora dei colorati. Kennedy parla di una «nuova frontiera» della civiltà avanzante; ma negli Stati del Sud dell’Unione delle stelle e strisce, i grossi proprietari fondiari che sono uno dei pilastri del partito democratico (quello che, secondo i nostri «progressisti», sarebbe più «avanzato» del repubblicano; e giù applausi al vittorioso cattolico-apostolico-romano K!) sono altrettanto decisi a tener dritta la barriera di colore, quanto Verwoerd e simili insetti nell’Africa del Sud.

Ed ecco i recenti «disordini» razziali. Quando si farà la storia della repubblica negra di Haiti e di quella mulatta della Dominica – il paradiso del superpirata fu Trujillo – sarà facile provare che il custode statunitense della «civiltà» capitalistica (o, se volete, moderna, cristiana, bianca, ecc. ecc.) tutto esperi per fare e disfare governi e ribadire la soggezione e lo sfruttamento dei colorati in tutto e in parte. È una mano d’opera a buon mercato, che – come dicono loro – «si accontenta di poco»: troppo preziosa per lasciarsela sfuggire. In un domani vicino, sarà il lievito della riscossa proletaria in tutto il mondo.


Source: «Il Programma Comunista», 6 giugno 1961, Anno X, N.11

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